“Evasioni d’amore” di Santo Gioffrè

di ELISA CHIRIANOCinque racconti che si leggono come un romanzo corale, perché il collante è il Sud, la sua storia e il legame ancestrale con gli uomini e le donne che lo hanno abitato o che lo abitano ancora, in un abbraccio a volte struggente, a volte risorgivo. Cinque racconti, così diversi, eppure incastrati come le tessere policrome di un mosaico e modellati uno per uno come le ceramiche di Seminara (RC), che esprimono un passato che, grazie a loro, continua a esistere. Cinque racconti che veicolano una tradizione fitta di misteri, che si tramanda nei secoli e che ancora oggi fa vibrare l‘anima, ma anche pagine di vite ricucite e di Storia ritrovata.

Santo Gioffrè attraversa il labirinto dei propri ricordi e scatta istantanee a cui dà voce. Esistenze segnate dalla fatica, dal desiderio del riscatto e dalla forza tenace dell’amore si intrecciano a memorie, paure ancestrali nella terra del Sud Italia, mentre infuria la guerra che svuota le case e frantuma le speranze. L’autore ci regala un paesaggio eterogeneo ed enigmatico: l’animo umano con i suoi abissi e le increspature, tra i sussulti di una quotidianità errante. Riesce a portarci in atmosfere antiche e spesso aspre con precisione e cura del dettaglio, delineando l’affresco di un’umanità che merita di essere narrata.  La Storia si intreccia alla vita intima, tra aneddoti, scelte e fragilità, passato e presente, tradizione e modernità. Alla fine, resta la parola, l’oggetto estremo su cui fare convergere le tensioni dell’impotenza. Essa si pone come il tramite diretto tra l’uomo e la realtà. Raccontare è ricucire le diverse dimensioni di sé, ma anche intrecciare l’autobiografia con la Storia, perché l’unicità è partecipazione a un tutto che è variegato, plurale, collettivo. Raccontare è dare senso a ciò che accade, legando singolare e universale, per comprendere, valutare, agire. Le storie cambiano il mondo e lo fanno nella maniera più forte e nella forma più intima, in modo silenzioso, depositandosi nel luogo più profondo e protetto della nostra anima e da lì, lentamente, cambiandoci per sempre. Il racconto permette di sentire la compiutezza di un momento. Procede per sottrazione, eppure sortisce l’effetto della moltiplicazione, genera un effetto di significazione su più livelli, che coesistono e si incontrano per poi percorrere anche strade completamente differenti. Scrivere è scegliere tra quanto di più raro c’è nell’universo e di più caro c’è nel nostro animo. 

Un libro di memoria, dunque, per far memoria ricordando, perché, come sosteneva Platone, ogni sapere è reminiscenza. Ma “Evasioni d’amore” è anche un romanzo storico, genere letterario difficile e molto amato da Santo Gioffrè, che si dimostra attento alla ricerca delle fonti e allo studio fedele dei documenti. La fantasia è complementare, arricchisce e rende affascinanti le vicende, ma deve essere bene incasellata nelle fasi storiche e non può oltrepassarle, altrimenti non sarebbe credibile. Proprio questo passaggio rappresenta la difficoltà maggiore dello scrivere romanzi storici. I punti vuoti vengono riempiti dalla finzione letteraria, che vuol dire restare fedele ai fatti, attenersi ad essi.  Ciò che è invenzione, quindi, sembra talmente vero da rendere autentica la narrazione.  

Evasioni d’amore è un’opera corale con persone-personaggi che si alternano, dando vita a un’esperienza tragica, a volte nostalgica, a volte sottilmente ironica, come un quadro d’autore. Si avvicendano figure scomposte come frattali fatti a mille piani e altrettante sfaccettature, fra un indefinito sé e un indefinito altro, che stanno in bilico tra due infiniti: il nulla e il tutto. Del resto, annota l’autore, «siamo scomposti nelle parti, mangiati dalla terra da cui veniamo, anneriti da antri e camini sotterranei nei quali i dolori che ci aggrediscono e dai quali vogliamo riemergere ci fanno smarrire».

Un modo concreto, plastico, in cui ciò che ha valore universale diventa vero per ciascuno, attraverso immagini legate alla vita, che aiutano a leggerla in una prospettiva più ampia. Vite come canne al vento, in balìa degli eventi e degli accadimenti, fragili in natura, ma anche alla ricerca del senso dell’esistenza e condannate a non trovarlo. Il lettore incontrerà il dramma della guerra ingiusta e feroce; donne con la fame d’aria per i mariti al fronte; figli che non tornano a casa e, se tornano, non trovano i fratelli e i genitori; paesi che si svuotano e agrari che ingaggiano i primi mafiosi; le malattie endemiche, la tubercolosi, la spagnola, la povertà; il furto delle sacre vacche e la ricostruzione della storia della Calabria dalla fine dell’ottocento al 1950 con curiosità e aneddoti su cui accendere dibattiti e confronti; il tragico amore che legò il musicista Giovanbattista Pergolesi alla nobile Anna Maria Spinelli, figlia del Principe di Cariati e Duca di Seminara, Scipione III Spinelli; la storia dell’amicizia tra Santo Gioffrè e Lucio Dalla e pagine autobiografiche che commuovono. L’autore racconta la sua infanzia; descrive luoghi, persone e situazioni, come la depressione post partum di sua madre, che «Passava da uno stato di relazioni normali ad un repentino e drammatico abbassamento del tono dell’umore. Io la vedevo raggomitolarsi e stringersi in un angolo. Notavo – scrive Gioffrè – i suoi bellissimi occhi spegnersi e il suo sguardo perso. Guardava il silenzio e ascoltava il buio […] Ma le sue periodiche crisi  mi accompagnano ancora e per sempre». Negli anni tra il 1955-57, fu ricoverata presso la casa di cura neurologica Villa Nuccia. In quel periodo, nello stesso luogo, si trovava il poeta Lorenzo Calogero

Evasioni d’amore è un libro da leggere – rileggendolo – per riflettere anche sul senso della scrittura e sul rapporto con la memoria; per riscoprire un’umanità che agisce in sordina, per sentire la compiutezza di un momento che dà importanza a delle vite altrimenti invisibili.

Cinque racconti delicati e fragili, ma anche forti e potenti, che fanno virare l’anima verso un passato che ritorna prepotentemente con la sua richiesta di riscatto e di giustizia. Sono canti necessari, anche se sovente dolorosi. Sono scatti in bianco e nero, con effetti chiaroscurali, immortalati da una penna che graffia l’anima e scalfisce equilibri precari. (ec)

A Napoli Santo Gioffrè presenta oggi il libro “Evasioni d’amore”

Oggi pomeriggio, a Napoli, alle 17.30, alla GalleriArt – Galleria Principe, sarà presentato in prima nazionale il libro Evasioni d’amore di Santo Gioffrè.

In Evasioni d’Amore Gioffrè racconta cinque nuove avvincenti storie, in cui la dolorosa memoria familiare si affianca alla rigorosa ricerca archivistica e sociale, creando un intreccio potente e demistificante che è un abbraccio complice a tutto il Sud. Gioffrè ha sintetizzato il concetto intimo e personale ma, nello stesso tempo, corale che comprende i sentimenti in cui tutte le persone del Sud si possono riconoscere ed il milieu sociale,politico,storico ed economico che le caratterizza e le ha formate e forgiate.

Il linguaggio perfettamente consono a ciascun personaggio ,chiaro, diretto e con alte punte poetiche nell’estrinsecare i sentimenti profondi e le sensazioni provate dai personaggi coinvolti… Una carrellata di personaggi che danno vita alla la narrazione, tragica ma anche alleggerita da una profonda ironia che rende scorrevole e gradevole la lettura e in cui ogni lettore, in molte situazioni, può riconoscere il proprio vissuto. Gioffrè ha voluto rendere omaggio a Napoli perché, nel primo racconto, scavando tra le carte conservate nell’archivio Storico, ha ricostruito, col piglio dello Scrittore Storico, il tragico amore che legò Giovanbattista Pergolesi e la giovanissima figlia del Principe di Cariati e Duca di Seminara, Scipione III Spinelli.

Gioffrè è medico e, da sempre, è impegnato a combattere la piaga inflitta alla sua amatissima terra dalla mafia e dal malaffare. Fu il primo, come amministratore dell’Asp di Reggio Calabria a denunciare, coniugando il termine ” contabilità orale” collusioni, speculazioni e ruberie di ogni genere all’interno delle Aziende Sanitarie Calabresi e, specificatamente, in quella di Reggio Calabria, Gioffrè è, anche, un pluripremiato scrittore a partire da suo primo romanzo Artemisia Sanchez, divenuto, poi, celebre miniserie televisiva su Rai Uno, con la partecipazione e le musiche di Lucio Dalla. (rrm)

Santo Gioffrè incontra a Roma il Patriarca di Costantinopoli: «Abbiamo parlato di Seminara»

di PINO NANOVentidue anni fa il Patriarca di Costantinopoli Padre Bartolomeo I venne in Calabria per la posa della prima pietra della Chiesa Greco Ortodossa di Seminara. A donare il terreno utile per la realizzazione di quello che allora pareva un sogno impossibile fu il medico scrittore del paese Santo Gioffrè.

22 anni dopo quel loro primo incontro il medico scrittore di Seminara Santo Gioffrè incontra di nuovo il Patriarca di Costantinopoli a Roma che gli rende gli onori della sua Chiesa per il gesto straordinariamente bello della donazione fatto ormai 22 anni fa. 

Sembra quasi una favola moderna, ma è storia di questi anni.

– Dottore, oggi per lei è un giorno importante, ma direi che lo è soprattutto per la storia dell’intera Calabria.

«Per me lo è certamente. Sono passati 22 anni da quella mattina quando Sua Santità, il Patriarca Ecumenico di Costantinopoli, Bartolomeo I, posò la prima pietra di quella che poi sarebbe divenuta la Chiesa Greco-Ortodossa dei Santi Elia e Filarete, a Seminara. Erano trascorsi 800 anni dall’ultima volta che era stata costruita una chiesa di rito greco, prima che gli Angioni bandissero la liturgia ortodossa dalla Calabria. Era la prima volta dopo undici secoli che un Patriarca si recava nel Sud Italia per riconoscerne le radici ortodosse».

-Immagino si senta fiero di questo suo nuovo incontro con Padre Bartolomeo I?

«Sa cosa ricordo di quel mio primo incontro con lui? Bartolomeo I, che porta tra i suoi titoli anche quello di Despota di Costantinopoli, cioè, ultimo dei successori non solo della cattedra Patriarcale ma, anche, del Trono degli Imperatori di Bisanzio, mi guardò con una stizza d’incredulità quando m’indicarono come colui che aveva voluto donare il terreno. Chiese di potermi parlare in privato. Il Patriarca si esprimeva perfettamente in italiano. Ci appartammo sotto l’albero spoglio di un vecchissimo fico bianco, nato insieme a mio padre, perché era stato piantato nel 1921. Mi chiese se io fossi di religione ortodossa e il motivo della donazione al Patriarcato».

-Lei cosa gli rispose?

«Che non sono credente e che la mia decisione, in una terra dove nessuno regala niente a nessuno, nasceva, innanzi tutto, per motivi culturali e, poi, perché il mondo dell’emigrazione ortodossa, allora molto numeroso a Seminara e nei dintorni, potesse contare su un luogo, sicuro, di culto». 

-E lui?

«Sorrise il Patriarca, soprattutto quando mi sentì aggiungere: – “Santità, il vero motivo, se vogliamo, è la speranza di veder revocare la scomunica, per eresia, pronunciata nel giugno del 1342, a Santa Sophia, a Costantinopoli, contro il mio antico compaesano, il Teologo- Astronomo e Letterato Barlaam”-. Il Patriarca, uomo di raffinatissima cultura e di spiccata intelligenza, mi guardò e, sorridendo, rispose: – “Dottore, per togliere la scomunica a Barlaam, la Chiesa Ortodossa dovrebbe indire sette Concili… lasciamo le cose così e ricordiamo Barlaam, nella Sua città natale, come grande Intellettuale, letterato e umanista».

-È vero che il rapporto tra di voi è andato poi avanti negli anni sempre intenso?

«Con il Patriarca, restammo, sempre, in intima amicizia. Fino al primo decennio del 2000, ogni anno, m’invitava a Istambul, al Faner, nella Sede Patriarcale. Ad aprile, quando ricorreva la presa di Costantinopoli da parte dei Crociati, nel 1204, il Patriarca mi faceva partecipare alle cerimonie e, poi, spesso, andavamo nei luoghi che ricordavano, ancora, Bisanzio: in Cappadocia e nelle isole». 

-Ci racconta come decise di donare la terra per la Chiesa?

«L’input di donare la terra dove costruire la chiesa, era giunto a seguito una discussione tenuta con due monaci Ortodossi, presso il Monastero di San Giovanni Therestis, a Bivongi, il 17 agosto del 2000, ricorrenza di Sant’Elia. Quel giorno, nella mia veste di assessore provinciale alla Cultura, mi recai a Bivongi e intrattenni, tra i vari incontri, colloqui con Padre Nilo e il monaco atonita Cosmas. Nacque una piacevole disputa culturale e storica che finì con una sfida: se qualcuno avesse ceduto un terreno, a Seminara, la Chiesa Ortodossa sarebbe rinata».

-E lei prese la palla al balzo?

«Sembrava, come succede in questi casi, una normale discussione tra persone amanti dei luoghi e della loro storia, destinata a non aver seguito. Invece, presi sul serio quella sfida. In fondo, fin da ragazzino, il solo guardare i ruderi del monastero francescano dentro cui ero nato, mi faceva sognare le epoche e il desiderio di vederli riviverle». 

-In che senso?

«Io in realtà sognavo l’Oriente e l’Occidente, perché lì erano nati Barlaam e Leonzio Pilato. Lì erano stati Consalvo da Cordova, Calo V, Tommaso Campanella e Bernardino Telesio. Il mio sogno, pensi, era mettermi in un posto e scorgere l’Oriente, rappresentato da una Chiesa Ortodossa e dal mondo che stava attorno alla figura del Barlaam e l’Occidente, attraverso la Chiesa Cattolica di Sant’Antonio, lì presente da sempre e dove io fui battezzato. Chiesa che conserva la più importante simbologia Cattolica, in Calabria, del primo 500: lo stemma marmoreo di Isabella di Castiglia e di Ferdinando il Cattolico». 

-Come andò a finire questa storia?

«Decisi che sarei stato io a donare quel terreno al Patriarcato Ecumenico per far sorgere la chiesa. Mi adoperai a dare inizio all’edificazione e in questo progetto sono stato coadiuvato dal prof. Aurelio Misiti, allora assessore regionale ai LL Pubblici. In quattro anni, contro ogni aspettativa e scetticismo, la chiesa fu costruita».

-Qui raccontano che lei per primo si mise a trasportare sabbia e cemento, una leggenda popolare?

«È assolutamente vero. Tra le mura di quella chiesa, hanno ripreso a vivere mattoni e tegole, cotte nelle antichissime, oramai inesistenti, fornaci del paese e che io ho trasportato, da solo, dalle case di campagna di una Seminara che non esiste più. Case e tuguri dove avevano abitato contadini e pastori, oramai emigrati da 70 anni e che si stavano usurando per il tempo ingrato». 

-La parte più affascinante di questa chiesa sono forse gli affreschi…

«Un colpo di fortuna forse, o il caso. Finita la chiesa, ebbi la fortuna d’incontrare un grande iconografo che si era innamorato del posto: Vasileios Koutsoura, che poi divenne Protopresbitero e trascorse 9 mesi della sua vita, sdraiato a faccia in su, ad affrescare tutte le pareti, secondo i canoni teologici Ortodossi. Ne venne fuori un capolavoro, godimento per ogni occhio». 

-Ora capisco la gratitudine del Patriarca nei suoi confronti.

«Non finì lì la cosa. Ero conscio che la chiesa non potesse rimanere solitaria in mezzo al nulla. Doveva essere custodita e protetta. E poi, io dovevo realizzare, ancora, il mio sogno».

-Di quale sogno parla?

“Difronte alla chiesa si trovava una casa, anticamente dimora dei miei avi che erano stati al servizio di una potente famiglia feudale, quella dei Marzano. Casa ormai invasa da siepi e ortiche, Esistevano le mura esterne, i pavimenti in tavola e le pareti di canne impastate con il gesso. La restaurai nel migliore dei modi e la donai, anch’essa, al Patriarcato che la destinò a monastero”.

-E una volta realizzato tutto questo?

“Le confesso, provai una grande emozione. Soprattutto quando, dalle finestre di stanza della casa restaurata, potei mirare, ad Oriente, la Chiesa Ortodossa, ad Occidente, la Chiesa Cattolica e, nella piazza che li univa, la statua di Leonzio Pilato, il traduttore di Omero dal greco in latino e che portò l’Oriente in Occidente, dando inizio all’Umanesimo. Le pare poco?”

-Ma chi viene fin qui a vederla?

«Oggi è un luogo di culto e venerazione sempre aperto e visitato da gente proveniente da tutto il mondo». 

-Se potesse tornare indietro rifarebbe tutto questo?

«Ma scherza? Certo che lo rifarei, e con maggiore entusiasmo ancora. Tra 30 anni, quando potrei non esserci più, questo monastero resterà “chiodo”, a ricordare chi tutto seppe amare. Religione e Storia. Genitori e Persone dei luoghi. Monumento che servirà agli stolti per rimembrare la loro miseria, infamia e sbirragine e per gridare, forte, al mondo, che, pur in Terre di protervia bestiale, povertà d’animo e di testa, cafonaggine e perdita d’identità, ci fu chi si elevò e volò, alto, sopra ogni malvagità umana lasciando i poveracci nello sconforto totale perché avvertono, tutt’ora, l’imponente peso morale e storico di chi non si fermò difronte a niente e nessuno quando si trattò di amare la cultura».

-Quando ha incontrato l’ultima volta il Patriarca di Costantinopoli?

«L’ultima volta, appena un mese fa, ci siamo incontrati a Roma. Mi aveva preavvertito, chiedendomi di raggiungerlo il primo ottobre. Il giorno prima si era incontrati con Papa Francesco. Quel giorno, tenne una solenne Liturgia nella Chiesa Ortodossa di San Teodoro al Palatino. Entrato in chiesa, vestito con i pagamenti Patriarcali, solenne ed ieratico, tra Cardinali ed Ambasciatori, si staccò dalla folla che lo circondava e mi venne incontro. Ci scambiammo i consueti abbracci e lo baciai. Lui, con la sua bella voce, gravata dagli anni, cavernosa e imponente, in un italiano perfetto, mi disse: “Lei, Dottore, voglio che sieda alla mia sinistra per tutto il tempo della Liturgia. Dopo, sarà mio esclusivo ospite a pranzo, perché dobbiamo riprendere le discussioni sulla Storia antica delle nostra sacre memorie”».

-Ora quando lo rivedrà?

«Mi ha invitato a Istanbul, nel mese di maggio 2024.Ci andrò certamente». 

-Se posso chiederglielo, come è il Patriarca in privato?

«Bartolomeo è parte di quegli Uomini che fanno grande la Religione perché sanno parlare al cuore degli Uomini. Lui, molte volte, guardandomi in silenzio, ha rubato il senso profondo della mia anima, dei miei pensieri, del mio modo di essere, fuori da ogni canone statutario. Mi sa ateo, ma sempre mi ha detto che il credere non appartiene a nessuna manifestazione ostentativa delle persone e che persino l’ateismo sa essere, nell’intimità, utile se si sanno amare gli Esseri Umani. Con Sua Santità, Bartolomeo I, la nostra storia di adesione Intellettuale, Storica e Religiosa non finirà mai. Lui sa bene quali sacrifici e problemi, anche violenti, ho dovuto affrontare per costruire e difendere la mia e la sua Chiesa. Forse, è questa peculiarità che distacca il Supremo Religioso dal Soglio più alto e lo avvicina agli uomini semplici, perché la bellezza dei segreti dei cuori è solo dei Grandi Uomini». (pn)

A Padova Santo Gioffrè racconta Leonzio Pilato

di PINO NANOOrganizzata dal Comune di Padova e dal Comune di Cosenza, nell’ambito delle giornate di Storia e di Arte Padova-Cosenza, si è svolto nella sala nobile del famoso Caffè Pedrocchi di Padova, un incontro culturale sulla figura del Calabrese Leonzio Pilato che a Padova, nel 1358, incontrò Francesco Petrarca. 

Dall’incontro dei due e, poi, con Giovanni Boccaccio, ebbe inizio la traduzione, dal greco in latino, dell’Iliade e dell’Odissea, su un codice fornito dal Petrarca, da parte del Calabrese di Seminara. Così nacque quel grande movimento letterario e culturale che fu l’Umanesimo. 

Tra i relatori, Santo Gioffrè, lo Scrittore di Seminara ormai famoso nel mondo, oltre che la scrittura, per essere stato il primo a denunciare il sistema di ladroneggi esistente nella sanità calabrese. Santo Gioffrè ha dedicato gran parte della sua vita a far emergere dalla damnatio memoriae Leonzio Pilato, ormai, universalmente, conosciuto tra i giganti della Letteratura Medievale. Che bella Padova! Il suo Studium, nel XIV sec. era il cuore della Cultura Latina trionfante, mentre quella greca, nell’estremo lembo dell’Italia Meridionale soccombeva sotto la latinizzazione forzata attuata dai crudeli Angioini.

Eppure, proprio allora, quando tutto fu perduto – spiega ai padovani il medico scrittore calabrese –, nacquero, nelle Terre di Seminara i due più acerrimi difensori di quel mondo culturale greco: Barlaam Monacus e Leonzio Pilato, che non fu monaco, come, volgarmente, gli ignoranti lo indicano. Leonzio Pilato fu altro, molto altro e il suo credo fu solo Mito Greco. Per Santo Gioffrè ancora una giornata di alta cultura e di grande successo personale. (pn)

Casa Italia a Berna, di scena “Fadia”, Santo Gioffrè e la guerra in Siria

di PINO NANONel pomeriggio di domani, sabato 26 agosto, a Berna città capitale della Svizzera, in Buhlstrasse 57, sarà di scena la Calabria del medico-scrittore calabrese Santo Gioffrè, che è la Costa Viola, i dorsali Aspromontani, lo Stretto di Messina e la magia delle isole Eolie che si toccano con mano dal Monte Sant’Elia, ma è anche il racconto appassionato dei suoi viaggi in Oriente e delle mille storie incontrate in Paesi lontanissimi dalla nostra tradizione.

L’occasione ufficiale è la presentazione alla stampa svizzera del suo ultimo romanzo, Fadia (Castelevecchi Editore), che in Italia è andato benissimo e che ha riscosso consensi di critica importanti e un successo editoriale del tutto imprevisto.

La manifestazione si svolge sotto l’alto patrocinio dell’Ambasciata Italiana di Berna e della stessa Società Dante Alighieri, con un parterre di altissimo profilo istituzionale. Ad aprire la serata saranno l’Ambasciatore italiano a Berna Silvio Mignano, il Presidente di Casa Italia Franco Sorini, il Presidente dell’Unione dell’Unitre di Ilia Bestetti, Il Presidente del Comitato di Berna della Società Dante Alighieri Anna Rudebergh. Poi, l’intervento centrale dello scrittore Carlo Simonelli, ma ci saranno anche degli intermezzi musicali del Maestro Fernando Damico

«La Siria – dice Santo Gioffrè è stato il più bel luogo che io abbia visitato. Lì, si veniva catapultati in un mondo antico dove il profumo emanato dalle pietre, portava ogni problematico viaggiatore a ritrovare il suo perduto Spirito. Penso a Maalula, dove il primo cristianesimo pulsava, ancora persino nella lingua parlata. La guerra ha distrutto anche il senso dell’esistenza».

È da qui che è nata Fadia. «Il nostro è stato un grande amore. Tra non molto, io me ne andrò, da sola, come sola sono sempre stata. Sento le cicale cantare sugli alberi d’ulivo, nelle terre di mio padre tra le dolcissime braccia di mia madre».

Fadia che è l’ultima fatica letteraria del medico scrittore di Seminara Santo Gioffrè ti strattona l’anima, ti affascina, ti incuriosisce, ti prende il cuore, un affresco di tenerezza e di sentimento, un tazebao di emozioni e di ricordi forti, legati ad una storia d’amore impossibile e fuori da ogni schema. Un lungo viaggio tra il mistero della vita, l’incanto dell’amore e le tragedie del nostro tempo, una apoteosi dell’amore per la vita, ma anche il racconto disperato del dolore che ogni esistenza umana si porta dietro, e che per la prima volta ci restituisce più che uno scrittore alla vecchia maniera un poeta moderno e di grande efficacia emozionale.

Lo scrittore di Seminara è attentissimo a evitare lungo il terreno del racconto le facili mine della retorica, ma la danza tra l’incanto dell’amore e l’orrore della guerra dimenticata arriva comunque a noi con la forza struggente delle immagini che non avremmo voluto vedere e che, invece, sono lì, implacabili a interrogarci e a interrogare.

Ma chi conosce bene il medico-scrittore di Seminara sa bene anche che Fadia sarà solo la scusa per raccontare agli italiani di Berna le mille bellezze calabresi e i mille retaggi che avvinghiano ancora questa regione. Del resto lui, nell’immaginario collettivo di mezzo mondo, più volte intervistato dalla BBC e da France 2, è conosciuto anche come l’uomo che un giorno trova il coraggio di denunciare il sistema marcio della sanità calabrese mettendo a rischio la sua vita e quella della sua famiglia. Ma questa è un’altra storia. (pn)

Sanità e Mafia in Calabria, “Le Point” racconta la storia di Santo Gioffrè

di PINO NANO – Anche la stampa francese scopre la “Sanità Calabra”. E’ il caso del settimanale “Le Point” (Il punto) che domenica 1 agosto ha dedicato la sua inchiesta di primo piano all’arrivo dei “medici cubani in Calabria” e ai mille risvolti oscuri della sanità calabrese. Vi ricordo che, nato nel 1972, fondato a Parigi da Olivier Chevrillon, Claude Imbert, Jacques Duquesne, Pierre Billard, Georges Suffert, Henri Trinchet e Philippe Ramond,”Le Point” è oggi il settimanale francese per eccellenza, tra i principali periodici generalisti di area di centro, giornale di grande diffusione in tutta la Francia e di grande peso politico.

Questa che “Le Point” dedica alla Calabria è un’inchiesta dura, documentata, che getta sulla Calabria e sul sistema sanitario calabrese tutto ombre e sospetti di vario genere,ma il tema è abbastanza complesso da presupporre anche letture critiche come questa. In compenso però, alla fine del suo lungo racconto, la giornalista francesce Hèloise Rambert; racconta in maniera puntigliosa la vicenda personale del medico scrittore di Seminara, Santo Gioffrè, e che per i francesi è un simbolo da imitare e soprattutto da conoscere e da raccontare.Una sorta di eroe moderno, che una mattina si sveglia e decide di combattare il malaffare da solo e in prima persona rischiando la vita.

Questa la trascrizione integrale delle cose scritte dalla testata parigina. «Nel febbraio 2015, Santo Gioffrè, medico e scrittore, è stato nominato Commissario Straordinario dell’Agenzia di Reggio Calabria. L’obiettivo era quello di mettere i conti in ordine e di fermare l’emorragia. In seguito ha visto da vicino le malversazioni che stavano minando il sistema sanitario calabrese e il sistema sanitario calabrese e lo sperpero di risorse pubbliche destinate alla cura di 2 milioni di italiani. “Mi sono reso conto che enormi fatture venivano pagate in doppio, in triplo, enormi fatture ai fornitori di servizi”, racconta Santo Gioffrè, che tuttora esercita la professione di ginecologo all’ospedale di Palmi, in Calabria. In particolare, ho bloccato un pagamento di 6 milioni di euro a una casa di riposo, che era già stato effettuato sei anni prima. Il comIl commissario lo vede con i suoi occhi: “la criminalità dei colletti bianchi che si nasconde dietro i grandi gruppi privati dei laboratori di analisi e aziende farmaceutiche”. Produce relazioni che sono state utilizzate, in particolare, per sciogliere l’Azienda sanitaria per associazione mafiosa quattro anni dopo».

Fatture dunque pagate due volte, e forse non solo questo. Una storia che è diventata quasi una leggenda metropolitana e che non fa che continuare a gettare fango e discredito sulla storia dei calabresi. Per fortuna però c’è ancora qualcuno, come il medico contadino e scrittore di Seminara che onora le migliori tradizioni calabresi. (pn)

A Roma Santo Gioffrè presenta il suo libro “Fadia”

di PINO NANOFadia (Castelvecchi Editore), l’ultima fatica letteraria di Santo Gioffrè, sarà presentata domani giovedì 2 febbraio a Roma alla Biblioteca Goffredo Mameli in Via del Pigneto 22 dal giornalista e scrittore Michele Santoro. Un evento nell’evento, a cui hanno già assicurato la propria presenza centinai di fans del medico scrittore calabrese di Seminara.

Fadia e Santo Gioffrè, un tourbillon di emozioni e di sentimenti, uno stile narrativo avvolgente e freschissimo, un misto di storia, di sociologia, di teologia, di umanesimo, un linguaggio moderno che, in alcuni punti, raggiunge un alto livello poetico. Santo Gioffrè questa volta va oltre la sua capacità letteraria di sempre e domani a Roma, con l’aiuto di un  grande giornalista dei nostri tempi, come lo è Michele Santoro, racconta gli ultimi, indaga le miserie e le contraddizioni degli uomini; riflette sul tempo che scorre veloce, a volte nemico, altre volte inesorabile, pienamente consapevole delle scelte che avremmo voluto fare e che prepotenti ci lasciano negli occhi e nell’anima la malinconia del non vissuto.

Fadia, l’ultima fatica letteraria del medico scrittore di Seminara Santo Gioffrè, ti strattona l’anima, ti affascina, ti incuriosisce, ti prende il cuore, un affresco di tenerezza e di sentimento, un tazebao di emozioni e di ricordi forti, legati ad una storia d’amore impossibile e fuori da ogni schema. Un lungo viaggio tra il mistero della vita, l’incanto dell’amore e le tragedie del nostro tempo, una apoteosi dell’amore per la vita, ma anche il racconto disperato del dolore che ogni esistenza umana si porta dietro, e che per la prima volta ci restituisce più che uno scrittore alla vecchia maniera un poeta moderno e di grande efficacia emozionale. In ogni pagina – forse anche per il privilegio di esserne amico da sempre – ne avverti la presenza, quasi a rassicurarti davanti all’abisso delle tragedie che improvvise compaiono agli occhi del lettore con forza quasi cinematografica. Ma in realtà potrebbe già essere non solo il titolo di un film di grande impatto mediatico, ma anche la sceneggiatura ideale di una storia tutta hollywoodiana.

Lo scrittore di Seminara è attentissimo a evitare lungo il terreno del racconto le facili mine della retorica, ma la danza tra l’incanto dell’amore e l’orrore della guerra dimenticata arriva comunque a noi con la forza struggente delle immagini che non avremmo voluto vedere e che, invece, sono lì, implacabili a interrogarci e a interrogare.

Fadia mi ha catturato, Fadia è, nei “rimpianti” taciuti di ciascuno di noi. Forse Fadia è anche un pezzo importante della sua vita privata, ma questo è un dettaglio di cui lo scrittore non ama parlare. In copertina la foto bellissima di una donna siriana di cui probabilmente lo scrittore calabrese conosce i segreti più reconditi della sua vita.

Mettiamola così, il romanzo Fadia è il desiderio di un cuore che vuol sciogliersi nei ricordi, alla ricerca di un mondo che, ormai, non c’è più e che porta struggenti dolori con sé.

Dottore, quanto c’è di autobiografico nel romanzo?

Io sono testimone di un mondo che viveva dentro le idealità e le critiche storture che hanno condizionato la vita di ognuno di noi nella seconda metà del XX secolo e nel primo decennio del XXI secolo. Ho voluto raccontare quel mondo perché nessuno potesse pensare che ciò che ora siamo sia dovuto al naturale svolgersi del tempo. Infatti, anche, l’ascesa di Andrea Bisi, ha dovuto fare i conti con quel mondo.

Ho trovato forte la descrizione della Siria, prima della guerra…

Vede, la Siria è stato il più bel luogo che io abbia visitato. Lì, si veniva catapultati in un mondo antico dove il profumo emanato dalle pietre, portava ogni problematico viaggiatore a ritrovare il suo perduto Spirito. Penso a Maalula, dove il primo cristianesimo pulsava, ancora persino nella lingua parlata. La guerra ha distrutto anche il senso dell’esistenza.

-È vero che in quella guerra, lei ha perso due cari amici?

È difficile, per me, parlare di Paolo, Boulos Yazigi, Arcivescovo Ortodosso di Aleppo, e di Kaled Al Asaad, il famosissimo Archeologo di Palmira. Tutti e due, assassinati dai terroristi dell’Isis. Mi furono, non solo amici, ma Padri Spirituali e la cui presenza aleggia, ancora in me.

Ma chi è, veramente, Fadia?

Fadia è una bellissima monaca che io ho conosciuto personalmente, che ha vissuto la tragedia della guerra così come io la racconto e anche, la sua bellissima storia d’amore.

Fadia, dunque, Un libro che si legge tutto d’un fiato, e che farà molto parlare di sé nei mesi che verranno. (pn)

A Santo Gioffrè il Premio per la Legalità

di PINO NANO –  San Vincenzo la Costa, vivace Comunità in provincia di Cosenza, festeggia la Seconda Edizione del Premio Letterario di Poesia “Giuseppe Mirandola”, organizzato dalla Pro-Loco e dalla Biblioteca comunale. Allo scrittore Santo Gioffrè è andato il Premio Speciale per la Legalità.

«Ci sono premi e premi, ma questo per la Legalità è un Premio speciale e di cui non finirò mai di ringraziarvi». Lo grida forte il medico-scrittore nel corso della cerimonia che a San Vincenzo La Costa lo premia come protagonista dell’antimafia.

Chiamato sul palco dalla giornalista Marisa Fallico a ritirare il suo Premio, Santo Gioffrè appare visibilmente emozionato, ma «L’emozione – precisa lui – è sentimento umano, persino il pianto è manifestazione dei forti, come ci tramandò Omero». 

Santo Gioffrè è prima di tutto un medico, diventato famoso in Italia e all’estero come scrittore di romanzi storici, ma soprattutto per aver scoperto e denunciato, «a rischio della propria vita e unico a farlo», le ventennali rapine nella sanità reggina.

«Tra gli infiniti e prestigiosissimi premi, nazionali e internazionali ricevuti, questo – sottolinea lo scrittore – questo che mi date questa sera è il più bello perché la scelta di premiarmi per “Aver esercitato la legalità al di là e al di sopra di tutto…” nasce dall’osservazione attenta delle mie azioni. Un Premio che avverto viene dal cuore e dalla testa di quei settori della Società Civile non ancora sopraffatti dal logorio di una fatuità destruente».

Ma è la motivazione del Premio, letta davanti al folto pubblico intervenuto, che completa il quadro di questa manifestazione così importante: «Santo Gioffrè merita il premio speciale per l’alto impegno profuso, per il forte senso di appartenenza alla Terra di Calabria, per la sua professionalità, per l’onestà intellettuale, per i valori in cui crede e per i quali si è sempre battuto, per l’impatto emotivo che le sue opere suscitano. La forza straordinaria di un uomo, un professionista che non ha subito gli inganni istituzionali, ma che si è sempre schierato dalla parte dei deboli, sostenendone i valori e la dignità».

La giornalista Marisa Fallico (con lui in alto nella foto) dice ancora di più di lui: «Autore di pubblicazioni storiche e narrative che hanno riscosso grande successo, la sua vita è da sempre legata alla memoria e all’impegno politico e sociale nella piena libertà di pensiero per giungere alla ricerca della bellezza. E alla rappresentazione della realtà sempre agganciata al magistero irrinunciabile della storia».

Questo è Santo Gioffrè, il medico-scrittore che appare molto poco nei circuiti in cui l’ostentazione è regola, ma che è stato capace, in solitudine, di smuovere millenarie montagne dove, in bella vista, albergava il malaffare.

Dottore a chi dedica questo Premio?

«È troppo importante per me per non dedicarlo alla mia famiglia, prima di tutto, e poi alla mia terra natale, al mio paese, Seminara, dove da bambino ho imparato a sognare e a credere che la vita può anche essere diversa da quella che ci raccontavano i nostri nonni in Aspromonte». (pn)

LA RIFLESSIONE / Santo Gioffrè: a proposito di Sanità Cuba e moralità

di SANTO GIOFFRÈ – Non è che bisogna possedere le facoltà di Tiresia per comprendere le gravose parole, pronunciate con il sorriso e, a volte, sfottendo gli avversari, del Presidente Occhiuto.  Nel suo messaggio mediatico, volto, ovviamente, a raggiungere direttamente il pubblico plaudente e confuso (perché, che serve interessarsi a sapere?)… ha parlato della drammaticità in cui versa la sanità calabrese e ha parlato a mamma perchè nuora intenda. 

Non potete imbrattarmi di codardia. Io, appena saputo del decreto emanato per il reperimento dei Medici Cubani, ho spifferato a mezzo mondo i veri motivi per cui Occhiuto è stato costretto a ricorrere a questo strumento, senza alcun timore di smentita. Due i motivi: una parte, la paura per l’imminente catastrofe e, dall’altra, mettere al riparo, sotto il profilo legale e politico, il suo status. 

La conferma di quanto testè affermato, è venuta a galla dalla sua stessa bocca, quando, tradito da un lapsus tipicamente freudiano, ha citato il drammatico caso di Cirò Marina. Il Governatore sa benissimo che tra un mese la sanità, in Calabria, sarà al collasso. Lui cita, a sua difesa, l’eredità ricevuta: il disastro causato da 12 anni di Piano di Rientro. La stessa cosa che io vado gridando, da 7 anni, e l’addossa, questa responsabilità, al centro-sinistra. Dice, così, una mezza verità, ma, anche, una grandissima, infamante falsità. 

I piani di attuazione previsti dal Piano di Rientro, la carne viva insomma,  li fece la destra quando, nel 2010, Scopelliti  e tal Gianluigi Scaffidi, personaggio multiforme, che, col decreto 18 e 106, (illuminante l’intervista rilasciata nell’ ottobre o novembre 2015), chiusero 18 ospedali e basta! Da lì  doveva partire tutto un processo di riorganizzazione, programmazione e, soprattutto, di lotta ai ladri al fine di ricostruire tutti  i bilanci delle Asp, dove si verificavano rapine continue, fin dal 2005. Invece, non successe niente. 

Nessun risanamento, tanto che la Calabria è l’unica Regione che rimarrà, per sempre, dentro i rigori del Piano di Rientro. Situazione aggravata dal Governo di Matteo Renzi, un vero e proprio Attila per la Calabria, personaggio ignavo, sprezzante. Disinteressato a tutto ciò che accadeva, di disastroso, nella Regione. 

Ma, torniamo ad Occhiuto e al suo video, sorridente. Occhiuto s’insedia e, vedendo la succosa carne, chiede e ottiene non solo la fine della diarchia tra Commissario di Governo e Presidente della Giunta, ma, concentrando nelle sue mani tutto il potere in capo alla Sanità, fa una serie di roboanti annunci dove perfonde, a piene mani, la fine dell’emergenza sanitaria e una nuova era di felicità sanitaria. 

Fa, anche, altro: Istituisce l’azienda Zero, attraverso la quale, in sostanza, concentra nelle proprie mani, tutto quello che di redditizio rimane della Sanità Pubblica: Concorsi, Contenziosi, Accreditamenti, alta Programmazione, Acquisti nel settore… Cose lodevoli, in Francia, Germania, a Cuba, dove la sanità è bene prezioso e pubblico, però…non in Calabria. Ma… c’è un ma! Quando va a vedere cosa c’è dentro la pignata, si accorge che la cucchiaia miscita  solo brodo. Carne non ce n’è più. 

Allora, vedendo che tutti i bandi emessi, vuoi perchè fatti male, vuoi perchè nessun medico vuol spostarsi da postazioni pubbliche protette, vuoi perchè il grande amor per la terra natia calabra dura solo il tempo del consumo di un tartufo di Pizzo, Occhiuto si accorge del collasso sanitario imminente, e che tale catastrofico evento, oltre al suo completo fallimento politico, potrebbe portare, anche, alla chiamata di responsabilità sotto tanti profili, visto che lui è uno, due e trino. 

Ecco perché l’ accordo col Governo Socialista Cubano, sapendo, anche, che il prossimo Governo amico gli metterà a disposizione gli strumenti legali necessari, con la giusta motivazione che la Calabria è terra di disastro sanitario. Certo, dal suo video, però, scopriamo altro. Qualcosa di terribile: la fine dell cultura politica e sociake del XX sec. Uno stravolgimento dei diritti Costituzionali; la fine dello Stato di Diritto. La sanità è solo un grande mercato! Una merce che si compra e si vende in base alla domanda e all’afferta. Apprendiamo, dalla candida voce del Presidente della Regione Calabria, Occhiuto, che in Italia ci sono delle Agenzie Interinali che offrono Medici a 1500 euro l’ora, per 50.000 mila euro al mese, come se si trattasse di contrattare vacche in un grande mercato. Il Malato, l’Uomo e i suoi bisogni, ridotti a merce. La fine di ogni Umanità. E, aggiunge, che i Medici Cubani, Socialisti e, altamente professionali, costano di meno. Per cui, lui, ha fatto, solo un affare, in fondo…

Io, fin dall’inizio, in difesa della povera gente che muore per mancanza di assistenza, mi sono, subito, espresso favorevolmente al provvedimento. Perchè prima viene la coscienza politica. Ma questo non vuol dire dare un colpo di spugna ai gravi reati penali e umani commessi, negli anni passati, da una banda di criminali.  A chi, tra le Istituzioni, li ha protetti e li protegge, a chi pensa che basti salvaguardare  il proprio culo e, poi, tornare a fare le porcheria che sempre hanno fatto. Rivoluzione permanente! 

SULLA RAI UNA CALABRIA CHE NON ESISTE
LA FICTION ‘LA SPOSA’ INSULTA I CALABRESI

di SANTO STRATIPassi per le belle spiagge della Puglia contrabbandate per le incantevoli coste calabresi, passi per un dialetto che con calabrese c’azzecca poco, ma il mercato delle “vacche” no, non è tollerabile. La fiction Rai La sposa con la regia di Giacomo Campiotti e la sceneggiatura di Valia Santella (Nastro d’argento 2019 e premio David di Donatello nel 2020) ha fatto invelenire i calabresi e scatenare un’ondata di sdegno come non capitava da tempo. La vicenda è molto semplice. La Rai propone in tre puntate (doppie) la storia di una giovane calabrese (splendidamente interpretata da Serena Rossi) che sposa per procura un settentrionale vicentino per garantire sostegno finanziario alla propria famiglia, in disgrazia dopo la morte del padre.

Ora, la storia in sé potrebbe anche essere carina e avvincente per una trasposizione televisiva (ricorda vagamente un racconto del collettivo Lou Palanca del 2015, che non viene minimamente citato) ma appare evidente che la storyteller si sia fatta prendere la mano attingendo non si sa da quali fonti circa un mercato di vergini (peggio della schiavitù) offerte ad aspiranti possidenti matrimoniabili del Nord. È una vergognosa invenzione che, oltretutto, non trova neanche una collocazione temporale giustificabile: che in Calabria (come in tutt’Italia) ci fossero i famosi “sensali” di nozze che combinavano matrimoni misti nord-sud è cosa risaputa, si davano da fare fino a tutti gli anni Sessanta, ma la storia televisiva dice che siamo nel 1967 (quando già c’erano i germogli della emancipazione femminile che da lì a poco sarebbe esplosa) e traccia un’immagine della povera e disperata Calabria che nemmeno il buon Muccino, tra coppole e asinelli, avrebbe potuto immaginare. 

Il disprezzo verso i meridionali è fin troppo evidente ma risulta gratuito e sgarbatamente odioso (Calabria, vuoi sempre sghei!)  e questo non è tollerabile in una televisione che è Servizio pubblico. Si offre un’immagine contorta e distorta di inciviltà come non è mai esistita: si propone un mercato di vergini al miglior offerente che nemmeno negli emirati arabi d’inizio secolo o negli States di miss Rossella e Mamie della guerra americana di Via col vento, tra razzismo, schiavitù e ribellione. No, hanno ragione i calabresi a indignarsi, soprattutto pensando alle lotte contadine, al sacrificio di Giuditta Levato e di tantissime altre anonime donne che hanno pagato con la vita il rifiuto della sottomissione e della violenza di genere.

È un falso storico e in una fiction, in un film, in un romanzo, si può raccontare di tutto, senza tener conto della realtà, ma un conto è l’invenzione creativa, un altro il viscido filo di razzismo che viene trasmesso dalla tv di Stato e sbattuto in faccia alle cattive coscienze dei sostenitori dell’autonomia differenziata (del Nord ai danni del Mezzogiorno).

Le costiere che appaiono in video non sono della Calabria (gli esterni al mare sono stati girati a Vieste, nel Gargano, per evidenti opportunità di produzione – Film Commission Apulia è stata più brava della nostra?), ma neanche la storia, i volti, i personaggi sono della Calabria. 

Un Paese come l’Italia che conta circa 4 milioni di calabresi fuori dalla regione sparsi per la penisola (alcuni illustri, famosi e meritoriamente apprezzati in tutti i campi) non può accettare un’immagine così retriva della storia del Sud, della Calabria, che offende non solo tutti i calabresi, ma anche gli italiani. 

Non è una “storia di Calabria” quella de La sposa che per tale è stata contrabbandata e grazie al cielo non è stata finanziata dalla Calabria Film Commission, ma ha trovao grande pubblico televisivo nella prima serata di RaiUno.  

Una brutta pagina di televisione che coltiva il seme dell’odio razzistico (Nord contro Sud – non s’affitta ai meridionali) sulla quale riteniamo opportuno proporre e riportare i commenti di due scrittori “autenticamente” calabresi: Santo Gioffrè e Giusy Staropoli Calafati. Due riflessioni che, personalmente, condividiamo in pieno e che, siamo convinti, troveranno il giusto apprezzamento. Ma qualcuno, alla fine, risponderà mai di tanta infamia a buon mercato? (s)

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LO SDEGNO DELLO SCRITTORE DI SEMINARA

di SANTO GIOFFRÈ – Mancava, solo, l’anello al naso. Poi, mel reale immaginario dell’Italia da bere, la Calabria torna terra del Grand tour… Micuzzu… Micuzzu ,vota i crapi, ca cattai na capretta  Calabrisi in Puglia e a facimu cumbojjari du muntuni Veneto, in Piamonte… 

Certo che solo la fantasia e la testa malata, infetta da 40 anni di qualunquismo razzista e clerical- reazionario, con evidenti e subitanee complicità Calabresi,  poteva partorire una ipotesi pseudo filmica in cui, negli anni ‘60, le ragazze calabresi venivano fatte sfilare nelle piazze dei paesi, in un mercato delle vacche, come facevano, nel ‘700, gli schiavisti anglo-olandesi- americani, e sottoposte ad aste in base allo stato di verginità, alla dentiera e alla prestanza fisica per usarle come troie da traino nelle terre del nord. 

Qualsiasi proseguo avrà, questa fiction è di una violenza xenofoba…(prendi i sghei, Calabria…) mai fin’ora apparsa in una fiction su una Rete di Stato. Falsa dal punto di vista storico (negli anni 60 non vi furono, mai, fenomeni  di vendite evidenti e pubbliche di donne… anzi in quel periodo, in Calabria, iniziarono lotte politiche feroci per l’emancipazione, il riscatto culturale e sociale e contro il potere politico dominante… e se drammi sociali e familiari vi furono, questi vanno raccontati sotto il profilo storico, antropologico e sociale…). 

La letteratura calabrese, in quel periodo, mostrava, Resistenza, se pur minima, anche se incapace di farsi avanguardia d’impulsi  d’emancipazione …Cialtroni, miserabili e venduti alla vulgata razzista del nord. Ma ve lo meritate… I pacchi i pasta, anche questo sono, visto che accettate di tutto pur di aver qualcuno da chiamare padre!  (s.g)

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NON È LA CALABRIA, È UNA QUESTIONE DI IDENTITÀ

di GIUSY STAROPOLI CALAFATI – Permalosi e orgogliosi. I calabresi siamo così. Suscettibili quando ci toccano la storia e ci reinventano i luoghi. Alterano tutto ciò che attorno ad essi si compie. E che completa la nostra esistenza. Dà acqua alle nostre radici. Fortemente emotivi quando ci scombinano la narrazione, ci strapazzano l’ideologia, ci adattano ai tempi, e ci modificano i decorsi. E non è campanilismo questo risentimento che si palesa sui volti di un popolo intero, è questione di identità.

La Calabria è una parte del Sud, troppo intima, da rendicontare il tempo di una briscola o un tressette. Troppe, infinite le sue declinazioni. Impossibili di essere colte nella totalità.  E interpretarla si sbaglia il concetto, a imitarla si erra per presunzione. E nessuno riesce mai, e per precise ragioni di appartenenza, a fidelizzare con lei completamente. La sua lingua è un ossimoro. Il suo è un idioma potente, impossibile da rendere mediatico. Ha un accento che non esiste.

La Calabria è una gentile colomba. Così ritrae le spose d’Aspromonte, Corrado Alvaro. Anche quelle maritate per procura. Con una sola foto oltre l’oceano. Preservate dal male e dall’affascino.

Nella prima puntata de La sposa, la Calabria torna sul grande schermo ammantata di arretratezza e inciviltà. Riproponendo una questione meridionale praticamente irrisolta.  Ma La sposa non è la Calabria.

La donna calabrese non è una regalia. Non sfila nelle piazze dei paesi, come accade nel film, al mercato delle vacche, per essere messa all’incanto a seconda della sua verginità. Sulla base delle sue possibili prestazioni. Né ieri né mai. La donna calabrese è fimmina! È forza, coraggio, dignità, lavoro, ostinazione e senso, altissimo, dell’onore. 

La sposa in Calabria è valore, anche per procura. È rispetto, è considerazione. La storia cerca verità, non compiacimento. E allora non si esagera, neppure nei fil. È questione di identità.  

La Calabria non è un bicchiere sempre mezzo vuoto, con cui il Nord cerca di placarsi l’arsura quando cazzo gli pare. La mia terra, è un calice di vino rosso pieno che anche il cinema deve imparare a rispettare. Onorando la sua storia, in nome di donne come Giuditta Levato, con tutto il dolore e la resistenza, le lotte e non la ciotìa. Donne come Caterina Pisani Tufarelli, prima donna sindaco d’Italia. Tra le “ragazze del ‘46”, quando già la Calabria aveva avviato la sua emancipazione.

Se non fosse per la capacità del regista, d’aver attributo alla protagonista Maria, interpretata magistralmente da Serena Rossi, la forza inequivocabile che la Calabria ha, che a quanto pare sarà proprio lei a salvare il Veneto, avrei ammonito con fermezza e rigore questa storia. Strumentalizzare una terra come la Calabria, come a volerle ogni volta piegare il capo per la benedizione, è un delitto che non si può perdonare. La Calabria è una terra speciale, e come tutte le cose speciali, va prima provata, assaporata. E solo poi, eventualmente, raccontata nei libri o in televisione.  (gsc)