Bronzi: quando il presidente Pertini li volle al Museo di Reggio

di PASQUALE AMATO – Sandro Pertini, il migliore e più amato Presidente della Repubblica Italiana, quando venne a sapere delle manovre dei fiorentini per tenersi i Bronzi,  intervenne col suo stile schietto e il suo linguaggio asciutto. Sicuramente valutò che fosse un atto di ingordigia da parte dei fiorentini tentare di impossessarsi anche dei due magnifici Bronzi, nonostante gli immensi beni artistici che legittimamente posseggono. Quindi difese l’appartenenza dei Bronzi al Museo di Reggio con una dichiarazione che affossò la cupidigia dei fiorentini: «I Bronzi di Riace devono tornare nella loro casa: il Museo di Reggio. Durante il viaggio di ritorno  desidero ospitarli al Quirinale.  E poi andrò a Reggio ad inaugurare la Sala che stanno allestendo per esporli».

La breve dichiarazione fu un capolavoro di comunicazione politica, di alto profilo come in tanti atti del suo indimenticabile settennato. Senza offendere e ingiuriare nessuno,  tagliò ogni velleità con quel semplice “durante il viaggio di ritorno da Firenze a Reggio li voglio ospiti al Quirinale”. E chiuse con l’impegno personale di andare a omaggiarli nel Museo di Reggio Mantenne la parola,  come sempre nella sua vita. Venne a Reggio nel 1982 per l’inaugurazione della Sala chiedendo espressamente all’attrice Melina Mercouri, Ministro della Cultura del Governo greco, di affiancarlo per rispetto alla poliedrica cultura ellenica (per intenderci quella che, con una miriade di città-Stato indipendenti, si estese dal Mar Nero al Mediterraneo sino alla città di Mainake,  odierna Málaga) di cui i due capolavori costituiscono un’altissima espressione. 

Fu un giorno memorabile,  denso di commozione e di orgoglio. Io c’ero e lo vissi con particolare intensità assieme a tanti reggini. Pertini era un personaggio genuino,  capace di essere in sintonia con i sentimenti del popolo. 

Ricordo un aneddoto di quel giorno.  Eravamo al primo piano ed io mi ero venuto a trovare a poco più di un metro da lui.  

Chiese al suo capo-scorta: “perché stiamo tornando indietro?  Vedo che c è un’altra Sala”.  

Il capo-scorta: “Presidente,  motivi di sicurezza”. 

E lui col suo solito piglio: “Ma quale sicurezza.  Sono venuto apposta da Roma per questo bellissimo Museo e voglio vederlo tutto. E voglio che lo veda interamente anche la nostra ospite”. E virò deciso verso quella Sala non prevista nell’itinerario,  provocando ingorghi ma anche una scia di simpatia. Di lui sì che è gradevole parlare. (pa)

Nell’immagine di copertina, Pertini al Quirinale durante l’esposizione dei Bronzi nel 1981 

(Foto courtesy Quirinale)

IL RITORNO DI MATTARELLA AL QUIRINALE
È L’ANNO ZERO PER LA POLITICA ITALIANA

di SANTO STRATI – Gli italiani ritrovano il loro amato Presidente Mattarella, “costretto” al bis, e finisce l’orrido teatrino della politica che ha mostrato la sua faccia peggiore. Una soluzione che sancisce lo status quo (più volte – scusate la citazione – da noi auspicato e prevedibilmente realizzabile) ma condanna inesorabilmente l’attuale classe politica a una vergognosa ammissione di impotenza. Se ci fosse un minimo di decenza ci si potrebbe aspettare le dimissioni (di massa) di tutti i leader politici (nessuno escluso) consegnando agli iscritti il responso sul proprio futuro. Ma scordatevelo.

Salvini ha fatto l’ennesimo autogol e non gli basterà vantare di avere sostenuto la rielezione di Mattarella a evitargli la gogna mediatica, ma soprattutto la sfiducia dei suoi elettori. Lo stesso discorso vale per Enrico Letta che ha mostrato tutta l’incapacità di aggregare le forze migliori di un partito (quello democratico) con una gloriosa storia alle spalle, ridotto al traino di un inesistente Movimento 5 Stelle guidato da un altresì impalpabile (in termini di potere) Giuseppe Conte. Lo stesso discorso vale per Giorgia Meloni e basterebbe la dichiarazione di Ignazio La Russa (“Quale centrodestra? Non c’è più il centrodestra”) a sancire la sconfitta totale anche della strategia furbetta (ma non “smart”) della leader di Fratelli d’Italia che non è riuscita né a vincere né a essere sconfitta da Salvini. Analoga la posizione di Forza Italia, dove, con buona probabilità solo per ragioni di salute, sì è smarrita la guida di Berlusconi e si è avuta la conferma che senza il Capo, Forza Italia non conta niente. Non si salva nemmeno Renzi che pure aveva tentato di giocare in sedicesimo il ruolo di king maker, senza però riuscire a capitalizzare la pur minima rappresentatività legata alla sua indiscutibile personalità politica. Quindi, a conti fatti, la rielezione di Mattarella segna la fine, ingloriosa, di un certo modo di fare politica. Lo vedremo nei prossimi giorni, quando gli elettori presenteranno il conto ai leader che hanno mostrato tutta la propria debolezza, non solo nei confronti degli avversari ma anche della propria coalizione. A destra e a sinistra. Nessuno perdonerà a Salvini lo scivolone impietoso imposto alla seconda carica dello Stato, ma la presidente Casellati ha peccato di una insospettabile ingenuità politica cedendo alle lusinghe del leader del Carroccio: la conta dei voti non si fa a Montecitorio davanti alle ceste dove si depositano le schede, bensì prima, stringendo accordi e stipulando alleanze inconfutabili. Senza improvvisazioni e senza dilettantismo. Così come, nessun elettore di sinistra – crediamo – perdonerà a Letta l’incapacità di esprimere una personalità di area e sondare la compattezza della maggioranza che regge il Governo. Una maggioranza eterogenea (alla Ursula) che sta tenendo in piedi un governo d’ emergenza, ma che non ha saputo dialogare e trovare un minimo punto d’intesa, salvo ritornare al Via, in un grottesco Monopoli della politica, e ripartire dallo status quo  che ognuno riteneva – sbagliando – di poter superare.

Da tutto ciò, con i 759 voti dell’assemblea dei grandi elettori, emerge chiara l’incapacità dell’attuale classe politica italiana di fare “politica” come meritano gli italiani e come il popolo (quello che va a votare e pretende il rispetto della politica nel suo senso più nobile) ha diritto di avere. È dunque un segnale inequivocabile che la rielezione di Mattarella può segnare l’anno zero della politica, con l’obiettivo di risparmiare al Paese ulteriori mortificazioni e una campagna elettorale senza fine, come piace alla Meloni e a Salvini.

C’è indubbiamente un grande, insuperabile, problema perché da oggi si possa pensare all’anno zero della politica: mancano gli attori, i protagonisti, dell’auspicabile rinnovamento e non è stata “allevata” alcuna classe dirigente in grado di subentrare agli avventizi delle elezioni del 2018 (ovvero i Cinque Stelle, la più eclatante delusione politica per milioni di elettori) e alla vecchia guardia che, mestamente, ha scelto la via del ritiro e dell’abbandono della politica attiva. Non ci sono le “riserve” con cui sostituire i tanti incapaci della politica che hanno dimostrato la totale impotenza di avere una visione di futuro, in grado di offrire una via d’uscita alle tante crisi che attanagliano il Paese. A cominciare dalla più grave, quella della pandemia, con il suo insopportabile carico di morte e la paura del futuro, ma senza trascurare la ripresa economica e il futuro da consegnare alle nuove generazioni.

Ci sono, per fortuna, dei punti fermi costituiti dal premier Draghi e dalla riconferma di Mattarella: il settennato che si conclude il 3 febbraio e che in realtà ritrova oggi il suo bis ci ha consegnato un magnifico presidente della Repubblica, attento alle esigenze del Paese, vigile sulle preoccupazioni e i rischi che l’instabilità di governo può provocare in termini di credibilità del Paese e a sostegno degli obiettivi di ripresa e sviluppo. La crescita, ovvero la ripresa, al di là del pur suggestivo termine “resilienza” (che in realtà non ci azzecca niente se non per puro colore giornalistico), è una tappa che il Paese non può permettersi di saltare: lo deve ai suoi giovani, alle donne, alle centinaia di migliaia di lavoratori che hanno già perso il lavoro e i tantissimi altri che rischiano non solo di perderlo ma di non trovare più alternative occupazionali.

Aveva detto in più occasioni il presidente Mattarella che non intendeva prolungare il mandato (ma anche se ne avesse avuto voglia, mica poteva andare a raccontarlo in televisione…) e ieri mattina si è espresso con una battuta secca: «Se servo, ci sono». E non poteva essere diversamente. La sua riconferma era l’opzione numero uno, ma in troppi hanno ricamato sulla sua riluttanza per costruire ipotesi di supremazia che sono tutte crollate miseramente. Bastava un po’ di buon senso: Draghi serve al Paese nel posto in cui si trova, per portare a termine il suo programma fino alla fine della legislatura; ci voleva un Presidente come Mattarella da affiancargli. Non mancano personalità di rilievo, bruciate dalla guerra dei veti che ha mostrato la pochezza di tanti presunti leader, che avrebbero potuto eguagliare il Presidente uscente e promettere un settennato di identico, se non superiore, impegno: ma la “guerra” tra i nostri politicanti da strapazzo ha portato a un epilogo che, per quanto prestigioso, poteva compiersi già lo scorso lunedì. Abbiamo buttato via sei giorni con una messinscena vergognosa di cui nessuno, oggi, vuole firmare la regia. A qualcosa, però, sono serviti questi sei giorni di nulla, a mostrare che, più che mai in politica, l’incapacità, l’incompetenza e l’assenza di qualsiasi etica istituzionale non pagano. Che parta davvero oggi l’anno zero della politica, gli italiani ne hanno davvero bisogno. (s)

Quirinale: lo scivolone di Salvini/Casellati inguaia il centro-destra

di SANTO STRATI – A voler essere generosi, si può affermare che Matteo Salvini, dopo la grande cavolata del Papeete, sembra abbia preso gusto a non azzeccarne manco una. Sarà la rivalità, fin troppo evidente con la Meloni per la primazia sull’area di centrodestra, sarà l’ansia da prestazione, ma è un disastro totale, uno dopo l’altro. Lo scivolone istituzionale “imposto” alla Presidente del Senato Elisabetta Alberti Casellati (la seconda carica dello Stato) non solo si poteva e doveva evitare, ma – a nostro avviso – incrina ulteriormente la finta “unità” del centrodestra e apre una seria ipoteca sullo stesso Salvini. 

Chi comanda a destra? Ma c’è ancora una “destra” compatta e coesa? No, sicuramente non più e la stessa posizione di Giorgia Meloni – l’unica che sta uscendo in qualche modo “vincente” da questo osceno teatrino della politica – alla fine non ricaverà sostanziosi vantaggi alla sua leadership. La Casellati doveva – e poteva – largamente immaginare che sul suo nome si sarebbero scatenati i franchi tiratori  della sua stessa parte politica. Un gioco al massacro, al quale, astutamente, si è sottratta la sinistra che, però, non può portare alcun vanto da questa impensabile (ma immaginabile) situazione).

È una palese guerra di veti contro voti e, alla faccia del popolo italiano che li ha mandati in Parlamento o ai Consigli regionali, l’attuale classe politica italiana (ovvero i 1009 grandi elettori) sta mostrando la sua becera e insulsa cialtronaggine istituzionale. È una guerra di posizione di cui gli italiani avrebbero volentieri fatto a meno e che, crediamo, non sono più disposti a subire.

Possibile, si chiede la gente per strada, che una maggioranza di governo che conta all’incirca 900 voti su 1009 non riesca a mettersi intorno a un tavolo e convergere su un nome, tenendo conto dell’onorabilità del ruolo, dell’esigenza di una personalità non divisiva, del bisogno da parte del popolo italiano di poter riconoscere nel nuovo Capo dello Stato il continuum del settennato di Mattarella? 

I 1009 grandi elettori non sono stati convocati d’improvviso, da tempo era evidente la scadenza naturale del mandato di Sergio Mattarella e già da agosto erano cominciati i rumours sui quirinabili. E sono arrivati – tutti impreparati – il 24 gennaio a guardarsi in cagnesco, senza il minimo indizio di un’idea, senza alcuna indicazione se non il risibile obbligo di fottere l’avversario mettendolo all’angolo.

Non ne esce alcuno bene da questa terribile esperienza quirinalizia che dopo sei inutili votazioni non trova di meglio che ricominciare da Mattarella, oppure “ripiegare” sull’idea di una donna al Colle (che sarebbe una cosa magnifica ma non frutto di una via d’usita in meno miserevole possibile)

A momenti è sembrato che fosse in corso un casting per un talent televisivo (ops, politico!) dove naturalemente non contavavano nè capacità, nè competenza, né tanto meno onorabilità e autorevolezza. Eppure, non mancano queste doti in tante personalità che hanno reso – e rendono ancora – tanto lustro al Paese con il proprio impegno quotidiano, con la loro storia, la serietà e la specchiata onestà, non solo intellettuale. Basta un nome per tutti, Gianni Letta, gran cerimoniere di Stato, che Berlusconi poteva indicare spiazzando tutti sapendo di incontrare un consenso trasversale e soprattutto di non trovare alcun tipo di veto.

Berlusconi, in ospedale “ufficialmente” per un controllo (ma temiamo che la cosa sia molto più seria) ha rinunciato alla candidatura, rinunciando persino a fare il king maker, ruolo lasciato in mano al “pasticcione” Salvini che non l’ha saputo svolgere nella maniera adeguata.

A tarda sera le dichiarazioni “domani avremo il Presidente” si sono susseguite (ma nessuno ha spiegato a quale domani si riferisse) e le quotazioni dell’attuale “capa” degli 007 nostrani – Elisabetta Belloni – sono salite alle stelle, soprattutto dopo il tweet di Beppe Grillo (“Benvenuta signora Italia, ti aspettavamo”). Con tutta la stima per la dott.ssa Belloni che ha un curriculum eccezionale, è il metodo che svilisce l’istituzione e dileggia la sacralità del voto per il nuovo Capo dello Stato. Dove sono i leader o presunti tali?  Conte mostra di non essere in grado di guidare se non pochi “smarriti” in cerca di un’identità mai veramente avuta; Enrico Letta rivela la sua incapacità di gestire un partito con una storia gigantesca alle spalle e si “prostra” ai grillini (presunti, ex, e via dicendo) senza essere in grado di individuare, proporre e – perché no? – imporre una personalità di area, non viziata da partigianerie partitiche. E infine, Matteo Renzi, ex enfant prodige del 42% finito a percentuali ridicole, tradisce una debolezza che non trova alcun “ricostituente” in grado di ridare brio e forza a qualche buona idea politica. 

In questo scenario, forse oggi avremo la prima donna al Colle (auguri anticipati dott.ssa Belloni!), ma non mi fiderei. Neanche all’evidenza di una soluzione di compromesso maldigerita a tutte le latitudini, ci sarà chi porrà questioni di opportunità sul mandare al Quirinale il responsabile dell’Intelligence, pur di seminare nuova zizzania e mantenere il caos. A quale fine, lo scopriremo solo vivendo. Ricordiamoci, però, che sono a rischio la governabilità e soprattutto la reputazione del nostro Paese. 

Quirinale: altra fumata nera. L’ultima chance di Draghi e l’exit-strategy da manuale

di SANTO STRATI – Dopo una seconda, infruttuosa giornata di voto per il Quirinale, caratterizzata da frenetici incontri, resta solo oggi alla nostra classe politica per salvare la faccia e onorare adeguatamente Draghi. Il premier non ha mai fatto mistero di una (legittima) aspirazione di andare al Colle, ma ugualmente non ne ha fatto una ragione di vita. Adesso si trova davanti a una drammatica realtà: se viene eletto oggi con i numeri della sua maggioranza, le due fumate nere verranno classificate come prove generali per trovare l’intesa, e il trasloco al Colle gli consentirebbe di indicare agevolmente il suo successore per portare il governo fino al termine della legislatura. Se, invece – come purtroppo sembra – non ci sono margini di manovra e – vergognosamente – una maggioranza all’apparenza coesa non riesce a trovare un punto di incontro che travalichi i nomi e dia serenità agli italiani (di cui hanno tanto bisogno), il premier Draghi dovrà superare se stesso adottando una exit strategy da manuale: si tira fuori dalla competizione e si prende, senza che alcuno possa contestarglielo, il ruolo di king maker, suggerendo lui alla “sua” maggioranza chi votare. In questa maniera darebbe scacco matto a tutti, portando a termine la legislatura con un presidente (da lui indicato) e potrebbe con tutta tranquillità preparare il suo arrivo al Quirinale dopo le elezioni della prossima primavera.

Il rischio più grande, in questo momento, è che l’inesistenza della maggioranza (di fatto acclarata, giorno dopo giorno e confermata dalla mancanza di qualsiasi intesa per il voto al Quirinale) determini la brusca e repentina fine del Governo con tutte le conseguenze nefaste che potrebbero arrivare. Al di là della drammatica situazione della pandemia e della crisi economica che sconsiglierebbero qualsiasi avventurismo politico in questo momento, l’unica soluzione all’orizzonte sarebbe lo scioglimento anticipato delle Camere e nuove elezioni. Il nuovo presidente della Repubblica (malvotato da una maggioranza inesistente) avrebbe da subito una brutta gatta da pelare.

Secondo il nostro modesto parere, Draghi ha ben chiara la situazione che si sta delineando. L’alibi di Berlusconi con lo spauracchio della destabilizzazione non ha retto neanche un istante dopo il ritiro della candidatura dell’ex premier, rivelando non solo la debolezza di una sinistra succube di un evaporato (forse meglio dire inesistente) Movimento 5 Stelle alla disperata ricerca di un’identità, ma anche le lacerazioni che esistono nell’area di centro-destra. L’unica che effettivamente vuole Draghi al Quirinale è Giorgia Meloni perché rientra nella sua logica di primazia rispetto alla Lega: secondo la leader di Fratelli d’Italia, con Draghi al Colle il Governo cade subito e si va a votare. In questo momento di vento favorevole ai danni di Salvini e dei resti in dissoluzione di Forza Italia, la Giorgia non rischierebbe di non guadagnare voti e posizioni da primo partito. In fondo, il suo obiettivo è fare la Presidente del Consiglio, ma la sua visione del mondo è troppo ristretta e confusa (come la mettiamo con le sue posizioni antieuropeiste?) per poter anche minimamente immaginare di conquistare gli italiani schifati da questo modo di fare politica? Senza contare la disperazione dei tantissimi onorevoli “disoccupati” che il nuovo Parlamento lascerà fuori del Palazzo.

A fronte di una situazione che sta facendo venire il voltastomaco a mezza Italia, ci sono dunque due soluzioni immaginabili. La prima vede Draghi eletto oggi a pieni voti, con la conferma di una maggioranza (apparentemente) coesa che ha voglia di mantenere in piedi il governo, con un sostituto del premier capace di traghettare fino al voto questa legislatura; l’altra, richiede il polso fermo del premier che si tira fuori e fa il king maker. Qualcuno storcerebbe il naso perché secondo la Costituzione non è il capo del Governo che sceglie il Capo dello Stato (bensì il contrario), ma la situazione è talmente drammatica che diviene difficile far prevalere presunti maldipancia costituzionali. Draghi in questo modo fotte tutti (scusate l’anglicismo): quelli che aspirano a fare i franchi tiratori e impallinarlo, delegittimandolo persino nel ruolo di capo del Governo (quale governo se non c’è una maggioranza?) e quelli che lo spingono a forzare la mano e accettare il minimo sindacale di un voto raccogliticcio quando sulla carta ci dovrebbero essere (escludendo Fratelli d’Italia e altri “dissidenti”) 900 voti della maggioranza che tiene in vita il governo. È una scelta difficile, ma chi è leader, per davvero, non ha mai cose facili a cui trovare soluzione. (s)

Fumata nera per il Quirinale: prevalgono le schede bianche (672) al primo scrutinio

Come era prevedibile, data la mancanza della pur minima intesa tra la maggioranza di governo, la prima giornata di voto al Quirinale ha visto il trionfo delle schede bianche. In una misura più che sufficiente per eleggere al primo colpo il nuovo presidente: difatti, le schede bianche sono state 672 e cioè esattamente il quorum richiesto per validare l’elezione. 

La realtà è che manca ancora la convergenza su un nome che sia “gradito” a centrodestra e centrosinistra. La sensazione è che, a questo punto, bisognerà attendere giovedì, quando il quorum scenderà a 505 voti, per vedere una probabile intesa che possa permettere di eleggere il nuovo capo dello Stato senza ulteriori ed estenuanti sedute di voto. Oggi si rivota, con il quorum minimo richiesto di 672 voti per l’elezione.  (rp)

Quirinale, la politica nel caos totale: più veti che voti

Alle 15 di oggi si aprono le votazioni per l’elezione del nuovo Presidente della Repubblica. Dopo la rinuncia alla candidatura da parte di Berlusconi per la politica italiana le cose si sono ulteriormente complicate: non c’è alcun segnale di intesa tra le forze politiche della maggioranza e la girandola dei papabili segue più umori personali dei leader piuttosto che ragionamenti in chiave politica. Il fatto è che ci sono più veti che voti sui singoli candidati e, naturalmente, non emerge una personalità in grado da convogliare le preferenze del 1009 grandi elettori già dalla prima votazione. Si poteva immaginare che, data l’eterogeneità trasversale della componente governativa, non fosse difficile trovare un punto di incontro in grado di mostrare la tenuta dell’esecutivo, invece non c’è – a quanto pare – alcuna volontà di arrivare a un risultato concreto in breve tempo. Bisognerà, quasi sicuramente, aspettare giovedì, quando il quorum si abbasserà a 505 voti per trovare la maggioranza in grado di esprimere il nuovo Presidente.

Votano 1008* grandi elettori così distribuiti: 629 deputati*, 315 senatori, 6 senatori a vita, 58 rappresentanti della Regioni. Questa la rappresentanza politica in termini numerici in ordine di grandezza:

Movimento 5 Stelle – 236 (74 senatori – 158 deputati – 4 delegati regionali)
Lega – 212 (64 senatori – 133 deputati – 15 delegati regionali)Quiri
Partito Democratico – 135 (39 senatori – 95 deputati – 20 delegati regionali)
Forza Italia-Udc  – 139* ((50 senatori – 78 deputati – 11 delegati regionali)
Fratelli d’Italia – 63 (21 senatori – 37 deputati – 5 delegati regionali)
Gruppo Misto – 47 (24 senatori – 23 deputati)
Italia Viva – 44 (15 senatori – 29 deputati)
Coraggio Italia  – Idea Cambiamo – 32 (9 senatori – 22 deputati – 1 delegato regionale)
Liberi e uguali – 18 (6 senatori – 12 deputati)
Alternativa c’è – 18 (2 senatori – 16 deputati)
Centro Democratico – 6 (6 deputati)
Noi con l’Italia – 5 (5 deputati)
Azione +Europa – 5 (2 senatori – 3 deputati)
Maie –2  (1 senatore – 1 deputato)
Minoranze linguistiche – 10 (4 senatori – 4 deputati – 2 delegati regionali)

Altri senatori – 4 (Gruppo Autonomie: Gianclaudio Bressa e Pier Ferdinando Casini; ex Iv: Leonardo Grimani, ex Lega: Rosellina Sbrana)

Altri deputati – 7 (ex FI: Giusi Bartolozzi, Stefano Benigni, Claudio Pedrazzini; ex Leu: Michela Rostan, Rosella Muroni; circoscrizione estera ex pd: Fausto Longo; ex +Europa: Alessandro Fusacchia)

Senatori a vita – 6 (Giorgio Napolitano, Mario Monti, Elena Cattaneo, Renzo Piano, Carlo Rubbia, Liliana Segre).

Delegati regionali centro destra: 34

Delegati regionali di centro-sinistra: 24

In totale, numericamente parlando, il centro destra conta 45o voti , il centrosinistra 407. L’area centro può contare su 57 voti. Il quorum dei primi tre scrutini è 675 voti, dal quarto sono sufficienti 505 voti. Per consuetudine i Presidenti di Camera e Senato non votano.

*Ai 1009 elettori viene a mancare il deputato Vincenzo Fasano di Forza Italia morto ieri, alla vigilia dell’apertura delle elezioni di voto.  (rrm)

Quirinale: la rinuncia di Berlusconi riapre tutti i tavoli per il Presidente

di SANTO STRATI – Alla fine ha prevalso il buonsenso: Silvio Berlusconi ha sciolto definitivamente la riserva sulla sua candidatura e ieri sera ha comunicato che rinuncia a candidarsi alla Presidenza della Repubblica. Una scelta sicuramente sofferta, vista l’ambizione mai nascosta di poter conquistare il Colle, ma non ci sono i numeri e, probabilmente, una schiera di franchi tiratori (anche all’interno della coalizione di centro-destra) avrebbe fatto il resto, ossia una cocente sconfitta che avrebbe definitivamente fatto uscire di scena l’ex premier. Il quale, invece, con questa mossa spiazza il centrosinistra che, improvvisamente non ha più l’alibi del personaggio “scomodo e impresentabile” e si ritrova in grande affanno a proporre un qualsiasi nome che non rischi di venire impallinato come accadde per Franco Marini, prima, e Romano Prodi poi.

La verità è che il centrosinistra è oggi ancor più spiazzato anche a proporre Draghi, trovando sacche di resistenza nei Cinque Stelle di Governo che non nascondono il proprio rifiuto totale a sostenere l’attuale Presidente del Consiglio per farlo diventare il nuovo inquilino del Quirinale.

La cosa che più brucia e che gli italiani non riescono a digerire è che una maggioranza “Ursula” (trasversale, come quella che ha eletto la presidente della Commissione Europea), ovvero quasi completa negli schieramenti, ad eccezione dei Fratelli di Georgia Meloni, non riesca a mettersi attorno a un tavolo e “pescare” un nome condiviso, che sia di alto spessore e qualifichi ulteriormente la funzione di Presidente a fronte di una crisi, tra pandemia ed economia ballerina, che non si sa come andrà a finire.

La soluzione meno indolore (tranne che per Mattarella che ha già fatto gli scatoloni e ha detto chiaramente di non essere disponibile a un bis, anche se “a tempo” – modalità peraltro non prevista dalla Costituzione) sarebbe quella di mantenere – stante la pandemia, i problemi economici del Paese e le scadenze obbligate del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza – lo status quo. Ovvero un bis di Mattarella e il premier Draghi che porta a termine la legislatura, continuando a farsi garante di fronte all’Europa e al mondo della solidità del Governo italiano e del mantenimento degli impegni assunti.

Ma è una soluzione troppo facile, troppo semplice e, comunque, si scontra con un preciso e risoluto rifiuto di Mattarella a proseguire nel mandato.

Come se ne esce? Troppi nomi si stanno accavallando, secondo la più vieta prassi partitica che vuole far pesare la propria parte, infischiandosene degli interessi reali del Paese. Ci vorrebbe un atto di coraggio, cominciando dalle prime ore di oggi e andando a oltranza fino a tarda notte, senza fermarsi se non dopo aver raggiunto un accordo definitivo che spazzi via le incertezze e la debolezza di una classe politica che mostra, ogni giorno di più, la propria inadeguatezza e la totale “incompetenza” nel gestire il rapporto con i cittadini. I quali – sia chiaro – non accettano più di essere presi in giro o, peggio, di venire stritolati da logiche di partito inaccettabili data la gravità della situazione.

Inutile fare nomi, anche se è facile prevedere che a questo punto Berlusconi vorrà riprendere in mano il boccino e svolgere il ruolo di king maker, sottraendolo all’ingenuo Salvini che già pensava di essere quello che, alla fine decide. 

Deciderà, ancora una volta, Berlusconi e se la scelta non dovesse cadere su Draghi (soluzione molto probabile), l’unico personaggio in grado di risultare gradito a destra e a sinistra è Gianni Letta. Gentleman e uomo di Palazzo, gran cardinale Richelieu della politica italiana da oltre 50 anni, personalità di grande prestigio, a caratura internazionale.

Letta (senior) si schermisce portando avanti il problema dell’età (quest’anno compie 87 anni), ma in realtà ha la lucidità e la  brillantezza che non hanno molti cinquantenni. La notte porterà consiglio? Gli italiani, ci sperano. (s)

Auddino (M5S): Proposta di legge per non far riconoscere i voti al Quirinale

Il sen. Giuseppe Auddino (M5S) ha portato lo scorso 7 gennaio all’attenzione della Camera dei Deputati la sua proposta di leggere le preferenze espresse in occasione dello scrutinio dei voti per l’elezione del Presidente della Repubblica in una modalità univoca.

«La mia proposta – ha detto il sen. Auddino – prevede che le preferenze vengano lette dal Presidente della Camera secondo l’ordine nome e cognome, indipendentemente da come la preferenza del candidato è stata espressa nella scheda. Tutto ciò per impedire la riconoscibilità delle schede.

Il mio scopo è quello di evitare che i gruppi politici controllino i voti dei parlamentari attraverso la modalità in cui la preferenza è stata espressa: nome e cognome o viceversa, nome puntato e cognome, eventuali appellativi, abbreviazioni, ecc…, segni di riconoscimento del voto che di fatto ne inficiano la segretezza e la libertà dei grandi elettori.

Sono soddisfatto che il Presidente Fico in queste ore stia valutando di adottare un’unica modalità di lettura del voto, univoca ed uguale per tutti. L’elezione del Presidente della Repubblica rappresenta una scelta importantissima per il Paese e dobbiamo far sì che ogni grande elettore voti nella piena libertà, secondo la propria coscienza ed il proprio senso di responsabilità». (rp)

BENVENUTO 2022: L’ANNO DEL PRESIDENTE
MATTARELLA BIS, DRAGHI O GIANNI LETTA?

di SANTO STRATI – Comincia un altro difficile anno, con le fosche nubi di un contagio che appare irrefrenabile, anche se, grazie al cielo, i decessi sono limitati rispetto ai numeri che abbiamo patito nel 2020. Ma non sarà la pandemia al centro dell’attenzione e del dibattito politico. È l’anno del nuovo inquilino (o resta il vecchio?) del Quirinale e questo scenario sovrasta su tutto, persino sull’emergenza. Chi sarà il futuro presidente? La particolarità del momento tra pandemia e affannoso impegno per inseguire la ripresa non lascia spazio a grandi colpi di scena e i calabresi, come il resto dell’Italia, che ieri sera aspettavano un segnale di disponibilità da parte del presidente uscente non sono rimasti delusi, bensì si ritrovano ancor più confusi dall’incapacità della politica di trovare un punto d’incontro per una scelta condivisa. La politica, quella che stiamo vivendo in questi anni fa rimpiangere i grandi personaggi che, tra chiaro e scuro, hanno lasciato un segno tangibile di cosa significava autorevolezza, capacità di essere leader, visione ampia e consapevolezza del ruolo. Le tristi ombre degli attuali comprimari della politica sono lontani anni luce dai protagonisti della prima repubblica, ma soprattutto dimostrano l’assoluta incapacità di accettare la sfida della politica, quella nobile che appassiona il popolo e fa crescere il Paese. E sottolinea l’insignificante pochezza di quelli che non sono stati in grado di formarsi, con umiltà, studiando il passato, analizzando il presente, immaginando il futuro. Tutto ciò – è sotto gli occhi di tutti – non c’è, non ci sono protagonisti, salvo piccolissime eccezioni e gli italiani sono sfiduciati e avviliti da questa non-politica.

In questo quadro sconfortante difficile individuare scelte condivise per il nuovo presidente della Repubblica. Già è facile prevedere uno scontro fra le parti (e i partiti) del quale gli italiani farebbero volentieri a meno, visto che le posizioni per una candidatura non divisiva appaiono ingestibili. La soluzione più pratica e più efficace ci sarebbe: un Mattarella-bis che mantenga lo status quo del governo a guida Draghi fino alla naturale fine della legislatura (maggio 2023). Ma è una soluzione talmente semplice che non trova spazio tra i politici che affermano con finta convinzione che Mattarella ha detto chiaramente che non vuole un secondo mandato. Ma secondo voi, ammesso che Mattarella, nel suo ammirevole aplomb, avesse in cuor suo una pur piccolissima idea di accettare un bis in nome della stabilità irrinunciabile visto il momento difficilissimo della pandemia, lo verrebbe a dire a tutti prima della convocazione elettorale per il Quirinale? Conoscendo il personaggio, la sua naturale modestia, neanche sotto tortura direbbe in anticipo «accetto per amor di patria». Nè tanto meno non poteva non dare il suo commiato agli italiani nel messaggio di ieri sera, lasciando intendere che ha già pronte le valigie… Del resto, ricordiamolo bene che al Quirinale non ci si candida, ma si viene candidati.

Il momento, però, è terribile: è a rischio la tenuta del Governo (se Draghi dovesse diventare Capo dello Stato) perché verrebbe meno il collante che l’ex presidente Bce sa esercitare e che ha mostrato di saper utilizzare. Ma Draghi ha chiesto di diventare Presidente della Repubblica? Ad ascoltare bene le sue parole nella conferenza di fine anno, solo i più maliziosi (o in malafede) sono riusciti a leggere questo desiderio che, al momento appare più facilmente procrastinabile a fine mandato, a fine legislatura. Senza contare l’inghippo istituzionale che si andrebbe a verificare con uno spostamento di Palazzo. Draghi sta svolgendo più che egregiamente il suo compito, gode della stima incondizionata di tutto il mondo e ha più “nemici” tra i banchi della sua maggioranza che nel resto dell’opposizione (quella modesta e inoffensiva di Giorgia Meloni e quella quotidiana e perfida di Marco Travaglio). Però, può completare il mandato e aspirare, legittimamente, a chiudere la sua “carriera” al vertice al Paese, senza potere politico, ma con l’onore straordinario del ruolo di Capo dello Stato.

Quindi, la soluzione più naturale sarebbe una preghiera corale (unitaria) delle Camere e dei grandi elettori a Mattarella ad accettare un secondo mandato, che sarebbe comunque a tempo: al rinnovo del Parlamento con le Camere stravolte dal referendum che ha ridotto i loro componenti, sembrerebbe il minimo che il Presidente eletto da una maggioranza ben diversa (anche numericamente) da quella nuova rassegnasse le dimissioni, affidando alle nuove (striminzite) Camere l’onere di eleggere un nuovo Capo dello Stato. E questo suggerimento (o auspicio) vale sia per Mattarella che per chiunque vada al Quirinale. Si dirà: non è la prima volta che il Presidente in carica sia espressione di una maggioranza che magari non c’è più, ma in questo caso c’è una composizione nuova (e decisamente anomala, ma votata per legge) del Parlamento e i numeri non sarebbero più gli stessi in ogni caso.

E fin qui abbiamo parlato di status quo, ma c’è l’incognita Berlusconi che spareggia la “soluzione semplice” del bis. L’ex cavaliere sogna di diventare presidente e i suoi non fanno altro che sostenere l’impossibile desiderio, facendo i conti sui franchi tiratori (a favore) ma trascurando quelli del fuoco amico. Berlusconi è un personaggio che, al di là delle ingiustificabili e inappropriate “attività personali” (per le quali non c’è assoluzione alcuna, moralmente parlando), ha lasciato un segno profondo negli ultimi trent’anni. Voler percorrere a tutti i costi l’elezione quirinalizia nasconde un rischio gigantesco che, a ben vedere, Berlusconi dovrebbe evitare di correre. Una bocciatura alla quarta votazione (dove basta la maggioranza semplice, che comunque non avrebbe) decreterebbe non solo la sua fine politica ma soprattutto cancellerebbe completamente anche quel poco, pochissimo?, di buono che ha seminato durante i suoi governi. Una bocciatura equivarrebbe a una macchia insopportabile per un uomo di 85 anni che ha sempre mostrato di avere il vizio di vincere (pur con qualche indigesta sconfitta). E allora? Dovrebbe dare ascolto ai suoi veri amici (pochi per la verità) e rinunciare facendo però la mossa vincente che lo riconsegnerebbe agli altari della gloria (?) politica. La sua rinuncia in cambio di una designazione che nessuno potrebbe mai contestare e che Berlusconi potrebbe agevolmente intestarsi. Chi è, nell’attuale scenario della politica italiana, il personaggio che trasversalmente gode dell’incondizionata stima di destra, sinistra, centro? È Gianni Letta, il Richelieu della politica italiana, gran conoscitore della macchina dello Stato, personalità di specchiata onestà, figura emblematica e rappresentativa, al meglio, del popolo italiano.

Berlusconi avrebbe delle ottime motivazioni per rinunciare, a partire dall’età e dalla salute da qualche tempo alquanto precaria, quindi una rinuncia per “motivi di salute” non sarebbe una resa. Anzi lo aiuterebbe a ricostruirsi (si fa per dire) la reputazione perduta per la scappatelle sessuali. E la designazione del suo “delfino” potrebbe trovare una convergenza unitaria già alla prima “chiama” del voto quirinalizio. Anche Letta ha un’età (86 anni) e il suo mandato non a termine, troverebbe comunque una corretta fine dopo l’elezione del nuovo Parlamento “ridotto” che potrebbe eleggere il nuovo Presidente (Draghi?). All’attuale premier converrebbe completare il mandato fino a fine legislatura. Ne guadagnerebbero gli italiani, gli sarebbe grato il Paese. E sarebbe il candidato insostituibile per la Presidenza del dopo elezioni del 2023. Non è fantascienza politica, ma un semplice ragionamento che molti italiani, crediamo, potrebbero condividere. Ma in Italia, si sa, le soluzioni pratiche sono evitate come la peste e l’«ufficio complicazione affari semplici» (Ucas) non va mai in ferie. Buon anno a tutti. (s)

Il Presidente Mattarella riceve i vertici dell’Istituto Calabrese per la Storia dell’Antifascismo e dell’Italia Contemporanea

di PINO NANO –  «La Calabria ha avuto grandi Padri costituenti». Con queste parole il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha accolto al Quirinale la delegazione dell’Istituto Calabrese per la Storia dell’Antifascismo e dell’Italia Contemporanea (Icsaic), che gli ha fatto dono del volume I calabresi all’Assemblea Costituente, a cura di Vittorio Cappelli e Paolo Palma, edito per l’Icsaic da Rubbettino.

La delegazione era composta oltre che dal Presidente Palma e dal Direttore Cappelli, dall’ex Presidente dell’Istituto, il giornalista Pantaleone Sergi storico inviato speciale della Repubblica e autore di decine di saggi sulla stampa d’oltre confine. 

Paolo Palma ha ringraziato il Presidente Mattarella per l’udienza concessa e ha illustrato la ricerca che ha impegnato diversi soci dell’Icsaic e alcuni specialisti esterni sulle biografie dei ventiquattro costituenti calabresi e sui lavori parlamentari che fotografano la  Calabria del tempo: le mulattiere, i tuguri, le condizioni primitive della povera gente, i signori del latifondo, l’occupazione delle terre, i tumulti del pane; e malaria, tubercolosi, ferrovie insicure, reti idriche ed elettriche fatiscenti e carenti. 

La delegazione dell’Icsaic è stata poi ricevuta a Palazzo Montecitorio dal Presidente della Camera dei Deputati Roberto Fico, al quale ha fatto dono dello stesso volume. Il Presidente Fico ha espresso apprezzamento per il lavoro svolto dall’Istituto e ha sottolineato l’importanza del ruolo che la Calabria e il Mezzogiorno hanno svolto nell’edificazione delle istituzioni repubblicane.

Veniamo ora alla storia dell’Istituto, che è una delle eccellenze del panorama storico e culturale calabrese e che probabilmente in passato avrebbe meritato maggiore attenzione e aiuti concreti da parte della politica.

L’Istituto calabrese per la storia dell’antifascismo e dell’Italia contemporanea, fondato il 12 aprile 1983, operante nell’intera regione, ha la sua sede ufficiale presso la Biblioteca “Ezio Tarantelli” dell’Università della Calabria. Esso è associato all’Istituto nazionale Ferruccio Parri. Rete degli istituti per la Storia della Resistenza e dell’età contemporanea.

«L’attiva adesione alla rete – si legge sul sito dell’Icsaic –permette all’Istituto Calabrese di essere inserito in un organismo di ricerca di livello nazionale ed europeo, ricevendone interessanti sollecitazioni e non mancando di far conoscere i numerosi aspetti positivi che la Calabria ha offerto – ed ancora oggi offre – attraverso la riscoperta di una storia interessante e attraverso gli attuali circuiti culturali».

Molto più concretamente, l’attività dell’Icsaic si manifesta in un’intensa opera di ricerca, riflessione e divulgazione sulla storia contemporanea della Calabria e sui nuovi temi della didattica della storia e si svolge lungo quattro direttrici: la ricerca storica, la conservazione del materiale documentario, la divulgazione dell’attività, la didattica della storia, che vede l’Istituto in posizione di avanguardia rispetto alle tematiche didattiche proposte a livello nazionale ed europeo, grazie ai rapporti intrattenuti con la Commissione per la didattica della storia dell’Insmli e con il Laboratorio nazionale per la didattica della storia (LANDIS) di Bologna.

In che modo si muove l’Istituto? 

Gli strumenti, in dotazione all’Istituto, per la sua opera di documentazione e di diffusione- spiegano i vertici ICSAIC- sono: la “Collana di studi e ricerche”; la “Collana di testimonianze: La memoria e la storia”; i Quaderni dell’ICSAIC; la collana “Prime edizioni”; il “Bollettino dell’Istituto (1985-1996);la “Rivista Calabrese di storia contemporanea” (1998);la “Rivista Calabrese di Storia del ‘900” (2005);le borse di studio e i premi di incentivazione indirizzati alla comunità scolastica per favorire la conoscenza della realtà storica regionale

Ma ci sono anche i seminari di aggiornamento sulle nuove tematiche della didattica della storia, per gli insegnanti di ogni ordine e grado di scuola della regione; le conferenze e i dibattiti – anche con proiezione di filmati – rivolti agli studenti sui temi della storia del ‘900 e in particolare sul passaggio alla democrazia. E anche -novità questa di grande valore culturale- la realizzazione di filmati su particolari aspetti della storia contemporanea calabrese.

Qualche titolo soltanto: La Calabria dal fascismo alla Repubblica realizzato in collaborazione con il Centro Radio-televisivo dell’Università della Calabria; “Fausto Gullo: un comunista calabrese” realizzato in collaborazione con la sede Regionale della RAI; interviste a personalità della storia calabrese e video-presentazioni di libri prodotte in collaborazione con emittenti televisive locali.

Infine, la biblioteca e l’emeroteca, specializzate nella storia della Resistenza, dell’antifascismo e della Calabria, e ricche di numerosi volumi e testate e, in particolare, i fondi Perruso e Commisso; e l’archivio cartaceo, video, fonico, con preziose testimonianze originali della storia contemporanea calabrese. 

Paolo Palma, Vittorio Cappelli e Pantaleone Sergi parlano al Presidente Roberto Fico dei fondi di grande interesse storico di cui gode l’Istituto, quello della Federazione Provinciale del PCI di Cosenza (1943-1980); della Federazione Regionale del PSI (1970-1992); di Paolo Cinanni; Florindo De Luca, Nicola Lombardi, Francesco Malgeri, Emanuele Terrana, eminenti personalità politiche calabresi; e poi ancora Nina Rotstein, internata a Ferramonti, e, in fotocopia, le carte di Fausto Gullo e di Francesco e Saverio Spezzano.

Come dire? Una perla della storia calabrese e che oggi grazie a questa iniziativa ufficiale, prima al Quirinale con Sergio Mattarella, poi alla Camera con Roberto Fico, acquista una dimensione assolutamente nazionale. Lunga vita all’Icsaic.

Paolo Palma ha ringraziato il Presidente Fico per l’incontro ma anche per il contributo determinante che la Biblioteca “Nilde Iotti” della Camera dei Deputati ha dato all’Icsaic per la documentazione relativa alla stesura di alcune biografie e per la complessa organizzazione della parte antologica del volume. (rrm)