di GIUSY STAROPOLI CALAFATI – Sono stanca di scrivere come se fossi al fronte. Mi sembro Alvaro sul Carso. Scrivo dalla Calabria. Una terra inquieta, scogliosa, dove si è costretti a camminare scalzi per non farsi arrestare.
Perché se la marca delle tue scarpe è associata alla mafia, allora vieni accusato di ‘ndrangheta. E se ti va bene, ti arrestano; altrimenti prima ti sciolgono e poi mettono al rogo le tue ceneri.
È dura la vita quaggiù. Non c’è più nemmeno un Dio greco pellegrino da pregare. È sempre notte in Calabria. Il sole sorge lontano, ma non si vede. Non fa luce, non fa giorno: è tutta notte la Calabria. È brutto il fronte, rischi la vita ogni istante. E muori, o per la ‘ndrangheta o per lo Stato. C’è più rassegnazione che speranza, più nicchie che santi. Se questa è vita!
Scrivo dal fronte, mentre ho paura di morire. Morire lontano dalla libertà, morire da sola senza democrazia. Non ho scelto io di arruolarmi in Calabria. Questo reggimento mi è capitato. Non mi lamento. Non ho scelto neppure di andare al fronte, sono stata obbligata. Mi sono ribellata, lo faccio ancora, ma qui tutti vogliono vincere, tutti vogliono comandare. Questa guerra è il peggiore strazio a cui un uomo possa partecipare. Perché lo diceva bene Corrado Alvaro, lì, sul Carso, al vero fronte, che nessuna libertà esiste quando non esiste una libertà interiore dell’individuo. Era il 1915. È il 2025.
Il progresso, la modernità, la Repubblica, la Costituzione, la democrazia, la pace dei popoli. Eppure io scrivo da una terra che vive la sua guerra ogni giorno. E non vince mai, perché è nuda, e quando combatte la ‘ndrangheta, e sembra essere lì lì per farcela, ecco che arriva lo Stato e la vessa.
La pressione è fortissima. Quaggiù liquefanno i comuni come la cera delle candele, sciolgono le fondazioni culturali come la neve al sole, e neppure la fenice, in terre così martoriate, sa rinascere dalle sue ceneri.
Vorrei fuggire dal fronte, ma non posso. Devo stare qui e combattere. Per i miei figli, per mio padre, perché la guerra che la Calabria vive un giorno deve pur finire. E non importa se quel giorno sulla mia tomba ci sarà un fiore o un cardo.
Quaggiù non si sganciano bombe, ma sentenze. E non importa se sei un uomo perbene o se hai i calli nelle vecchie mani: pesa il cognome che porti, la famiglia a cui appartieni. E si paga tutti per uno, allo stesso modo, con lo stesso peso.
È un inferno questo fronte qui, vorrei una tregua. Ma non c’è nessuno che intenda mediare. Che fine sarà la nostra? Chi si ricorderà di noi? È amaro il fronte, puzza di morte.
Non so se ritornerò un giorno alla mia casa, o abiterò al fronte per sempre. Ma se dovessi morire, in questa dimensione così dura, rocciosa, calcarea, sassosa e scogliosa, scrivete alla casa di mio padre e dite che sono morta perché la Calabria era dentro di me, e mi hanno sparata al petto.
Se dovessi morire, nella pettorina del mio grembiule troverete una lettera per la mia terra: nonostante tu mi abbia partorita al fronte, ti ho amata. Fa che la mia morte sia la tua libertà. (gsc)