LA RIFLESSIONE / Don Domenico Labella: Una giornata della Disabilità, ma non a Mosorrofa

di DON DOMENICO LABELLA – Il 3 dicembre si è celebrata la Giornata Mondiale della disabilità. La Giornata internazionale delle persone con disabilità è indetta dalle Nazioni Unite dal 1981.

La Giornata mira ad aumentare la consapevolezza verso la comprensione dei problemi connessi alla disabilità e l’impegno per garantire la dignità, i diritti e il benessere delle persone con disabilità.

La parrocchia San Demetrio a Mosorrofa (RC) ha, da sempre, un grosso problema di barriere architettoniche. Per entrare nella Chiesa di San Demetrio si devono superare circa 13 gradini dalla porta centrale e altrettanti da quella laterale, alla quale si può accedere anche attraverso una salita molto ripida e spesso scivolosa. Insieme all’Azione Cattolica parrocchiale, coadiuvato dal Comitato di Quartiere Mosorrofa, da anni ormai ci battiamo per consentire a disabili e anziani di poter accedere più agevolmente in chiesa.

Ci si è rivolti più volte e con diversi interlocutori al Comune di RC, titolare del suolo antistante la chiesa, chiedendo di venire incontro attraverso i fondi ABA alle esigenze della popolazione mosorrofana e dei tanti visitatori esterni che, se in condizioni precarie, non riescono ad accedere liberamente se non attraverso enormi disagi e con l’obbligo di essere aiutati.

L’ingegnere Domenico Suraci ha volontariamente e gratuitamente progettato e donato alla parrocchia una possibile soluzione, abbastanza semplice. Essendo il suolo dove deve sorgere questa passerella di proprietà del Comune di RC abbiamo pensato di donare gratuitamente all’amministrazione comunale il suddetto progetto, chiedendo un celere intervento in merito. Quel progetto giace nelle stanze dell’amministrazione comunale da oltre tre anni.

Ci siamo rivolti personalmente a tanti assessori e consiglieri comunali oltre che ai sindaci che si sono succeduti e tutti hanno dato il loro assenso ma sono rimaste solo parole.  

Sempre ieri (il 3 dicembre ndr) il sindaco Falcomatà inaugurando la nuova piazza davanti al museo, ci ha tenuto a sottolineare che l’inaugurazione il 3 dicembre non era casuale, ma voluta perché questa nuova piazza è totalmente priva di barriere architettoniche e tutti vi possono accedere indipendentemente della disabilità o handicap di cui sono portatori e ha sottolineato che è un segno di libertà.

Una libertà che alla popolazione di Mosorrofa è negata e che questa Amministrazione, per dolo o per colpa, sembra non volersene occupare. (dl)

[Don Domenico Labella è parroco della Chiesa di Mosorrofa]

LA RIFLESSIONE / Il ritorno della Madre della Consolazione

di FRA GIUSEPPE SINOPOLIPotrebbe sembrare un tema ormai inflazionato scrivere sulla Madonna della Consolazione. E, poi, cosa offrire che non sia stato già stato condiviso. Sarebbe un ripetersi. Personalmente, credo che quando si parla con la Mamma o si scrive della Mamma è come un lasciarsi abbracciare da quel cuore così innamorato di figli da ispirare emozioni e commozioni inimmaginabili e fortemente coinvolgenti. È come una sorgente in cui ci si immerge, per poi riemergere con nei volti la tenerezza di meraviglie sempre antiche e sempre nuove.

Al di là delle date, che comunque si rinnovano nella memoria e nella profezia, vi sono aneliti pellegrini di incontri, di confidenze e di affidamenti, individuali e comunitari, che sostanziano il patrimonio di ogni devoto della Vergine della Consolazione; attestazioni relazionali immanenti e trascendenti o di semplice approccio antropologico e fenomenologico che suscitano, a seconda del proprio “sentire”, sentimenti unici e irripetibili.

Se dovessimo ripercorrere gli avvenimenti storici inerenti a situazioni di particolare importanza, contestualizzati alle celebrazioni devozionali liturgiche e paraliturgiche, compresi quelli strutturali, occorrerebbero molti volumi e ciò riguardo alle biografie, elaborati, conferenze, articoli di giornali, di riviste, e documenti cartacei, fotografici e serigrafici. E che dire, poi, dei documenti che si conservano negli archivi pubblici e privati, tantissimi dei quali attendono di vedere la luce? Luce, sì, perché ogni sillaba, ogni vocale, ogni disegno e ogni bozza sprigionano sentimenti che illuminano il volto e infervorano il cuore, per chi crede; per chi rimane sul muretto degli eventi storici, culturali e di tradizioni potrebbero suscitare curiosità, interesse e slancio di specifico approfondimento.

Perché la Consolatrice, in modo speciale per Reggio e l’Arcidiocesi, costituisce una presenza sempre viva ed attuale, un patrimonio di straordinaria valenza, anche relazionale, che ispira e accompagna l’esistenza nelle sue manifestazioni a livello personale e comunitario che scaturiscono dal cuore di Madre e a lei ritornano con il cuore di figli. Certo vi sono tanti che ne fanno memoria a proprio utilità e magari con sentimenti che non hanno nulla a che fare con lo spirito filiale, e che vivono come un evento da accogliere e da cui trarre qualche beneficio.

Tuttavia Lei passa mostrando il suo Bambino con animo benedicente e lasciando il regalo della sua tenerezza materna e l’amabile sguardo della consolazione. Una Mamma che chiede di asciugare il sudore della sofferenza, delle preoccupazioni, delle difficoltà quotidiane fatte di solitudine, emarginazione, incomprensione, di debole o inesistente speranza. Una Mamma che vuole lasciare il profumo dell’accoglienza, della benedizione e dell’intercessione presso il Figlio perché ogni famiglia possa tornare alla gioia, alla fiducia e all’amore. 

È semplicemente indescrivibile il trasporto emotivo devozionale quando la Vara portata da circa 100 portatori, abbracciando le stanghe, a significare l’abbraccio alla Madre, procede solenne lungo le strade con una passione davvero coinvolgente. Ogni tanto si ferma e si colgono altre emozioni devozionale singolari, come quella di sollevare un bambino fino alla sacra immagine oppure quella di un malato in carrozzella o aiutato dai familiari viene accompagnato fin sotto l’Immagine per uno sguardo intriso di preghiera silenziosa e assai intima, trovando conforto e rinnovata speranza. È tutto un tripudio di occhi e di cuori, di piedi nudi e di mani intrecciati da corone di rosario, di candele che ardono perpetuando i legami votivi per una grazia ricevuto o implorata.

Ritorna, pertanto, la Madonna e con essa la Città che, rappresentata dai suoi figli, ne perpetua la bellezza di un connubio forte, vivente, santo e gradito al suo Figlio, dal cui cuore sgorgano grazie, tenerezza e benedizioni. E griramulu ccu tuttu u cori: oggi e sempri, viva Maria! (gs)

LA RIFLESSIONE / Gilberto Floriani: Calabria, terra ricca di talenti ma dalle profonde contraddizioni

di GILBERTO FLORIANI – Nei giorni scorsi ho letto un appassionato appello di un giornalista che invitava gli intellettuali e gli scrittori della nostra regione a dar voce alla sua complessità. Una terra ricca di talenti e potenzialità, ma anche segnata da profonde contraddizioni e sfide ancora irrisolte.

Vivo in un contesto troppo ristretto per esprimere un punto di vista generale sulla regione, ma alcune vicende le ho vissute, alcune anche molto dolorose, molti mi conoscono e sanno chi sono e cosa ho fatto nella mia vita lavorativa, altri non lo hanno mai capito o non lo h

Un racconto della Calabria positiva e virtuosa è quello di Giuseppe Smorto, con il suo ‘A sud del Sud’, libro nel quale ha raccontato della creatività e del coraggio delle realtà positive calabresi, forse non è un libro esaustivo e molti altri dovrebbero seguirlo su questa strada. La mia esperienza diretta conferma che denunciare le storture in Calabria è un’impresa apparentemente facile, sono sotto gli occhi di tutti, ma molti ritengono che non sia sempre utile e prudente, specie se è una voce che viene dal di dentro. Chi parla apertamente, soprattutto se ha visibilità, rischia isolamento o avvisaglie e si mette comunque in uno spazio di opposizione. Non voglio dire che vi sia un clima di omertà, ma essere contro non è utile per chi persegue interessi personali e clientelismo.

Ciò nonostante, non mancano voci di resistenza e denuncia, ma chi ha il potere cerca di isolarle. Inoltre, la realtà calabrese, con le sue radicate problematiche, viene spesso accettata passivamente, come una sorta di normalità. Molti preferiscono tacere, per non avere problemi o per ottenere favori dalle istituzioni. Il giornalismo locale, spesso condizionato da interessi economici o politici, raramente approfondisce le questioni più delicate.

Il potere in molti comuni calabresi è nelle mani di clan familiari e logge massoniche, spesso in collusioni con figure poco raccomandabili. I partiti politici, svuotati della loro storia, anche a causa dei sistemi elettorali vigenti, sono diventati strumenti per carriere personali, le leadership trascinanti latitano. Anche chi dovrebbe o vorrebbe essere libero da condizionamenti finisce per piegarsi alle logiche del potere.

Alcuni studiosi di grande valore hanno analizzato e continuano ad analizzare le grandi problematiche regionali, ma i loro lavori, di grande utilità, all’altezza della migliore tradizione meridionalistica, spesso sono troppo specialistici, e mancando un sistema di diffusione del pensiero e della cultura ai livelli più bassi della società, spesso rimangono confinati all’ambito accademico.
La domanda è: esiste una via d’uscita? Purtroppo, la rassegnazione e l’insicurezza frenano il cambiamento. Chi crede nel mutamento si scontra con un muro di indifferenza. Il peso della storia, rassegnazione e pessimismo, le radicate abitudini mentali e l’ignoranza diffusa sembrano condannare la regione a un eterno immobilismo. (gf)

LA RIFLESSIONE / Le conseguenze del delitto Matteotti a Catanzaro

Il 10 giugno 1924, Giacomo Matteotti, deputato e segretario del Partito socialista unitario, venne assassinato da un manipolo di fascisti. Lo ricorda il Comitato, composto da personalità della politica e della cultura catanzarese, istituito a Catanzaro dal sindaco Nicola Fiorita per le celebrazioni del centenario della morte del leader socialista.
Nei prossimi mesi, con il coinvolgimento delle scuole e delle istituzioni accademiche, si terranno alcune iniziative per ricordare una fase importante della nostra storia che ebbe nell’omicidio Matteotti uno dei momenti più significativi. L’obiettivo è quello di consolidare la consapevolezza sulle ragioni storiche della lotta per l’affermazione della libertà e della democrazia nel nostro Paese.
Con l’occasione, il Comitato intende anche offrire una riflessione sulle conseguenze del delitto Matteotti a Catanzaro e nella provincia.
Nell’aprile del 1924 si svolsero le elezioni politiche secondo le norme della legge Acerbo, sottosegretario alla presidenza del consiglio, voluta da Mussolini per garantire la vittoria del Partito Nazionale Fascista. Modificando il sistema proporzionale vigente dal 1919, la legge prevedeva un premio di maggioranza, pari a ben due terzi dei seggi, a beneficio del partito che avesse ottenuto almeno il 25 per cento dei voti (similmente alla proposta dell’attuale maggioranza di destra). Le liste che vennero proposte agli elettori furono dodici. In quella di maggioranza, ai fascisti furono aggregati i rappresentanti delle vecchie élite liberali.
Le opposizioni presentarono numerosi emendamenti per innalzare la percentuale di voti che avrebbe fruttato il premio di maggioranza, ma senza successo. In provincia di Catanzaro, i risultati elettorali mostrarono come nello schieramento di maggioranza i “trasformisti” liberali mantenessero un notevole consenso.
Ma anche nelle opposizioni vi furono deputati che dimostrarono di avere forti legami con gli elettori. In particolare, vanno ricordati i due che rappresentarono la città e la provincia di Catanzaro: Nicola Lombardi (democratico sociale) ed Enrico Molè (opposizione costituzionale).
Entrambi, assieme al socialista Enrico Mastracchi, non fecero mancare «una resistenza animatissima al fascismo» (per citare lo storico Antonio CarvelloLa Calabria sotto il fascismo). Il consenso ottenuto, in diversi comuni superiore a quelle del “listone” di Mussolini, dimostrava la consistenza di un diffuso sentimento analogo nella società.
Il 30 maggio, Giacomo Matteotti denunciò in Parlamento le violenze e i brogli elettorali e chiese l’annullamento delle elezioni. Il 10 giugno fu rapito e ucciso. Il suo cadavere, occultato nel bosco della Quartarella, presso Roma, fu ritrovato solo il 16 agosto. Intanto, l’opposizione antifascista era uscita dal Parlamento ritirandosi sull’Aventino. Quasi tutti i deputati calabresi parteciparono alla secessione aventiniana.
Nel fronte antifascista, insieme con tutti i rappresentanti dei partiti contrari, confluirono anche Nicola Lombardi ed Enrico Molè che in Calabria erano i più autorevoli esponenti dell’Unione Meridionale. L’azione degli aventiniani non ebbe successo e i fascisti superarono lo sbandamento seguito alla morte di Matteotti.
Nel 1925 ebbe inizio la dittatura di Mussolini che limitò la libertà di stampa e di opinione, diede luogo a perquisizioni personali e a confinamenti di esponenti a lui contrari. Le diversità politiche di opposizione furono cancellate: la secessione aventiniana si concluse Il 9 novembre 1926 allorché la Camera dei deputati deliberò la decadenza dei 123 deputati aventiniani.
Lombardi e Molè uscirono dalla scena politica parlamentare per intraprendere un’opposizione silenziosa svolta soprattutto nel contesto della massoneria alla quale entrambi appartenevano. Ripresero la loro attività dopo la liberazione. (Comitato di Catanzaro per il Centenario del delitto di Giacomo Matteotti)

LA RIFLESSIONE / Mons. Vincenzo Rimedio: L’urgenza di recuperare il discorso sulle relazioni umane

di MONS. VINCENZO RIMEDIOUn discorso che si rivela attuale, per l’urgenza di recuperarlo, è questo delle relazioni umane.

La persona stessa è definita un essere in relazione, ma purtroppo non si realizza come tale: si trovano i motivi nell’individualismo che si è accentuato negli ultimi decenni, si trovano nell’attrazione degli idoli terreni, quali il denaro, il piacere e il potere, e si allontana l’interesse verso i rapporti personali con i propri simili.

Nell’odierna società si possono distinguere vere e fedeli relazioni – ve ne sono – da quelle apparenti e inconsistenti, che quindi vengono facilmente meno.

Si può considerare la relazione nei seguenti termini: affidarsi reciprocamente tra le persone in modo che l’una possa contare sull’altra. La qualità della persona dà luogo ad apprezzabili relazioni. La vita ordinariamente si sviluppa in tante circostanze pesanti, che la persona umana regge con fatica, e la relazione vera si rende necessaria per la sicurezza fondamentale che offre.

È soltanto gravemente disumano quanto avviene sia nelle attuali guerre, che si sono scatenate e fatte dalla negazione di ogni relazione, e ugualmente quanto avviene nelle famiglie provate dai femminicidi e dai frequenti divorzi. Si deve tornare in riferimento a quanto sopra sottolineato, a ridiventare persone umane, per non restare nella deriva della non umanizzazione.

Un modello di relazioni per i credenti, e anche per i non credenti battezzati, anche essi figli adottivi di Dio, ma da Lui lontani, nella Trinità.

Il principio senza principio caratterizza il Padre, la generazione eterna caratterizza il Verbo, che è il Figlio: da Entrambi procede lo Spirito Santo. Sono un’unità nella natura e si distinguono come Persone, o Relazioni. Sono un’unità che vive l’Una nell’Altra, in perfettissima comunione.

E noi cristiani siamo divisi in diverse Confessioni; e come cattolici, non in tutti vige l’unità voluta da Cristo – «che tutti i discepoli siano una cosa sola come noi, o Padre, siamo una sola cosa». 

La nota dell’unità, dell’unica fede e degli orientamenti morali evangelici, per la Parola di Dio devono formare la Comunità ecclesiale: senza di essi non sussiste la vera Chiesa, Corpo Mistico di Cristo, che ne è il Capo e noi le sue membra. 

L’unità, la comunione con Dio e tra di noi è d’obbligo! Riflettiamo! (vr)

[Mons. Vincenzo Rimedio è vescovo emerito della Diocesi di Lamezia]

LA RIFLESSIONE / Santo Gioffrè: Nessuno accenna “pietas” per la povera ragazzina di 13 di Villa San Giovanni

di SANTO GIOFFRÈ – Poi, tra gli scogli, lì, a Villa San Giovanni. Al di là di ciò che sia successo nel caso del neonato trovato morto tra gli scogli del porto di Villa San Giovanni, infanticidio riportano le eccitate fonti di divulgazione di massa, nessuno accenna Pietas verso la povera ragazzina di 13 anni, chissà quante volte violentata persino nella sua mente cognitivamente deficitaria, secondo quello che dicono le solite fonti. Siamo alla barbarie di un moralismo sanfedista. Siamo, ormai, precipitati dentro il baratro della criminale incipienza dell’egoismo come piacevole fonte del diritto a governare una società decadente.

Nessuno parla con Pietas del dramma in cui è stata costretta a vivere una ragazzina (13 anni ora) chissà quante volte violentata e trafitta nel corpo e nella sua debole mente di esclusa perché l’emarginazione è il carcere in cui una società infame trattiene i suoi figli più miseri. In questo, in Calabria, siamo uguali a tutte le aree periferiche, emarginate, reiette dell’Italia, guardati con fastidio da parte di Governi barbari, infami, che hanno protetto e proteggono solo i ricchi e i signori da bene e che eliminano le imperfezioni con brutalità.

Nessuno si è mai accorto di nulla, perché chi è considerato nulla non esiste. Nessun meccanismo di controllo di aree del disagio esiste più a protezione degli Uomini e delle Donne sfregiati dal mito della supremazia della società dei consumi capitalistici che vuol solo il dominio sulle persone che sanno dare braccia e menti per accumulare altre ricchezze ai loro forzieri e ammazzare chi non è utilizzabile per tal finalità. M’immedesimo nel dramma tutto umano di quella ragazzina, trattata come una cosa, sfregiata, riempita di una vita della quale lei, immagino, pensava fosse un tutt’uno col suo corpo.

Da ostetrico, vedo il suo travaglio, tra il terrore e la paura mischiata con le grida soffocate dopo ogni violenta contrazione, tra polvere e sporcizia di ogni spelonca in cui era costretta a vivere. Schifoso mondo capitalista che schiva le bruttezza, emargina le sofferenza e fa trionfare, solo, la bellezza degli affari. L’emarginazione e l’esclusione non possono essere alla base del trionfo dell’ineguaglianza sociale ed economica tra gli uomini. No, non possono essere perché, ora, dobbiamo chiederci tutti noi per chi suona la campana e l’invocazione della pena per la madre non salva la vostra anima sporca. (sg)

LA RIFLESSIONE / Franco Cimino: Dalla violenza per una partita di pallone alla nuova educazione

di FRANCO CIMINO – Non è andata come auspicavo. Non come ho supplichevolmente chiesto. Come ho pregato che andasse. Giungono dalla rete a decina i video che dicono di una parte di Cosenza, la nobile Città, assediata da autentici commandos di ultras che hanno attaccato i pullman di tifosi giallorossi di passaggio obbligato per tornare a casa. E dicono di una risposta scellerata di una piccola frangia di questi.

Dicono, e documentano di un gravissimo attacco, di un manipolo di stupidi al Mc Donald di Rende, dove famiglie con bambini stavano godendosi le solite serate di semplice allegria nel posto “ più adatto” ai ragazzini. Il bollettino di guerriglia urbana, ché di questa almeno si tratta, dice di qualche ferito tra i “ combattenti” e addirittura di tredici tra gli uomini delle Forze dell’Ordine. È andata bene. Poteva andare peggio, come spesso accade nei dopo partita incendiati. Quando succedono queste cose io non penso ai pochi cretini, ma ai bambini. I pochi cretini vanno puniti, e severamente, ché non c’è riparo alla stupidaggine. Il daspo da solo non è sufficiente. Occorre altro. I bambini, invece, vanno protetti e presi in totale amorevole cura. Sono nel pieno della loro formazione. E sono tanti. Molto di più dei cretini. Rappresentano non il cosiddetto futuro, loro e della società, ma il presente. Anche nostro. Di questa assurda contemporaneità. Non i cittadini di domani, ma l’oggi che è già domani.

Un tempo particolare, cioè, che si carica sulle spalle anche il passato, che è loro affidato in quanto già quotidianamente parte della storia del loro paese. Della loro comunità. Della loro famiglia. I tre spazi più vitali della propria identità, i tre punti forza del loro cammino. Lo sport in generale è strumento della formazione. Come lo è l’istruzione per la prima conoscenza e il trasferimento dei saperi. Promuovere la passione per lo sport è atto educativo importante. Nello sport si radicano alcuni tra i valori umani più importanti. Il primo, la competizione. La vera competizione. In essa vi sono gli elementi più significativi ed essenziali per la costruzione di un’etica che ha valore tanto individuale quanto sociale. Quindi, fondamentale per la crescita della persona e della società.

Quali sono? Ripetiamoli ché li abbiamo dimenticati. Il desiderio di vittoria. Non esiste sport senza competizione e, questa, senza quel desiderio. Ma la vittoria è come la gioia, prevede la possibilità opposta. Che si perda. Questa bivalenza si trasforma in duplice valore. La vittoria, se pesa diversamente sul piano pratico, ha lo stessa bellezza della sconfitta. Sono fatte della stessa sostanza, la partecipazione alla gara. E della fatica per concorrervi. La fatica di prepararsi, la serietà nel dovere di prepararsi. E la necessità di migliorarsi. E non soltanto per vincere, ma per essere degno di partecipare. Ché la vittoria più grande è la stessa di quella di ogni competizione umana. Anche di quella politica, perché no? Affrontare la prima sfida. E vincerla. La sfida contro il limite proprio. Superarlo, anche di un millimetro, di un millesimo di secondo. Anche di un tiro, con il pallone, con il remo, con la racchetta, con il fioretto, con l’asta. Anche delle gambe. Anche di una mezza bracciata. Vincere rispetto a sé stessi della gara precedente. E nella vita, che lo sport emblematicamente ripete, di sé stessi del giorno prima. E a scuola, della “interrogazione” già resa e valutata.

È superando ogni volta la forza che si possiede che si procede verso la ricerca della vittoria sull’altro, sugli altri. Il desiderio di quella medaglia o di salire sul podio, accettando pure il terzo gradino, ché guardare più in alto dello stesso è come guardare il cielo. Lo sport è gara. Competizione sempre. Non è una guerra. Il suo campo d’azione sono i molteplici campi da giuoco, non i fronti accesi della battaglia. I competitori, sono gli antagonisti, necessari al nostro crescere e migliorare. Sono al massimo avversari. Mai i nostri nemici. Per questo lo sport genera sentimenti positivi, l’ammirazione tra questi. È amore allo stato puro, la gratitudine profonda in esso. Senza il nostro antagonista, noi non saremmo. Senza chi ci batte, noi non cresceremmo. Senza il grande campione che abbia battuto ogni record, anche quello che noi non eguaglieremmo mai, non assisteremmo alla meraviglia delle meraviglie, l’essere umano che con le proprie forze, il proprio sacrificio nell’immane fatica, ha superato il limite. Consegnandoci la vittoria di tutto. Quella dello sport. Che è, pertanto, lo spazio in cui si manifesta il senso pieno dell’onore.

L’onore composto da dignità, lealtà, rispetto per l’altro. Per questo motivo, vittoria e sconfitta hanno pari valore morale, il riconoscimento nell’una e nell’altra dell’onore offerto e ricevuto dal solo fatto di aver partecipato. Di essere stati parte e protagonisti della gara. Lo spirito sportivo, appartenendo interamente ai processi educativi, favorisce la crescita nei giovani di quel buon senso della vita. Lo Sport, qui con la maiuscola, è vita che aiuta a vivere bene. Come la Scuola, sempre con la maiuscola, è la società. Specialmente, per i giovani di oggi, spinti da una cattiva educazione, familiare e sociale, a concepire i campi di ogni loro manifestazione, come campi di battaglia, dove gli altri che non appartengono alla nostra prossimità, sono nemici. Da abbattere più che sconfiggere.

Da odiare non solo da avversare. Campi di battaglia in cui non c’è la nostra squadra, ma l’esercito cui apparteremmo, la banda di cui faremmo parte in quell’assurdo senso di appartenenza che è la negazione del valore dell’identità. Educazione scellerata, che fa dei nostri figli degli esseri deboli, che alla prima sconfitta della quotidianità, invece che esaltarsi si deprimono. Così facendo spazio in loro a quel senso del fallimento che è tanto distruttivo da aver bisogno di quella carica aggiuntiva di aggressività senza la quale non si reggerebbe. Aggressività che in taluni, se non affrontata adeguatamente dal mondo degli adulti, si trasforma in violenza, sia che essa venga fisicamente praticata sia che venga soltanto immaginata o “ verbalizzata”.

Il calcio è lo sport più praticato nel mondo. Assai di più in Italia. Ad esso si avvinano, praticandolo o guardandolo, i nostri ragazzi. È stato così per noi allo loro età. Il calcio è una magia. Ci fa giocare in qualsiasi spiazzo. Anche nei corridoio della casa. Noi, i ragazzi di un tempo molto passato, accartocciavano fogli di giornali, li stringevano nello spago e ne facevamo palla per giocare nelle vie. Con le poche auto che ci interrompevano, magari mentre andavano a far gol nel tratto di marciapiede, strettamente chiuso a porta da cappotti e maglioni di cui ci eravamo liberati per sudare a più non posso. Il calcio ci fa sognare. Ancora oggi, che siamo vecchi incorreggibilmente giovani. Sognare di di diventare, io Omar Sivori, i miei amici Luisito Suarez, Mario Corso, e di lì, per generazioni, a scendere fino a Baggio, Totti, Maradona… E oggi, anche al marinoto Pietro Iemmello.

Si va alla partita di domenica anche per toccare con gli occhi il sogno. Gli stadi sono per questo sempre più pieni di bambini. Tutta l’aria si riempie dei loro sogni e il cielo dei loro occhi luminosi come le stelle, anche di giorno. Gli atti di violenza negli stadi e fuori degli stadi, lo dico a quei cretini, se hanno figli o che li avranno, sono atti contro i bambini. Lo sono doppiamente, in contemporanea al loro svolgimento, per il terrore che procurano in loro e nelle famiglie che li accompagnano. Lo sono per il pericolo di deviazione al loro percorso educativo, quando l’idea che la partita di pallone altro non sia che l’occasione per odiare il nemico e attaccarlo in qualche modo e non un momento dello spirito sportivo, che la sconfitta della propria squadra altro non sia che una ingiusta condanna e non uno stimolo a far meglio in futuro, che non aver vinto equivalga a un fallimento e non al riconoscimento del valore dell’avversario da onorare.

Un pericolo che può trasformarsi nell’idea che la vita sia fatta tutta di ingiustizie e di colpe altrui, che una sconfitta personale sia un fallimento irreversibile, che la lealtà parimenti al rispetto non esista, che la causa delle nostre sofferenze o dei più semplici problemi, sia prodotta dagli altri e che questi siano tutti nostri nemici, che usano violenza da contrastare con una violenza maggiore e che l’odio sia l’alimento esclusivo per sostenerla.

Vogliamo che i bambini crescano così e costruiscano, crescendo, una società di questo disvalore? Ci stiamo già dentro, forse, e non c’è ne siamo accorti? No, non deve essere cosi. Forse, siamo ancora sulla più brutta soglia, è vero. Ma, di certo, facciamo ancora in tempo a salvarli tutti, i nostri ragazzi. Occorre, però, mettersi al lavoro. Tutti insieme. Istituzioni, scuola e famiglia le più importanti, chiesa e confessioni religiose, associazioni umanitarie e sportive, società calcistiche in primis, mondo della comunicazione e i padrini del business, degli affari, soprattutto.

Debellare ogni forma di violenza e l’istinto all’aggressività. Questo il loro compito primario. Un compito “comandato” dall’amore, l’unica energia che può portare alla costruzione di un mondo migliore. L’Amore, l’unica forza del vero cambiamento. L’unica ribellione che può trasformarsi nella vera rivoluzione. Per dirla con Moro, “quella Cristiana, che trasforma la società e rinnova la bellezza umana”. (fc)

LA RIFLESSIONE / Nunzio Belcaro: È giusto pretendere scuole belle

di NUNZIO BELCARO – Inizia la scuola. Ed è come se l’anno, per chiunque, nel suo incedere ordinario, prendesse davvero vita da questo momento.  Come se la campanella suonasse l’inizio per tutti. Come a dire che adesso si fa per davvero. Per me segna l’inizio di un cammino di grande responsabilità.

In queste poche settimane ho avuto modo di conoscere dettagliatamente le tantissime criticità degli oltre cinquanta plessi della nostra città, dove con le poche risorse a disposizione, gli uffici tecnici provano a fare miracoli, rincorrendo con fatica gl’interventi di manutenzione.

Le nostre scuole sembrano tanti pianeti diversi, operano in contesti sociali differenti, raccontano pezzi di storia della città complementari l’una con l’altra, contrastanti. C’è quella che nasce in nuovi quartieri residenziali, nel verde, circondata da villette e c’è quella presa a sassate, dove ci viene chiesto di mettere grate alle finestre, dove un angolo del cortile lasciato al buio può significare un potenziale luogo di degradante bivacco o, peggio, di spaccio.

È giusto pretendere scuole belle. E penso sia ancora più giusto pretenderle nei quartieri dove la scuola spesso rappresenta l’unico pezzo di Stato presente.

Ed è giusto soprattutto che a pretenderlo sia quell’esercito di maestre e maestri che, come diceva Sciascia, rappresentano l’unica vera arma possibile che abbiamo per vincere la battaglia contro l’illegalità.

L’Italia investe meno risorse in istruzione rispetto alla media europea, ed è al di sotto di tutte le principali nazioni del continente.  Questo si traduce in meno risorse per garantire il diritto allo studio nelle scuole pubbliche, meno soldi per le mense e il tempo prolungato, meno soldi per i bisogni speciali, per il sostegno e ovviamente per le strutture scolastiche.

In questo quadro operano gli enti locali, i dirigenti e tutto il personale scolastico.

Il lavoro da fare è tantissimo, di resistenza, passione e coraggio, con uno sguardo inserito in un dibattito ampio, che comunichi e si confronti con le tantissime realtà del nostro Paese.

L’energia per questa sfida è facile trovarla, basta concentrarsi sull’anima profonda della scuola che è ancora in piedi. Perché è costruita su una magia inscalfibile, quella dell’aula, dove s’incontrano insegnanti e bambini. La scuola è l’aula, e dentro ci sta tutta una città, guardandola troviamo tutti i suoi bisogni, le sue ferite, ma anche le opportunità, i sogni, il futuro.

Immaginiamola aperta quell’aula, che venga amplificata la sua energia, protetta, presidiata, che intorno ad essa possa nascere un ragionamento educativo che non riguardi solo i più piccoli ma anche gli adulti.

L’aula come modello, come una mano tesa verso un mondo che fa sempre più fatica ad offrire punti di riferimento e comprensione. Provino i genitori a sospendere abitudini di natura competitiva, l’assillo del confronto fra ragazzi, della comparazione dei voti, smarrendo di fatto il principio che ognuno di loro è unico, con talenti diversi e soprattutto tempi di crescita diversi.

Abbiamo bisogno che la naturale curiosità dei più piccoli contamini il mondo degli adulti e non che l’ansia di quest’ultimi freni la loro immaginazione e il loro essere, ognuno a suo modo, unico e speciale.

Ho il desiderio d’occuparmi di tutto questo e non vedo l’ora di passare fra i corridoi e sentirla decine e decine di volte quella campanella.

Buona scuola, Catanzaro! (nb)

[Nunzio Belcaro è assessore alla Pubblica Istruzione del Comune di Catanzaro]

LA RIFLESSIONE / don Ennio Stamile: La Calabria si smarchi dall’orrenda “signoria del territorio”

di DON ENNIO STAMIILEA volte capita di tornare a casa per l’ora di pranzo e, soprattutto d’estate, avere poca voglia di cucinare. Così ho avuto la pessima idea, la vigilia di ciò che chiamiamo Ferragosto, di fare un salto ad un grande supermercato, in questo splendido lembo del tirreno cosentino dove dimoro. Mentre mi accosto al banco della tavola calda, mi rendo conto che sono in tanti ad aver avuto la mia stessa idea e dopo aver preso il numero dal distributore automatico che mi assegnava il numero 94 attendo il mio turno, mentre il tabellone che campeggia di fronte a me segna il numero 80. C’era un bel po’ da attendere. Ormai è diventata una consuetudine per tutti, ovunque si è costretti a fare la fila si ricorre al cellulare. C’è sempre da controllare le mail o rispondere ai vari messaggi.

Orbene, mentre anch’io facevo ricorso allo strumento tecnologico di cui non possiamo fare più a meno, tanto che ormai è diventato una sorta di seconda pelle, scorgevo a poca distanza da me un giovane che ostentava i suoi numerosi tatuaggi sulle braccia e sui polpacci, con vistosi occhiali da sole presso il banco della tavola calda. Quel giovane ha attirato subito la mia attenzione, non per il suo abbigliamento e per i suoi demenziali tatuaggi quanto, piuttosto, perché avevo avuto la netta sensazione che avesse saltato a piè pari la fila. La conferma arrivava dopo pochi istanti.

Di fronte a lui, all’ingresso del bar dove i clienti della tavola calda possono comodamente sedersi e consumare i loro pasti, sostava il giovane boss di turno che attendeva quasi impaziente, che il suo fido scagnozzo gli portasse il vassoio con le pietanze già pronte. Per non dare nell’occhio il giovane aveva anche ritirato il numero che il personale ha evitato di riscontrare, concentrandosi a servirlo con pronta e cordiale disponibilità. Arrivato il mio turno ho fatto in modo di avvicinarmi a quel foglietto posato sul banco che segnava il numero 96.

L’episodio, benché non eclatante, simboleggia ciò che gli studiosi del fenomeno chiamano “signoria territoriale” della ‘ndrangheta, che si manifesta anche attraverso questi gesti di ossequiosa riverenza. Ai suoi membri tutto è dovuto anche non pagare il conto. La Calabria da oltre un secolo e mezzo è costretta a sopportare questo pesante fardello. La priorità, per l’attuale Governo, sembra essere il ponte sullo stretto che dovrebbe rappresentare la panacea di tutti i mali di questo profondo Sud di isolani e isolati. Di ‘ndrangheta se ne parla poco o non se parla affatto.

Men che meno di tutte le urgenze di cui necessità la Calabria: sanità, lavoro, viabilità, sviluppo del settore turistico e molto altro ancora.

Anzi, lo stesso Governo ha ben pensato di tagliare ben 300 milioni di euro di fondi dedicati alla valorizzazione dei beni confiscati alle mafie, di cui ben 57.827.472,94 euro destinati in Calabria. Con buona pace di quelle amministrazioni locali che hanno investito risorse pubbliche e attivato manifestazioni di interesse con l’Anbsc, per poter trasformare gli immobili confiscati, in beni a servizio della società civile. Tutto in fumo.

Molte decisioni governative sembrano andare in “direzione ostinata e contraria”, non solo al buon senso, ma alle concrete azioni da attuare per contrastare il fenomeno mafioso: dalle intercettazioni, all’abolizione del reato di concorso esterno. Altro che lotta alle mafie! Si sta facendo di tutto e di più per poter incrementare il loro potere economico anche in tema di contrasto alla corruzione che, come sappiamo, è una delle tante porte d’ingresso dello strapotere mafioso.

Francamente ciò che mi indispettisce di più è la mancata coerenza di chi dai banchi dell’opposizione sostiene delle tesi, quasi sempre molto popolari come, ad esempio, il taglio delle accise, la defiscalizzazione, dire di tutto e di più contro l’Europa, la politica estera americana e della Nato. Salvo poi, una volta occupati gli scranni del potere governativo, fare l’esatto opposto. Molti dicono: questo oramai da svariati decenni è l’andazzo della politica in Italia. A mio sommesso avviso, rappresenta la più totale e disgustosa forma di assoluta antipolitica, alla quale proprio non riesco a rassegnarmi. (es)

[Ennio Stamile è già referente di Libera]

LA RIFLESSIONE / Peppino De Rose: Verso gli Stati Uniti d’Europa, un percorso necessario per tutela della libertà

di PEPPINO DE ROSEIl drammatico scenario di guerra ai popoli europei e ai diritti civili, tra l’altro in un periodo di emergenza pandemica mondiale, rafforza la necessità di una Europa più politica che acceleri l’identificazione di un percorso verso gli Stati Uniti d’Europa.

Il mondo è cambiato e le sfide economiche e sociali che ci attendono sono oramai sfide globali che i singoli Stati non possono fronteggiare da soli. Un cammino quello europeo che già negli anni ha dato prova di uno straordinario percorso di pace tra gli Stati, di cooperazione e di sviluppo economico e sociale, diventando una grande economia orientata ai mercati esteri oltre che il più grande mercato unico del mondo.

È fuor dubbio che l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia avrà un impatto rilevante sull’economia europea e su quella italiana, determinando una crescita del tasso di inflazione con il maggior costo delle materie prime importate e dell’energia, con la conseguenza della contrazione di minori consumi per diversi miliardi di euro, compromettendo, se dovesse durare la guerra, anche l’impatto in termini di crescita di Pil del Piano Next Generation Eu. In questo quadro la presa di posizione dell’Unione europea di sostegno all’Ucraina e di pesanti sanzioni alla Russia in risposta alla minaccia da parte di Putin dell’uso del nucleare, richiama seppur in un momento di emergenza, al percorso di rafforzamento delle leadership europea quale promotrice della democrazia e tutela dei diritti a livello mondiale.

Per la prima volta in assoluto, infatti l’Unione europea finanzierà l’acquisto e la consegna di armi e altre attrezzature a un Paese sotto attacco, ha bloccato lo spazio aereo, ha messo in campo una serie di azioni di limitazione delle transazioni finanziarie e bancarie. Una situazione certo difficile da interpretare, ma che ha portato l’Europa a riacquisire, forse senza volerlo, il suo ruolo naturale di garante dei diritti, della prosperità e della sicurezza dei cittadini nel continente europeo.

Nella speranza che abbia inizio la mediazione tra i Paesi per lo stop immediato della invasione militare che ha già causato vittime civili e milioni di sfollati, avremo nel prossimo futuro di certo una Europa diversa che dovrà necessariamente lavorare al rafforzamento delle politiche industriali, energetiche e militari a tutela delle libertà e della stabilità economica e sociale dei cittadini europei. (pdr)