IL TRAGICO E DRAMMATICO NAUFRAGIO NELLE COSTE CROTONESI PROVOCÒ 94 VITTIME (TRA CUI 35 BAMBINI);
IL DOLORE PER CUTRO, UN ANNO DOPO RIVEDERE LE POLITICHE D'IMMIGRAZIONE

IL DOLORE PER CUTRO, UN ANNO DOPO
RIVEDERE LE POLITICHE D’IMMIGRAZIONE

di SANTO STRATI  –  È passato un anno da quella tragica alba di sangue e di dolore, a Steccato di Cutro, sulle costa crotonese. Un’alba che ha portato 94 vittime ufficiali e chissà quanti dispersi, vittime di un Mediterraneo inesorabile cimitero dei migranti. Ma non è il “Mare Nostrum” il responsabile di queste vittime, è la crudeltà dell’uomo, è la spietatezza di trafficanti di carne umana, che tratta i migranti come merce che se va a male si butta via.

È la follia del dio denaro che mette in moto vere e proprie organizzazioni criminali che vendono “passaggi” su carrette del mare a prezzi superiore di una prima classe in aereo. Un vergognoso traffico che va stroncato sulle coste di partenza, colpendo connivenze e criminali favoritismi che puzzano di corruzione e sarebberi facilmente individuabili. È una storia che si ripete continuamente in questo mare che rappresenta, in realtà, il volano di sviluppo di tutta la sua area costiera e, grazie alla centralità del Porto di Gioia Tauro, una formidabile opportunità di crescita per tutto il Paese.

Oggi, però, piangiamo quelle povere vittime, di cui rimangono a perenne ricordo le immagini di quelle croci improvvisate e realizzate con i legni dell’imbarcazione andata distrutta. Un simbolo e un monito a non dimenticare per tutto il Paese. Ma non per la Calabria che non dimentica: le lacrime di questa terra sono state e sono tutt’oggi autentiche. È come se si fosse perso un parente, un amico, un conoscente. Eppure restano senza volto molte di quelle 94 povere vittime e non si saprà mai quanti sono stati inghiottiti dalle acque.

La solidarietà, la fraternità, il fortissimo senso di accoglienza dei calabresi, qualora ce ne fosse mai stato bisogno, si è rivelato in quelle acque gelide, nella straordinaria opera di soccorso di forze dell’ordine e privati cittadini che si sono buttati, all’alba, nelle acque gelide per salvare quante più vite possibili. E, poi, a dare aiuto, assistenza, sincera solidarietà ai sopravvissuti, sostegni con ogni mezzo e iniziativa possibile. Piangiamo, a un anno di distanza quelle vittime e non riusciamo a tenere a bada una giustificata rabbia per quanto accaduto. Inutile utilizzare la retorica del “si potevano salvare”, oggi bisogna pensare a come fermare non gli sbarchi, ma le partenze. L’aiuto va dato nei luoghi di origine di chi scappa dalla fame o dalla guerra e appare crudelmente assurda la “deportazione” in Albania studiata dal Governo Meloni. Soldi buttati via, per deportare, secondo opinabili criteri selettivi, chi tenta di sbarcare nel nostro Paese.

Non è la soluzione e il Paese dovrebbe vergognarsi di questa scelta che punisce i migranti e lascia impuniti gli scafisti, ma soprattutto gli organizzatori di questo disperato quanto inaccettabile traffico di uomini, donne e bambini. È proprio errata la considerazione che viene data ai migranti: sono un problema per i più, ma in realtà sono risorse di cui il nostro Paese avrebbe estremo bisogno. Fuggono non solo disperati e affamati, ma anche tantissimi laureati, professionisti, medici che poi finiscono, nella migliore delle ipotesi, nei campi a raccogliere pomodori. È sbagliato non accorgersi del capitale umano che questi nostri fratelli, che tentano di fuggire da una vita impossibile, rappresentano.

Per un Paese, come il nostro, dove la denatalità cresce a ritmi vertiginosi (ma quanti oggi possono permettersi un secondo o un terzo figlio?) e dove i borghi diventano sempre più aree desolate e abbandonate. Mimmo Lucano tutto questo lo aveva capito subito e dai primi curdi accolti a Riace, la città dei Bronzi ma soprattutto la città dell’inclusione e dell’accoglienza, era riuscito a ripopolare un borgo fatto di vecchi e quasi senza bambini. Andate a guardare le immagini di Riace di alcuni anni fa, con quell’arcobaleno di etnie, quei bambini di ogni provenienza, che danno luce e colore a un borgo che stava morendo. Ma il “modello Riace” di integrazione e accoglienza è stato, ingiustamente, criminalizzato e fatto fallire. La formula, in fondo, era semplice: lavoro e accoglienza per favorire l’integrazione, e funzionava.

Eppure la storia dovrebbe insegnarci a guardare al passato per costruire il futuro: le lacrime di Cutro devono servire a far ripensare alla politica di immigrazione, guardando ai borghi e allo spopolamento di medie e piccole cittadine: un piano serio di formazione e avviamento al lavoro per i migranti che hanno diritto di restare in Italia (arrivano anche delinquenti, sia chiaro) significherebbe davvero attuare una ammirevole politica di inclusione e di accoglienza. Non sono turisti i migranti disperati che affrontano i pericoli del mare: bisogna aiutarli a casa loro (dove non c’è guerra, ovviamente) e avremmo una politica mediterranea degna di questo nome. Non serve molto, ma soprattutto è necessario buonsenso. Quello che fino ad oggi è mancato nell’attuare politiche di immigrazione rivelatesi vessatorie e antiumanitarie.

Ricordiamolo ancora una volta: i migranti non sono un problema, ma risorse utili al nostro Paese. Non vogliono vivere di sussidi, ma chiedono di poter vivere una vita giusta, lavorando e osservando le leggi del Paese che li ospita. Tenerli in gabbia (come avviene nei cosiddetti Centri di Accoglienza temporanea) non solo è inumano, ma ha un costo superiore a quello di offrire loro formazione e lavoro. Per questo, l’anniversario di Cutro e il ricordo di quelle lacrime che si rinnovano, può essere l’occasione per ripensare – seriamente – a nuove politiche di inclusione e accoglienza, oltre che di soccorso a chi, nonostante gli allarmi e gli avvertimenti, continua ad affrontare ugualmente il mare su carrette che sfidano la sorte. (s)