Con Jole Giugni Lattari, la prima donna calabrese a entrare in Parlamento si chiude “Donne di Calabria”

È dedicata alla prima donna calabrese entrata in Parlamento, Jole Giugni Lattari, l’ultima puntata della docu-serie Donne di Calabria, in onda su Rai Storia. Protagonista di questa puntata, Margareth Madè, che è diretta da Enzo Russo.

Si tratta di una co-produzione Calabria Film Commission e Anele, in collaborazione con Rai Cultura, prodotta da Gloria Giorgianni con Emma Di Loreto, da un’idea produttiva di Giovanni Minoli

A raccontare la storia di Jole Giugni Lattari, immagini di repertorio, illustrazioni originali e le testimonianze di Pietrangelo ButtafuocoMaria Giuseppa Alosa, Luigi Li Gotti, Chiara Grimaldi Lattari, Gerardo Sacco e Carlo Turino.

Eletta al Parlamento italiano nel 1963 e la prima scelta tra le fila del Movimento sociale italiano di cui era anche dirigente, avendo fatto parte del Comitato centrale per 15 anni (1954-1969), Jole Giugni Lattari è nata a Tripoli nel 1923, laureandosi in Filosofia nel 1944 all’Università degli Studi di Napoli, avendo come relatore il filosofo e suo mentore Benedetto Croce, da cui ereditò l’amore per la conoscenza.

In seguito, insegnò Filosofia e Storia al Liceo classico “Pitagora” di Crotone e fu proprio in quel periodo che ebbe inizio la sua carriera politica, quando venne eletta al consiglio comunale a soli 29 anni, carica che ricoprì anche nelle successive elezioni del 1956, del 1960 e del 1964, rimanendo sempre l’unica donna eletta nel Consiglio. Convinta che la cultura dovesse essere al servizio del bene comune, portò avanti un’idea di politica non per pochi ‘eletti’, ma per il popolo, e usò l’arte della retorica per denunciare qualsiasi forma di ingiustizia e di disuguaglianza, convincendo con le sue argomentazioni sia i colleghi parlamentari che i suoi concittadini. Aveva una predilezione per i giovani, a cui insegnava con passione le materie letterarie e per i quali divenne un punto di riferimento: a Crotone le sue “Lezioni magistrali” su tematiche culturali venivano seguite in massa.

Per Jole, inoltre, era basilare il tema della condizione femminile: teneva rapporti di confronto e supporto con donne di destra e di sinistra e credeva nello spirito di sorellanza per il raggiungimento di obiettivi non solo politici, ma anche sociali, per l’emancipazione e i diritti di tutte le donne. Quando nel 1969 non venne più rieletta dal suo partito si trasferì a Roma, dove rimase fino alla fine dei suoi giorni.

La narrazione si avvale di immagini e filmati di repertorio, di illustrazioni animate e di interviste a testimoni del mondo della cultura, della politica e della società civile, tra cui lo scrittore Pietrangelo Buttafuoco, l’ex allieva Maria Giuseppa Alosa, l’ex dirigente giovanile MSI Crotone Luigi Li Gotti, la nipote Chiara Grimaldi Lattari, l’orafo e amico Gerardo Sacco e il sindacalista RSU ed ex militante Giovane Italia Crotone Carlo Turino. A fare da sfondo al racconto, i luoghi in cui Jole ha vissuto e lavorato: dal centro storico al museo archeologico di Crotone, fino al parco archeologico di Capo Colonna. (rrm)

Donne di Calabria, la storia di Clelia Romano Pellicano, pioniera del femminismo

E dedicata a Clelia Romano Pellicano, la nuova puntata di Donne di Calabria, in onda domani sera alle 22.30 su Rai Storia.

Donne di Calabria è una co-produzione Calabria Film Commission e Anele, in collaborazione con Rai Cultura, prodotta da Gloria Giorgianni con Emma Di Loreto, da un’idea produttiva di Giovanni Minoli

La quinta puntata, diretta da Maria Tilli, è dedicata alla giornalista e scrittrice Clelia Romano Pellicano. Nota anche con lo pseudonimo di Jane Grey, fu una delle pioniere del femminismo italiano ed europeo tra la fine dell’800 e l’inizio del’900, nel pieno della Belle Époque

Nobildonna colta, raffinata e intelligente nota per le sue posizioni controcorrente, Clelia Romano Pellicano scrisse di relazioni e di divorzio, lottò per il suffragio femminile, dette voce alle donne del tempo che non potevano permettersi di parlare della loro condizione subordinata rispetto a quella dell’uomo, denunciando la violenza domestica e la disparità salariale

 

Sposò il marchese calabrese Francesco Maria Pellicano, deputato al Parlamento, con cui si trasferì a Gioiosa Ionica, facendo spola tra Castellammare di Stabia e Roma, dove frequentò il mondo culturale romano dell’epoca, entrando in contatto con ministri, intellettuali, scrittori e poeti. Corrispondente della rivista mensile “Nuova Antologia”, pubblicò un’indagine sulle donne illustri di Reggio Calabria e svolse un’inchiesta sulla condizione delle operaie delle industrie del capoluogo. Nel 1909 si recò a Londra in qualità di socia delegata del Consiglio Nazionale Donne Italiane (CNDI) per partecipare al Congresso Internazionale femminile, dove le sue proposte riscossero un enorme successo, non solo per i contenuti, ma anche per le sue grandi doti oratorie. Rimasta vedova, dovette occuparsi dei sette figli e tutelare il patrimonio di famiglia ereditato dal marito. Emerse così anche la sua anima imprenditoriale: creò nuove attività come lo sfruttamento del fondo boschivo nella Locride, costruì dei villaggi per i dipendenti e una linea ferroviaria aziendale che portava il legname dal bosco fino alla falegnameria, nella convinzione che le imprese non dovessero creare solo profitto ma avere anche una funzione sociale e culturale.  

 

La narrazione si avvale di immagini e filmati di repertorio, di illustrazioni animate e di interviste a testimoni del mondo della cultura, della politica e della società civile, tra cui la biografa Daniela Carpisassi, la scrittrice Giulia Blasi, la storica del femminismo Fiorenza Taricone e i nipoti Furio Pellicano, Clelia Pellicano, Giulia Salazar, Francesco Paolo Pellicano, Tommaso Salazar, Fabio Pellicano, Piero Pellicano, Gaia Pellicano, Flavia Pellicano ed Eldo Pellicano. A fare da sfondo al racconto, i luoghi in cui Clelia ha vissuto e lavorato: da Villa Pellicano a Castello Pellicano, da Palazzo Naymo fino alla spiaggia di Gioiosa Ionica. (rrm)

Donne di Calabria, si racconta la vita di Rita Pisano, sindaca di Pedace

È dedicata alla sindaca di Pedace, Rita Pisano, la quarta puntata di Donne di Calabria, la docu-serie Donne di Calabria”, una co-produzione Calabria Film Commission e Anele, in collaborazione con Rai Cultura, prodotta da Gloria Giorgianni con Emma Di Loreto, da un’idea produttiva di Giovanni Minoli.

Rocìo Muñoz Morales è la protagonista della puntata diretta da Enzo Russo e dedicata a Rita Pisano, sindaca di Pedace dal 1966 al 1984, anno in cui morì, nel pieno del suo impegno amministrativo.

Tra gli anni ‘40 e ‘50 Rita Pisano comincia la sua carriera politica divenendo dirigente del Partito Comunista di Cosenza, al quale aveva aderito sin da giovanissima, segretario provinciale del CNA e consigliere comunale di Cosenza. Fu tra i componenti della delegazione calabrese che a Parigi nel 1949 prese parte al Congresso Mondiale della Pace, dove raccontò le lotte sostenute dai contadini calabresi. Lì conobbe Renato Guttuso e Pablo Picasso, che rimasero colpiti dal suo discorso, dalla sua passione e dalla sua personalità, tanto che Picasso ritrasse il suo volto “splendente” e lo intitolò “La jeune fille de Calabre”, realizzandolo con uno schizzo a matita. Madre di sei figli e donna di politica, si mise a disposizione del Paese impegnandosi allo stesso modo sia in famiglia che nella militanza, abbracciando sia la dimensione pubblica che privata e spronando le donne a fare lo stesso. Divenuta sindaco di Pedace nel 1966, avviò una politica di ammodernamento delle strutture urbane – viabilità, bagni pubblici, impianti sportivi, la mensa nelle scuole, la scuola a tempo pieno – e istituì la prima biblioteca per le donne, la “Biblioteca Donne Bruzie”, simbolo della sua venerazione per la cultura e l’arte. Negli anni ’70 diede vita agli “Incontri Silani” grazie ai quali giunsero in Calabria esponenti della cultura come Renato Guttuso, Carlo Levi e Raphael Alberti. Durante il suo percorso politico, nel 1975, ebbe contrasti interni al Partito Comunista Italiano, da cui venne espulsa. Da qui la sua decisione di dare vita alla lista autonoma “Sveglia” che vinse le elezioni comunali in contrapposizione con il PCI. Protagonista delle lotte per l’emancipazione della donna, subì processi e arresti per violazione del vecchio Testo Unico delle leggi di pubblica sicurezza che, in seguito, la Corte Costituzionale abolì parzialmente. 

La narrazione si avvale di immagini e filmati di repertorio, di illustrazioni animate e di interviste a testimoni del mondo della cultura, della politica e della società civile, tra cui la Presidente della Fondazione Nilde Iotti Livia Turco, la scrittrice Rosella Postorino, lo storico Enzo Ciconte, la giornalista Ida Dominijanni, il nipote del proprietario della casa del PCI Eduardo Salvatore Zumpano, i figli Agatina Sandra e Giuseppe Giudiceandrea, il campanaro della Parrocchia di San Donato V.M di Casali del Manco Francesco Leonetti, la nipote Maria Maddalena Radoni e la Responsabile della Biblioteca Donne Bruzie Maria Francesca Lucanto. A fare da sfondo al racconto, i luoghi della Calabria in cui Rita ha vissuto e lavorato: oltre a Pedace, Casali del Manco, il lago Arvo e il Parco Nazionale della Sila a Lorica(rrm)

 

Donne di Calabria, domani la storia di Caterina Tufarelli Palumbo, la prima donna eletta sindaco

È una puntata speciale, quella in onda alle 22.10 su Rai Storia, che racconterà la storia di Caterina Tufarelli Palumbo, la prima donna sindaco eletta in Italia nel Comune di San Sosti, durante le elezioni del 1946.

Una storia, che sarà ricostruita nel corso del docu-serie Donne di Calabria, una co-produzione Calabria Film Commission e Anele, in collaborazione con Rai Cultura, prodotta da Gloria Giorgianni con Emma Di Loreto, da un’idea produttiva di Giovanni Minoli

La narrazione si avvale di immagini e filmati di repertorio, illustrazioni animate e di interviste a testimoni del mondo della cultura, della politica e della società civile, tra cui la deputata Giusy Versace, lo scrittore Claudio Cavaliere, l’ex sindaca di Rosarno Elisabetta Tripodi, la cugina Maria Rita Acciardi, il parroco di San Sosti Mons. Carmelo Perrone, il figlio Giorgio Pisani e la nipote Camilla Pisani.

A fare da sfondo al racconto, i luoghi della Calabria in cui Caterina ha vissuto e lavorato come la sua casa a Castrovillari, Villa Katty, il borgo di San Sosti, San Giovanni in Fiore e il Santuario della Madonna del Pettoruto a cui era molto devota.

Eletta a soli 24 anni, subito dopo aver conseguito la maturità classica e la laurea in giurisprudenza a Roma, Caterina Tufarelli Palumbo si impegnò da subito per ricostruire San Sosti, piccolo borgo montano nel Parco Nazionale del Pollino.

Avvalendosi dell’amicizia nata ai tempi del collegio romano con le figlie di Alcide De Gasperi, che nel frattempo era diventato Presidente del Consiglio dei Ministri, ottenne i fondi per ricostruire la maggior parte delle opere distrutte dalla guerra, come il campanile, i mercati, il cinema, le scuole, e costruì molte nuove infrastrutture che arricchirono il paese cosentino.

Mossa da un profondo senso civico e dal desiderio di supportare le classi più deboli promosse l’alfabetizzazione, la costruzione di asili nido e dell’orologio cittadino per permettere ai contadini di non lavorare oltre le ore per le quali venivano pagati. Se empatia e umiltà hanno contraddistinto il suo lavoro e la sua persona, noto era anche il suo impegno per l’emancipazione femminile, che dimostrò sdoganando l’uso della bicicletta, considerato al tempo un mezzo di dubbia moralità per le donne. Una donna di fede che per oltre trent’anni fu anche Presidente delle Dame di Carità, dedicandosi agli orfani, ai disabili e agli anziani.

Nel 2016, l’allora Presidente della Camera Laura Boldrini decise di inaugurare la “Sala delle Donne” a Palazzo Montecitorio dove sono raffigurate donne esemplari che hanno avuto un ruolo di rilievo nella Repubblica italiana, come le donne sindaco: tra queste anche Caterina Tufarelli Palumbo. (rrm)

 

Donne di Calabria: Le prime due puntate su Rai Storia

di GIUSEPPE TRIPODI – La certezza dell’esistenza di una Calabria film Commission, con sede a Roma e voluta dalla defunta presidente della Regione Calabria Jole Santelli, è la produzione di sei docu-film programmati sul canale televisivo RAI-Storia per le seconde serate del martedì di questo inizio di estate 2022.

I primi due prodotti, già andati in onda il 21 e il 28 giugno, sono stati dedicati alla giornalista Adele Cambrìa (1931-2015) e alla contadina Giuditta Levato (1915-1946), ferita a morte a fine ottobre 1946 dal fattore di un agrario a Calabricata, frazione del comune di Sellia Marina in provincia di Catanzaro. Seguiranno i profili di altre quattro donne tra cui figurano la prima deputata calabrese Giugni Jole (1923-2007) e la sindaca di Pedace Rita Pisano (1926-1984) che fece parte del movimento per la pace e contro la Nato e che ebbe l’onore di incontrare a Roma Pablo Picasso e di venirne ritratta.    

Sia il ritratto di Adele Cambria, esponente di un ceto medio intellettuale inquieto e radicale nelle sue scelte giornalistiche, che quello di Giuditta Levato, contadina comunista, sono apparsi entrambi abbastanza credibili ad uno spettatore televisivo medio come l’autore di queste note.

Ha stonato, tra gli interventi che hanno colorito la trasmissione, quello reiterato di un ex politico che, con piglio storico derivato dai suoi pregressi ma molto malcerti studi di perito industriale, ha pontificato considerazioni generiche che nulla hanno aggiunto e nulla hanno tolto alla tragica storia di Giuditta. Un vero e proprio pedaggio pagato da un lavoro, per il resto abbastanza dignitoso, ad una onnipresenza della politica magari declinata in modo bipartisan.

Certo gli autori avrebbero fatto meglio a intervistare su Giuditta Levato il giornalista Romano Pitaro che alla vicenda ha dedicato un riuscitissimo saggio nel libro collettaneo Storie di lotta e di anarchia in Calabria (Giuditta Levato: la sentenza condanna (suo malgrado) i mandanti …, pp. 117-129); al quale si deve somma gratitudine perché ha fatto conoscere un particolare della vicenda da nessuno riferito nei settant’anni e più che ci dividono da quell’omicidio; crimine rimasto impunito ad onta di una magistratura ancora legata al ventennio fascista durante il quale aveva coperto violenze e stragi anche e ben più efferate. 

I magistrati infatti non solo assolsero l’omicida di Giuditta ma, con sublime noncuranza o con dolosa determinazione contro la vittima, lasciarono che i poveri resti della donna  fossero sepolti in un luogo anonimo di cui poi è stata impossibile  l’identificazione. 

Né la povertà permise ai familiari di rivendicare quel corpo martoriato col bimbo in grembo che, così, rimase disperso come quello delle vittime nei processi per eresia o stregoneria nei secoli più bui dell’Europa cristiana: senza un sasso, avrebbe detto il poeta, che lo distinguesse dalle altre «ossa che in terra e mar semina morte».

Connotati da tragedia classica che non sarebbero venute in mente neanche a Bertolt Brecht.

Opportuno ed arricchente il contributo di Francesca di Francesca Prestia che ha cantato in apertura del documentario il suo Bella Giuditta con il quale aveva «premio speciale 2018 al concorso “Giovanna Daffini” di Motteggiata (Mantova) il cui ritornello è un vero capolavoro di rimandi alla cultura calabrese  

Bella Giuditta

Spiga rigogliosa

Petalo di Rosa

Rosa nel bicchiere,

ove risalta la «spiga rigogliosa» del secondo verso che rimanda ai contadini deputati a far crescere le spighe dal seminato devastato dalla tracotanza padronale; spighe che Giuditta, con la sua lotta, avrebbe voluto diventassero messi dorate e nivea farina per il pane dei miseri deschi «fioriti d’occhi di bambini» denutriti di Calabricata; il verso 3 rimanda alla fragilità di Giuditta «petalo di rosa» che, bisognosa di carezze da polpastrello delicato di mano amorosa o infantile, venne invece stroncata dalla fucilata assassina. 

Il quarto verso, infine, è un calco casuale dal titolo e dalla chiusa  di una delle più bella liriche di Franco Costabile (Sambiase 1924-Roma 1965): Calabria, rosa nel bicchiere; qui quel nome comune «Rosa» viene quasi personalizzato oltre che utilizzato sia nella chiusa del verso 3 che nell’apertura di quello successivo: è una tecnica poetica, collaudata da secoli d’uso sia nella poesia popolare che in quella colta, nota come anafora (detta anche ‘lascia e prendi’, spagnolo leixaprende, sardo lassa e pidda). (gt)

“Donne di Calabria”, domani su Rai Storia si parla di Giuditta Levato

È GIuditta Levato, la prima vittima calabrese della lotta al latifondo, la protagonista della seconda puntata della docu-serie Donne di Calabria, in onda domani sera su Rai Storia.

La docu-serie è una co-produzione Calabria Film Commission e Anele, in collaborazione con Rai Cultura, prodotta da Gloria Giorgianni con Emma Di Loreto, da un’idea produttiva di Giovanni Minoli

Camilla Tagliaferri è la protagonista della seconda puntata diretta da Saverio Tavano e dedicata a Giuditta Levato, la prima vittima calabrese della lotta al latifondo, una donna di popolo che è entrata nella storia per aver combattuto per l’emancipazione delle classi più povere nella sua terra, pagando con la vita.

Durante la Seconda Guerra Mondiale, la legge Gullo aveva decretato l’assegnazione di alcune terre facenti parte di vari latifondi ai contadini che, riuniti in cooperative, li coltivavano. Il provvedimento fu ostacolato dai latifondisti calabresi, che vedevano nei nuovi proprietari contadini degli usurpatori. Questa situazione causò diversi scontri violenti, i primi dei quali furono a Calabricata nel 1946. Iscritta al Partito Comunista, Giuditta Levato fu la prima organizzatrice di queste lotte per la rivendicazione dei diritti che spettavano a lei e a tutti, donne e uomini. Il 28 novembre di quell’anno la donna si unì a un gruppo di persone in protesta contro Pietro Mazza, latifondista del luogo: in circostanze mai del tutto chiarite, dal fucile di una persona al servizio del proprietario terriero partì un colpo che raggiunse la donna all’addome. Giuditta morì a 31 anni al settimo mese di gravidanza, incinta del terzo figlio.

Con il marito in guerra, aveva provveduto ai bambini proprio con il lavoro nei campi: la terra rappresentava per lei il lavoro, il pane per i suoi figli e un’idea di giustizia in cui aveva sempre creduto. Per il suo eroico coraggio e la sua determinazione, nel dicembre del 2004, l’Ufficio di Presidenza dell’Assemblea legislativa regionale le ha intitolato la sala conferenze di Palazzo Campanella a Reggio Calabria.

La narrazione si avvale anche di immagini e filmati di repertorio, illustrazioni animate e di interviste a testimoni del mondo della cultura, della politica e della società civile tra cui il dirigente del movimento operaio Fausto Bertinotti, l’ex parlamentare Luciana Castellina, gli scrittori Danilo Chirico e Gioacchino Criaco. A fare da sfondo al racconto, i luoghi della Calabria in cui Giuditta ha vissuto e lavorato, le campagne di Catanzaro, per restituire anche un cammino ricco di incontri con familiari, amici, concittadini, che hanno dato il loro prezioso contributo per ricostruirne la vita e le battaglie. (rrm)

Su Rai Storia la docu-serie “Donne di Calabria”

Da domani sera, alle 22.10, su Rai Storia, andrà in onda la docu-serie Donne di Calabria, un’inedita narrazione al femminile in 6 puntate da 50 minuti per ripercorrere le storie di sei donne calabresi che nel Novecento hanno segnato indelebilmente la storia civile, politica e intellettuale della loro regione e dell’Italia, raccontate da sei attrici del panorama contemporaneo.

Storie di donne esemplari, avventurose ed eroiche, spesso sconosciute al grande pubblico, accomunate da un forte segno di modernità. Si tratta di una co-produzione Calabria Film Commission e Anele, in collaborazione con Rai Cultura, prodotta da Gloria Giorgianni con Emma Di Loreto, da un’idea produttiva di Giovanni Minoli, rappresenta il primo progetto audiovisivo italiano che vede coinvolta una Film Commission come co-produttore.

Nella prima puntata diretta da Mario Vitale, sullo sfondo del lungomare di Scilla e quello di Reggio Calabria, Eleonora Giovanardi racconta la storia della giornalista e scrittrice Adele Cambria (Reggio Calabria, 1931 – Roma, 2015), figura centrale nell’epoca italiana pre e post sessantotto, oltre che sostenitrice del movimento femminista sin dai suoi albori. Come in ogni puntata, la narrazione si avvale anche di immagini e filmati di repertorio, illustrazioni animate e di interviste a testimoni del mondo della cultura, della politica e della società civile tra cui l’ambientalista Grazia Francescato, la giornalista e amica Annarosa Macrì, la nipote Laura Giovine e il figlio Emilio Valli, per ripercorrere la vita di questa grande intellettuale calabrese.

Il racconto prosegue nelle puntate successive con Camilla Tagliaferri, Tea Falco, Rocìo Muñoz Morales, Marianna Fontana e Margareth Madè, chiamate a raccontare le storie di altre cinque eccellenze femminili calabresi: la contadina vittima della lotta al latifondo Giuditta Levato (Albi, 1915 – Calabricata, 1946), la sindaca Rita Pisano (Pedace, 1926 – Pedace, 1984), la prima sindaca donna in Italia Caterina Tufarelli Palumbo (Nocara, 1922 – Roma, 1979), la giornalista e scrittrice Clelia Romano Pellicano (Castelnuovo della Daunia, 1873 – Castellamare di Stabia, 1923) e la prima donna calabrese a entrare in Parlamento Jole Giugni Lattari (Tripoli, 1923 – Roma, 2007).

Passando da Reggio Calabria al Parco Archeologico di Capo Colonna nei pressi di Crotone, dal lago Arvo al Parco Nazionale della Sila nel cosentino alle campagne di Catanzaro, fino a Castrovillari nel Parco Nazionale del Pollino e Gioiosa Jonica nella Locride, la docu-serie rappresenta anche un viaggio fisico e simbolico nel patrimonio naturale, culturale, urbanistico e storico del territorio calabrese. (rrm)

Giusy Staropoli Calafati / Se l’uomo è forte la donna è fortissima

di GIUSY STAROPOLI CALAFATI – “L’uomo è forte”. Con questa espressione potremmo ben cominciare il racconto della genesi del genere umano. Parafrasando una delle più belle opere di Corrado Alvaro, dove però, la forza del genio maschile è frutto dell’ostinazione e della resistenza umana in generale, e non della forza in quanto mezzo che consente di svolgere una certa azione, a un determinato elemento, di un certo sesso. 

‘L’uomo è forte’, è un’espressione antica e al contempo fortissima, che sentivo ripetere spesso a mia nonna quando ero bambina, nei racconti della sua giovinezza, nei tracciati che faceva delle guerre in cui l’uomo aveva sofferto, ma che grazie alla sua forza aveva superato. Lo sentii ribadire poi anche a mia madre, quando per esempio vi fu il primo sbarco sulla luna. ‘L’uomo è forte’, disse a gran voce. 

Tutti casi in cui con la parola ‘uomo’, banalmente nome comune di persona, viene indicato l’individuo di sesso maschile della specie umana. Nessuno, a ritroso nella storia, ha mai avuto il coraggio di dire che l’uomo è forte grazie alla donna che sin dalla genesi gli è stata posta accanto. E che la forza che esso, a tutt’oggi dispone, e che da essa gli proviene, è la sola in grado di modificare lo stato di quiete o di moto che lo interessano, e si chiama amore. O meglio ancora, dicasi più precisamente: individuo di sesso femminile della specie umana. Che sia essa sua madre o la sua amata. 

Dunque, l’uomo è forte, tradotto nella pratica quotidiana della sopravvivenza della specie, significa che “la donna è fortissima”. Secondo la più antica delle leggende bibliche, Dio si servì della costola dell’uomo per creare la donna. Una figura emergente destinata ad accompagnarlo nelle sue gioie e nelle sue peripezie. 

Finanche il Creatore avverte, dunque, la priorità di dare all’uomo una compagna. Mettergli accanto un altro essere vivente di sesso opposto al suo. E quindi completare la sua esistenza.

Dio avrebbe potuto fare la donna allo stesso modo di come aveva fatto l’uomo. Con lo stesso criterio e lo stesso mistero. Invece no. È da una costola di lui che plasma lei. E le dà vigore, e le concede bellezza. Mettendola in risalto sopra ogni cosa, all’interno del creato. Ma l’uomo, sempre così troppo autoritario ed ossessivo nel sentirsi ‘il primate’ tra i viventi, di questa identità che Dio concede, non come grazia ma naturale dono, alla donna, arriverà a vendicarsi crudelmente di lei. Tanto che aver dato per ella la sua costola, diverrà un fatto talmente distante, passato e sconclusionato, che della donna ne farà oggetto di bordello.

Passata la creazione, l’uomo, oramai in possesso delle sue piene virtù, figura indipendente dall’opera del Creatore, rompe e corrompe, con precise sciabole comportamentali, il mondo in cui opera, allestendolo di controfigure. E di quella creatura così bella e così audace, irresistibilmente attraente, che avrebbe dovuto sotto il suo braccio essere protetta, se ne approfitta. Ne abusa e la usa. Se ne serve e la sfrutta. La impiega e la comanda. La costringe a soggiacere a lui, arrendevolmente. La donna diventa improvvisamente un anello fragile della catena, e limita la sua presenza nella società a quel po’ di chiaranza in cui riesce ancora a vedersi viva. 

I ritratti che incorniciano le varie epoche storiche compiute e vissute dall’uomo, non mutano mai più la condizione della donna, anzi, la confinano in spazi sempre troppo piccoli, mai abbastanza ampi, e per nulla capienti. Come in una noce. Essa diventa una, nessuna e centomila. Vittima di una crisi identitaria in cui, pur rimando essa stessa l’unica figura della famiglia in cui accresce la fede, soggiace al volere del maschio, nella misura di padre e di padrone. Un destino alieno nelle cui membra imperfette le donne si scoprono mano mano perfettissime, e oltre il quale, rianimarsi diventa una scelta e un atto di coraggio.

Guardando mia nonna, ho sempre pensato che senza di lei, il nonno non valesse nulla. Un uomo bastardo e irregolare come tutti. Il valore di lui, era dato dalla forza di lei. Un teorema che conferma la precisa meccanica della vita. Ricompone il quadro originale del Creatore.

Osservando mio padre, ho sempre sostenuto che i suoi successi portavano, e per esteso, il nome di mia madre. La sua audacia, la sua profonda ribellione, il senso altissimo dell’onore che ella, per pudore, responsabilità e morale, non aveva mai tradito. 

Da mia nonna e da mia madre, ho capito quanto era valso essere nata donna anch’io. Ma al contempo, e sempre da loro, ho preso coscienza che la nostra posizione andava difesa. Che non era una squalifica essere nate donne, ma una condizione che aveva tutte le ragioni per metterci in discussione. 

Mia nonna aveva lavorato come un mulo, altro che uomini. Le mani le aveva aperte, spaccate per la fatica che avevano sopportato, e davanti alla quale non si erano mai ritratte.  Eppure la sua bocca non aveva mai osato parlare. Controbattere. Mai neppure un lamento. Solo e sempre muta sopportazione. Era stata una brava madre, mia nonna. Una perfetta moglie, un vero angelo del focolare domestico. Ma non aveva realizzato null’altro. I sogni erano impediti a quelle come lei. 

L’emancipazione femminile la considerava una frottola di quattro spostate rivoluzionarie. Ella il coraggio della rivoluzione non l’aveva mai avuto. Infatti morì con i piedi scavati nella terra. Con il voto dell’obbedienza a Dio e all’uomo che aveva sposato.

Mia madre ha rinunciato a sentirsi donna parecchie volte. Quando ancora ragazzina mio padre la portò via con lui e dovette lasciare la scuola. Che al primo anno di Segretario d’azienda, aveva già concluso la sua istruzione. Quando le offrirono il posto come segretaria nella scuola del paese, e mio padre rifiutò per lei.

Mia madre però, non ha mai pensato di dover morire con i piedi nella terra come la nonna. Anzi, quella morte così indegna, si era giurata di doverla riscattare. E così un pizzico di quella emancipazione farlocca, davanti alla quale la nonna, ignorando il suo ruolo reale, l’aveva sempre messa in guardia, lei la mise in atto sul serio. Prese la patente prestissimo, mia madre. E soprattutto acquisì la sua autonomia. 

Certo, era ancora tanta la strada da fare, ma le donne, in Italia, a partire dal 46, avevano fatto grandi passi in avanti. Da semplici individui di sesso femminile, erano diventate donne. Con una identità, e una precisa personalità. Lavoratrici riconosciute con i propri nomi e cognomi. Donne apprezzate e ammirate. Contemporaneamente simbolo del focolare domestico e madrine del grande progresso.

La donna esce dalla sua noce scura, con gradualità. Poco alla volta conquista la sua indipendenza. Senza però, mai riuscire del tutto, a porre fine alle annose differenze di genere.

Un retaggio antico ma di cui vittima è fondamentalmente l’uomo che, complessato per natura, sfoga su di essa le sue frustrazioni. I complessi atroci dell’inferiorità, di una forza sovrumana che la donna ha ma l’uomo non riesce a fronteggiare. 

La donna resta, infatti, il principio assoluto di ogni cosa. Contro ogni ostilità, essa è il battesimo e l’iniziazione. La concezione è tutta raccolta dentro al suo grembo. E fonda la terra e garantisce la vita. 

Si pensi alla madre di Gesù. Davvero è credibile che sia il Cristo, in quanto uomo, il vero protagonista della storia dell’umanità?

Sul palcoscenico c’è solo e sempre Maria. Ella comincia ed ella finisce. Da lei tutto parte e a lei tutto torna. L’angelo andò da lei; Ella concepì per opera dello Spirito Santo; a lei una spada trafiggerà l’anima. 

La verità è che la donna è l’unica vera generatrice del mistero. La donna è la radice. E alla radice non si fa torto. Se si maltratta la radice, l’albero muore. E se muore l’albero nessun fiore farà il frutto che darà il seme per far crescere l’albero per fare il tavolo attorno al quale radunare chiunque. La famiglia, le grandi nazioni, i potenti del mondo, il mondo intero.

E’ questione di attenzione e di sensibilità. Di analisi di pensiero. 

La donna senza l’uomo non può esistere. Ma laddove l’uomo è l’idea, ecco che la donna diventa progetto. E la contemplazione di entrambi dona vero compiacimento. C’è un comandamento che Dio dona all’uomo sin dalla sua creazione. “La tua libertà”, gli dice il Signore, “finisce dove incomincia quella della tua donna. Va e non sbagliare”. 

Nessuno lo scrive mai, nessun uomo lo cita. Ma basta ricordarsi che ogni cosa ha le sue regole da rispettare. Anche la vita. Che è straordinariamente donna.