di GIOVANNI MACCARRONE – Sono diversi anni che ci consigliano di mangiare pesce. A parte qualcuno che per vari motivi sostiene che non è un alimento sano, la maggioranza dei nutrizionisti sostiene invece che inserire il pesce nella propria alimentazione è una scelta sostanzialmente vincente. Confesso: io non amo mangiare questo alimento. E francamente fino a qualche tempo fa ero dispiaciuto di questo.
Di recente, però, ho scoperto che questa estate lungo le coste calabresi si è ripetuto il triste fenomeno della moria di pesci (soprattutto cernie). La notizia non ha avuto una forte eco su tutti i social network. Chi ha avuto il coraggio di parlarne ha riferito che, secondo gli esperti, questo fenomeno è da attribuire al virus betanodavirus (un agente patogeno responsabile della Encefalopatia e Retinopatia Virale) che si sta diffondendo nelle acque dei nostri mari.
La causa dell’espansione del virus non è ancora nota. Come di consueto, anche in questo caso si dice che la presenza del microorganismo in questione “potrebbe essere imputabile al periodo di elevata temperatura”. A ben vedere, però, non si tratta del primo caso di avvistamento di pesci morti sulle nostre coste. Vorrei ricordare l’inquietante moria di pesci avvenuta nell’agosto del 2021 tra Catanzaro Lido e Montepaone e tra Pizzo e Bivona. Inoltre è il caso di ricordare quanto è accaduto nel 2008 e nel 2019. Anche in questi casi si è attribuita la colpa all’aumento della temperatura terrestre. Qualcuno ha però osservato che l’ondata di caldo anomalo potrebbe essere “una delle cause della moria di pesci, ma non l’unica”.
Non a caso, infatti, il fenomeno si verifica spesso nelle zone interessate da un forte inquinamento, che rende la superficie marina piena di impurità e di colore verde. Tanto che per molti l’ipotesi più accreditata è quella degli sversamenti illeciti. Basti pensare in proposito al depuratore consortile di Acquaro, Dasà e Arena, nel Vibonese. Secondo quanto affermato in un recente articolo dal Sindaco di Dasà, “da 5 anni le fogne dei tre comuni bypassano l’impianto senza essere depurate”. Stessa cosa per il depuratore di Squillace. A luglio abbiamo appreso che il depuratore in questione era dismesso ma continuava a ricevere reflui che finivano poi in un canale.
Certamente negli ultimi anni l’ondata di caldo anomalo ha determinato l’incremento delle temperature superficiali del mare e dell’aria. Come si è potuto notare, però, non è l’unico fattore a determinare la morte dei pesci. L’alto tasso di inquinamento ambientale fa certamente pensare anche ad altro. Lo ha confermato nell’ottobre del 2019 l’allora direttore del Dipartimento provinciale Arpacal di Vibo Valentia, dr. Clemente Migliorino, il quale, a proposito della moria di pesci nel lago Angitola, ha puntualizzato che «le analisi dei fitofarmaci rilevano la presenza di DDE e DDT; inoltre viene rilevata la presenza di para DDT e DDT totale, entrambi in concentrazioni superiori se confrontato i rispettivi standard di qualità ambientali, espressi come valori medi annui, riportati nella tabella 1A del decreto legislativo 172 del 2015 (Il DDE è un composto chimico derivante dalla perdita di acido cloridrico del DDT, ndr). La ricerca degli idrocarburi policiclici aromatici (Ipa) – conclude Migliorino – ha rilevato la presenza di Fenantrene mentre gli altri Ipa sono tutti al di sotto dei limiti di rilevabilità del metodo».
Comunque sia, vale la pena di evidenziare che, ad avviso della dott.ssa Rosa Maria Pennisi del laboratorio di virologia dell’Università di Messina, «non vi sono rischi diretti per l’uomo, ma considerato l’andamento cronico della malattia che gradualmente porta l’animale a non alimentarsi e, spesso, a causa del nuoto non coordinato, a sbattere e ferirsi su scogli o sul fondale contraendo infezioni gli esemplari rinvenuti moribondi vanno considerati non salubri, e ne va evitato il consumo».
Pertanto, se ho sempre desistito dal mangiare il pesce, figuriamoci adesso. In verità, questa convinzione si è fortemente accresciuta in quest’ultimi giorni, dopo aver letto i monitoraggi effettuati da Greenpeace Italia sul pescato in Toscana e in Calabria. Il Report pubblicato nel mese di ottobre è intitolato “Pescato al sapore di Pfas. Quando il pericolo viene dal Mare”.
Un’approfondita valutazione del monitoraggio ha confermato che tra il 2021 e il 2023 nei punti di osservazione di Sibari, Roccella Jonica, Crotone, Lamezia Terme e Nicotera è stata rilevata la presenza di PFOS in specie di interesse commerciale. L’elemento che preoccupa di più è sicuramente rappresentato dal fatto che “concentrazioni notevoli sono state registrate nei naselli e nelle triglie prelevate nella zona di Roccella Jonica (1,846 µg/kg e 1,367 µg/kg) e Sibari (triglia 1,825 µg/kg). Quello che sorprende, in particolare, sono i valori individuati nelle cicale di mare una specie di crostaceo di diffuso uso commerciale pescate sia nel mar Tirreno che nello Jonio.
In due casi, i livelli di PFOS superavano il limite di 3 µg/kg previsto dal Regolamento europeo 2022/2388 per i crostacei: 4,1 µg/kg in una cicala di mare pescata a Lamezia Terme e 3,06 µg/kg in una pescata a Crotone. In una cicala di mare analizzata a Nicotera il livello di PFOS era prossimo al limite, pari a 2,95 µg/kg. In esemplari della stessa specie prelevati a Sibari e Roccella Jonica invece i livelli erano comunque elevati, pari a 2,08 e 2,12 µg/kg rispettivamente”.
Si conferma, pertanto, che i PFAS, dopo essere stati trovati nelle acque potabili, nella frutta e nella verdura sono presenti anche nel nostro mare e, quindi, nei pesci.
Ma cosa sono i PFAS (Sostanze Perfluoro Alchiliche)? Ebbene, i PFAS sono sostanze chimiche idrorepellenti e oleorepellenti. Detto più semplicemente, “sono acidi molto forti usati in forma liquida, con una struttura chimica che conferisce loro una particolare stabilità termica e li rende resistenti ai principali processi naturali di degradazione”.
Le classi di PFAS più diffuse sono il PFOA (acido perfluoroottanoico) e il PFOS (perfluorottanosulfonato).
L’autorità europea per la sicurezza alimentare (in sigla EFSA) ha affermato che tali sostanze intervengano sul sistema endocrino, compromettendo crescita e fertilità, e che siano sostanze cancerogene. Dai risultati di studi scientifici è emerso, in particolare, che l’assunzione prolungata di PFAS incide sull’aumento di colesterolo nell’uomo e determina alterazione a livello di fegato e tiroide, del sistema immunitario e riproduttivo, e alcuni tipi di neoplasie.
Le Linee guida Ispra pubblicate l’11 giugno 2019 sul sito web del Sistema nazionale protezione dell’ambiente (Snpa, costituito da Ispra più le Agenzie locali per l’ambiente) per la progettazione di reti di monitoraggio per le sostanze perfluoroalchiliche (cd. “Pfas”) nei corpi idrici aveva già evidenziando che la presenza di Pfas è un fenomeno diffuso, che riguarda la maggior parte delle Regioni italiane.
A lanciare l’allarme è stato anche il report “Toxic Harvest” di Pan Europe (Pesticides Action Network) secondo cui la presenza di residui di PFAS in frutta e verdura europea è più che triplicata dal 2011 al 2021, con un tasso di crescita del 220% per la frutta e del 274% per la verdura.
Ricordiamo che i PFAS sono impiegati anche nei pesticidi chimici per aumentarne l’efficacia contro i parassiti. Per cui, è più che normale che gli alimenti siano contaminati da terreni a loro volta fortemente inquinati. Così come è altrettanto normale trovare i PFAS anche in mare. Come è stato giustamente evidenziato, a ben vedere “Il mare costituisce l’ultimo bacino ricettore di queste sostanze”.
Bisogna quindi intervenire subito per impedire o comunque limitare i danni futuri ad ambiente e salute. Alcuni paesi europei ci stanno già pensando, Mi riferisco alla Danimarca, Germania, Paesi Bassi, Norvegia e Svezia che, di recente, hanno presentato all’Echa (Agenzia europea per le sostanze chimiche) una proposta per regolamentare le oltre 10mila sostanze chimiche con l’obiettivo di ridurre le emissioni di PFAS nell’ambiente e rendere prodotti e processi più sicuri per le persone.
Solo che leggendo il report di Greenpeace emerge che la percentuale di valori positivi di sostanze poli e perfluoroalchiliche varia da Regione a Regione anche a seconda dell’accuratezza delle misurazioni effettuate dai diversi enti pubblici: «In poche parole, più una Regione fa controlli e utilizza strumenti precisi e all’avanguardia, più è probabile che venga rilevata una positività da Pfas durante i monitoraggi» (secondo Greenpeace, in Calabria sono stati raccolto dati analoghi a quelli della Toscana anche se in modo più sporadico e meno esteso).
Per evitare questo spiacevole inconveniente è stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea la Comunicazione della Commissione «Linee guida tecniche sui metodi d’analisi per il monitoraggio delle sostanze per- e polifluoro alchiliche (PFAS). È stato evidenziato che con questa Comunicazione la Commissione vuole imprimere un’accelerazione al monitoraggio dei Pfas con criteri omogenei nell’ambito dell’Unione europea, in base a quanto stabilito dalla direttiva Ue 2020/2184, recepita in Italia con il decreto legislativo 23 febbraio 2023, n.18 (in quattro Regioni del sud Italia, Puglia, Sardegna, Molise e Calabria, dal 2017 al 2022 addirittura non risulta alcun controllo sulla presenza di PFAS nei corpi idrici)
Il problema è, però, che le citate linee guida tecniche valgono solo per le acque destinate al consumo umano (acque potabili) e non anche per l’ultimo bacino ricettore di queste sostanze (il mare).
Indipendentemente da quanto sopra, è certo, però, che necessita intervenire con limiti più stringenti alla presenza di sostanze perfluoroalchiliche nell’ambiente. Anzi, come sottolineato da Greenpeace «rimane quindi fondamentale varare una legge che vieti la produzione e l’utilizzo di PFAS, perché la salute del Pianeta e dei cittadini non può essere sacrificata agli interessi economici di pochi che ancora oggi, impunemente, hanno licenza di inquinare».
Mah, Speriamo bene. (gm)