L'ANALISI DI MIMMO NUNNARI SULL'EPILOGO DELLA MANIFESTAZIONE A ROMA DEI PRIMI CITTADINI;
LA QUESTIONE DEL MEZZOGIORNO NON SI RIVOLVE CON UNA "PAROLACCIA-INSULTO"

LA QUESTIONE DEL MEZZOGIORNO NON SI
RISOLVE CON UNA “PAROLACCIA-INSULTO”

di MIMMO NUNNARISe del “grido” di 700 sindaci del Sud davanti a Palazzo Chigi sede del Governo sbarrata come mai resta solo quell’insulto dal “sen fuggito” al presidente della Regione Campania, Vincenzo De Luca, significa che il Governo Meloni ha messo il rullo con i titoli di coda sul Mezzogiorno. Porte aperte a Calderoli con l’Autonomia differenziata – una secessione mascherata – porte chiuse agli amministratori del Sud – quasi mille – che avevano qualcosa da dire.

È un vero peccato che di quella manifestazione di Roma sia rimasta solo quella parolaccia [str… za] rivolta alla presidente del Consiglio Giorgia Meloni dal “sen fuggita” al vulcanico politico; e purtroppo si sa che  “Vóce del sén fuggita Pòi richiamàr non vale” (Cioè, la parola detta non sa tornare indietro) come scriveva Metastasio, nell’opera Ipermestra. Politici, uomini di Governo, giornali solo di quell’insulto hanno parlato; delle ragioni del “viaggio” a Roma dei sindaci, guidati da De Luca, niente. Anzi, qualche ipocrita interpretazione si è avuta: «il Sud è così perché, non ci sa fare».

La stessa presidente Meloni seduta nel salotto di Porta a Porta di Vespa Ospite di Bruno Vespa non ha perso l’occasione per lanciare un attacco all’indirizzo di De Luca, accusandolo di finanziare, con i fondi che reclama, sagre di paese e feste varie. Non ha mai trovato il tempo, però, la presidente, per spiegare come sia stato possibile tagliare con un tratto di penna, nella manovra di bilancio, il fondo simbolo immaginato per contro bilanciare l’autonomia differenziata, che era pari a 4,4 miliardi di euro. Forse anche questo i sindaci e De Luca avrebbero voluto chiedere al Governo se avessero incontrato qualcuno. Peccato, dunque, che del grido dei sindaci sia rimasta solo quella parolaccia-volgarità. Non certo la peggiore che in questi ultimi anni abbiamo sentito pronunciare dai politici.

Va detto, comunque, nel caso di De Luca, che non è scusabile, che l’ insulto – “rubato”  in un anticamera di Montecitorio – non era pronunciato per arrivare a destinazione. Tuttavia, quella parolaccia, conferma che l’aggressione verbale è diventata il linguaggio comune della comunicazione pubblica e che è pratica non cominciata certo l’altro giorno, col presidente della Campania. La storia è lunga: inizia con Bossi, che inaugurò la stagione politica della Lega Nord mostrando il dito medio e poi seguito’ con la sua personalissima interpretazione della sigla Spqr (“Senatus popolusque romanus”) che – secondo lui – voleva dire: «Sono porci questi romani».

Da allora la politica ha cominciato a vivere una delle fasi peggiori della sua storia contemporanea, caratterizzata da quella che l’ultimo leader democristiano, il mite bresciano Mino Martinazzoli, definiva “una sorta di continua e permanente trivialità”: che è fatta di insulti, attacchi personali, diffamazioni e sofisticatissime criminalizzazioni. La volgarità, compagna di strada dell’insulto, meriterebbe un capitolo a parte. Tanto per fare qualche esempio, è indimenticabile il Calderoli leghista del Nord che definisce “orango” il ministro Cécile Kienge ed è indefinibile il suo collega Vito Comencini, che raggiunge l’apice col vilipendio del presidente della Repubblica Mattarella: «Questo presidente della Repubblica, lo posso dire? Mi fa schifo».

Di insulti politici, di questa moda frutto di una subcultura che ha distrutto e liquidato la politica, se ne occupò a suo tempo anche il grande Umberto Eco, scrivendo un divertente stelloncino dal titolo esplicativo “Insulti politici”, pubblicato su la Repubblica, più di dieci anni fa. Ecco l’incipit: «I giornali registrano, da parte degli uomini politici, insulti da carrettiere”. In quell’occasione, il semiologo e filosofo di origini piemontesi, sdoganò, profeticamente, proprio la parola “stronzo” – che ora è al centro della polemica che si è sollevata con De Luca – pur con qualche necessario avvertimento: «È vero che io avevo tempo fa rivendicato il diritto di usare la parola stronzo in certe occasioni in cui occorre esprimere il massimo sdegno, ma l’utilità della parolaccia è appunto data dalla sua eccezionalità».

Eccezionalità che, francamente, pur comprendendo l’ira di De Luca, per quel “vadano a lavorare”, detto dalla presidente Meloni, non è possibile riscontrare nel sui caso specifico. Di quella giornata romana, di De Luca, con settecento sindaci che manifestavano contro il disegno del governo di autonomia differenziata e contro il blocco del Fondo sviluppo e coesione, purtroppo resta solo la parolaccia e non il senso di una legittima battaglia di amministratori del Sud che sollecitavano i fondi per ambiente, trasporto transeuropeo, efficienza energetica e energie rinnovabili.

Anzi, come si diceva, media nazionali, politica, e anche la stessa presidente Meloni, hanno approfittato per dare un’immagine di Sud che è così [arretrato] perché non ci sa fare. Sono chiaramente tutte accuse (false) e ipocrisie che servono solo a intorbidire il dibattito che De Luca e i 700 sindaci volevano invece aprire, con la manifestazione di Roma, dove – a differenza degli agricoltori con i trattori – hanno trovato le porte chiuse. Personalmente non ricordo mai il portone di Palazzo Chigi sbarrato, come quel giorno in cui è andato a bussare De Luca a nome del Sud. Forse aveva ragione il sociologo Domenico De Masi, che, nella sua ultima intervista, sul tema del Mezzogiorno, disse: «Il Sud finora è stato fin troppo paziente, dovrebbe invece avere il coraggio di perderla la pazienza».

Resta l’amarezza per l’ennesima occasione sprecata nella storia controversa del rapporto difficile tra lo Stato [il Governo pro tempore] e il Sud dell’Italia. (mnu)