La bella Calabria approdata su Rai Uno, grazie alla Fata Morgana…

di GIUSY STAROPOLI CALAFATI – Ci risiamo! Con estrema puntualità, ecco che il cinema, o meglio ancora la Calabria prodotta dal cinema, diventa motivo di discussione. E sapete tra chi? Tra i calabresi. E sulle basi della solita traccia: “a noi non ci accontenta mai nessuno”.
Al di là del fatto che il film di Matteo Oleotto, prodotto dalla Pepito Produzioni, diretta dal calabrese Agostino Saccà, Tutta Colpa della fata Morgana, andato in onda ieri sera alle 21:30, su Rai 1, possa essere piaciuto o meno, essendo il gusto una questione soggettiva, trattandosi peraltro di una leggerissima commedia all’italiana, la Calabria non è facile raccontala, e a noi calabresi non ci accontenta mai nessuno.
Ecco che infatti, unica tra le terre del Sud, dopo ogni qualvolta appare sul grande schermo, la Calabria, si getta nella polemica fitta da sola.
Il mondo calabrese purtroppo, per quanto ricercato, non riesce mai a essere veramente individuato. E questo è vero, ma tutto è dovuto alla complessità della sua narrazione, di cui c’è tutta una storia responsabile.
La Calabria è bella però è amara, è dolce e fa paura, e poi è contorta, assai arrovescio, contraria… E chi cazzo la riesce a raccontare bene una terra così? Cioè bene come piace a noi, seppure ancora non sappiamo nessuno esattamente a cosa questo bene che vorremmo si riferisce.
C’è un preimpostato da seguire, forse? Un mappale? O vale la libera interpretazione?
I calabresi dovrebbero saperlo. Altrimenti la lamentazione che li deprime non avrebbe dove andare a parare.
Se c’è un problema serio su cui lavorare, questo non è certo rappresentato da chi la racconta o da come racconta, la Calabria, ma da chi si lascia raccontare a un certo modo. Dai calabresi stessi quindi.
Per pretendere di apparire, almeno bene, si deve aver fatto quantomeno benissimo. E la Calabria cosa ha fatto? E i calabresi?
Una cosa che la Calabria non fa mai, anzi di cui gran parte dei calabresi proprio se ne strafottono, è un’analisi critica del sistema di cui si è parte. Quando il riflesso allo specchio invece dice sempre tanto, e addirittura rischia di dire anche tutto.
Ad adirare il fanatismo calabro, che per chi non lo sapesse è quella sorta di orgoglio occasionale che viene fuori solo quando chicchessia decide di pisciarci in testa, e se per bene o per male poco conta, non è stato il racconto peraltro privo, per la prima volta, di fatti di ndrangheta con tradizionale cliché, ma nientepopodimeno, una partita di malocchio. Quella cosa che, tratta dalla cultura popolare, in Calabria è credenza e altrove è sfiga.
Vi venisse un colpo di memoria!
Ma lo ricordate o no che noi veniamo dalla Magna Grecia, dalla terra dei miti, dei racconti, delle leggende, e delle magare? Scilla Cariddi, la Fata Morgana. Storia e mito. Dei ed eroi.
E come? I romani potevano far riferimento ad Enea fingendo di essere un antenato di Romolo, il re di Roma, e noi dovremmo, non so per quale ragione aggiornarci, non raccontando delle vecchie magare? Se non vi ritrovate in questa terra qui, che non è un film di Oleotto, ma un capolavoro del Creatore, vuol dire che non è la vostra terra, la Calabria. Che avete sbagliato posto.
Ma Dio Santo, quando capiremo da che parte vorremo stare davvero?
Rinneghiamo la ‘ndrangheta invece, non la cultura. Mettiamo al bando tutte le sue malefatte, quelle sì che ci arretrano. Ma con i fatti, non con l’indignazione sterile dopo un film, retrogradi sul concetto “questa è terra mia e di nessun altro”.
A Napoli, o a Palermo, la porcheria che facciamo noi calabresi, non la fanno da nessuna parte. Anzi, che se ne parli, dicono tutti. E ci godono. Basta pensare che la Sicilia sta in letteratura e noi no.
E daje, calabresi. A votare non ci andiamo, in piazza non scendiamo, siamo ultimi in tutte le classifiche europee, e frigniamo davanti a una piccola storia in cui improvvisamente, chissà perché, non ci riconosciamo.
Eravamo noi, eravamo. E non eravamo stereotipati come in tanti hanno annotato, ma reali, così come siamo davvero. Perché è il lamento che ci ha portati fino a qui, l’assopimento, l’irriducibile rassegnazione. E niente politica o demagogia.
Certo, su alcune battute poco felici, del milanese, ci sarebbe da fare un discorso articolato. Argomentando persino le pause. Ci sono parole che pungono e fanno male, specie quando si affermano come concetti di base. Ma questa questione, è solo la questione meridionale che resuscita. E non è questo il caso di fare questioni su questione.
Se proprio una morale va tratta da questo film, è che il tempo di crogiolarci è finito, bisogna fare, fare, e ancora fare. E poi sì, poi mostrare al mondo la Calabria che il mondo non si aspetta. Che non è quella delle meraviglie che tutti già sanno, ma quella dei suoi uomini che non si conoscono.
Ieri sera, sul primo canale Rai, la Calabria si è presentata in tutto il suo splendore. Scilla, Zambrone, Briatico, Pizzo. Un ensemble di posti che fanno una terra sola. Che dai, parramundi in domini, calabrisi, a vederla così bella e magnanima, ci sono venuti i brividi. Foramalocchju! (gsc)

L’OPINIONE/ Giusy Staropoli Calafati: L’astensionismo, una brutta faccenda

di GIUSY STAROPOLI CALAFATI –  Gridano, urlano, sbraitano, si battono il petto e poi non vanno a votare.  Chi? I calabresi, e chi sennò!

I falsari del pensiero di Campanella che, invece di mantenere acceso il sole, accondiscendono ai fracassi del diavolo nel giorno della Calabria. I proci, quelli che nel frattempo che ritorna Ulisse, circuiscono Penelope. 

I calabresi che, dal profondo delle loro poltrone, rinunciano a un diritto e non adempiono al proprio dovere. I ciangiulini e i ciangiuti di Calabria.

L’elevata percentuale di non votanti, in questa tornata elettorale, per il rinnovo del consiglio regionale, aumenta vertiginosamente il numero degli aggregati al partito degli astensionisti. Quelli che: tanto! 

Tanto cosa? Tanto che? 

La Calabria è un ossimoro. Prima si adagia e dice: tanto!, poi si indigna e pensa: e mò? 

La calabresità era un sentimento vero, oggi invece è tutto scaduto. Anche l’onore e l’orgoglio con cui ha versato il suo sangue Giuditta Levato. La contadina, si era fatta ammazzare, incinta di sette mesi, e per difendere la sua terra. La stesso suolo di terra che oggi, con il voto mancato di gran parte dei suoi, è stata riconsegnata ai padroni. Perdonaci, Giuditta! 

Non entrare in cabina elettorale, significa dissociarsi dalla vita sociale, civile e politica del paese. E non sono consentiti sconti, né concesse attenuanti a nessuno. Né ai grandi, né ai dotti, e neppure ai giovani

Minchia, Calabria mia, che strano destino questo tuo!

I calabresi si presentano alla terra madre, alla loro solita vecchia maniera. Nativi sì, ma praticanti del suo valore morale, no. 

Una forma di protesta residua che sfocia nella solita scaltra lamentazione.

La rivoluzione culturale di un popolo, parte dalla sua libertà di pensiero. E il voto lo è. È un’occasione di scelta, un sistema di cambiamento, un modello di rinascita, una forma di espressione democratica assoluta, attraverso cui ogni individuo può quantificare e qualificare la sua misura personale di democrazia, all’interno della collettività in cui abita, vive, e si confronta. 

Nascere in Calabria non si sceglie, essere calabresi sì. Essere cittadini del mondo anche. Essere un popolo libero pure. 

Le x che le nostre matite, a questo turno elettorale, non hanno apposto, come invece la coscienza civile ci avrebbe imposto di fare, non raccontano propriamente il dissenso di ognuno come si pensa, ma narrano esattamente la sconfitta di una terra ritrosa, affetta da cronica inconcludenza. 

La disaffezione e la sfiducia nella politica, che da sempre hanno appeso le civiltà al filo di un rasoio, oggi rischiano di ingabbiare per sempre il futuro di questa regione, consegnandola finanche ai talk show nazionali, e per i maccheronici serali italiani. Quelli in cui, della Calabria, viene messo in risalto il suo sex appeal. 

Quella calabrese di oggi, non è certo una questione meramente politica, ma una più sostanziosa e antica questione sociale.

Gli asini accettano la propria miseria, e i calabresi? I calabresi che fanno? 

I calabresi copiano gli asini. E non sentiamoci offesi, noi che lo scecco lo abbiamo sempre considerato amico. Il fatto è che l’asino accettando la miseria, accoglie la sua natura, i calabresi invece snaturano la propria. 

Il non voto non ha mai una grande forza e non dimostra neppure una grande coraggio. Avvantaggia invece le classi più forti , sostenendo i sistemi balordi e corrotti che esse stesse promuovono.

Il timbro mancante per volontà acquisita, sopra la propria scheda elettorale, è un’occasione persa. Anzi persissima. Per noi e per mezzo di noi, anche per gli altri. 

Fra poche ore sapremo chi andrà a governare, per il prossimo quinquennio, questa regione. Con tutte le responsabilità di chi ha votato, e di chi dal volto si è astenuto. Con gli illusi vincitori, e i tutti vinti. Con chi si è rivendicato il diritto di scegliere liberamente, e con chi non lo ha voluto fare. Con il volto della Calabria misera e la sua faccia miserabile. (gsc)

Diavolo d’un Sud, cambiare di può. Ma i calabresi sono studi delle tante promesse

di GIUSY STAROPOLI CALAFATI – Cosa vuol dire SUD, mamma? – mi chiese mia figlia.

–È un punto cardinale – risposi io.

– Sì, ma che cosa significa esattamente questa sigla? – insistette.

– Non me lo sono mai domandato – risposi.

– Io invece lo so – ribatté lei.

– E allora dimmelo, che cosa aspetti?

– Sono Un Diavolo, ecco cosa vuol dire.

– Starai scherzando, non è vero?

– Niente affatto, mamma. Te lo spieghi perché dal SUD tutti partono? Fosse stato altro ci avrebbe trattenuti questo punto del mondo, invece no, ci lascia andare.

E poi, ricordi cosa scrisse Leonida Repaci ne Il giorno della Calabria? “Dio aveva dato forma alla sua più grande creatura, poi del suo riposo ne approfittò il diavolo. E della Calabria, incluse tutte le meraviglie che il Creatore le aveva attribuito, se ne impossessò”. Le diavolerie di questa terra, credimi, mamma, non hanno altre spiegazioni.

– E noi che cosa possiamo fare per salvarci?

– Possiamo cambiare, mamma. Trasformare questo inferno in paradiso.

Con il termine Sud, si identificano delle precise aree geografiche del mondo. Esso infatti interpreta uno dei quattro punti cardinali con cui l’uomo si orienta sulla faccia della terra. La parte bassa della bussola.

In Italia, il Sud, viene indicato con nomi precisi di regioni. Ed è Sud, Meridione o Mezzogiorno. Esse sono le micro aree del paese. Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia, Sicilia e Sardegna. Un agglomerato di montagne e intere distese di lidi e di mare. Campagne, pianure, colline e vulcani.

In una recente intervista, andata in onda sul secondo canale Rai, il ministro per il Sud e la coesione territoriale, Mara Carfagna, nell’elencare le regioni dell’area Meridionale, presa dal solito politichese italiano, ne dimentica giusto appunto una. E a subire il maltolto, indefinito dal tempo e definito dagli uomini, è proprio la Calabria. Sempre lei. Quella terra che volutamente sconfina davanti allo sguardo di un’Italia politica inconcludente, e che dopo Eboli, vira dritta verso l’Italia insulare. Ma la verità è che della Calabria se ne sono sempre lavati tutti le mani. E chi non ha coraggio non se lo può dare. Terre come questa hanno una tempra forte e sono prodigiose. E vanno sapute prendere e conquistare. Eppure l’Italia continua a scrivere il nome Calabria tra le penitenze di Dio, e la emargina, confinandola tra i suoi due mari. Poi però, all’occorrenza, come fosse un miraggio al più vicino orizzonte, la scova, e se l’accredita, come giusto che sia, tra le sue 20 italianissime regioni, e per far fronte alle sue più sfrontate conquiste. Perché in fondo tutti lo sanno, senza Calabria, nessuna Italia.

Quaggiù, nel profondo Sud, diavoli o no, passati gli uomini e le donne, i loro sacrifici e le dure fatiche, vi sono manciate importanti di voti, in grado riempiere, come le bucce dei mandarini a Natale, le caselle vuote di una tombola che altrimenti andrebbe persa. E ne svantaggerebbe tutto il paese. Ragion per cui, da Roma, e dalle altre somme regioni del potere d’Italia, si accede alla Calabria sfruttando l’antica e furba arte della manipolazione degli interni, pressando sul bisogno atavico dei luoghi, pur di arrivare alle sue succulenti risorse. Ché alla fine, riconosciuti i limiti, e tradotti abusivamente nell’incapacità del suo popolo, come fossimo nel giardino dei miracoli di Pinocchio, diventano sbrilluccicanti denari.

E in Calabria, per far crescere l’albero dei denari, vi è terra in abbondanza, e terra buona. Perché qui accade di tutto. E tutto accade davvero. E grazie a tutti quei Pinocchio che ancora credono al ciuccio che vola. Perché qui ci sono famiglie intere di Pinocchi. Pinocchio la madre, Pinocchio il padre, e Pinocchietti tutti i bambini. E soprattutto ci sono il gatto e pure la volpe. Ma mentre a Geppetto, alla fine della storia, Collodi gli concede di ritrovare il suo burattino, con cui vivere felice e contento, alle famiglie calabresi non concede niente nessuno, e perdono per sempre i propri figli.

Ed è per questo che nascono calabresi in ogni parte del mondo. I giovani partono, vanno via. Sacrificano la propria identità per trovare nel mondo lo spazio che la Calabria gli nega. Essa non sogna più, non ha aspettative, toglie tempo, e più che lottare per la sua rinascita, collabora al suo disfacimento. La calabresità di cui, al primo piscio, tutti si fregiano, senza neppure conoscerne il senso, seguendo come le pecore chi pure illecitamente se la vanta, non è certo un atto di remunerata propaganda, né una scimunita idea del paese di Jofà, ma uno stato d’animo preciso che quando i giovani, poco poco cominciano a provare, i grandi (politici e dirigenti, massoni e mafiosi) lo soffocano.

Dal 1861, il Sud, perdendo la propria indipendenza, ha sempre subito passivamente le decisioni dell’Italia, del Nord, e delle industrie. E come allora, ancora oggi, con l’avvallo mai negato, dei calabresi nemici dei calabresi stessi. Eppure, cosa può conoscere la politica capitale o cittadina d’oltre regione, delle necessità della politica territoriale? Nulla, non può conoscere nulla. È solo questione di potere, che tanto lo sanno tutti che lo scecco sempre scecco resta, e raglia oggi e domani pure. Ma i calabresi sanno anche che, benedetta Italia, la propria terra ha il tempo contato, e o campa o muore. E le sorti si giocano sempre nella cabina elettorale. Ancor più da quando al voto sono state incluse le donne, perché per chi ancora fatica a comprenderlo, la Calabria lo è. È fimmina!

I futuri candidati alla presidenza della Regione Calabria, in vista del voto del prossimo 3 e 4 ottobre 2021, prendano impegni con i calabresi e non con i partiti nazionali. Impegni seri. Impegni con le palle. Senza balle. E con i quali dare a questa regione una definitiva connotazione italiana. Se essere inferno o paradiso. Essere o non essere. E se la distanza tra Shakespeare e la Calabria appare troppa, allora rifacciamoci tranquillamente pure a Dante, nel suo settecentenario, che ha certamente appreso e compreso più d’altri, il nostro essere, dall’ abate Gioacchino da Fiore.

Decidere dunque, o calabresi, e sulla base della nostra pelle, che è amor proprio e sana morale, se prolungare i patti fatti con l’inferno di Francesca, o scendere a patti nuovi ed eterni, con il decantato paradiso di Beatrice.

Io, mi perdonerete, ma chiederei, in aggiunta, l’ausilio di Nosside. Ma forse questa è un’altra storia.

È necessario che i calabresi, sulla base delle esperienze passate e dei torti subiti, delle malefatte a loro danno continuamente perpetrate, e delle quanto mai mancate aspettative recenti e future che tergiversano, rimandando tutto sempre alle generazioni che verranno, riconoscano in ognuno degli ipotetici futuri presidenti, i reali obiettivi, responsabilizzando il proprio voto, e non per concessioni spinte da familismo amorale, ma seguendo i dettami della propria aurea coscienza che, contrariamente alle patrie galere, non sconta colpe, né perdona .

“La Calabria che l’Italia non si aspetta”, è questo lo slogan che accompagna la campagna elettorale di Roberto Occhiuto. Parole che fanno un certo effetto, ma che soprattutto surclassano il concetto di morte, a cui tutti sembrano destinare la Calabria e i calabresi.

Ma lo sa Roberto da Cosenza che, per presentare all’Italia la Calabria che non si aspetta, c’è un percorso da fare che è piuttosto lungo, impervio e tutto decisamente in salita, e che se dall’Italia non ci è riuscito prima, a esporre alla gran Patria, la patrietta dei bruzi, dalla Calabria sarà un susseguirsi di gattopardiane notti, in cui tutto sarà pronto a cambiare per non cambiare nulla?

E lo sa Amalia da Lamezia, che intende donarsi alla Calabria, con tutta la sua scienza, e per curare, dopo i suoi più di 13000 pazienti, il resto dei calabresi, che i calabresi non sono tutti malati, e per fortuna, e che molti stanno benissimo perché di sani principi?

Lo sa Mario da San Giovanni in Fiore, che quello che gli è sfuggito prima, probabilmente gli sfuggirà ancora, perché chi è miope oggi, lo sarà anche domani?

Lo sa Luigi da Napoli, che aver lavorato in Calabria non è la stessa cosa che vivere la Calabria nei suoi rovesci e nei suoi contrari, nelle sue bellezze e nei suoi compiacimenti, come chi, ostinatamente, si dona a questa terra geneticamente testarda, e nella sua quotidianità, che è famiglia ed è impresa, e pure rivoluzione? E lo sa che quaggiù non si viene solo a sconfiggere la ‘ndrangheta, ma per costruire sogni e solide realtà?

E i calabresi, lo sanno i calabresi che le promesse fatte in campagna elettorale non garantiscono l’asciutto alle barche di nessuno, e tutti noi, finché non verranno mantenute anche solo quelle opportunamente fatte, spesso troppo tardi e spessissimo mai, continueremo ad avere tra le mani la solita beata minchia di sempre?

Sarà che io di politica, forse, non ci capisco nulla, ma di Calabria sì. Di Calabria ci capisco eccome! Durante questo periodo di seconda estate calabrese, tra il sapore del mosto e l’odore del vino, per certi versi storico per la vita presente dei calabresi (giovani e meno giovani) e il futuro della Calabria, nessun sermone di esponenti di partito nazionale, dovrebbe essere permesso. Una scelta che all’unanimità mi sarei aspettata dai futuri presidenti. Serve indipendenza e concentrazione. E servono adesso. La Calabria non è una sede politica dove chi prima spara, prima piglia, ma una precisa scelta di vita ancora prima che politica. È al suo interno dunque che vanno fatte le discussioni sui programmi e discussi i problemi. Solo i calabresi possono risollevare la propria terra e mantenersi in equilibrio nella storia. È una sfida a cui non può partecipare nessun altro. E affinché avvenga tutto ciò, è necessario si parlino tra di loro, e senza le benché minime interferenze esterne. In intimità. A quattr’occhi. I padri con figli e la società civile con quella politica e istituzionale. Insomma un preciso rendez-vous aperto, tra l’Aspromonte e il Pollino, il Tirreno e o Ionio. Perché vedete, i guai da pignata, i sapi sulu a cucchjara chi riminija.

E se, detto fatto tutto ciò, allora sì che saremo pronti a sfoggiare e con orgoglio “La Calabria che l’Italia non si aspetta” . E poco importerà il nome di battesimo del presidente. Chiunque vincerà questa sfida, che a partire da subito diverrà immediatamente atto di coraggio, avrà il dovere di presentarsi e orgogliosamente all’Italia e al mondo, con il nome dei “suoi” calabresi. Riconoscendo a sè stesso e agli altri, che il bene della propria terra viene prima di tutte le inutili vanità politiche.

Nessuno dimentichi mai che Penelope non cercava marito, ma voleva Ulisse… (gsc)

[La fotografia della copertina è di Carmine Verduci]

L’OPINIONE / Vito Sorrenti: Come non condividere l’appello di Giusy ai candidati?

di VITO SORRENTI – Come non condividere i contenuti di questo articolo sentito, accorato e per certi versi drammatico? Come non condividere l’elenco minuzioso di tutti i mali che affliggono la nostra terra, la terra che ci ha dato i natali? Come non condividere la speranza di vedere rinascere la nostra Calabria, di vederla tornare ai fasti di un tempo remoto, il tempo della magna Grecia, quando fu culla di civiltà e di pensiero? Ma per far sì che ciò avvenga è necessario che non solo i politici che si candidano a governarla, ma tutto il popolo calabrese sia animato dal desiderio di voltare pagina, di dare una svolta alla propria vita, di dar vita a una rivoluzione culturale che elimini gli individualismi, gli egoismi, i narcisismi. È necessario che i calabresi imparino a fare squadra, a collaborare per il bene comune. È necessario che i calabresi imparino che la grandezza di una regione è direttamente proporzionale alla capacità dei suoi abitanti di fare il proprio dovere! (vs)

[Vito Sorrenti è nato a Polia (VV) e vive a Sesto San Giovanni: ha pubblicato nove libri di poesie, per i quali ha ricevuto prestigiosi riconoscimenti nazionali]

Saverio Strati (1924-2014): un ricordo nel giorno del compleanno (16 agosto)

di GIUSY STAROPOLI CALAFATI – «Voi lo avete visto un giovane muratore, che si mette a studiare e infine diventa un grande scrittore? Ve lo presento io. Si chiama Saverio Strati.[…] Narratori di questa pasta speciale sono rari, come il sole d’inverno. Dovrebbero essere custoditi in una nicchia, come i Santi». 

Così scriveva Pasquino Crupi riferendosi a Saverio Strati, uno dei più grandi narratori del ‘900 italiano. Il “Calabrese” come lo stesso Strati si definiva. Perché nonostante il viaggio, la Calabria l’aveva portata sempre con sé. E la gente di Calabria viveva dentro di lui come il cuore nel petto dell’uomo. Lì vi conservava non solo i ricordi, ma i volti della sua gente, le storie degli uomini, i racconti dei contadini. Tutto ciò che serviva per sentirsi ancora vivo in quella parte di mondo da cui non era mai riuscito completamente a distaccarsi.

Insieme a Francesco Perri, è proprio Strati uno dei più grandi cantori dell’emigrazione. Scrisse di gente in viaggio ma anche di viaggi in macchina. Quelli che lo riportavano, spesse volte, alle sue origini, e dove ad attenderlo, vi erano gli studenti delle scuole calabresi, gli insegnanti, i presidi, ma soprattutto la casa e il cuore sempre aperti degli amici. C’era la collinetta di Cola nella sua Sant’Agata, e soprattutto la maestà dello Jonio, quel mare che tutte le volte che da Ponte Vecchio guardava l’Arno, gli tornava alla mente e piangeva.

Strati nasce a Sant’Agata del Bianco il 16 agosto 1924.

Oggi sarebbero stati 97 anni. 97 anni di storia, di metodo, di racconti, di sacrificio, di destino, ma soprattutto di Sud. 97 Meridioni d’Italia, e 97 anni di Calabria intima, intensa, e resistente.

Strati esordisce nella sua carriera di scrittore, con un racconto. E oggi, è proprio con un racconto, animato dai suoi personaggi più amati, che al maestro vanno i miei più affettuosi auguri di buon compleanno. Egli è così che avrebbe voluto essere ricordato dai “suoi” calabresi.

«Quell’aprile, erano già passati sette anni. Sette lunghi anni. Sette esatti dalla morte del maestro.

Eppure sembrava  non importare a nessuno di quel lutto che, sette anni prima, lo aveva deposto, con i piedi innanzi, in una Firenze lontana e bellissima. O forse nessuno ancora si era accorto di quella dipartita silente, per la quale Strati aveva raccomandato silenzio, bandendo ogni forma di chiasso.

– Certo! – disse Cicca – Chi non si accorge della vita di certi uomini, non potrà accorgersi mai della loro morte. E aveva ragione. Cicca aveva proprio ragione. Ella aveva conosciuto il maestro. Da lui aveva imparato che cos’è una “Teda”. E l’aveva accesa per illuminare la notte di Terrarossa. Avevano percorso assieme la via di Africo. A Campusa, aveva visto risorgere l’anima delle case dei poveri cristi accasciate al suolo durante la sibilante tempesta d’acqua del ’51, e proprio nelle parole del maestro. A lui, Cicca, scandagliava spesso la memoria. E imparava. A conoscere il paese, il Sud, sé stessa. Imparava a conoscerlo, Saverio Strati.

– Aveva paura, il maestro, Michele. Paura di non riconoscere il paese tutte le volte che ritornava. Timore assai, di non essere riconosciuto.

– Ma come può un uomo così non essere riconosciuto, eh Cicca?

– Può Michele, eccome se può! Un uomo così, può non essere riconosciuto. Quando un uomo così viene considerato codardo, o quando inopportunamente viene definito ’mpamu, può. Fidati che può. Può non essere riconosciuto.

Cicca mi fece venire la pelle d’oca. Parlava come se il maestro fosse dentro di lei. Le vivesse dentro le carni. Nel ticchettio del cuore.

– Ma non è onesto… – continuando, con gli occhi tanto lucidi e cupi – non è onesto dimenticarsi di certi uomini, né vivi né morti – disse.  

Saverio Strati è dannoso dimenticarlo. Ha scritto la storia del Sud denunciando lo stato crocifisso in cui questo è sempre stato sepolto vivo. Ha parlato degli ultimi condannando i primi. Ha raccontato di uomini e non di numeri. Ha avuto coraggio, il maestro. E il Sud non ha coraggio, Michele. Se un giorno dovesse mancarci la terra sotto i piedi, che faremo noi? Che faremo noi, eh Michele?

– Non lo so che faremo. Dimmelo tu, Cicca. Che faremo?

– Moriremo! Ecco che faremo. Moriremo scoraggiati. Con basti carichi d’ignoranza, moriremo, Michele. Moriremo senza neppure sapere se siamo mai appartenuti a una pagina di storia.

– Quale storia, Cicca? Quale storia?

– La storia che il maestro Saverio ha scritto e noi non abbiamo letto. La storia del Sud, Michele. La stessa del maestro, quella del contadino letterato, del muratore della scuola. Il racconto dell’uomo calabrese, il maestro di Cicca. Sì, il mio maestro. Il mio maestro, Michele, capisci?

E nel giorno della morte, quel preciso giorno, nessuno oserà accenderci neppure una teda. Niente luci quaggiù. E sarà dannata l’anima di chi non ha imparato. Imparato dai libri. Dai suoi libri.

– Cicca, tornerà in paese il maestro, prima o poi?

– Lo sai bene, Michele, che dopo la morte non torna mai nessuno

– Già!, hai ragione, Cicca. Dopo la morte non torna mai nessuno.

– Ti sarebbe piaciuto conoscere il maestro Saverio, eh Michele?

– Sì, Cicca. Mi sarebbe piaciuto molto.

Cicca mi prese per mano, e correndo mi portò fino a Piazza Libertà. Nella ruga grande, erano disposte a file una serie di piccole case. Infilando la chiave nella serratura della porta di quella più giallognola: – accomodati! – mi disse, ed entrammo. Ci venne difronte una scaffalatura in legno carica di libri. Cicca tese la mano, e: – Ecco il maestro, Michele! – continuò. 

Non dissi verbo. In paese non v’erano tanti uomini, per quanti libri mi trovai innanzi.

Ogni libro portava il suo nome: Strati, Saverio Strati, Strati Saverio, o Saverio soltanto.

Cicca era commossa. Accarezzava le copertine di quei libri come fossero visi di bambini.

– Allora, Michele, che te ne pare?- mi chiese.

I suoi occhi brillavano. Una luce immensa li penetrava inesorabilmente.

Aspettava che le dicessi qualcosa. Che parlassi, seppur a modo mio, ma  non ebbi la forza. Era come se a un tratto mi mancasse il coraggio delle mie azioni.

– Allora, Michele?- mi chiese lei. – Che cosa vedi? – insistette, senza mai darsi per vinta. 

Tacqui un’altra volta. E nel mentre che un bacio di Cicca finì per raggiungermi la bocca, finché ero ancora in tempo, affinché non fosse troppo tardi: – Chapeau, maestro! Buon compleanno».

I libri di Saverio Strati, sono tutti una buona opportunità di crescita. Un lampo di genio capace di proiettare a chiunque ne faccia uso, un ottimo futuro. Perché è lì, tra quelle pagine che sedimenta il senso dell’appartenenza. Sono libri e sono villaggi viventi di autentica memoria. Una memoria che ha buone probabilità di diventare collettiva quando, leggendo, una comunità ha voglia e coraggio di sommare un certo numero di memorie individuali. (gsc)

Bruciano l’Aspromonte e la Calabria. Brucia tutto. di Giusy Staropoli Calafati

di GIUSY STAROPOLI CALAFATI – Se è vero che la felicità è un attimo appena, allora in Aspromonte è andata già tutta perduta. Consumata dentro al fuoco. Che se fino a ieri essere stati dichiarati Patrimonio Unesco era stata una festa, oggi la festa è già finita. E quel che patrimonio era, non c’è già più. 

Dieci giorni di fuoco ardente. L’Aspromonte brucia, e chi poteva cambiare le cose non lo ha fatto. 

Le faggete vetuste sono in fiamme, e quel fino a qualche giorno fa, era un sogno che avrebbe permesso a chiunque, di riveder le stelle, oggi non è altro che disperazione e lutto. Le fiamme travolgono gli alberi, i sogni, ma porto via anche gli uomini. Esse non s’alzano per avere pietà di ciò che gli sta intorno, ma circondano tutto quanto hanno vicino. Il fuoco nasce per avanzare, se istigato, anche per uccidere. 

Ma forse dell’Aspromonte non frega niente a nessuno. In fondo questa non è altro che la montagna dei sequestri di persona, dei summit di ‘ndrangheta, e delle decisioni stragiste. La montagna più latitante della terra. Eppure, chi la condanna, non sa che proprio qui, nei secoli passati, popoli e santi hanno trovato rifugio. Proprio qui, ancora oggi batte il cuore di una regione antica, dal sapore a volte aspro altre mielato come quello della Magna Grecia, che tra le fenditure più recondite dei suoi materni seni, custodisce la sua storia. E nelle pieghe della sua bellezza, l’identità. 

La Calabria brucia. 

Bruciano gli ulivi, i lecci, i mirti. 

Brucia il lupo perché qualche disonesto uomo ha profanato illegalmente la sua tana. 

Brucia l’area greca ed il grecanico. 

Bruciano le vette sacerdotali della montagna, la casa dell’uomo e il nido del falco pellegrino.

Bruciano l’identità, la capra, e brucia il pastore. Il musulupu, la ricotta e il formaggio. Il legno intagliato. I racconti, le leggi. Da Reggio Calabria a Polsi, brucia tutto. 

I sentieri, i viottoli, i panorami, le vertigini e le turbolenti fiumare. Brucia e si devasta la magnanimità del Creatore con la Calabria. I resti dei paesi appollaiati e aggrappati alla roccia, in bilico sugli spaventosi dirupi, vanno in fumo. E per colpa del fallimento sociale e politico di una terra in cui gli speculatori avanzano come il fuoco. E i disumani disfattisti accelerano la fine, non sapendo che chi brucia tutto oggi, domani non può  aspettarsi di veder spuntare l’erba verde, ma invece è necessario si prepari a vedere venir fuori dalla cenere i corpi esanimi dei propri figli. Perché in questi roghi, con la montagna, stanno bruciando anche loro. 

L’Aspromonte ha bisogno di aiuto. Chi può porti il mare alla montagna. Da solo il fuoco non si spegne. E diciamocela pure, la Calabria non è più la Fenice che tutti speravano. Dalle sue ceneri rischia di non risorgere. 

Il 3 e il 4 ottobre la Regione Calabria, andrà al voto. A chi in questo momento pensa di voler correre questa gara, oggi, e non domani, corra a gambe levate in Aspromonte, e scriva lì proprio programma. La Calabria è lassù che ha bisogno, ora. Il fuoco va domato e in fretta, oggi. Domani poi, con calma, se Dio vorrà e la vostra coscienza pure, racconterete quel che responsabilmente avete fatto per questa terra. (gsc)

Con la scrittrice Giusy Staropoli Calafati sulle tracce di Corrado Alvaro

di GIUSY STAROPOLI CALAFATI  – Raggiugo San Luca in auto. Attraversate le prime case, arrivo davanti al palazzo comunale. In cima  all’edificio sventolano le bandiere dell’Italia e dell’Europa. Ve ne fosse stata una per il Mediterraneo, sono certa l’avrei trovata lì a fluttuare insieme alle altre.

Il sole perfora le pietre. La prima quindicina di Luglio fa sudare sempre le camicie. La Calabria non si smentisce. La calura della montagna supera l’afa del mare. San Luca si presenta così, cotta e cocente. Accatastata nuda sotto il cielo. Con la temperatura altissima del ventre gravido delle madri in travaglio, e quella della pancia piena dell’Aspromonte. Con la felce e il leccio, il pino nero e il faggio.

Avevo atteso questo giorno da sempre. E nell’attesa che contempla il viaggio, sempre lo avevo elaborato nella mia mente e nel mio cuore con carichi suggestivi e intimi di immaginazione ed emozionale creatività, su ciò che vi avrei trovato. Su chi vi avrei incontrato. Sui fatti che avrei ascoltato e ogni cosa che mi avrebbe sorpreso. E lo avevo fatto percorrendo a occhi chiusi le vie più strette e più piccole, sentendo venir da lontano le voci delle donne che erano quasi tutte madri, e soprattutto illustrando a me stessa, come fosse un’anteprima fotografico, le gradinate che mi avrebbero condotta laddove sulla cartina geografica che accompagnava il mio viaggio, era stato posto un cerchio rosso per indicarvi la meta.

La casa comunale di San Luca era stata ripopolata dai suoi uomini dopo anni di perforante vuoto, e altrettanti in cui i sanluchesi si erano lasciati trascinate nell’oblio, dalla gratuità del pregiudizio del resto del mondo, che di questa gente era stato in grado di annientare sogni e  speranze. Da San Luca tanti erano partiti, e l’assenza ancora pesava, e le porte chiuse a tratti impedivano addirittura di respirare, ma altrettanti avevano deciso di restare. 

Perché non c’è terra più abbondante di quella del paese, che se tanto la scarti in Patria te la ritrovi altrove.  Ed erano anziani ed erano bambini. E io vi ho trovati gli uni e gli altri. Gli uni con l’umanità nello sguardo, gli altri con sorrisi eccitati verso un futuro a cui nessuno intende più rinunciare.

A ricevermi il sindaco Bartolo.

Un uomo alto appena un palmo e mezzo della mano, con la geografia del suo paese scolpita sopra il suo volto. Una mappa di rughe aggrovigliate e di solchi, pari a quelli che il tempo aveva disegnato sopra il viso bruno di Corrado Alvaro. Segni di devozione e di fede a quella civiltà contadina a cui San Luca, attraversandola, sentivo non aveva mai rinunciato.

Il rispetto che avverto nei miei confronti, non è un prodotto tipico dei luoghi, ma un sentimento che gli uomini e le donne del paese nutrono verso la vita.  Mi sento a casa. Accolta come quando torno da mia madre.  San Luca è la casa del Mediterraneo e dell’ Europa. Una finestra sempre aperta sopra il mondo.

La tempra dei suoi uomini non mi sorprende.  È la stessa della mia terra. Di quella Calabria che non frammenta i luoghi, ma li appunta tutti, come accade con le medaglie al valore sopra il petto degli uomini, su quella tela che da secoli fila anch’ella come la bella Penelope.

San Luca è una nuova Itaca. Il mio viaggio non è un semplice viaggio di andata verso il paese, ma una sorta di necessario ritorno a casa.

Dopo l’accoglienza istituzionale, lascio la casa comunale. La vera San Luca non è lì che dimora. Bisogna raggiungere il cuore del paese. È qui che batte il muscolo vitale della mia terra.

San Luca è stretta, intima e silenziosa. Non pronuncia verbo. Osserva, ma soprattutto ascolta. Mi segue, anzi maternamente mi accompagna.

Raggiungo la chiesa. Il centro del paese è tutto qui. Qui è cominciato tutto.  Mi ero documentata. Il 18 ottobre del 1592, un evento alluvionale catastrofico aveva colpito Potamìa, e le 57 famiglie superstiti avevano raggiunto questo lembo di terra, posto al centro tra la fiumara Bonamico e la Santa Venere, e proprio nel giorno in cui la chiesa venerava il suo terzo evangelista, San Luca.

Una piccola piazzuola governa lo spazio esterno della chiesa. I mie occhi però cadono a destra dell’edificio sacro. Vi scorgo una casa alta quanto una torre. E a sinistra dei balconi, un’epigrafe marmorea: “Qui nacque Corrado Alvaro”.

Lascio andare avanti il sindaco e tutti quelli che sono con me. “Arrivo subito”, dico. Invece mi attardo sulle scale antistanti la casa. Ho bisogno di stare un attimo da sola. Concedermi proprio qui, in questo momento, l’intimità di uno spazio. L’emozione è forte. Il sentimento che provo, un misto perfetto di orgoglio e senso altissimo dell’onore.

Corrado Alvaro è la Calabria che ho dentro di me da sempre. Mi sento come le sue spose: una gentile colomba.

Il nome di Alvaro mi appare come un segno distintivo identitario che non è solo di San Luca, ma di tutta la Calabria. Perchè se la Calabria ha un cuore questo batte a San Luca. Un nido appoggiato sulla schiena della montagna, dove l’Aspromonte è un sentimento narrato dalle storie degli uomini.

Dove abitano ancora il passato, il presente e il futuro della Calabria. E dove ancora restano gelosamente custodite le verità di una terra amabile della quale Corrado Alvaro fece delle buone lenti per guardare il mondo. 

Se solo la Calabria riconoscesse in questo nido aspromontano, il dolore e la passione dell’uomo ramingo del meridione, ecco che sì, si potrebbe parlare di rivoluzione. 

A San Luca si devono la vita e la morte della Calabria. Eppure si dimentica spesso che il cielo sopra questa montagna è lo stesso cielo è trapunto di stelle altrove. E che la vita qui non è un alibi ma un destino. 

Se il figlio del maestro Antonio, per esempio, non fosse nato al paese, non sarebbe divenuto un uomo d’Europa. E il Mediterraneo non avrebbe conosciuto mai il suo paese. Certo non è mai stata bella la vita dei pastori in Aspromonte, ma vi sono stati e vi sono ancora, anche qui, padri come quello di Alvaro, a cui Iddio oltre che l’intelligenza ha donato l’ingegno e il dono del discernimento. E all’arresa, a cui il disagio sociale spesso condanna, non si sono mai piegati. Alvaro nasce dalla rivoluzione del padre. In un mutamento a cui Antonio punta per i suoi figli ma anche per il resto del paese. La montagna doveva poter dare speranza, aprire varchi, e non chiudere sentieri o seppellire i resti dei suoi corpi nei greti dei fiumi. 

Mio padre, sosteneva Alvaro, fu a ogni modo l’uomo che diede l’avvio, nel mio paese, alla fuga per mutare condizione. […] Il paese era abituato all’emigrazione. […] Ma un’emigrazione intellettuale nessuno l’aveva mai pensata. 

E fu lui la prima intelligenza a prendere un treno di lungo viaggio. Dalla periferia fitta della sua San Luca, allo spazio indefinito della città di Frascati. In un collegio di Gesuiti, la cui dottrina impartitagli contribuisce parimenti allo studio sui libri, alla formazione dell’uomo e dello scrittore. Dell’uomo Europeo e dello scrittore Mediterraneo. Luoghi sulle cui sponde viaggerà in maniera indefinita la vicenda letteraria dello scrittore di San Luca.

Alvaro lascia San Luca “per sempre” a soli dieci anni. Ritornerà per la morte del padre nel 1941. Dopo, mai più. Durante le sue visite al fratello prete e alla madre anziana, preferisce osservare il paese al di qua della Bonamico. Ed è proprio a Saverio Strati, all’epoca ancora giovane studente universitario, che Alvaro si confessa su questa difficile scelta, in un incontro tra i due, avvenuto a Caraffa del Bianco.

“È da molto che non va al suo paese?”, gli chiede Strati.

E Alvaro risponde: “E’ da molti anni, né ci voglio mai più tornare… Ho un bel ricordo di quel paese, e non mi piace sciuparlo. Lì sono stato felice, durante la mia fanciullezza, e desidero conservare per sempre questo ricordo”.  

Nonostante oggi Alvaro manchi fisicamente dal mondo da tanti anni, e quest’anno sono già 70 dalla pubblicazione di Gente in Aspromonte, io a San Luca, ho ritrovato l’Alvaro perduto. 

Ci sono Sud che vanno visti per essere compresi. Vanno affrontati per essere capititi, facendoli diventare perfetti affluenti nel fiume del mondo. E San Luca non è solo Sud, ma è mondo. Ed è qui che io ho compreso che non vi è più tempo da perdere. Antonello, di Gente in Aspromonte, è stato ascoltato dai carabinieri, ma forse non parlato per bene, come voleva Alvaro. E allora non resta che prendere oggi, la parola, per conto suo. Per conto di quella San Luca che va assolutamente riconosciuta luogo di tutti e non terra di ‘ndrangheta. Condannando non solo il disagio sociale che porta Antonello a commettere il fatto pur di vedere lo Stato mettere piede dalle sue parti, ma la  società, soprattutto politica, che non offre occasioni e non concede scelta. Ricordando che se a San Luca vive ancora Antonello dell’Argirò, al di fuori vaneggia tutta la società miserabile.

Il mio viaggio nella San Luca di Alvaro, è stato un’esperienza che mai dimenticherò, anzi che spero di replicare tante altre volte. 

Grazie alla città di San Luca per la straordinaria accoglienza; al sindaco Bartolo per la disponibilità, all’assessore Cosmo per il sostegno, a Sebastiano Romeo della Fondazione Alvaro per esserci stato e per i doni preziosi di cui ha voluto omaggiarmi. A Corrado Alvaro, maestro e padre di questa terra, il mio grazie più grande, per avermi permesso, in punta di piedi, di entrare nella casa della sua fanciullezza ed avermi parlato nel silenzio di quasi una vita. Con le mie dita a sfioro con le sue, su quella vecchia macchina da scrivere nera e miracolosa. (gsc)

I tre allievi di Giacomo De Benedetti

di GIUSY STAROPOLI CALAFATI – Se solo la Calabria, tornasse come ai tempi della sua perfetta genesi, a sentirsi “fimmina orgogliosa della sua pancia” quale ventre che accoglie e produce, allora ecco che i calabresi tornerebbero a essere i figli-geni suoi di sempre. 

Nel trattato storico da cui si genera la terra di Calabria, e per mezzo del quale la si riconosce terra abbondantemente magna e grata, è essa stessa protagonista del suo illustre destino. Del quale oggi testimoniano i libri, unico mezzo indiscusso che introduce alla continuità e al proseguo del tempo magnogreco di questa, oggi quasi miserabile, regione. E nulla di tutto ciò è mistero. La sua letteratura, sua di origine, ma di assoluta e indiscussa proprietà del mondo, si pone quale unica vera fonte rivelatrice, delle sue più sottili e a volte quasi impercettibili verità. 

La terra del sole, non è mai stata una terra arida, ha invece prodotto sempre abbondantemente frutto. E lì dove si vedeva dichiarata vinta, si esaltava vincitrice. E lo era.

– Fui io la prima Italia – dice la Calabria. E lo fu. Nel romantico nome “Calabria”, tanti altri nomi vi sono conservati. E tutti in essi riconoscono la grandezza che questi rappresentano. Nel suggestivo nome “Calabria”, tanti volti vi sono ricordati. Ognuno con un paio di occhiali diversi per guardare tutti insieme oltre. Alla storia, alle sue vicissitudini. Al tempo immortale che non passa, e su cui invece si costruisce, generando fondamenta di futuro straordinari e saldi. 

Qui nacque la sapienza, ebbe un’abbondante stirpe, e si caricò di decenza e di ingegno. Cassiodoro, Gioacchino da Fiore, Tommaso Campanella, Telesio, Pitagora. E poi tanti altri che le diedero moralità ed onore.

Se il processo di riqualifica culturale di questa regione, avviato ormai da tempo, è sulla buona strada, lo si saprà sol quando la Calabria, darà convintamente agio alle ‘lettere’ di farsi mezzo e prova ai suoi ‘maledetti’ processi di morale. Alle accuse infamanti a cui la confina il mondo, facendola passare da MagnaGrecia a terra di ‘ndrangheta.

– Togliete fuori le prove! – dice il giudice. 

– Eccole – risponde l’accusa. – Molte sono antiche, ma altrettante, recentissime. Diverse nascono semplice prove, ma alla dimostrazione dell’innocenza dell’imputata, guardi, signor giudice, come mirabilmente diventano storie. Quella del trittico delle lettere, per esempio, è una prova lampante che niente è perduto, tutto è recuperabile. La Calabria può avere colpe, ma non tragiche accuse. E questa prova, cari signori della corte, signor giudice, conferma non soltanto l’innocenza,  ma le attribuisce una lodevole riconoscenza. Per questo è giusto che qui, in quest’aula, oggi, io vi faccia i nomi degli illustri.

Filocamo, Strati e Pedullà 

Tre calabresi e tutti e tre compagni di studi all’Università di Messina. 

Carmelo Filocamo, Saverio Strati e Walter Pedullà, i tre allievi del maestro Giacomo Debenedetti. Gli allievi di spicco. I prediletti. I futuri scrittori. I meridionali non meridionalisti, ma intellettuali italiani.

Cattedra tra le più eccellenti di tutto l’ateneo, quella del professore torinese. Figura di rilievo della “Messina” d’autore. Critico di grande originalità, professore di un trio di studenti prodigiosi, e provenienti tutti da un’unica vena geografica: la Locride. 

«Anni magici per l’Università di Messina – dice Carmelo Filocamo. – Oltre a Debenedetti insegnavano Santo Mazzarino, il filosofo Galvano Della Volpe, lo storico Giorgio Spini, il geografo Lucio Gambi e Salvatore Pugliatti, il Rettore dell’Università, giurista di fama internazionale ed eccellente musicologo  che aveva la cattedra di Storia della musica».

Quelle di Debenedetti, non erano classiche lezioni universitarie, così come accadeva nelle varie facoltà dello stesso ateneo o in quelle viciniore con gli altri professori, ma tanta era l’intensità con cui il Debenedetti le presentava, che venivano considerate particolari momenti di attrazione. Studenti di altre facoltà, medicina e giurisprudenza, si recavano nella sua aula, per assistere alle sue lezioni, come fossero rappresentazioni narrative. Una simpatia e una stima quella verso il professore, che però non fu da tutti prontamente e neppure pienamente condivisa. Senza precise considerazioni infatti, e neppure senza necessari quanto valevoli preavvisi, gli verrà inaspettatamente soppressa la cattedra. Motivi interni. Politici. Ragioni che il “suo” trittico delle lettere non riuscirà mai pienamente a comprendere. I togati universitari infatti, i bacchettoni e filistei, così come vennero definiti da Giuseppe Neri, giudicarono Debenedetti non idoneo a ricoprire il ruolo di docente universitario. 

Una notizia folgorante, che destabilizzò molti. Tra i primi Saverio Strati che in una corsa contro il tempo, subito comunicò l’accaduto all’amico Pedullà con una lettera: “Carissimo Walter, ieri sono stato col professore. È successo l’inaspettato. Hanno soppresso la cattedra di letteratura moderna. Quindi il professore non verrà più a Messina. Era molto abbattuto, e molto preoccupato per noi, specialmente per te e Carmelo.[…] Scrivi al professore; dillo anche a Carmelo.[…]”

Rabbia, indignazione, sdegno per certi versi. E poi anche inquietudine, che colse in pieno Filocamo e Pedullà che, appurata da Strati l’inattesa nuova, scrissero immediatamente a Debenedetti: […]“ Sulle cause del provvedimento avremo occasione di discutere al nostro prossimo incontro. Hanno collaborato in egual misura l’anticomunismo di tutti i membri del Consiglio di facoltà; l’invidia di queste mezze figure della cultura, che non possono perdonarle di aver fatto capire agli studenti quanto poco degnamente essi occupano una cattedra universitaria.”[…]

Ma il genio di Debenedetti non poteva finire soppresso come la sua cattedra di Messina. Ai primi degli anni cinquanta infatti, il professore, vien chiamato dal Senato Accademico, presso la facoltà di Magistero, affidandogli  la cattedra di Letteratura Francese. Quella che Debenedetti meritava e che  gli fu concessa grazie anche alla pressione degli amici Pugliatti e Della Volpe. 

Una gioia che fu lo stesso professore a comunicare a Carmelo Filocamo con una lettera, esattamente il  10 giugno del ’58 . 

“[…]Non so se qualcuno ti abbia già detto che la facoltà di Roma mi ha affidato l’insegnamento della Lett. Moderna e contemporanea. È il posto che Ungaretti lascia quest’anno per limiti di età. […] E adesso speriamo che riesca ancora a farcela io; che si possa ricostruire la “nostra” scuola. Ti abbraccio. Tuo Giacomo Debenedetti.” 

Debenedetti non dimentichò mai, neppure a Roma, i suoi tre più grandi allievi. Non fu un trasferimento di cattedra a modificare il rapporto tra il professore e i suoi studenti. Avrebbe infatti voluto al suo fianco, come assistente Carmelo, Filocamo, che per dovere etico, forse, decise di non accettare e rimanere in Calabria. 

Già ai tempi di Messina, Debenedetti, aveva capito quanto grandi fossero i suoi tre allievi. Iniziando una delle sue lezioni, con l’aula piena, riferendosi a Saverio Strati non si era riuscito a trattenere: “Avevamo tra noi uno scrittore e non lo sapevamo”.

 “Il suo giudizio positivo – scrisse Strati –  è stato importante per varie ragioni. Prima di tutto mi ha fatto prendere coscienza che sono un narratore[…]. Il giudizio, positivo ed autorevolissimo, mi era venuto isperatamente, inatteso, dal maggiore critico letterario di questo secolo.”

Una traccia, un raccordo, un’identità, un riferimento preciso Giacomo Debenedetti, per il trittico meridionale per eccellenza.

Carmelo Filocamo, raccontava di Debenedetti come “un professore che raccontava la letteratura come un narratore racconta la vita”. 

Ma è ne “Il Novecento segreto di Giacomo Debenedetti”, che i ricordi di Walter Pedullà, completeranno il rapporto tra il professore e gli allievi calabresi: “Ho visto per la prima volta Debenedetti nel gennaio del 1951. Ventenne, ero con un coetaneo, Carmelo Filocamo- più tardi noto come enigmista con lo pseudonimo di Fra Diavolo, con cui lo segnalò Italo Calvino – e con Saverio Strati, che  aveva “ scoperto “ il professore torinese. Da allora fummo inseparabili come amici e come allievi di Debenedetti, che , cosciente delle nostre non floride condizioni, ci invitò più  di una volta a pranzo o a cena.[…].”

Una storia che narra di incontri casuali voluti dal destino. Un destino preciso di uomini del Sud, pronto a segnare quello universale della letteratura. Una staffetta di lettere e letterati che racconta chiaramente  quanto corta possa essere la distanza tra il Nord e il Sud del paese quando è la cultura a governarne i rapporti. Come accade con il professore Debenedetti e il suo amato trittico delle lettere.

Una sorta riappacificazione che avviene in maniera naturale, che non si assoggetta a contaminazioni, esula da stereotipi e pregiudizi, e nella sua integrità morale, riordina ma soprattutto ricongiunge eventuali e dolorose frammentazioni. 

È questa la forza della letteratura. E se lo chiedessimo al professore Walter Pedullà, unico testimone vivente del famoso trittico, quasi certamente ci darebbe ragione.

La strada delle lettere, che è l’unica che precede e che segue quella della vita dell’uomo, non ha coordinate geografiche che ne segnano i confini. È sconfinata. Difatti è letteratura e non cartografia. 

P.S. il mio ringraziamento particolare per aver potuto scrivere questo pezzo va alla cara Iolanda Filocamo, sorella di Carmelo, scomparsa qualche anno fa, e che mi fece avere i carteggi tra il professore Debenedetti e i suoi allievi, custoditi gelosamente nella biblioteca del fratello.

Il Manifesto degli scrittori calabresi: sottoscrivere per farli studiare a scuola

A seguito della proposta della scrittrice Giusy Staropoli Calafati, lanciata da Calabria Live, ormai da diverse settimane, e che ha in oggetto lo studio nelle scuole dell’obbligo degli autori calabresi del ‘900, nasce il manifesto, siglato da più parti, dalla classe intellettuale a quella istituzionale, che ufficializza la richiesta al Ministero dell’Istruzione nella persona del Ministro Patrizio Bianchi, e per conoscenza al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, al Presidente del Consiglio Draghi, al Ministro per il Sud Mara Carfagna, alla Regione Calabria nella persona del Presidente Spirlì e dell’Assessore all’Istruzione Sandra Savaglio, all’ufficio scolastico regionale. 

In Calabria fomenta ormai da tempo, e in maniera esigente e ripetuta, un cambiamento culturale importante che mira alla crescita dell’intero Paese.

La letteratura assume un ruolo principe nello sviluppo sociale, civile economico e culturale dell’individuo all’interno della società. E la Calabria, con più voci, varie ma soprattutto potenti, le si affida, scommettendo sulla vera narrazione della sua storia, il suo futuro.

E Giusy Staropoli Calafati, donna come la terra, questa volta si fa capofila di una storia importante, che potrebbe garantire alla Calabria, il riscatto che merita.

In attesa di ufficiali risposte a quanto fatto pervenire sui più importanti tavoli italiani, Calabria.Live pubblica il manifesto curato dalla scrittrice vibonese.

SOTTOSCRIVI ANCHE TU, INVIANDO UNA MAIL A:

giusystaropoli@libero.it

UN VERO PATTO PER IL SUD?

“Gli scrittori calabresi nei programmi ministeriali scolastici”

«Io l’amo profondamente la mia Calabria, ho dentro di me il suo silenzio, la sua solitudine tragica e solenne. Sento che pure qualcosa dovrà venire fuori di lì: un giorno o l’altro dovrà ritrovare dentro di sé ancora quelle tracce che conserva della antica civiltà della Magna Grecia». (Saverio Strati)

«…ho speso una vita per scrivere, per analizzare la Calabria, non so se bene o male; questo non tocca a me dirlo. Posso dire che ho fatto grandi sacrifici, sperando che questa terra potesse avere una sorte migliore, come credo che avrà». (Mario La Cava)

«Inventate gemellaggi con tutte le scuole del Sud. […] Dopo tutto il lavoro fatto, scrivete una storia nuova. Vi do un mandato straordinario, quello di ricucire l’Italia. Se in questo momento, dopo tutto il lavoro fatto, non siamo capaci di proiettarci sul Paese, vuol dire che non siamo capaci di costruire una scuola nuova».(Patrizio Bianchi, Ministro Pubblica Istruzione)

La Calabria accetta il mandato!

Se la bellezza salverà il mondo, la cultura salverà l’Italia, e letteratura, la Calabria. È sul sapere che si giocano il presente e il futuro delle generazioni. E la letteratura è la chiave di volta essenziale che permette a una società miope di ritornare a vedere.

Non capisce l’Italia, chi non capisce l’Italia Meridionale, scriveva Corrado Alvaro. Ed è per questo che il Sud non può più rimanere indietro. E senza la sua storia feconda, l’Italia, da sola, non si può più salvare. 

È nei Sud del mondo che si imparano le migliori strategie di sopravvivenza. E si formano i pensieri, le menti, così come nella terra si forgiano le braccia ed il lavoro. 

È nella precarietà dei luoghi che si acquisiscono il valore della vita, la durezza e la nobiltà della fatica. Si insaporisce il pianto, e sul dolore e sullo sconcerto delle comunità, si poggiano i basamenti del rinnovamento culturale e dello sviluppo civile, che mai prescindono dal valore dall’identità, per quanto composita, plurale e mutevole nel tempo questa possa essere. Che diventa arte, sublimazione, formazione ed elevata sapienza.

L’Italia deve la sua formazione culturale ai suoi più grandi artisti. Dalla letteratura all’arte. Una miscelazione di pensieri, forme, idee e vicissitudini, che nonostante l’approssimarsi delle varie epoche, da Nord a Sud, ha lasciato tracce potenti e senza scadenza. Una scuola che trova radici nella storia più antica e che si trascina fino all’epoca contemporanea, tracciando linee identitarie in perenne trasformazioni ma pur sempre originali e riconoscibili e percorsi culturali essenziali, a cui da sempre, l’uomo ha necessità di attingere.

Il passato non è semplicemente un tempo trascorso rispetto a quello attuale, ma una scuola che non può essere superata. Esso è la prima istituzione immateriale, destinata alla formazione “futurandi”. E conserva verità che mai potranno essere cambiate o anche solo modificate. E non ammette che si tralasci o si trascuri qualcosa. E combatte finanche la temporanea e fortuita mancanza di memoria. 

La scuola italiana però, caro ministro Bianchi, nella stesura dei programmi scolastici, da decenni, ha vuoti che vanno necessariamente riempiti. Assenze che devono indiscutibilmente essere recuperate. Negli anni passati purtroppo, è bastata una commissione, a far sì che gli autori meridionali del ‘900, venissero eliminati dai banchi di scuola, senza neppure il benché minimo pensiero riguardo le gravi ripercussioni che il paese avrebbe avuto sul piano culturale. Un danno senza precedenti, che riporta l’Italia sulla solita questione della disparità tra i suoi due poli, con annessa frantumazione della vera unità culturale e intellettuale. 

Agli studenti, viene proposta, una visione viziosa, viziata ed incompleta della letteratura italiana. Dopo Verga e Pirandello, secondo le indicazioni ministeriali, quasi nessun altro autore meridionale, benché meno calabrese, nello specifico di questo documento, viene trattato con una presenza ufficiale nei libri di testo. Un oscuramento storico, geografico e civile che non può più continuare. Un danno culturale e sociale che non può più essere perpetrato. Un errore di prospettiva forse, che fomenta a tutt’oggi però, seppur inconsapevolmente, l’annoso divario Nord/Sud. 

La Calabria subisce, anche nelle lettere, le peggiori discriminazioni. Eppure, confermano critici e studiosi, con i suoi autori novecenteschi, ha implementato di valore la letteratura italiana e mondiale. 

Gli scrittori calabresi del ‘900 (e non solo quelli) non possono più attendere che arrivi il loro turno sol quando qualche valoroso docente appassionato, in maniera quasi ”abusiva”,  seppure responsabile, deicide di impartire ai propri allievi lezioni sulle loro opere . Serve ufficializzare il pensiero, la poetica, la scrittura, e con protocolli ministeriali. Una nuova scuola, per ricucire l’Italia.

Esiste un’esigenza fisiologica oltre che storica dei popoli e delle civiltà, che non consente di fare cancellazioni o anche solo esclusioni, in letteratura. Il De Sanctis definiva la letteratura l’insieme delle opere variamente fondate sui valori della parola e affidate alla scrittura, pertinenti a una cultura o civiltà, a un’epoca o a un genere. Ad essa viene infatti affidato il compito di ricostruzione e/o  d’indagine storico-critica di un popolo. E la Calabria rischia di andare perduta, se il resto del paese non si ritorna ad innamorare e al più presto della sua storia, della sua arte, ma soprattutto della sua letteratura. Che non è presente più nei libri di formazione, ma sta tutta racchiusa nelle opere dei suoi scrittori. Che è stata del mondo finché il mondo si è accorto di lei. È divenuta solo di se stessa, nel momento in cui il mondo, e soprattutto il Paese, se ne sono dimenticati. 

Il processo con cui da anni viene indebitamente ignorato il  pensiero dei grandi autori meridionali/calabresi, e con il quale vengono altresì tenuti a margine, geni delle lettere come Corrado Alvaro e Saverio Strati, priva l’Italia e le nuove generazioni di studenti, di una formazione completa, che non penalizza esclusivamente il capitale umano della scuola del Sud, ma quello di tutta la nazione.

La storia siamo noi e  noi siamo l’Italia. 

Con Verga e Saverio Strati, Pirandello e Corrado Alvaro. Francesco Perri, Mario La Cava, Raoul Maria De Angelis, Fortunato Seminara, Leonida Repaci, Lorenzo Calogero, Franco Costabile. Geni delle lettere che fortemente hanno influenzato i salotti letterari italiani ed europei, dando voce al Sud, da sempre terra di attese e di partenze. Di memorie luttuose e speranze. Che ora è brigante, ora si fa emigrante. Nomi d’ingegno, le cui opere e il cui pensiero diventano strumento necessario e indispensabile per affrontare i problemi dell’intera società italiana. 

Ragion per cui, si chiede al Ministero dell’Istruzione, una valutazione approfondita volta alla possibile revisione dei programmi ministeriali, con l’inserimento all’interno dell’offerta formativa, degli autori calabresi più illustri e più influenti, affinché diventino oggetto di studio nelle scuole dell’obbligo. E la letteratura italiana si confermi la vera ricchezza culturale dell’intera Nazione.

Un popolo per capirsi veramente deve conoscere i suoi artisti, altrimenti rimane indietro, diceva Saverio Strati. 

Ci sono narratori come Corrado Alvaro, Saverio Strati, Mario La Cava, Raoul Maria De Angelis, Fortunato Seminara, Francesco Perri, Leonida Repaci, Franco Costabile, Lorenzo Calogero, che hanno almeno un libro necessario per intendere all’italiano cosa è il Sud e cosa l’Italia, sostiene Walter Pedullà.

È pur vero che la realtà della scuola, è spesso legata alla tirannia del tempo. Ci si trova quasi ogni anno, difronte a docenti in difficoltà nel terminare i programmi scolastici, ma ci sono nomi da cui non si può prescindere. A Partire da Quel ramo del lago di Como che volge a mezzogiorno, fin giù giù, fin dove Non è bella la vita dei pastori in Aspromonte .

Diventano urgenti, di estremo bisogno culturale e sociale, almeno Corrado Alvaro e Saverio Strati, tra gli scrittori; Franco Costabile tra i poeti. Una richiesta che non è un appello, ma la domanda per un viaggio d’istruzione obbligatorio.

I libri dei narratori calabresi del ‘900 (e perfino quelli di epoche precedenti), quali autori mondiali, letti e tradotti nel mondo, risultano essere tutti una buona opportunità di crescita. Sono libri e sono “villaggi viventi nella memoria”, come sosteneva Ernesto De Martino. Una memoria che ha buone probabilità di diventare collettiva quando leggendo, una comunità ha voglia e coraggio di sommare un certo numero di memorie individuali.

La Calabria, forse più di altre terre, affonda la sua storia in malloppi di fogli rilegati tra loro, che si chiamano libri. Ed è certamente per questo che ha sempre resistito. Attingendo, al bisogno, a ognuna di quelle pagine. Un esercizio che non ha mai abbandonato e che oggi la vede raggiungere risultati straordinari, con Vibo Valentia, sua più piccola provincia, “Capitale italiana del libro” .

La Cultura è in Calabria. 

La speranza di una nuova scuola, anche. 

15000 km quadrati di argilla con cui Dio fece il suo più grande capolavoro, così come ricorda Leonida Repaci, ne Il Giorno della Calabria. Un’eredità che mai potrà andare perduta. Mai, finché a fare la storia di questa terra, terranno alta la testa i libri. 

Leggere, imparare, acquisire, formare…, sono queste le uniche formule che, se applicate nella loro completezza, dimostreranno che non è un ipotesi e neppure una teoria, che il più bel paese siamo noi. L’Italia tutta intera delle lettere.

Siamo certi che questo manifesto troverà ufficialità sopra i banchi responsabili dell’istruzione dei nostri giovani, e altrettanto sicuri che il ministro Bianchi, sempre attento e sensibile alla nostra scuola, vorrà insieme a noi, dare “mandato” ufficiale agli autori calabresi del ‘900, a cui sopra abbiamo fatto esplicito riferimento.

HANNO GIÀ FIRMATO:

Giusy Staropoli Calafati (scrittrice, promotrice del manifesto)

Santo Strati, direttore Calabria.Live

Francesco Bevilacqua, Scrittore 

Gioacchino Criaco, Scrittore

Giuseppe Lupo, Scrittore e docente universitario

Santo Gioffré, Medico e Scrittore

Leonardo Alario, Antropologo

Mimmo Nunnari,  Giornalista e Scrittore

Gilberto Floriani,  Sistema Bibliotecario Vibonese

Domenico Stranieri,  Sindaco di Sant’Agata del Bianco

Domenico Calabria,  Caffè Letterario Mario La Cava

Francesco Mazza, Fotografo

Vincenzo Stranieri, Saggista

Francesca Prestia, Cantastorie

Amministrazione comunale di San Luca

Virginia Marasco,  Assessore Cultura e Pubblica Istruzione comune di Cirò Marina

Vincenzo Maesano sindaco di Bovalino

DA 150 ANNI LA “QUESTIONE MERIDIONALE”
PRESENTE E FUTURO DI CHI NON PARTE PIÚ

di GIUSY STAROPOLI CALAFATI – “Se questa è terra”, parafrasando Primo Levi, lontani da ogni coinvolgimento e dai falsi millantatori, la Calabria ha bisogno, e finalmente, di una sincera e profonda analisi. Un’indagine accurata della sua vita, le manchevolezze e le virtù; un’esposizione precisa dei fatti che liberamente ha vissuto e dei misfatti a cui è stata nottetempo costretta. E a seguire, il tracciamento di una linea di sviluppo su un futuro prossimo ancora possibile per i calabresi. Dunque un reale e profondo esame, affidato alla genialità e genuinità del suo stesso popolo. Procedendo passo passo, dall’individuazione allo studio dei particolari, fino alla scomposizione di tutte le sue parti. Inclusa la grandezza di cui ne è pregna, ma anch’essa spesso variabile nelle sue componenti.Idee, ideali, visioni, lavoro, sviluppo, territorio, sanità politica… Passato e presente. Presente e futuro. Futuro e basta.

“Cominciate col fare ciò che è necessario, poi ciò che è possibile. E all’improvviso vi sorprenderete a fare l’impossibile”, diceva San Francesco da Paola, la cui visione della Calabria amplia ogni qual si voglia prospettiva.

Era il 1861, e nasceva come nascono i figli, la questione meridionale. La Calabria si trovava improvvisamente a doversi curare da sola le ferite delle razzie subite. E perdeva in un batter d’occhio, l’indipendenza e la libertà. Il Mzzogiorno in cui è tutt’ora incastonata, veniva, e nella forma più terribile e vile, svuotato delle sue fabbriche, le flotte navi, le poste. E poi i valori, i sogni, la dignità, ma soprattutto i figli.

Una strage silenziosa di addii e di partenze obbligate che colpiva direttamente lo stomaco delle famiglie. Ed è lì, in quella parte del corpo degli uomini del Sud, che va ricercata oggi la prima causa del male, per cui, tra le altre terre, soprattutto la Calabria, rinnegata e derisa, piange ciclicamente se stessa.

Quando le mancava la farina, e i figli si stropicciavano gli occhi, e le madri si battevano il petto per il fianco del pane. Quando le rubavano le olive, e certe volte le boicottavano le terre, e su quello stesso suolo, le stupravano le mogli. Con violenza, senza pietà.

Allorquando, con il corpo, obbligata e oberata dal bisogno, risaliva verso la grande Italia, mentre l’anima le rimaneva lì piegata dov’era nata. Nella miseria acuta e ancora oggi incompresa, in cui i piemontesi l’avevano amaramente condannata. Così al dolore delle doglie delle madri, si aggiungeva quello forte delle partenze dei figli e dei mariti. Come soldati in fila alle stazioni, accalcati sopra i lunghi treni.

Erano giovani e forti. Non sono morti, ma son partiti in tanti. Che mentre con la forza delle braccia, ben forgiate nella durezza della terra nera, con i sacrifici e il pianto amaro delle spartenze, industrializzavano Milano e Torino, Milano e Torino, con la pratica del convincimento, al limite dell’assuefazione, li annoverava tra gli ultimi, gli sporchi, gli oziosi e i lenti. I fetusi e i tinti. I terroni infami. Gli stolti della terra inquieta.

Una terra da dove tutti partono, la Calabria. E verso dove, il ritorno è una scelta che solo pochi mettono in programma. Un terra dannata e sola. E nelle terre sole (diceva Saverio Strati) prolifica la mafia. Nelle terre sole, si incarognisce la mafia. Ed esse stesse, diventano improvvisamente asprimondi, e nel disagio sociale che imperversa, l’uomo disperatamente si concede (totus tuus). Se è adulto, e se è bambino. Perché nei campi fragili, negli orti incolti, e nei cuori ripetutamente tristi, attecchisce la più malvagia e maledetta di tutte le piante. Andragatia, o più comunemente ‘ndrangheta.

Malaffare, criminalità, ostentazione del rispetto, potere, vendetta, resa dei conti. Reclutamento di uomini, e giuramenti di obbedienza. Davanti ai santi e non ai fanti. Nella solitudine della Calabria, il bisogno diventa mafia. E si radica ovunque trova morbido e scava profondo. Nella debolezza delle istituzioni, nel tentennamento più che accessibile della politica, nella fragilità assoluta del tessuto sociale. Attecchisce e velocemente cresce. Perché quaggiù, alla Calabria appunto, nessuno viene per porgere aiuto. Né restituisce quello avuto.

Ma a infilzare le ferite ancora aperte e sempre vive di questa ineguagliabile magna Grecia, ecco che arrivano ripetutamente, con il passo dei dominatori,  il giudizio e il pregiudizio del mondo. Dal 1861 a Corrado Augias, il tempo è tanto e pure lungo. La storie e le offese, altrettanto.

La Calabria, ahimè, ahivoi, ahinoi, a oltre 150 anni di storia italiana, non rinviene. E la sua questione rimane eternamente irrisolta.  Ma se è vero che alla base dei mali vi son sempre i rimedi, le cure e le soluzioni, la Calabria deve avere convintamente ancora un futuro nuovo davanti a sé. Così da finirsi Augias e tutti gli sfidanti come lui.

La morte, solo la morte che rende le cose, i luoghi e gli uomini definitivamente perduti e irrecuperabili. E la Calabria, dentro di sé ha ancora una razza viva. Che è il rimedio, la cura e la soluzione.

Una rivoluzione? No. Una conversione definitiva alla calabresità, affinché oltre al forestiero, il calabrese non sia più nemico del calabrese stesso. Che fomentato contro la sua stessa pena poi viene deriso. E si recuperi nel più breve tempo possibile l’amore dei calabresi verso la Calabria e quello della Calabria verso i suoi calabresi. Perché per tracciare la linea di sostenibilità del futuro ancora possibile per questa terra, urge uno scatto d’orgoglio che converta alla vera razza. Alla primordiale. Che è madre e figlia della lotta, del sacrificio, della ribellione, lontana dalla rassegnazione e dell’assopimento. Che è resistente, ma soprattutto resiliente.

Il calabrese non deve più attendere altri 150 anni ancora. Ma già da ieri, deve riuscire a ritrovare, la peccaminosa intimità con la sua terra, rinnamorandosi di lei e di se stesso. Rinunciando definitivamente a uomini come Augias, – che ve ne saranno sempre e saranno molti di più – che mai hanno contribuito, né col pensiero né con la parola, alla risoluzione della storica “questione meridionale”, riadattandola invece in una ben più rena “questione calabrese”.

Dunque, meno chiacchiere  e tabbaccheri i lignu. Il banco di Napoli non ne impegna più. Risorse, investimenti, infrastrutture, impegni, ma soprattutto opportunità di scelta. Occasione che, ahinoi, non c’è mai stata data.

Ad analisi completa, i panni sporchi si lavano in famiglia. I calabresi che concordano con la perdizione della propria terra, è l’ora che vadano. Quelli che invece intendono ancora concorrere per un nuovo futuro restando, è ora che decidano. Il futuro della Calabria e dei calabresi, è nelle nostre mani sporche di impegno e di lavoro. (gsc)

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In Calabria è stato commesso il più grave dei delitti, di cui non risponderà mai nessuno: è stata uccisa la speranza pura, quella un po’ anarchica e infantile, di chi vivendo prima della storia, ha ancora tutta la storia davanti a sé. (Pier Paolo Pasolini)

 

[La fotografia di copertina è del gen. Emilio Errigo]