di GREGORIO CORIGLIANO – Metti una sera a cena (o a pranzo) negli anni ’60! Quando soprattutto nei piccoli centri, marini o montani che fossero, non c’erano ristoranti, pizzerie, pub, ristopizze e invenzion-diavolerie di oggi. Come trascorrevano le ore in casa, dopo i doveri di lavoro, per i genitori, di studio, per i figli e di assistenza domestica per i nonni? C’è una premessa fondamentale: non si navigava nell’oro, molti i poveri, pochissimi i ricchi, tanti coloro i quali riuscivano ad unire il pranzo la cena, ma non di più. Ancora c’era il ricordo-abbandono della seconda guerra ed il paese, il mio, in questo caso, era un centro di piccole dimensioni, dipendente da altro Comune di cui era frazione, che aveva bisogno, sul piano pubblico di tutto: acqua, strade, fogne, luce e mi fermo qui.
Mio padre aveva il modesto stipendio di maestro elementare(i suoi fratelli erano tutti emigrati a Brooklyn) mia madre era casalinga. Noi, tre figli, andavamo a scuola, io, la prima media a Rosarno, mia sorella e mio fratello, le elementari, in Via Firenze. Si usciva di casa alle sette e quaranta, io prendevo l’autobus (Vardè, Camilleri – Aglioti era della generazione precedente, o, per me, forse solo il primo anno, con donna Caterina seduta al primo posto davanti, Peppino alla guida e Ciccio alla biglietteria) per Rosarno, i miei fratelli a piedi da Via Torino a Via Firenze. Mio padre era già partito col Guzzino rosso, tutto imbardato con giubbotto, giornali al petto, berretto con copri orecchi e occhialoni anti vento. Mia madre restava a casa, al focolare, in tutti sensi. Sistemare la casa, rifare i letti, cucinare al fuoco (‘u focularu) i fagioli (o i ceci) nella pignata, la verdura al fuoco della legna o ai fornelli di una modestissima cucina a gas. Girando e facendo, le ore della mattina trascorrevano lente. All’ora di pranzo, dopo le 13 e 30, tutti a casa più o meno puntuali, a meno che l’autobus non si fermasse alla “salita dello zoppo” per un guasto improvviso e, quindi tutti a piedi, o a passaggi, sperando in una rara macchina che potesse passare. Ed era quella del marchese, che non si fermava, di Cola Sorrentino, che si fermava e sempre e ci accoglieva con piacere, qualche volta la Giulietta fiammante di Totolino palla e qualche altra ancora, la Topolino di don Nino o di Pasquale Barbalace.
A casa si doveva mangiare tutti insieme. In religioso silenzio, almeno fino a quando il Giornale Radio non ultimava il “comunicato”! Già non si diceva “le notizie”! Ed allora? Non ti muovevi. Papà commentava i fatti ascoltati, soprattutto di politica, qualche volta di cronaca, ma tutto si svolgeva nella normalità di una famiglia del Sud riunita attorno al desco. Ed allora, tutti a sparecchiare, a mettere a posto. E poi? Mio padre dopo una breve pennichella, partiva a vendere olio Vaxol, di cui era rappresentante per la Piana (occorreva arrotondare lo stipendio di modesto, ma orgoglioso, insegnante elementare). Prima che partisse, io lo aiutavo a caricare il furgoncino dei bidoni, delle latte e delle lattine che lui vendeva a proprietari terrieri e trattoristi. Mia sorella e mio fratello, sparecchiata a tavola, aprivano i libri. Io facevo un salto sulla spiaggia, mia madre, prima di pensare a cosa cucinare per cena, si riposava con il cucito e, qualche volta, con il ricamo. Era bravissima. Ancora oggi ho lenzuola e cuscini con disegnate le nostre iniziali. Aveva imparato l’arte al laboratorio di suor Giuseppina.
Alle 17, noi ragazzi uscivamo a giocare, chi a pallone e chi alle “petrude”. Il campetto da calcio era dietro a casa mia, in un terreno di proprietà di Don Nando Barbalace, “u gnuri” che ce lo concedeva, anche perché tra i giocatori c’erano i suoi nipoti. Il più bravo era Nando che adesso guarda da lassù, in particolare Isabella (bravissima) e Nino, ma Vincenzo, Lillo e Carlo non erano da meno. Ogni tanto, passava sotto casa, Grazia a’ marinara e portava un po’ di pesce azzurro – soprattutto alici – ottime in tutti i modi. A mio padre piacevano addirittura arrostite ma condite con gocce d’aceto. Se poi eravamo fortunati ed eravamo sulla spiaggia al momento del rientro delle barche da pesca, compravamo le alici all’arrivo e le arrostivamo sulla spiaggia stessa. Mangiavi il mare! Slurp!
Per la spesa, non esistevano market e supermarket, ma una bottega di generi alimentari dove io venivo mandato a comprare il pane, la pasta, la mortadella. Il vino da Turi “u nillu” a bottiglie da un litro e mezzo, la frutta al mercato in piazza, frutta freschissima dalle terre di Nicotera che ancor oggi è la più buona, specialmente le primizie. Per non parlare di finocchi, peperoncini, azzalorazzi e rughetta. E non si sprecava nulla. Se rimaneva pasta, mia mamma la conservava per la sera e la impastava con una frittata. E dopo cena, verso le 19.30, se era inverno, si stava attorno alla ruota col braciere (ancora ho sia l’una che l’altro) e mio padre ci parlava della guerra – era partito nel 1939 e rientrato dopo 9 nove anni – e soprattutto delle pene patite in prigionia, in India, ai piedi dell’Himalaya.
Mia madre, quando mio padre si addormentava, ci raccontava dei sacrifici fatti da suo padre e dai suoi fratelli per coltivare la terra. Divertimento? Non tanto, anche perché la televisione non c’era. L’aveva un nostro cugino, Pasquale Ferro, padre di Mimì e Carmela. Andavamo a casa sua per vedere “Lascia o raddoppia” o Campanile Sera. Nel periodo di Natale, c’era Canzonissima. Per il resto, niente – cioè tutto – rientravamo sereni, anche se morti di freddo. La casa era gelata, il calore veniva dal braciere che spostavi nelle varie stanze. Ed a letto? Il mattone caldo, o la bottiglia di vetro con acqua bollita! E ti addormentavi pronto a rialzarsi al mattino e a ripetere la serenità dei giorni precedenti. E si viveva, con un bagno – non in camera – per sette persone e senza vasca e senza bidet! Cos’era? Ed il bagno dei ragazzi? In cucina dentro una bagnarola “u tacciu” e, spesso, senza cambiare l’acqua che veniva riscaldata al “focularu”, e che all’ultimo turno non era proprio calda!
A scuola a Rosarno, ci prendevano in giro (pensavano i poveri cristi) e ci dicevano di correre a casa perché il maltempo “si livau i casetti”. Arrivavi, con mezzi di fortuna, se non a piedi – erano 4-5 km – per trovare il diluvio. Le strade erano allagate, spesso l’acqua entrava in casa e dovevi aiutare mamma e papà a spingerla fuori con scope, stracci, “sirti”, secchi. E quelle volte che il mare si arrabbiava, agitandosi a dismisura? Quelle rare volte – a me ne sono capitate due – era una tragedia vera e propria. Non era acqua piovana, in casa entrava l’acqua del mare e distruggeva tutto, rendendo tutto inutilizzabile. Per toglierla e fare pulizia non bastava tutta la notte fino all’alba, quando stremato ti buttavi al gelo di un letto bagnato. Però? Se ci fosse stata Rossella O’Hara avrebbe detto “Domani è un altro giorno”. E grazie a Dio, ce ne sono stati tanti. Alla miseria e alle ristrettezze siamo sopravvissuti! (gc)