Napoli celebra lo scrittore e medico Santo Gioffrè

di PINO NANOSanto Gioffrè, il medico scrittore di Seminara, il poeta contadino che conosce l’Aspromonte come le sue tasche, l’uomo politico che ha messo in berlina il sistema sanitario calabrese sfidando mafia e magistratura insieme, riscattando con il suo coraggio e con la sua eterna strafottenza caratteriale se stesso e l’onore della sua famiglia, torna oggi sulla ribalta di uno dei Premi Letterari più prestigiosi del Mezzogiorno, il Premio Giovanbattista Vico, e per l’occasione trova a riceverlo come un principe d’altri tempi una Napoli sempre molto attenta alle novità letterarie del momento e sempre molto rispettosa dei suoi figli più illustri. 

Ancora una serata di gala per lo scrittore Santo Gioffrè, e ancora un trionfo per le cose che lui scrive e per i romanzi che ormai lo hanno reso famoso dovunque, perché raccontano la Calabria e i silenzi di questa terra come pochi sanno ancora fare.

«Non ho mai visto ridere mio padre. In quella forma che i muscoli mimici della faccia riescono a rendere visibile il momento di gioia che una bella realtà, persino immaginata, causa. La sua solitudine, i suoi silenzi, la sua incipiente e ben controllata mestizia che si manifestava sotto forma di vergognosa riservatezza, contraddistinsero il suo senso di esistenza tra gli uomini, pur rimanendone appartato. Era nato in un bosco fatto di vigne e di uliveti giganti la cui maestosità delle fronde ricordava che il ricchissimo latifondista, nell’imporre la massima cura, li amava più degli uomini, dai respiri pesanti, a cui concedeva di abitare nei suoi casalini e a lui dovevano vita perché dava lavoro. Quel bosco fu la dimensione reale della sua infanzia, così come il belare delle capre e il vocìo delle donne, la sera, intente a cercare acqua per la vita, dall’unica fonte che scaturiva dalla parete tufacea della grande valle e che tratteneva, lì, in altro nella collina, un vetusto paese che nulla più aveva delle glorie del tempo passato».

Ma questo è solo uno dei tanti passaggi poetici, e neanche il più bello, del suo ultimo romanzo e che gli è valso questo ennesimo riconoscimento dalla critica partenopea che più conta. 

Premio Giovanbattista Vico per la Narrativa, dunque, al medico scrittore calabrese di Seminara Santo Gioffrè, «autentico e bravissimo narratore – si legge nella motivazione ufficiale del prestigioso riconoscimento – che sa trasportare nei suoi romanzi, tutti di grandissimo successo, l’essenza più autentica delle storie e delle passioni degli uomini della sua terra, la Calabria, indagando l’anima più profonda, con una perizia di scrittura che eguaglia i grandi scrittori del verismo italiano». 

Ma Napoli questa volta, in questa sua atmosfera borghese e quasi spocchiosa di chi sa di contare ancora molto nel panorama letterario italiano, lo identifica e riconosce anche «scrittore e intellettuale di grande levatura, combattente e sprezzante, fin da ragazzo, contro ogni forma di sopraffazione e di diseguaglianza, perché questo viene fuori dalle sue opere letterarie. Da medico – e la platea napoletana a questo punto si alza in piedi per rendergli tutti gli onori possibili – era il punto di riferimento di un’amante dolente e povera. È un onore per tutti noi, averlo insignito, a Napoli, del Premio Giovanbattista Vico». 

E prima di consegnargli la sua targa qualcuno trova anche giusto ricordare la lettera-aperta scritta da lui il giorno in cui andò in pensione: «Il mio tempo di medico-ginecologo che ha sempre lavorato nella struttura pubblica è terminato. L’unico dispiacere che provo è il dover abbandonare un mondo dolente, in gran parte fatto di estrema povertà, miseria, emarginazione. Ho assistito, in questi 38 anni di lavoro in un’area periferica, al declino di un popolo e delle sue certezze. Da una sanità completa e al servizio della gente, ad un grande vuoto, dove si scimmiotta l’Ars Medica. Vedo, ormai, l’abisso di classe. Il privato ha surclassato il pubblico e nel pubblico arriva solo chi è in uno stato economico di miseria: la gran maggioranza ricevendo la miseria in servizi». 

Rieccolo il Santo di allora, il giovane rivoluzionario che nulla temeva e che l’unico credo che aveva era la difesa della classe operaia, quasi una religione di vita per lui, il culto per la difesa degli interessi degli ultimi, che nella sua vita entrano da ultimi e ne escono sazi e felici di essere finalmente trattati da uomini liberi. Altro che Premio Letterario! (pn)

OCCHIUTO, SANITÀ IRRISOLTA IN REGIONE
OPPOSIZIONE FIACCA E NUOVI GATTOPARDI

di SANTO GIOFFRÈ  – Al punto nefasto in cui è stata buttata la Calabria, dove il tragicomico è il tratto dominante dell’andazzo, è da pidocchiosi tacere. Partiamo da Occhiuto e dalla sua maggioranza che da 6 anni governa la Calabria. L’ultimo trionfo attraverso cui il Governatore è giunto in quel posto, più che merito suo, è stato per l’inconsistenza di chi diceva di essere, sempre, altro diviso in tre: un coacervo di niente, allegrotti partenopei in weekend nel blu mare calabro, dispersi nel deserto. Una passeggiata per Occhiuto che, da subito, individua nella sanità il facile strumento del buon e redditizio governo del consenso. Chiede e ottiene poteri assoluti, in quel campo, da Draghi, il peggiore governante di tutti perché cinico e bancario. Solo che Occhiuto, quando va a mescere dentro il ritenuto ricco carniere della Sanità calabra, non solo perde il cucchiaio ma ci rimette, pure, il braccio. In Calabria, l’assistenza sanitaria, come servizio da fornire alla gran parte dei Calabresi, non esiste più (Rapporto Gimbe, The Lancet, tele Meloni…).

Nella fornitura dei servizi ai cittadini, però! In altri compartimenti dello stesso settore, il grasso cola ancora. Eccome se cola! Tanto che viene istituita l’Azienda Zero, per regimentare e governate questo grasso, mentre l’osso rimane alle Asp e, contemporaneamente, per accompagnare al meglio le azioni del governo, l’idea e la messa in orbita di un apparato mediatico di diffusione della notizia tale da far apparire i tramonti come radiose Aurore, così care a Eos dalle mani colorate. Tenendo conto che non ci sono più medici, in Calabria, e che non ce ne saranno mai più, a causa dei disastri causati dal Piano di Rientro, mai voluto risolvere, unico caso in Italia, perché risolverlo avrebbe comportato la fine dei ventennali, tranquilli saccheggi di danaro pubblico, stimo io, di ben 3 miliari dal 2000 fin ora, da parte di un protetto sistema criminale che delle dinamiche di quel Piano ne gestisce e controlla le fasi ed ne esercita il dominio assoluto, qualche conto incomincia a non tornare.

D’altronde, fin dal 2009, il Governo, con complicità in loco, ci tratta non come persone, ma alla stregua di numeri. Occhiuto, allora, inizia una serie di manovre di contenimento. La prima, intuendo l’imminente collasso del sistema, che lo esporrebbe a gravi rischi, visto il ruolo preteso e ottenuto, fa arrivare ben 343 medici dalla Repubblica Comunista di Cuba, validissimi Professionisti, lui anti-comunista da sempre, da usare come tampone nelle postazioni più sensibili: PS, emergenza/urgenza a tempo determinato e, cioè, fino alla fine del suo mandato, calmierando, così e momentaneamente, le cose. La seconda cosa, dicevo, è l’Azienda Zero; la terza, la messa in opera di una poderosa campagna, da parte delle Asp, di transazioni, principalmente con BFF, con finalità di pagare i debiti della sanità, senza, però, fare una ricostruzione rigorosa della storia delle fatture, col rischio che il debito, attraverso titoli di riconoscimento del credito, conservati in casseforti o in tasche sicure, possa ripresentarsi negli anni che verranno.

In questa operazione, è stato aiutato dal Governo con una strana legge di contabilità unica in Europa. Dire che su queste cose c’è un’inchiesta della Procura di Milano, in atto, non m’interessa proprio, perché io parlo di politica. Forse, visto il suo prestigio, al suo governo, invece delle favole, avrebbe potuto suggerire, conoscendo lo stato dell’arte e dell’abisso in cui sono precipitati i parametri vitali della Regione, di fare 2+2. Dopo aver dato ben 15 miliardi per un’opera devastante e inutile, il Ponte sullo Stretto, di ritornarci altrettanti miliardi, a noi sottratti tra ruberie e trasferimenti di risorse al Nord per curarci, al fine di poter reperire medici, invogliandoli a venire in Calabria. Parlo, per capirci, delle materie non LEP, quelle che il Nord userà per abbuffarsi di servizi e oltre, con i nostri soldi e che Occhiuto, da vice-presidente di FI, gli ha concesso, mentre ai calabri vendeva la storiella dell’essere il tosto, feroce oppositore di ciò che lui stesso ha concesso al Nord, votando, con cognizione e volontà, la legge sull’Autonomia Differenziata.

Ma non solo… Ad ogni disastro sanitario che accade in Calabria, la potente macchina mediatica, con abilità che va riconosciuta, racconta altro: di aeroporti pieni (e ferrovie abbandonate), di strade favolose, di spettacoli strepitosi di fine anno, di fiere roboanti dove l’agricoltura calabrese, si e no, compete, quasi con i ranchero texani per, poi, ritrovarla in pieno medioevo, di rigassificatori e bombe ecologiche a iosa, di finanziamenti per ogni dove, soprattutto ai consoni, di una Film Commission che tutto fa, meno che promuovere la filmografia paesaggistica calabra, come da statuto.

Solo che, però, la narrazione, di colpo, si è rotta: la gente incomincia a morire per mancanza di medici, posti letto, divisioni ospedaliere, autoambulanze, strade. Certo, bisogna pur dire che gran parte delle responsabilità sono dell’altra parte, la cosiddetta opposizione consiliare, partitica, sociale, che tace sempre, oltre qualche folkloristico, raro sussurro e grida e che ha sempre accompagnato l’agire di Occhiuto, dentro un silenzio ecclesiale.

Addirittura, arrivando a proporre leggi da lui, o dalla sua maggioranza, suggerite. Certo, qualcuno, come l’ottimo Antonio Lo Schiavo, ha cercato, in solitudine, di non essere inutile, portando avanti battaglie che tutti dovevano ed avevano l’obbligo di fare. Ora, all’avvicinarsi del formaggio, rivedo movimenti delle solite facce e faccendieri, piccoli Gattopardi, che pensano che non importa, tanto, perdere è bello. L’importante è che ci siano sempre loro ad auto-garantirsi per continuare a tradire il proprio mandato. Io, a costo di rimanere solo, con mizzicu, non starò zitto e sapete cosa vuol dire il mio non silenzio, per la miseria. (sg)

L’OPINIONE / Santo Gioffrè: In Calabria facciamo finta che vada tutto bene

di SANTO GIOFFRÈ – Insomma, ieri sera (lunedì ndr), nel TG Rai Calabria, abbiamo ascoltato, e visto, un bollettino di guerra simile a quelli che giungono da Gaza: 1) La Calabria è la Regione più povera d’Europa; 2) Un giorno sì e l’altro ieri pure, ormai, non esistono aree che non protestino perché prive di assistenza sanitaria, persino quella di bassa qualità perché la Calabria è la prima Regione d’Europa priva di sanità pubblica.

Ma il paradosso è che, invece di trovare medici, ora e subito, e non giocare con i conti delle Asp a favore di farma-factoring, si assiste a continue inaugurazioni di Facoltà di Medicina e Chirurgia. Attenti, però, perchè se ciò si dovesse trasformare solo in uno strumento per dare sfogo a qualche baronia di III livello, sponsorizzata dal potere regionale di turno con l’ansia di allargare il manierismo del consenso sterile, col tempo, il tutto, si ritorcerà contro la Calabria stessa.

Il rischio è che, in epoche tristi di spopolamento e di de-strutturazione della Calabria, se non si realizzeranno le relative infrastrutture medico-didattiche di altissimo livello, con imponenti finanziamenti, come fu per Catanzaro, il tutto rimarrà una mera operazione di clientelismo elettoralistico, pericoloso però, perché la parcellarizzazione e la svalutazione di una facoltà medica, che dovrebbe formare medici del III millennio e che dovrebbe misurarsi con le super finanziate e specializzate facoltà mediche d’Europa, ci porterà alla condizione di scarto di società, più di quanto ora siamo.

Insomma, in epoche di autonomia differenziata, se non si faranno, ripeto, impiegando ingenti finanziamenti, le infrastrutture scientifico-didattiche degne delle migliori facoltà, non si otterrà altro che l’accettazione della ghettizzazione dei medici che si laureeranno in Calabria.

E, mentre la Calabria, entro 10 anni, perderà il 50% della sua popolazione, si sazieranno solo gli appetiti politici e di becero populismo al ribasso che, a lungo andare, non porterà, o resterà, nulla alla poca Calabria che rimarrà. Ricordo i miei colloqui con Gino Strada, quando doveva venire a fare il Commissario alla sanità in Calabria e i pusillanimi al governo non ebbero il coraggio di nominarlo. Strada aveva l’ambizione, con Emercency, di creare in Calabria, ormai terra di frontiera, un Centro Medico-Chirurgico di primissimo livello che, oltre l’assistenza di altissima qualità, avrebbe formato medici tali da sfidare persino gli americani, con gli incentivi morali giusti per farli rimanere in Calabria. Qualcuno, persino, arrivò a dirgli di starsene dov’era con qualche strana telefonata.

3) La Calabria, visto lo sdarrupato sistema infrastrutturale, occupa il primo posto per mortalità sulle strade. A fronte di tutto ciò, il calabrese ride, ride sempre e fa finta che tutto va bene. Tra poco, la Calabria e la Guayana Francese, oltre che essere affratellati nell’infinitesima ultima postazione nelle classifiche, alleveranno scimmie, che saranno parte evoluta di ciò che adesso c’è. Non so se, da medico, ho reso bene il pensiero. (sg)

“Evasioni d’amore” di Santo Gioffrè

di ELISA CHIRIANOCinque racconti che si leggono come un romanzo corale, perché il collante è il Sud, la sua storia e il legame ancestrale con gli uomini e le donne che lo hanno abitato o che lo abitano ancora, in un abbraccio a volte struggente, a volte risorgivo. Cinque racconti, così diversi, eppure incastrati come le tessere policrome di un mosaico e modellati uno per uno come le ceramiche di Seminara (RC), che esprimono un passato che, grazie a loro, continua a esistere. Cinque racconti che veicolano una tradizione fitta di misteri, che si tramanda nei secoli e che ancora oggi fa vibrare l‘anima, ma anche pagine di vite ricucite e di Storia ritrovata.

Santo Gioffrè attraversa il labirinto dei propri ricordi e scatta istantanee a cui dà voce. Esistenze segnate dalla fatica, dal desiderio del riscatto e dalla forza tenace dell’amore si intrecciano a memorie, paure ancestrali nella terra del Sud Italia, mentre infuria la guerra che svuota le case e frantuma le speranze. L’autore ci regala un paesaggio eterogeneo ed enigmatico: l’animo umano con i suoi abissi e le increspature, tra i sussulti di una quotidianità errante. Riesce a portarci in atmosfere antiche e spesso aspre con precisione e cura del dettaglio, delineando l’affresco di un’umanità che merita di essere narrata.  La Storia si intreccia alla vita intima, tra aneddoti, scelte e fragilità, passato e presente, tradizione e modernità. Alla fine, resta la parola, l’oggetto estremo su cui fare convergere le tensioni dell’impotenza. Essa si pone come il tramite diretto tra l’uomo e la realtà. Raccontare è ricucire le diverse dimensioni di sé, ma anche intrecciare l’autobiografia con la Storia, perché l’unicità è partecipazione a un tutto che è variegato, plurale, collettivo. Raccontare è dare senso a ciò che accade, legando singolare e universale, per comprendere, valutare, agire. Le storie cambiano il mondo e lo fanno nella maniera più forte e nella forma più intima, in modo silenzioso, depositandosi nel luogo più profondo e protetto della nostra anima e da lì, lentamente, cambiandoci per sempre. Il racconto permette di sentire la compiutezza di un momento. Procede per sottrazione, eppure sortisce l’effetto della moltiplicazione, genera un effetto di significazione su più livelli, che coesistono e si incontrano per poi percorrere anche strade completamente differenti. Scrivere è scegliere tra quanto di più raro c’è nell’universo e di più caro c’è nel nostro animo. 

Un libro di memoria, dunque, per far memoria ricordando, perché, come sosteneva Platone, ogni sapere è reminiscenza. Ma “Evasioni d’amore” è anche un romanzo storico, genere letterario difficile e molto amato da Santo Gioffrè, che si dimostra attento alla ricerca delle fonti e allo studio fedele dei documenti. La fantasia è complementare, arricchisce e rende affascinanti le vicende, ma deve essere bene incasellata nelle fasi storiche e non può oltrepassarle, altrimenti non sarebbe credibile. Proprio questo passaggio rappresenta la difficoltà maggiore dello scrivere romanzi storici. I punti vuoti vengono riempiti dalla finzione letteraria, che vuol dire restare fedele ai fatti, attenersi ad essi.  Ciò che è invenzione, quindi, sembra talmente vero da rendere autentica la narrazione.  

Evasioni d’amore è un’opera corale con persone-personaggi che si alternano, dando vita a un’esperienza tragica, a volte nostalgica, a volte sottilmente ironica, come un quadro d’autore. Si avvicendano figure scomposte come frattali fatti a mille piani e altrettante sfaccettature, fra un indefinito sé e un indefinito altro, che stanno in bilico tra due infiniti: il nulla e il tutto. Del resto, annota l’autore, «siamo scomposti nelle parti, mangiati dalla terra da cui veniamo, anneriti da antri e camini sotterranei nei quali i dolori che ci aggrediscono e dai quali vogliamo riemergere ci fanno smarrire».

Un modo concreto, plastico, in cui ciò che ha valore universale diventa vero per ciascuno, attraverso immagini legate alla vita, che aiutano a leggerla in una prospettiva più ampia. Vite come canne al vento, in balìa degli eventi e degli accadimenti, fragili in natura, ma anche alla ricerca del senso dell’esistenza e condannate a non trovarlo. Il lettore incontrerà il dramma della guerra ingiusta e feroce; donne con la fame d’aria per i mariti al fronte; figli che non tornano a casa e, se tornano, non trovano i fratelli e i genitori; paesi che si svuotano e agrari che ingaggiano i primi mafiosi; le malattie endemiche, la tubercolosi, la spagnola, la povertà; il furto delle sacre vacche e la ricostruzione della storia della Calabria dalla fine dell’ottocento al 1950 con curiosità e aneddoti su cui accendere dibattiti e confronti; il tragico amore che legò il musicista Giovanbattista Pergolesi alla nobile Anna Maria Spinelli, figlia del Principe di Cariati e Duca di Seminara, Scipione III Spinelli; la storia dell’amicizia tra Santo Gioffrè e Lucio Dalla e pagine autobiografiche che commuovono. L’autore racconta la sua infanzia; descrive luoghi, persone e situazioni, come la depressione post partum di sua madre, che «Passava da uno stato di relazioni normali ad un repentino e drammatico abbassamento del tono dell’umore. Io la vedevo raggomitolarsi e stringersi in un angolo. Notavo – scrive Gioffrè – i suoi bellissimi occhi spegnersi e il suo sguardo perso. Guardava il silenzio e ascoltava il buio […] Ma le sue periodiche crisi  mi accompagnano ancora e per sempre». Negli anni tra il 1955-57, fu ricoverata presso la casa di cura neurologica Villa Nuccia. In quel periodo, nello stesso luogo, si trovava il poeta Lorenzo Calogero

Evasioni d’amore è un libro da leggere – rileggendolo – per riflettere anche sul senso della scrittura e sul rapporto con la memoria; per riscoprire un’umanità che agisce in sordina, per sentire la compiutezza di un momento che dà importanza a delle vite altrimenti invisibili.

Cinque racconti delicati e fragili, ma anche forti e potenti, che fanno virare l’anima verso un passato che ritorna prepotentemente con la sua richiesta di riscatto e di giustizia. Sono canti necessari, anche se sovente dolorosi. Sono scatti in bianco e nero, con effetti chiaroscurali, immortalati da una penna che graffia l’anima e scalfisce equilibri precari. (ec)

A Napoli Santo Gioffrè presenta oggi il libro “Evasioni d’amore”

Oggi pomeriggio, a Napoli, alle 17.30, alla GalleriArt – Galleria Principe, sarà presentato in prima nazionale il libro Evasioni d’amore di Santo Gioffrè.

In Evasioni d’Amore Gioffrè racconta cinque nuove avvincenti storie, in cui la dolorosa memoria familiare si affianca alla rigorosa ricerca archivistica e sociale, creando un intreccio potente e demistificante che è un abbraccio complice a tutto il Sud. Gioffrè ha sintetizzato il concetto intimo e personale ma, nello stesso tempo, corale che comprende i sentimenti in cui tutte le persone del Sud si possono riconoscere ed il milieu sociale,politico,storico ed economico che le caratterizza e le ha formate e forgiate.

Il linguaggio perfettamente consono a ciascun personaggio ,chiaro, diretto e con alte punte poetiche nell’estrinsecare i sentimenti profondi e le sensazioni provate dai personaggi coinvolti… Una carrellata di personaggi che danno vita alla la narrazione, tragica ma anche alleggerita da una profonda ironia che rende scorrevole e gradevole la lettura e in cui ogni lettore, in molte situazioni, può riconoscere il proprio vissuto. Gioffrè ha voluto rendere omaggio a Napoli perché, nel primo racconto, scavando tra le carte conservate nell’archivio Storico, ha ricostruito, col piglio dello Scrittore Storico, il tragico amore che legò Giovanbattista Pergolesi e la giovanissima figlia del Principe di Cariati e Duca di Seminara, Scipione III Spinelli.

Gioffrè è medico e, da sempre, è impegnato a combattere la piaga inflitta alla sua amatissima terra dalla mafia e dal malaffare. Fu il primo, come amministratore dell’Asp di Reggio Calabria a denunciare, coniugando il termine ” contabilità orale” collusioni, speculazioni e ruberie di ogni genere all’interno delle Aziende Sanitarie Calabresi e, specificatamente, in quella di Reggio Calabria, Gioffrè è, anche, un pluripremiato scrittore a partire da suo primo romanzo Artemisia Sanchez, divenuto, poi, celebre miniserie televisiva su Rai Uno, con la partecipazione e le musiche di Lucio Dalla. (rrm)

Santo Gioffrè incontra a Roma il Patriarca di Costantinopoli: «Abbiamo parlato di Seminara»

di PINO NANOVentidue anni fa il Patriarca di Costantinopoli Padre Bartolomeo I venne in Calabria per la posa della prima pietra della Chiesa Greco Ortodossa di Seminara. A donare il terreno utile per la realizzazione di quello che allora pareva un sogno impossibile fu il medico scrittore del paese Santo Gioffrè.

22 anni dopo quel loro primo incontro il medico scrittore di Seminara Santo Gioffrè incontra di nuovo il Patriarca di Costantinopoli a Roma che gli rende gli onori della sua Chiesa per il gesto straordinariamente bello della donazione fatto ormai 22 anni fa. 

Sembra quasi una favola moderna, ma è storia di questi anni.

– Dottore, oggi per lei è un giorno importante, ma direi che lo è soprattutto per la storia dell’intera Calabria.

«Per me lo è certamente. Sono passati 22 anni da quella mattina quando Sua Santità, il Patriarca Ecumenico di Costantinopoli, Bartolomeo I, posò la prima pietra di quella che poi sarebbe divenuta la Chiesa Greco-Ortodossa dei Santi Elia e Filarete, a Seminara. Erano trascorsi 800 anni dall’ultima volta che era stata costruita una chiesa di rito greco, prima che gli Angioni bandissero la liturgia ortodossa dalla Calabria. Era la prima volta dopo undici secoli che un Patriarca si recava nel Sud Italia per riconoscerne le radici ortodosse».

-Immagino si senta fiero di questo suo nuovo incontro con Padre Bartolomeo I?

«Sa cosa ricordo di quel mio primo incontro con lui? Bartolomeo I, che porta tra i suoi titoli anche quello di Despota di Costantinopoli, cioè, ultimo dei successori non solo della cattedra Patriarcale ma, anche, del Trono degli Imperatori di Bisanzio, mi guardò con una stizza d’incredulità quando m’indicarono come colui che aveva voluto donare il terreno. Chiese di potermi parlare in privato. Il Patriarca si esprimeva perfettamente in italiano. Ci appartammo sotto l’albero spoglio di un vecchissimo fico bianco, nato insieme a mio padre, perché era stato piantato nel 1921. Mi chiese se io fossi di religione ortodossa e il motivo della donazione al Patriarcato».

-Lei cosa gli rispose?

«Che non sono credente e che la mia decisione, in una terra dove nessuno regala niente a nessuno, nasceva, innanzi tutto, per motivi culturali e, poi, perché il mondo dell’emigrazione ortodossa, allora molto numeroso a Seminara e nei dintorni, potesse contare su un luogo, sicuro, di culto». 

-E lui?

«Sorrise il Patriarca, soprattutto quando mi sentì aggiungere: – “Santità, il vero motivo, se vogliamo, è la speranza di veder revocare la scomunica, per eresia, pronunciata nel giugno del 1342, a Santa Sophia, a Costantinopoli, contro il mio antico compaesano, il Teologo- Astronomo e Letterato Barlaam”-. Il Patriarca, uomo di raffinatissima cultura e di spiccata intelligenza, mi guardò e, sorridendo, rispose: – “Dottore, per togliere la scomunica a Barlaam, la Chiesa Ortodossa dovrebbe indire sette Concili… lasciamo le cose così e ricordiamo Barlaam, nella Sua città natale, come grande Intellettuale, letterato e umanista».

-È vero che il rapporto tra di voi è andato poi avanti negli anni sempre intenso?

«Con il Patriarca, restammo, sempre, in intima amicizia. Fino al primo decennio del 2000, ogni anno, m’invitava a Istambul, al Faner, nella Sede Patriarcale. Ad aprile, quando ricorreva la presa di Costantinopoli da parte dei Crociati, nel 1204, il Patriarca mi faceva partecipare alle cerimonie e, poi, spesso, andavamo nei luoghi che ricordavano, ancora, Bisanzio: in Cappadocia e nelle isole». 

-Ci racconta come decise di donare la terra per la Chiesa?

«L’input di donare la terra dove costruire la chiesa, era giunto a seguito una discussione tenuta con due monaci Ortodossi, presso il Monastero di San Giovanni Therestis, a Bivongi, il 17 agosto del 2000, ricorrenza di Sant’Elia. Quel giorno, nella mia veste di assessore provinciale alla Cultura, mi recai a Bivongi e intrattenni, tra i vari incontri, colloqui con Padre Nilo e il monaco atonita Cosmas. Nacque una piacevole disputa culturale e storica che finì con una sfida: se qualcuno avesse ceduto un terreno, a Seminara, la Chiesa Ortodossa sarebbe rinata».

-E lei prese la palla al balzo?

«Sembrava, come succede in questi casi, una normale discussione tra persone amanti dei luoghi e della loro storia, destinata a non aver seguito. Invece, presi sul serio quella sfida. In fondo, fin da ragazzino, il solo guardare i ruderi del monastero francescano dentro cui ero nato, mi faceva sognare le epoche e il desiderio di vederli riviverle». 

-In che senso?

«Io in realtà sognavo l’Oriente e l’Occidente, perché lì erano nati Barlaam e Leonzio Pilato. Lì erano stati Consalvo da Cordova, Calo V, Tommaso Campanella e Bernardino Telesio. Il mio sogno, pensi, era mettermi in un posto e scorgere l’Oriente, rappresentato da una Chiesa Ortodossa e dal mondo che stava attorno alla figura del Barlaam e l’Occidente, attraverso la Chiesa Cattolica di Sant’Antonio, lì presente da sempre e dove io fui battezzato. Chiesa che conserva la più importante simbologia Cattolica, in Calabria, del primo 500: lo stemma marmoreo di Isabella di Castiglia e di Ferdinando il Cattolico». 

-Come andò a finire questa storia?

«Decisi che sarei stato io a donare quel terreno al Patriarcato Ecumenico per far sorgere la chiesa. Mi adoperai a dare inizio all’edificazione e in questo progetto sono stato coadiuvato dal prof. Aurelio Misiti, allora assessore regionale ai LL Pubblici. In quattro anni, contro ogni aspettativa e scetticismo, la chiesa fu costruita».

-Qui raccontano che lei per primo si mise a trasportare sabbia e cemento, una leggenda popolare?

«È assolutamente vero. Tra le mura di quella chiesa, hanno ripreso a vivere mattoni e tegole, cotte nelle antichissime, oramai inesistenti, fornaci del paese e che io ho trasportato, da solo, dalle case di campagna di una Seminara che non esiste più. Case e tuguri dove avevano abitato contadini e pastori, oramai emigrati da 70 anni e che si stavano usurando per il tempo ingrato». 

-La parte più affascinante di questa chiesa sono forse gli affreschi…

«Un colpo di fortuna forse, o il caso. Finita la chiesa, ebbi la fortuna d’incontrare un grande iconografo che si era innamorato del posto: Vasileios Koutsoura, che poi divenne Protopresbitero e trascorse 9 mesi della sua vita, sdraiato a faccia in su, ad affrescare tutte le pareti, secondo i canoni teologici Ortodossi. Ne venne fuori un capolavoro, godimento per ogni occhio». 

-Ora capisco la gratitudine del Patriarca nei suoi confronti.

«Non finì lì la cosa. Ero conscio che la chiesa non potesse rimanere solitaria in mezzo al nulla. Doveva essere custodita e protetta. E poi, io dovevo realizzare, ancora, il mio sogno».

-Di quale sogno parla?

“Difronte alla chiesa si trovava una casa, anticamente dimora dei miei avi che erano stati al servizio di una potente famiglia feudale, quella dei Marzano. Casa ormai invasa da siepi e ortiche, Esistevano le mura esterne, i pavimenti in tavola e le pareti di canne impastate con il gesso. La restaurai nel migliore dei modi e la donai, anch’essa, al Patriarcato che la destinò a monastero”.

-E una volta realizzato tutto questo?

“Le confesso, provai una grande emozione. Soprattutto quando, dalle finestre di stanza della casa restaurata, potei mirare, ad Oriente, la Chiesa Ortodossa, ad Occidente, la Chiesa Cattolica e, nella piazza che li univa, la statua di Leonzio Pilato, il traduttore di Omero dal greco in latino e che portò l’Oriente in Occidente, dando inizio all’Umanesimo. Le pare poco?”

-Ma chi viene fin qui a vederla?

«Oggi è un luogo di culto e venerazione sempre aperto e visitato da gente proveniente da tutto il mondo». 

-Se potesse tornare indietro rifarebbe tutto questo?

«Ma scherza? Certo che lo rifarei, e con maggiore entusiasmo ancora. Tra 30 anni, quando potrei non esserci più, questo monastero resterà “chiodo”, a ricordare chi tutto seppe amare. Religione e Storia. Genitori e Persone dei luoghi. Monumento che servirà agli stolti per rimembrare la loro miseria, infamia e sbirragine e per gridare, forte, al mondo, che, pur in Terre di protervia bestiale, povertà d’animo e di testa, cafonaggine e perdita d’identità, ci fu chi si elevò e volò, alto, sopra ogni malvagità umana lasciando i poveracci nello sconforto totale perché avvertono, tutt’ora, l’imponente peso morale e storico di chi non si fermò difronte a niente e nessuno quando si trattò di amare la cultura».

-Quando ha incontrato l’ultima volta il Patriarca di Costantinopoli?

«L’ultima volta, appena un mese fa, ci siamo incontrati a Roma. Mi aveva preavvertito, chiedendomi di raggiungerlo il primo ottobre. Il giorno prima si era incontrati con Papa Francesco. Quel giorno, tenne una solenne Liturgia nella Chiesa Ortodossa di San Teodoro al Palatino. Entrato in chiesa, vestito con i pagamenti Patriarcali, solenne ed ieratico, tra Cardinali ed Ambasciatori, si staccò dalla folla che lo circondava e mi venne incontro. Ci scambiammo i consueti abbracci e lo baciai. Lui, con la sua bella voce, gravata dagli anni, cavernosa e imponente, in un italiano perfetto, mi disse: “Lei, Dottore, voglio che sieda alla mia sinistra per tutto il tempo della Liturgia. Dopo, sarà mio esclusivo ospite a pranzo, perché dobbiamo riprendere le discussioni sulla Storia antica delle nostra sacre memorie”».

-Ora quando lo rivedrà?

«Mi ha invitato a Istanbul, nel mese di maggio 2024.Ci andrò certamente». 

-Se posso chiederglielo, come è il Patriarca in privato?

«Bartolomeo è parte di quegli Uomini che fanno grande la Religione perché sanno parlare al cuore degli Uomini. Lui, molte volte, guardandomi in silenzio, ha rubato il senso profondo della mia anima, dei miei pensieri, del mio modo di essere, fuori da ogni canone statutario. Mi sa ateo, ma sempre mi ha detto che il credere non appartiene a nessuna manifestazione ostentativa delle persone e che persino l’ateismo sa essere, nell’intimità, utile se si sanno amare gli Esseri Umani. Con Sua Santità, Bartolomeo I, la nostra storia di adesione Intellettuale, Storica e Religiosa non finirà mai. Lui sa bene quali sacrifici e problemi, anche violenti, ho dovuto affrontare per costruire e difendere la mia e la sua Chiesa. Forse, è questa peculiarità che distacca il Supremo Religioso dal Soglio più alto e lo avvicina agli uomini semplici, perché la bellezza dei segreti dei cuori è solo dei Grandi Uomini». (pn)

A Padova Santo Gioffrè racconta Leonzio Pilato

di PINO NANOOrganizzata dal Comune di Padova e dal Comune di Cosenza, nell’ambito delle giornate di Storia e di Arte Padova-Cosenza, si è svolto nella sala nobile del famoso Caffè Pedrocchi di Padova, un incontro culturale sulla figura del Calabrese Leonzio Pilato che a Padova, nel 1358, incontrò Francesco Petrarca. 

Dall’incontro dei due e, poi, con Giovanni Boccaccio, ebbe inizio la traduzione, dal greco in latino, dell’Iliade e dell’Odissea, su un codice fornito dal Petrarca, da parte del Calabrese di Seminara. Così nacque quel grande movimento letterario e culturale che fu l’Umanesimo. 

Tra i relatori, Santo Gioffrè, lo Scrittore di Seminara ormai famoso nel mondo, oltre che la scrittura, per essere stato il primo a denunciare il sistema di ladroneggi esistente nella sanità calabrese. Santo Gioffrè ha dedicato gran parte della sua vita a far emergere dalla damnatio memoriae Leonzio Pilato, ormai, universalmente, conosciuto tra i giganti della Letteratura Medievale. Che bella Padova! Il suo Studium, nel XIV sec. era il cuore della Cultura Latina trionfante, mentre quella greca, nell’estremo lembo dell’Italia Meridionale soccombeva sotto la latinizzazione forzata attuata dai crudeli Angioini.

Eppure, proprio allora, quando tutto fu perduto – spiega ai padovani il medico scrittore calabrese –, nacquero, nelle Terre di Seminara i due più acerrimi difensori di quel mondo culturale greco: Barlaam Monacus e Leonzio Pilato, che non fu monaco, come, volgarmente, gli ignoranti lo indicano. Leonzio Pilato fu altro, molto altro e il suo credo fu solo Mito Greco. Per Santo Gioffrè ancora una giornata di alta cultura e di grande successo personale. (pn)

Casa Italia a Berna, di scena “Fadia”, Santo Gioffrè e la guerra in Siria

di PINO NANONel pomeriggio di domani, sabato 26 agosto, a Berna città capitale della Svizzera, in Buhlstrasse 57, sarà di scena la Calabria del medico-scrittore calabrese Santo Gioffrè, che è la Costa Viola, i dorsali Aspromontani, lo Stretto di Messina e la magia delle isole Eolie che si toccano con mano dal Monte Sant’Elia, ma è anche il racconto appassionato dei suoi viaggi in Oriente e delle mille storie incontrate in Paesi lontanissimi dalla nostra tradizione.

L’occasione ufficiale è la presentazione alla stampa svizzera del suo ultimo romanzo, Fadia (Castelevecchi Editore), che in Italia è andato benissimo e che ha riscosso consensi di critica importanti e un successo editoriale del tutto imprevisto.

La manifestazione si svolge sotto l’alto patrocinio dell’Ambasciata Italiana di Berna e della stessa Società Dante Alighieri, con un parterre di altissimo profilo istituzionale. Ad aprire la serata saranno l’Ambasciatore italiano a Berna Silvio Mignano, il Presidente di Casa Italia Franco Sorini, il Presidente dell’Unione dell’Unitre di Ilia Bestetti, Il Presidente del Comitato di Berna della Società Dante Alighieri Anna Rudebergh. Poi, l’intervento centrale dello scrittore Carlo Simonelli, ma ci saranno anche degli intermezzi musicali del Maestro Fernando Damico

«La Siria – dice Santo Gioffrè è stato il più bel luogo che io abbia visitato. Lì, si veniva catapultati in un mondo antico dove il profumo emanato dalle pietre, portava ogni problematico viaggiatore a ritrovare il suo perduto Spirito. Penso a Maalula, dove il primo cristianesimo pulsava, ancora persino nella lingua parlata. La guerra ha distrutto anche il senso dell’esistenza».

È da qui che è nata Fadia. «Il nostro è stato un grande amore. Tra non molto, io me ne andrò, da sola, come sola sono sempre stata. Sento le cicale cantare sugli alberi d’ulivo, nelle terre di mio padre tra le dolcissime braccia di mia madre».

Fadia che è l’ultima fatica letteraria del medico scrittore di Seminara Santo Gioffrè ti strattona l’anima, ti affascina, ti incuriosisce, ti prende il cuore, un affresco di tenerezza e di sentimento, un tazebao di emozioni e di ricordi forti, legati ad una storia d’amore impossibile e fuori da ogni schema. Un lungo viaggio tra il mistero della vita, l’incanto dell’amore e le tragedie del nostro tempo, una apoteosi dell’amore per la vita, ma anche il racconto disperato del dolore che ogni esistenza umana si porta dietro, e che per la prima volta ci restituisce più che uno scrittore alla vecchia maniera un poeta moderno e di grande efficacia emozionale.

Lo scrittore di Seminara è attentissimo a evitare lungo il terreno del racconto le facili mine della retorica, ma la danza tra l’incanto dell’amore e l’orrore della guerra dimenticata arriva comunque a noi con la forza struggente delle immagini che non avremmo voluto vedere e che, invece, sono lì, implacabili a interrogarci e a interrogare.

Ma chi conosce bene il medico-scrittore di Seminara sa bene anche che Fadia sarà solo la scusa per raccontare agli italiani di Berna le mille bellezze calabresi e i mille retaggi che avvinghiano ancora questa regione. Del resto lui, nell’immaginario collettivo di mezzo mondo, più volte intervistato dalla BBC e da France 2, è conosciuto anche come l’uomo che un giorno trova il coraggio di denunciare il sistema marcio della sanità calabrese mettendo a rischio la sua vita e quella della sua famiglia. Ma questa è un’altra storia. (pn)

Sanità e Mafia in Calabria, “Le Point” racconta la storia di Santo Gioffrè

di PINO NANO – Anche la stampa francese scopre la “Sanità Calabra”. E’ il caso del settimanale “Le Point” (Il punto) che domenica 1 agosto ha dedicato la sua inchiesta di primo piano all’arrivo dei “medici cubani in Calabria” e ai mille risvolti oscuri della sanità calabrese. Vi ricordo che, nato nel 1972, fondato a Parigi da Olivier Chevrillon, Claude Imbert, Jacques Duquesne, Pierre Billard, Georges Suffert, Henri Trinchet e Philippe Ramond,”Le Point” è oggi il settimanale francese per eccellenza, tra i principali periodici generalisti di area di centro, giornale di grande diffusione in tutta la Francia e di grande peso politico.

Questa che “Le Point” dedica alla Calabria è un’inchiesta dura, documentata, che getta sulla Calabria e sul sistema sanitario calabrese tutto ombre e sospetti di vario genere,ma il tema è abbastanza complesso da presupporre anche letture critiche come questa. In compenso però, alla fine del suo lungo racconto, la giornalista francesce Hèloise Rambert; racconta in maniera puntigliosa la vicenda personale del medico scrittore di Seminara, Santo Gioffrè, e che per i francesi è un simbolo da imitare e soprattutto da conoscere e da raccontare.Una sorta di eroe moderno, che una mattina si sveglia e decide di combattare il malaffare da solo e in prima persona rischiando la vita.

Questa la trascrizione integrale delle cose scritte dalla testata parigina. «Nel febbraio 2015, Santo Gioffrè, medico e scrittore, è stato nominato Commissario Straordinario dell’Agenzia di Reggio Calabria. L’obiettivo era quello di mettere i conti in ordine e di fermare l’emorragia. In seguito ha visto da vicino le malversazioni che stavano minando il sistema sanitario calabrese e il sistema sanitario calabrese e lo sperpero di risorse pubbliche destinate alla cura di 2 milioni di italiani. “Mi sono reso conto che enormi fatture venivano pagate in doppio, in triplo, enormi fatture ai fornitori di servizi”, racconta Santo Gioffrè, che tuttora esercita la professione di ginecologo all’ospedale di Palmi, in Calabria. In particolare, ho bloccato un pagamento di 6 milioni di euro a una casa di riposo, che era già stato effettuato sei anni prima. Il comIl commissario lo vede con i suoi occhi: “la criminalità dei colletti bianchi che si nasconde dietro i grandi gruppi privati dei laboratori di analisi e aziende farmaceutiche”. Produce relazioni che sono state utilizzate, in particolare, per sciogliere l’Azienda sanitaria per associazione mafiosa quattro anni dopo».

Fatture dunque pagate due volte, e forse non solo questo. Una storia che è diventata quasi una leggenda metropolitana e che non fa che continuare a gettare fango e discredito sulla storia dei calabresi. Per fortuna però c’è ancora qualcuno, come il medico contadino e scrittore di Seminara che onora le migliori tradizioni calabresi. (pn)

A Roma Santo Gioffrè presenta il suo libro “Fadia”

di PINO NANOFadia (Castelvecchi Editore), l’ultima fatica letteraria di Santo Gioffrè, sarà presentata domani giovedì 2 febbraio a Roma alla Biblioteca Goffredo Mameli in Via del Pigneto 22 dal giornalista e scrittore Michele Santoro. Un evento nell’evento, a cui hanno già assicurato la propria presenza centinai di fans del medico scrittore calabrese di Seminara.

Fadia e Santo Gioffrè, un tourbillon di emozioni e di sentimenti, uno stile narrativo avvolgente e freschissimo, un misto di storia, di sociologia, di teologia, di umanesimo, un linguaggio moderno che, in alcuni punti, raggiunge un alto livello poetico. Santo Gioffrè questa volta va oltre la sua capacità letteraria di sempre e domani a Roma, con l’aiuto di un  grande giornalista dei nostri tempi, come lo è Michele Santoro, racconta gli ultimi, indaga le miserie e le contraddizioni degli uomini; riflette sul tempo che scorre veloce, a volte nemico, altre volte inesorabile, pienamente consapevole delle scelte che avremmo voluto fare e che prepotenti ci lasciano negli occhi e nell’anima la malinconia del non vissuto.

Fadia, l’ultima fatica letteraria del medico scrittore di Seminara Santo Gioffrè, ti strattona l’anima, ti affascina, ti incuriosisce, ti prende il cuore, un affresco di tenerezza e di sentimento, un tazebao di emozioni e di ricordi forti, legati ad una storia d’amore impossibile e fuori da ogni schema. Un lungo viaggio tra il mistero della vita, l’incanto dell’amore e le tragedie del nostro tempo, una apoteosi dell’amore per la vita, ma anche il racconto disperato del dolore che ogni esistenza umana si porta dietro, e che per la prima volta ci restituisce più che uno scrittore alla vecchia maniera un poeta moderno e di grande efficacia emozionale. In ogni pagina – forse anche per il privilegio di esserne amico da sempre – ne avverti la presenza, quasi a rassicurarti davanti all’abisso delle tragedie che improvvise compaiono agli occhi del lettore con forza quasi cinematografica. Ma in realtà potrebbe già essere non solo il titolo di un film di grande impatto mediatico, ma anche la sceneggiatura ideale di una storia tutta hollywoodiana.

Lo scrittore di Seminara è attentissimo a evitare lungo il terreno del racconto le facili mine della retorica, ma la danza tra l’incanto dell’amore e l’orrore della guerra dimenticata arriva comunque a noi con la forza struggente delle immagini che non avremmo voluto vedere e che, invece, sono lì, implacabili a interrogarci e a interrogare.

Fadia mi ha catturato, Fadia è, nei “rimpianti” taciuti di ciascuno di noi. Forse Fadia è anche un pezzo importante della sua vita privata, ma questo è un dettaglio di cui lo scrittore non ama parlare. In copertina la foto bellissima di una donna siriana di cui probabilmente lo scrittore calabrese conosce i segreti più reconditi della sua vita.

Mettiamola così, il romanzo Fadia è il desiderio di un cuore che vuol sciogliersi nei ricordi, alla ricerca di un mondo che, ormai, non c’è più e che porta struggenti dolori con sé.

Dottore, quanto c’è di autobiografico nel romanzo?

Io sono testimone di un mondo che viveva dentro le idealità e le critiche storture che hanno condizionato la vita di ognuno di noi nella seconda metà del XX secolo e nel primo decennio del XXI secolo. Ho voluto raccontare quel mondo perché nessuno potesse pensare che ciò che ora siamo sia dovuto al naturale svolgersi del tempo. Infatti, anche, l’ascesa di Andrea Bisi, ha dovuto fare i conti con quel mondo.

Ho trovato forte la descrizione della Siria, prima della guerra…

Vede, la Siria è stato il più bel luogo che io abbia visitato. Lì, si veniva catapultati in un mondo antico dove il profumo emanato dalle pietre, portava ogni problematico viaggiatore a ritrovare il suo perduto Spirito. Penso a Maalula, dove il primo cristianesimo pulsava, ancora persino nella lingua parlata. La guerra ha distrutto anche il senso dell’esistenza.

-È vero che in quella guerra, lei ha perso due cari amici?

È difficile, per me, parlare di Paolo, Boulos Yazigi, Arcivescovo Ortodosso di Aleppo, e di Kaled Al Asaad, il famosissimo Archeologo di Palmira. Tutti e due, assassinati dai terroristi dell’Isis. Mi furono, non solo amici, ma Padri Spirituali e la cui presenza aleggia, ancora in me.

Ma chi è, veramente, Fadia?

Fadia è una bellissima monaca che io ho conosciuto personalmente, che ha vissuto la tragedia della guerra così come io la racconto e anche, la sua bellissima storia d’amore.

Fadia, dunque, Un libro che si legge tutto d’un fiato, e che farà molto parlare di sé nei mesi che verranno. (pn)