di MARIA CRISTINA GULLÍ – Sta capitando uno strano fenomeno da post-covid: la scoperta del lavoro “agile”, ovvero lo smart working da fare a casa, in remoto, o gli esami universitari in streaming, sta inducendo molti studenti e lavoratori rientrati al Sud a non ritornare in Settentrione. È un fenomeno ancora tutto da analizzare e ci sarà materia per sociologi urbani psicologi, ma la verità è che la lunga assenza dovuta al lockdown, per chi è riuscito a rientrare in famiglia in Calabria, ha fatto perdere molte delle abitudini che erano diventate routine pressoché quotidiana. Sveglia, autobus, metro, università, lavoro; baretto o schiscetta preparata in casa da consumare in solitudine o con amici, colleghi o compagni di lavoro e poi, di nuovo, lavoro (o università), metro, bus, casa. Un altro giorno con molte ore consumate sui mezzi pubblici, con pasti veloci, lo stress da grande città. Poi il confronto, la dimensione umana, sociale (anche col distanziamento) e una qualità della vita che mette, inevitabilmente, in discussione tutto ciò che si faceva prima.
Secondo una stima del Sole 24 Ore, in 20 anni a Milano sono arrivati, soprattutto dal Mezzogiorno, almeno 100mila persone che, di fatto, hanno trasferito il proprio domicilio, diventando parte integrante della città. Una grande fetta di questi residenti “meridionali”, a causa della pandemia e il blocco di università o del lavoro tradizionale in ufficio o in fabbrica è ritornata al Sud, dalla famiglia o dai parenti. Lo studio e il lavoro è continuato in modalità “agile” ovvero online, facendo scoprire a studenti e lavoratori che lo stress non era immaginario. Anzi, il ritorno al Sud ha fatto maturare in più d’uno il desiderio di restare, sfruttando le opportunità del lavoro o dello studio da remoto, inclusa la possibilità di sostenere gli esami senza recarsi all’università.
Questa “fuga” dal Nord si è tradotta in una grave perdita per le attività legate al pendolarismo: in centro, a Milano, secondo un’indagine della Epam-Confcommercio, in alcuni casi il fatturato è crollato del 75%: niente panino alla piastra al bar, niente caffè, niente pranzo coi buoni pasti al baretto. A Milano – sempre secondo la Confcommercio – prima della pandemia circolavano quasi tre milioni di persone al giorno (la città ne conta un milione e mezzo), ovvero il doppio dei suoi abitanti: oggi la città è tornata a livelli impensabili. Da un lato si circola meglio e i milanesi possono godersi la città, dall’altro questa “brutale” assenza di vita, senza gli studenti e i lavoratori fuori sede, ha innescato un meccanismo a catena: nei bar non va quasi più nessuno, ad esempio, a consumare il pasto della pausa pranzo, i locali lavorano al 30% e non offrono, tanto per fare un esempio, quelle opportunità di impiego temporaneo (camerieri ai tavoli, lavapiatti, barman) che consentivano a molti studenti fuori sede di raggranellare qualche soldo ai sempre insufficiente denaro che arrivavano da casa. Niente. Stop. La ristorazione è il segmento maggiormente colpito: bar, ristoranti e pizzerie lavorano poco e non offrono più lavoro.
In questo quadro, la decisione più ovvia per uno studente fuori sede che non può frequentare l’università (avevano riaperto le discoteche ma sono rimasti chiusi atenei e biblioteche!) è stata quella di lasciare l’appartamentino in affitto condiviso con altri tre o quattro amici-colleghi e tornare al Sud. In famiglia. E oggi matura l’altra decisione, ancora più ovvia, quella di restarci. Si studia e si lavora da casa perché rovinarsi la vita sui mezzi pubblici, tra inquinamento atmosferico, traffico e clima non certo entusiasmante per chi è nato al Sud?
Uno studio americano del National Bureau of Economic Research (Nber) di qualche mese fa ha indicato un mutamento nello stile di vita almeno per il 40% della popolazione Usa, con analoga percentuale nel modo di fare impresa. Questo significa che se è vero niente sarà più come prima, lo smart working costringerà a fare valutazioni ad ampio spettro per i cambiamenti che il post-covid porterà ad adottare.
In altri termini, restando in Italia, si sta capovolgendo la fuga verso il Nord, industriale e ricco, trasformandosi in un ritorno a casa. Succederà, presumibilmente, anche per i cosiddetti cervelli in fuga: le opportunità del telelavoro non sono state completamente vagliate nella maniera adeguata, c’è il rischio di diventare workaholic, cioè succubi e dipendenti del proprio lavoro nell’impossibilità di darsi regole e pianificazione, o di lavorare troppo poco, col rischio di ritrovarsi una mail di licenziamento sullo stesso strumento di lavoro, magari messo a disposizione dalla propria azienda. Anche qui si tratta di sperimentare abitudini e regole comportamentali, col rispetto di obblighi e doveri e, naturalmente, l’osservanza – da parte delle aziende – di tutti i diritti del lavoratore.
In poche parole, l’economia del Paese dovrà fare i conti nel post-pandemia con le opportunità dello smart working e le decine di migliaia che decideranno di non tornare al Nord investiranno parte dei loro compensi in casa propria. Soffrirà l’economia reale del Settentrione, ma contemporaneamente ci saranno benefici per il Sud. Il nuovo slogan sarà dunque South Working, ossia lavorare da Sud. E una buona premessa per avviare intelligenti strategie di crescita e sviluppo per la Calabria e tutto il Mezzogiorno. (mcg)