Situazione al collasso nella tendopoli di San Ferdinando: la denuncia di Anastasi

Il consigliere regionale Marcello Anastasi lancia l’allarme sulla gravissima situazione ai limiti dell’emergenza che si sta verificando alla tendopoli di San Ferdinando di Rosarno, dopo l’istituzione della zona rossa.

«Lo Stato – ha dichiarato Anastasi, capogruppo di Io resto in Calabria – deve far sentire davvero la sua presenza a San Ferdinando e a Rosarno. Non è possibile limitarsi a istituire la zona rossa e poi lasciare che sia le persone che sopravvivono nelle tendopoli sia gli appartenenti alle forze dell’ordine rimangano in balia di un’emergenza che ha raggiunto livelli intollerabili per tutti. Non sono accettabili le condizioni che si stanno verificando in quei luoghi: da una parte servitori dello Stato che devono fronteggiare episodi di violenza come quello verificatosi con la sassaiola delle scorse ore, dall’altro braccianti sfruttati da caporali e “prenditori” senza scrupoli che, ora, con il Covid-19 vivono un’ulteriore situazione di ghettizzazione. La Regione Calabria e la Prefettura di Reggio devono intervenire in maniera risolutiva per garantire da un lato il rispetto dei diritti umani degli ospiti della tendopoli e, dall’altro, la sicurezza del personale delle forze dell’ordine».

Nella Piana di Gioia Tauro – aggiunge il capogruppo di IRIC – «ci sono tanti beni confiscati alle famiglie mafiose della zona che sono inutilizzati da anni e dove si potrebbe far fare la quarantena ai migranti della tendopoli, tra i quali, come ho avuto modo di constatare personalmente in queste ore, ci sono anche persone con problemi di salute che non possono certo stare in isolamento in una tenda. È bene ricordare che le leggi vanno osservate da tutti, italiani e africani, ma è altrettanto necessario che in un Paese civile l’osservanza delle regole sia affiancata dalla garanzia dei diritti. Diritti che oggi in questo territorio – conclude Anastasi – sono negati sia ai padri di famiglia che portano la divisa sia ai braccianti che sopravvivono nel ghetto in condizioni rese ancora più drammatiche dalla presenza del Coronavirus. La bomba sociale e sanitaria della Piana va disinnescata al più presto». (rrc)

L’Espresso scopre la bomba ambientale di San Ferdinando di Rosarno: “sfruttati, beffati e puniti”

Sull’Espresso da oggi in edicola, la giornalista calabrese Alessia Candito racconta cosa è rimasto dopo lo sgombero della baraccopoli inumana di San Ferdinando di Rosarno. «Ecco cos’è rimasto: una bomba ambientale, migliaia di  lavoratori per l’ennesimo anno senza casa e senza diritti e un esercito di braccianti, clandestinizzato per decreto» – dice la giornalista.

Nel suo reportage, Alessia Candido racconta tante storie di disperazione: «È lì che all’alba, da anni, ogni mattina apre il mercato delle braccia. E i nuovi schiavi rischiano di essere sempre di più perché ad ingrossarne i ranghi ci sono tutti gli orfani della protezione umanitaria. Come Ibrahim. Trentun anni, ivoriano, in Italia dal 2015. Assunto in un piccolo negozio di ferramenta della provincia di Reggio Calabria, in breve è diventato fondamentale per la coppia di titolari. Cinquantacinque anni lui, un po’ meno lei, storicamente di centrodestra, persino sedotti dalla retorica di Salvini, di fronte a quel ragazzo e al suo impegno si sono dovuti ricredere. Progettavano di regolarizzarlo: l’età avanza, il lavoro in ferramenta è pesante ed è meglio assicurarsi una persona di fiducia. Ma il permesso umanitario di Ibrahim è scaduto prima che il contratto venisse formalizzato e alla richiesta di rinnovo, la commissione territoriale ha risposto un secco no. Lavoro regolare, una casa in affitto, un discreto livello di conoscenza  di lingua italiana, una rete ormai solida di rapporti non solo con connazionali, non sono bastati. Per la commissione la situazione in Costa d’Avorio non è sufficientemente tragica da motivarne la permanenza in Italia. Fino a qualche mese non era così…».

Una coraggiosa denuncia, che se da un lato farà aumentare l’indignazione di tutti, dall’altro, purtroppo, non troverà grande ascolto. La baraccopoli non c’è più, ma i problemi sono aumentati a dismisura e «nessuno – dice la Candito – sembra avere in mente una soluzione». Scrive, sconsolatamente la giornalista: «Mentre le baracche cadevano come castelli di carta, i più sono andati via. A chi è rimasto, Viminale, Prefettura e istituzioni locali hanno offerto tanti proclami, qualche promessa di immediata bonifica dell’area, alloggi e solo “temporaneamente” nuove tende. Sono passati 7 mesi e sotto un sudario di erba, le macerie ci sono ancora. Percolato, ceneri e brandelli delle lastre di eternit che rivestivano le baracche – avvertono gli ambientalisti – stanno contaminando l’area. Ma dal ministero, i 569 mila euro necessari per rimozione delle macerie e bonifica dell’area non sono arrivati mai. Al pari degli alloggi. Le tende blu ministeriali, invece sono ancora lì». (rrm)

La lettura della Domenica / Quegli indimenticabili e irripetibili Anni Sessanta in Calabria

di GREGORIO CORIGLIANO – Metti una sera a cena (o a pranzo) negli anni ’60! Quando soprattutto nei piccoli centri, marini o montani che fossero, non c’erano ristoranti, pizzerie, pub, ristopizze e invenzion-diavolerie di oggi. Come trascorrevano le ore in casa, dopo i doveri di lavoro, per i genitori, di studio, per i figli e di assistenza domestica per i nonni? C’è una premessa fondamentale: non si navigava nell’oro, molti i poveri, pochissimi i ricchi, tanti coloro i quali riuscivano ad unire il pranzo la cena, ma non di più. Ancora c’era il ricordo-abbandono della seconda guerra ed il paese, il mio, in questo caso, era un centro di piccole dimensioni, dipendente da altro Comune di cui era frazione, che aveva bisogno, sul piano pubblico di tutto: acqua, strade, fogne, luce e mi fermo qui.

Mio padre aveva il modesto stipendio di maestro elementare(i suoi fratelli erano tutti emigrati a Brooklyn) mia madre era casalinga. Noi, tre figli, andavamo a scuola, io, la prima media a Rosarno, mia sorella e mio fratello, le elementari, in Via Firenze. Si usciva di casa alle sette e quaranta, io prendevo l’autobus (Vardè, Camilleri – Aglioti era della generazione precedente, o, per me, forse solo il primo anno, con donna Caterina seduta al primo posto davanti, Peppino alla guida e Ciccio alla biglietteria) per Rosarno, i miei fratelli a piedi da Via Torino a Via Firenze. Mio padre era già partito col Guzzino rosso, tutto imbardato con giubbotto, giornali al petto, berretto con copri orecchi e occhialoni anti vento. Mia madre restava a casa, al focolare, in tutti sensi. Sistemare la casa, rifare i letti, cucinare al fuoco (‘u focularu) i fagioli (o i ceci) nella pignata, la verdura al fuoco della legna o ai fornelli di una modestissima cucina a gas. Girando e facendo, le ore della mattina trascorrevano lente. All’ora di pranzo, dopo le 13 e 30, tutti a casa più o meno puntuali, a meno che l’autobus non si fermasse alla “salita dello zoppo” per un guasto improvviso e, quindi tutti a piedi, o a passaggi, sperando in una rara macchina che potesse passare. Ed era quella del marchese, che non si fermava, di Cola Sorrentino, che si fermava e sempre e ci accoglieva con piacere, qualche volta la Giulietta fiammante di Totolino palla e qualche altra ancora, la Topolino di don Nino o di Pasquale Barbalace.

A casa si doveva mangiare tutti insieme. In religioso silenzio, almeno fino a quando il Giornale Radio non ultimava il “comunicato”! Già non si diceva “le notizie”! Ed allora? Non ti muovevi. Papà commentava i fatti ascoltati, soprattutto di politica, qualche volta di cronaca, ma tutto si svolgeva nella normalità di una famiglia del Sud riunita attorno al desco. Ed allora, tutti a sparecchiare, a mettere a posto. E poi? Mio padre dopo una breve pennichella, partiva a vendere olio Vaxol, di cui era rappresentante per la Piana (occorreva arrotondare lo stipendio di modesto, ma orgoglioso, insegnante elementare). Prima che partisse, io lo aiutavo a caricare il furgoncino dei bidoni, delle latte e delle lattine che lui vendeva a proprietari terrieri e trattoristi. Mia sorella e mio fratello, sparecchiata a tavola, aprivano i libri. Io facevo un salto sulla spiaggia, mia madre, prima di pensare a cosa cucinare per cena, si riposava con il cucito e, qualche volta, con il ricamo. Era bravissima. Ancora oggi ho lenzuola e cuscini con disegnate le nostre iniziali. Aveva imparato l’arte al laboratorio di suor Giuseppina.

Alle 17, noi ragazzi uscivamo a giocare, chi a pallone e chi alle “petrude”. Il campetto da calcio era dietro a casa mia, in un terreno di proprietà di Don Nando Barbalace, “u gnuri” che ce lo concedeva, anche perché tra i giocatori c’erano i suoi nipoti. Il più bravo era Nando che adesso  guarda da lassù, in particolare Isabella (bravissima) e Nino, ma Vincenzo, Lillo e Carlo non erano da meno. Ogni tanto, passava sotto casa, Grazia a’ marinara e portava un po’ di pesce azzurro – soprattutto alici – ottime in tutti i modi. A  mio padre piacevano addirittura arrostite ma condite con gocce d’aceto. Se poi eravamo fortunati ed eravamo sulla spiaggia al momento del rientro delle barche da pesca, compravamo le alici all’arrivo e le arrostivamo sulla spiaggia stessa. Mangiavi il mare! Slurp!

Per la spesa, non esistevano market e supermarket, ma una bottega di generi alimentari dove io venivo mandato a comprare il pane, la pasta, la mortadella. Il vino da Turi “u nillu” a bottiglie da un litro e mezzo, la frutta al mercato in piazza, frutta freschissima dalle terre di Nicotera che ancor oggi è la più buona, specialmente le primizie. Per non parlare di finocchi, peperoncini, azzalorazzi e rughetta. E non si sprecava nulla. Se rimaneva pasta, mia mamma la conservava per la sera e la impastava con una frittata. E dopo cena,  verso le 19.30, se era inverno, si stava attorno alla ruota col braciere (ancora ho sia l’una che l’altro) e mio padre ci parlava della guerra – era partito nel 1939 e rientrato dopo 9 nove anni – e soprattutto delle pene patite in prigionia, in India, ai piedi dell’Himalaya.

Mia madre, quando mio padre si addormentava, ci raccontava dei sacrifici fatti da suo padre e dai suoi fratelli per coltivare la terra. Divertimento? Non tanto, anche perché la televisione non c’era. L’aveva un nostro cugino, Pasquale Ferro, padre di Mimì e Carmela. Andavamo a casa sua  per vedere “Lascia o raddoppia” o Campanile Sera. Nel periodo di Natale, c’era Canzonissima. Per il resto, niente – cioè tutto – rientravamo sereni, anche se morti di freddo. La casa era gelata, il calore veniva dal braciere che spostavi nelle varie stanze. Ed a letto? Il mattone caldo, o la bottiglia di vetro con acqua bollita! E ti addormentavi pronto a rialzarsi al mattino e a ripetere la  serenità dei giorni precedenti. E si viveva, con un bagno – non in camera – per sette persone e senza vasca e senza bidet! Cos’era? Ed il bagno dei ragazzi? In cucina dentro una bagnarola “u tacciu” e, spesso, senza cambiare l’acqua che veniva riscaldata al “focularu”, e che all’ultimo turno non era proprio calda!

A scuola a Rosarno, ci prendevano in giro (pensavano i poveri cristi) e ci dicevano di correre a casa perché il maltempo “si livau i casetti”. Arrivavi, con mezzi di fortuna, se non a piedi – erano 4-5 km – per trovare il diluvio. Le strade erano allagate, spesso l’acqua entrava in casa e dovevi aiutare mamma e papà a spingerla fuori con scope, stracci, “sirti”,  secchi. E quelle volte che il mare si arrabbiava, agitandosi a dismisura? Quelle rare volte – a me ne sono capitate due – era una tragedia vera e propria. Non era acqua piovana, in casa entrava l’acqua del mare e distruggeva tutto, rendendo tutto inutilizzabile. Per toglierla e fare pulizia non bastava tutta la notte fino all’alba, quando stremato ti buttavi al gelo di un letto bagnato. Però? Se ci fosse stata Rossella O’Hara avrebbe detto “Domani è un altro giorno”. E grazie a Dio, ce ne sono stati tanti. Alla miseria e alle ristrettezze siamo sopravvissuti! (gc)

Furgiuele (Lega): 1000 immigrati nella baraccopoli di San Ferdinando

L’on. Domenico Furgiuele (Lega), in una nota, evidenzia le modalità dello sgombero della baraccopoli di San ferdinando di Rosarno. «Inizia a vedere la luce – scrive l’on. Furgiuele – un’opera di civiltà attesa da lunghissimo tempo, che nessuno mai in tutti questi decenni ha avuto il coraggio politico di compiere. È finito il tempo delle parate e delle chiacchiere. Oggi, finalmente, possiamo annunciare il via alle operazioni propedeutiche allo sgombero della baraccopoli della vergogna di San Ferdinando».

«Posso, – dice il deputato leghista – dal mio canto, confermare, anche perché in costante contatto con fonti del Viminale che la macchina dello smantellamento si è messa in moto. Lo sgombero interesserà circa 1.000 immigrati attualmente nel sito di San Ferdinando: a ogni extracomunitario regolare sarà assicurata una sistemazione nei circuiti ufficiali dell’accoglienza (ex Sprar, Cara, Cas). In queste ore si stanno svolgendo anche ulteriori verifiche sullo status degli extracomunitari per garantire che il tutto si potrà svolgere nel modo più efficace e secondo legge.  Siamo dunque ad una svolta in un sito assurto negli ultimi tempi agli onori delle cronache per alcune atroci morti e per le sue condizioni igienico sanitarie divenute francamente insostenibili per un contesto civile».  (rp)

Scomparirà la vergogna di San Ferdinando? Sgombera l’infame baraccopoli dei disperati

Forse è la volta buona: l’infame baraccopoli di San Ferdinando di Rosarno nei prossimi giorni dovrebbe essere sgomberata e rasa al suolo. L’inferno in terra per centinaia di braccianti di colore, stagionali nelle campagne di Gioia, e vergogna per tutto il genere umano per le condizioni di invivibilità, dovrebbe scomparire, per ordine del sindaco di San Ferdinando Andrea Tripodi. La sua ordinanza parla chiaro: «immediato sgombero di persone e cose dall’area adibita a vecchia tendopoli per immigrati extracomunitari, per la bonifica e la demolizione di quanto intorno alla stessa abusivamente realizzato».

Ci sono voluti tre morti, a causa di incendi scoppiati nella bidonville, centinaia di articoli di giornali, inchieste televisive, interventi di sindacati e associazioni umanitarie: la vergogna di San Ferdinando è ancora lì, speriamo giusto per qualche giorno ancora, a rinfacciare la mancanza di umanità e il disprezzo per i disperati che vi hanno trovato rifugio. Là dentro ci vivono 500/600 extracomunitari, non si conosce nemmeno il numero esatto, in condizioni di assoluto degrado e di disperazione. Sono i dannati della terra, stagionali (la raccolta delle arance è quasi finita, cercheranno altri luoghi che hanno bisogno di braccia per l’agricoltura), che vivono una non-vita in un non-villaggio. Molti di loro saranno trasferiti nella nuova tendopoli, o – in presenza di permesso di soggiorno per motivi umanitari – nei centri SPRAR (Sistema di protezione per i richiedenti asilo e rifugiati) o nei punti CAS (Centri di Accoglienza Straordinaria) sparsi in Calabria.

La tendopoli di San Ferdinando di Rosarno

È una prima soluzione, ma certamente non basterà. Occorre pensare – con il contributo fattivo di tutta l’area metropolitana di Reggio – a dare un tetto a questi lavoratori, offrire loro condizioni di vita “umane”, visto che la loro fatica si traduce in benessere per le produzioni agricole della regione. I braccianti extracomunitari provengono dalla Nigeria, dal Gambia, dal Mali: c’è tutta l’Africa sahariana a voler individuare la provenienza dei disperati. Una non-vita, si diceva: certo che poi all’interno del campo ci siano risse, violenza, disperazione.

Come si è potuto consentire che si creasse una baraccopoli sempre più miserabile e degradata, unico scampo alla disperazione, unico tetto e riparo da pioggia, vento e gelo? Le tende della Protezione Civile e del Ministero dell’Interno sono un parziale ripiego, occorre, però, individuare in fretta soluzioni per chi lavora e lotta, ogni giorno, per la sopravvivenza. Il rischio è che alla vergogna della bidonville si sovrapponga una disumana opera di “deportazione”: non ci sarà spazio per tutti nelle nuove tende. È se si pensasse ai tanti capannoni abbandonati dell’area del porto di Gioia Tauro? Adattare moduli abitativi all’interno di ciò che resta del sogno di un’industrializzazione mancata non dovrebbe essere troppo complicato o più costoso di altre soluzioni. La Regione, che ha messo a disposizione fondi per pagare gli affitti di case da destinare ai migranti, dovrebbe farci un pensierino. (s)

STORIE / QUELL’ESTATE DI ROSSELLINI E INGRID BERGMAN A SAN FERDINANDO

di GREGORIO CORIGLIANO

Estate 1949. Non posso avere ricordi, se non racconti. Di mio padre in primis, ma anche di marinai vicini di casa. La mia, o meglio quella dei miei genitori e dei miei zii, ormai emigrati nelle lontane Americhe, era a venti metri dalla spiaggia. Il tempo libero, dopo il lavoro – campagna, uffici (pochi), pesca, la zappa della terra – si trascorreva sulla spiaggia. È un fatto che, d’inverno e soprattutto d’estate, era sempre affollatissima, giovanotti, ragazzotte, marinai, anziani. Di mattina per “prendere il bagno”, la sera per sdraiarsi sulla calda sabbia e sognare. Da soli o con un vicino per le classiche quattro chiacchiere. E sulla spiaggia potevi assistere a tutto ciò che avveniva anche in mare. Il passaggio delle traghetto, delle petroliere, di qualche yacht e, più spesso, alla pesca dei marinai di casa nostra. Di giorno, con il capobarca,a poppa, gli aiutanti ai remi. Il motore era di là da venire. Di sera, assistevi al varo in mare, con falanghe e lampare, dopo che l’avevi sistemata col petrolio, sufficiente per l’intera nottata. Tutti si dava una mano, fin quando “la jolla” non prendeva il largo. Poi in lontananza assistevi alla pesca in notturna, soprattutto aguglie e sentivi il canto dei marinai “a ribba a ribba e mari, turnamu a mani vacanti, si ‘Signururuzzu ndassisti ncuna cosa purtamu”. Se il Signore ci assiste qualcosa (di pesce) portiamo a casa. Per loro o per venderlo. Storia di tutte le sere.
Una volta, nell’estate del 1949, si ferma a riva una barca immensa, a motore. Scoppiettante, segno che qualcosa non andava, Fa in tempo ad arrivare a riva. E tutti, mi diceva mio padre, a correre, coi piedi nell’acqua per capire cosa fosse successo. Ed anche per conoscere i passeggeri. Non un panfilo, non uno yacht vero e proprio, come quelli (quasi) che incontri oggi a Vibo Marina, a Pizzo o alle Eolie, ma un signor battello, modesto, ma di comode dimensioni. Scendono i marinai ed in perfetto italiano chiedono di un meccanico perché il motore perdeva colpi. E siccome dovevano recarsi a Stromboli volevano una messa a punto, una controllatina. Si cerca e si trova il motorista dei trattori campagna – non cambiava moltissimo quanto a funzionalità – e questo, con i propri comodi, dopo qualche oretta arriva.
Erano le otto di sera, ancora giorno. Ragazzi coi tamburelli, giovanotte coi cerchietti, tutti imperterriti a proseguire nel loro divertimento (!!). Ad un certo punto, arrivato il motorista per riparare il guasto, si vedono scendere dal battello due distinti signori. Lui scende per primo e dà la mano a lei, vestiti eleganti, anche per essere a mare. Lui coi piedi in acqua, prende in braccio lei e la porta sulla spiaggia. Nessuno aveva idea di chi fossero. Solo un cultore di film azzarda un’ipotesi, ma in silenzio. Non avendo certezze aveva sussurrato: Roberto Rossellini. Vuoi vedere che è lui? Non perché avesse visto molti film, ma perché – essendo la moglie lettrice appassionata di Grand Hotel – aveva visto le foto  dei due piccioncini. Lei aveva lasciato il marito Peter Lindstrom e lui l’attrice con cui viveva, nientepopodimeno che Anna Magnani, la divina. Ed i rotocalchi di quell’epoca, ora come allora, erano pieni di foto. Un lampo: sono loro, sono loro.
E giù a fare una, al massimo due foto. Si chiama l’unico fotografo del paese, il signor Speciale detto “Sorridete” perché ad ogni foto chiedeva a tutti un sorriso da sotto la tenda nera dove si nascondeva, e, prontamente scatta le foto che, Rossellini sequestra immediatamente. Perché? Rossellini non aveva ancora detto che avrebbe girato il film “Stromboli, ancora oggi come allora, famosissimo, con l’attrice svedese. Si interrompono i giochi, suonano le campane:la Bergman e Rossellini a San Ferdinando, Reggio Calabria, tutti a mare. Tutti a mare davvero, ma  il cordone dei marinai impedisce ai nostri genitori di avvicinarsi. Si potevano vedere da lontano. Rossellini mandava saluti di ringraziamento, la divina Ingrid dispensava sorrisi, seduta sulla spiaggia. Nient’altro.
Visto che il motorista impiegava più tempo del previsto e cominciava a farsi buio, la notizia si sparse per tutto il paese. E vorrei vedere! È mai capitata un’altra notizia simile? Mai. A San Ferdinando, allora frazione di Rosarno, il sindaco non c’era. Si chiamò il delegato. Se non erro si chiama Sigismondo Crispi. Arrivò subito, parlò con Rossellini ed invitò a casa sua la coppia più famosa del cinema di allora. Ingrid e Roberto accettarono. Il delegato non sapeva parlare inglese ma aveva molti amici, oltre che una bella casa. E estese gli inviti. Tra questi mio padre che, dopo anni ed anni di prigionia degli inglesi ai piedi dell’Himalaya, riusciva a parlottare la lingua di Albione.
Una cenetta frugale, a base di pesce, tra qualche canto, sorrisi, convenevoli. Fino a quando il motore non fu riparato e la coppia fu pronta a ripartire. A cena si apprese che Ingrid Bergman e Roberto Rossellini erano diretti proprio a Stromboli per girare l’omonimo film. Mio padre diede loro tutte le informazioni possibili perché sua madre, mia nonna, Mariangela De Simone, era proprio di Stromboli. Lui aveva 43 anni, lei 34. Una storia d’amore che gli esperti di cinema conosco bene. Come conoscono i film interpretati dalla coppia che, allora, fece scandalo, con mariti e mogli lasciati. Nessuno, o pochi – forse – hanno mai saputo della sera d’amore calabro-sanferdinandese. Una bella storia! A lieto fine. Si pensava che Isabella potesse essere stata concepita a Stromboli. No! Nacque tre anni dopo. Roberto Ingmar Giuseppe Giusto nacque, invece, nel 1950. Avrà sangue eoliano nelle vene!  (g.c.)

QUELLE ESTATI SUL TIRRENO APPENA 50 ANNI FA…

di GREGORIO CORIGLIANO

Non è da moltissimo tempo che si fanno le vacanze. Anzi. Fino a poco più di 50 anni fa, probabilmente, la parola vacanza era conosciuta da pochi. Nei mesi canonici di luglio e di agosto in Italia ed in parte in Europa, si rimaneva in casa. I fortunati erano coloro che avevano la casa di abitazione al mare o in montagna. I più la preferivano al mare perché così avrebbero potuto “cullarsi tra le onde o stendersi sulla spiaggia con la scusa del “sole per l’inverno” o per fare le c.d. “sabbiature” contro i possibili reumatismi. C’erano anche coloro che ritenevano di dover andare in Aspromonte, in Sila o sul Pollino per godere delle frescure dei boschi.
C’erano delle differenze,però. Chi aveva la casa di abitazione al mare, ricavava due ore per “prendere” il bagno e poi tornava a casa. Chi invece viveva in montagna, a meno che non fosse ricco ed avesse la casa di proprietà, o doveva viaggiare – ma era una faticaccia – oppure provvedere al fitto di un localino. Gli storico-statistici fanno risalire al 1967 l’anno di inizio delle vacanze. Era l’anno in cui si scendeva a mare e ci si portava dietro – racconta chi questa esperienza l’ha fatta – un lenzuolo bianco che si sistemasse a mo’ di ombrellone, ma anche di spogliatoio, i giochini dei bambini, rigorosamente un cocomero ed un paio di bottiglie d’acqua che si facevano rinfrescare a mare. I frigoriferi ancora non c’erano. A mare si sistemava anche il cocomero. Questo per chi rientrava a casa per l’ora di pranzo, perché, c’erano anche quanti restavano l’intera giornata a mare, viaggiando dai paesi vicini, in autobus.  In questo caso, le masserizie da portare sulla spiaggia erano davvero molte di più. Sedie e sedioline di tutti tipi, salvagenti, tovaglie, cibo preparato la mattina, vino e poi via al mare a sciacquettarsi. Poi, il pranzo luculliano, il sonnellino, rigorosamente, d’obbligo, da parte di mariti, mentre le mogli dovevano accudire i bambini che erano il motivo ufficiale della “calata” al mare. Perché, con la scusa dei ragazzini, anche mamma e papà godevano della frescura delle acque del Tirreno o dello Ionio. Naturalmente non c’erano lidi o stabilimenti balneari per cui tutto avveniva sulla spiaggia, compreso il cambio dell’eventuale pannolino. E dove finivano i c.d. “resti” della giornata a mare? Tutto sulla spiaggia, che era luogo di svago, luogo di sole, ma anche per nascondere i rifiuti. Già da allora il problema, croce e delizia,anche oggi degli amministratori. Ed il bello è che c’era più gente allora che non oggi. Anche se, essendoci maggiori disponibilità, oggi si va di quà e di là, anche per conoscere nuovi lidi, appunto. Quando non si va fuori provincia o fuori regione.


Allora era un arrangiarsi del quale nessuno si vergognava, probabilmente perché ci si conosceva tutti od anche perché le spiagge di un tempo erano talmente lunghe e pulite – come il mare “era una tavola blu” – che ognuno trovava spazi anche per tutelare la propria privacy. Suore e sacerdoti avevano i loro spazi privati. Nel luogo dell’anima, (San Ferdinando mare, un tempo ormai lontano frazione di Rosarno!) si ricavavano gli spazi per giocare al pallone, ai tamburelli o ai cerchietti (per le ragazze), le bocce o i piattelli sarebbero arrivati anni dopo.
Di motoscafi neanche a parlarne. Al massimo, la barchetta con i remi,senza motore, che ti prestava qualche marinaio,tuo compagno di scuola, giusto per il gusto di vedere il mare “turchino”, che era molto lontano dalla riva. E la mattina e la sera? Essendo, il luogo dell’anima, dove si aveva ( e si ha casa) avevi i compiti preassegnati dai genitori. La mattina si accompagnava il papà in campagna per i lavoretti di stagione, tra questi il problema dell’irrigazione che è stato sempre un dramma per la carenza d’acqua (come quest’anno), poi gli anticrittogamici per le malattie delle piante e se qualcuno aveva provveduto a piantare frutta di stagione a raccogliere i cetrioli, i peperoni, i pomodori o i cocomeri.
Alle undici, rigorosamente dopo il 29 giugno, perché una triste leggenda impediva di fare il bagno prima di quella data, il tuffo in mare. Nuotata di rito fino a quando le labbra non diventavano nere, poi sulla spiaggia, ad “arrenarsi” a buttarsi sulla “rena” che bruciava per il calore e cosi riscaldarsi per poi rituffarsi. Qualche volta si preparavano i sacchetti per i tuffi dall’alto, qualche altra la gara “alle calate”. Farsi spingere il malcapitato, cioè, dalla testa e possibilmente arrivare a toccare terra sott’acqua. Era una gioia se il mare era calmo. Perchè, ove mai fosse stato agitato? Ancora meglio, per i giovanotti che si dovevano far vedere dalle amiche che erano capaci di tuffarsi anche quando c’erano i cavalloni che incutevano paura. I più arditi,però,non ne avevamo e riuscivamo a sfidare la furia delle onde, qualche volta correndo il pericolo di non riuscire a venir fuori.
Eravamo costretti ad aspettare un po’ di “calmeria” che di tanto in tanto arrivava. Si era fatta l’ora di pranzo, si doveva tirar la bottiglia dal pozzo dove, legata con una cordicella, mio padre, la faceva rinfrescare, poi si preparava – d’obbligo – l’idrolitina, poi ancora si portava in cucina il cocomero che mia madre tagliava a fette. Nel frattempo aveva preparato i peperoni arrostiti sulla “fornacetta”! E poi? Poi c’era il rito della pennichella che precedeva i compiti che gli insegnanti ti avevano assegnato. Fino alle 18. Dalle 18 alle venti si tornava sulla spiaggia, giusto per non perdere l’abitudine. Si giocava, anche se c’era chi tornava a fare il bagno. Tamburelli o, sotto le barche, il gioco a carte napoletane. Senza soldi, anche perché non ce ne erano. Poi, il rientro per la cena. Ed infine, udite, udite, a parte quanti tornavano a mare, si stava seduti di fronte all’uscio di casa a “spettegolare” con genitori, parenti ed amici, con la scusa di prendere un po’ d’aria fresca. Naturalmente di condizionatori neanche a parlarne. Non c’era il frigorifero! C’era la spensieratezza, però! L’ansia non si sapeva cosa fosse, chi più chi meno. La compagna di vita era la gioventù che passa in fretta e non torna più. Memento!

SAN FERDINANDO (RC): PROFUMO DI MARE, SAPORI DI CALABRIA

di GREGORIO CORIGLIANO

“Vinisti?” Si. E “quando vinisti?” Ieri sera. “E quando tindi vai?” Non lo so. “Veni e mangi a casa mia?” Queste, in sintesi, le prime parole che ascolto quando arrivo nel luogo dell’anima per le vacanze. Costa smeralda, Billionaire? Ma quando mai? Vuoi mettere il posto dove gli odori, i sapori, gli sguardi ti appartengono e cambiarli con il lusso che secondo me vacanza non è? Anche quest’anno è stato così.
Sono arrivato in tarda mattinata a San Ferdinando di Rosarno e, prima di ogni altra cosa, la voglia è stata, dopo qualche salutino familiare, di guardare il mio mare, bagnarmi i piedi, stendermi al sole e salutare i vicini di ombrellone che io, per la verità, non porto mai. Preferisco una sediolina, sedermi e leggere uno- due giornali. Il tempo di acclimatarmi. Ed abitando a venti metri-venti dal mare nella casa che fu dei miei genitori e che adesso è rimasta a noi tre figli, rientro per la doccia d’obbligo,nel cortile, poi mi sdraio sulla veranda a controllare lo smart-phone, poi mi avvicino al desco. La colf, bravissima, Nathalia, ucraina, aveva preparato per noi, uno spaghetto con panna e nduja. Squisito. Conciliava  la pennichella. Fino a quando? Fino quando “me sceto, diceva il mio compare Franco Bucarelli, voce e storico inviato speciale del gr2 per trenta e più anni. Adesso in pensione. Cioè, senza orario fino a quando mi sveglio. E cosi, tutti giorni. La lettura dei giornali, almeno tre, per iniziare, poi la prosecuzione alla sveglia. Un po’ ancora sdraiato a letto e se il caldo non era di quelli terribili, sulla veranda che da su un grande giardino pieno di verde curato dal mio amico Ciccio Scarfò, con molta cura.
La sdraio, che adopero venti giorni all’anno, è sempre la stessa da almeno dieci. Io non amo cambiare. Anche le poltrone, le sedie e le lampade sono sempre le stesse che sistemo io stesso il primo giorno che arrivo. Alle venti, non prima per via del caldo, esco e vado o sul lungomare o in piazza. A seconda di come sono predisposto. Se vado prima in piazza, sul lungomare vado dopo cena. In piazza? A far che? Ad incontrare i miei amici di infanzia e qualcuno  acquisito di recente. Basta attendere e nel volgere di un’ora arrivano tutti. Ed allora, dopo il “quando vinisti” i saluti di rito. Come va, come non va, ti fermi molto, fa il bagno in genere. Stasera che e dove mangi. E poi via alle chiacchiere consuete, in linea di massima sempre le stesse. Da anni. Primo discorso. Ci sono belle donne? Ci sono turisti? Il paese è migliorato? E poi via con il classico  “ti ricordi?” di prammatica.


Ed i ricordi sono di persone e di cose. Il primo a tirare fuori il dialetto dell’anima, è Ciccio, che pur vivendo a Parma, da quaranta anni, è quello che ricorda il dialetto alla perfezione, anche quello non più in uso. “Vieni a casa mia stasera?” Ti faccio una “mpagghiata”. E cos’è. E “di undi veni i Bolzanu?” Poi ho scoperto che si trattava, più o meno, di una insalata di ortaggi cotti, imbevuti di olio. L’inserimento di Ciccio il grande non arriva in ritardo. “Venite a casa mia, vi faccio vedere io come si cucina e come si mangia. Detto fatto, tre o quattro amici selezionati andiamo “Chez Ciccio” e da dove vengo vengo dal mulino. Prelibatezze  a scelta. Tutto preparato da lui, Ciccio il grande. Il patriarca.. Ma tutto in regolare silenzio. Nessuno deve sapere.
Ad un certo punto si inserisce Ercolino, chirurgo in pensione che avendo una memoria di ferro, ricorda soprannomi e detti del paese che risalgono al 1955. “Vi ricurdati come chiamavano a chidu chi vindia u vinu? I Figghioli. Come è possibili che c’era u Bromu? E faceva finta di incazzarsi quando gli davamo questo appellativo, invece si divertiva? E la  moglie che faceva la pipì in piedi. E giù risate! Poi ci sono state, quest’anno le new entry. Piero di Piacenza, che si divide tra l’Emilia e la Calabria viaggiando in macchina ed è costretto a cucinarsi da solo. E Damiano, divorziato? Ha scoperto il gusto di facebook e si diverte e chiede al nipote Agostino, leader del social più in auge con “quelli che ti amo o quasi lercio”, che ci informa degli ultimi fatti del giorno. Quando, con Giacomo Giovinazzo, non ti invita a mangiare fino a scoppiare nelle campagne di Limbadi.
E poi c’è ancora Nandu Carcarazza che ha sempre bisogno di compagnia per avviare gli irrigatori. E chi ci va? Il mio amico Ciccio da Parma, che ricordando il padre, si commuove pensando alle arance che  non ha più. Ed è comunque felice, perche la coltivazione costa troppo. Poi tutti insieme ricordiamo quelli che c’erano l’anno scorso e non ci sono più. A partire da Renato, la cui moglie, di Oslo, viene ogni giorno nel paesello, con Denise e Grethe. Ciccio il grande e Ciccio il parmigiano, sono i “mastri della serata”. Con occhio svagato guardiamo le ragazze che sostano in piazza. Solo l’occhio. Altre cose sono ricordo del tempo che fu e che non ritornerà. Ci sono altre new entry, ma che non mi vengono in mente. A parte Meluzzu zulù che divide l’anno tra Torino, il luogo dell’anima, l’estero. Però sa tutto, anche delle amiche che vengono da Firenze per le vacanze. Ed anche più. Quando Ciccio glielo consente cucina lui. Ma Ciccio, ingrato, non è mai soddisfatto. Michele si mangia la frutta nella limba. Micucccio, ricorda le cose che ha fatto quando era alla guida dell’amministrazione comunale. E si sofferma sui particolari. Tutti in piazza, arrivati in macchina, anche se loro case distano dall’unica panchina centinaia di metri. Poi sul lungomare. Per? “ U cameduzzu i focu”, e per la festa dell’Immacolata, la cui effigie dai pescatori viene portata in acqua per benedire il pescato, o di Santa Barbara. Le due uniche feste che, nel luogo dell’anima tengono banco. E trenta giorni passano così, con noi che ci divertiamo con poco. Senza lussi, senza Briatore, senza balli, ma solo revocando quel passato che non torna più. Nemmeno quello del Lido La Playa, dovuto ai fratelli Loiacono, che è stata la stagione dei nostri amori estivi. Insomma, aveva ragione Cesare Pavese nella “Luna e i falò”: “Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra, c’è qualcosa di tuo, che, anche quando non ci sei resta ad aspettarti”.

(Gregorio Corigliano, giornalista e scrittore, è stato caporedattore RAI a Cosenza)