QUALITÀ DELLA VITA, REGGIO BOCCIATA
È MAGLIA NERA E ULTIMA IN CLASSIFICA

di ANTONIO CLAUSI – Un risultato di cui non andare per nulla fieri. Se il meridione d’Italia occupa tutte e 25 le ultime posizioni, la Calabria fa ancora peggio. Nella classifica finale della Qualità della Vita 2024 prodotta dal Sole24Ore, quattro province della nostra regione compaiono tra le sei in fondo alla speciale graduatoria. Reggio Calabria, addirittura, scendendo di sei gradini rispetto ad un anno fa, guarda tutti dal basso verso l’alto: 107° su 107.

La “migliore”, si fa per dire al netto del dato poco edificante e su cui una riflessione profonda andrebbe prodotta, èla provincia di Catanzaro che arriva 90°. Guadagna addirittura una piazza, ma è difficile che qualcuno stia esultando in questo momento dalle parti del capoluogo. Cosenza resta inchiodata al 102° posto, Vibo Valentia è 103° (-7), Crotone 105° (-2).

Nord est in vetta alla classifica, crollano le aree metropolitane

La trentacinquesima edizione della Qualità della Vita del Sole24Ore, indagine lanciata nel 1990 per misurare i livelli di benessere nei territori italiani segna la vittoria della provincia di Bergamo. Mai premiata prima d’ora nella classifica generale, ma già incoronata regina dell’Indice di Sportività 2024, la provincia orobica aveva già scalato diverse posizioni nel 2023 e quest’anno ha scalzato habitué del podio come Trento, al secondo posto, e Bolzano, al terzo.

La top 10 della classifica è lo specchio di un Paese in cui le grandi città cominciano a manifestare diverse fragilità: l’unica presente è Bologna, al nono posto, in calo di sei posizioni rispetto all’edizione 2023. Per il resto, trionfano le medie province: Monza e Brianza (4° posto), seguita da Cremona e Udine, vincitrice lo scorso anno, Verona e Vicenza. A chiudere, dopo Bologna, è Ascoli Piceno. Vince il versante nord orientale, con tre province lombarde, le due province autonome del Trentino Alto Adige, due venete, una emiliana e una marchigiana.

Le città metropolitane, più in generale, registrano un crollo diffuso: Bologna scende di 7 posizioni, Milano di 4 passando al 12° posto, Firenze (36° posto) segna un -30 dopo essere stata in zona top 10 per tre anni consecutivi e Roma scende di -24 posizioni piombando al 59° posto. Torino perde 22 posizioni, arrivando al 58° posto subito davanti alla Capitale. Napoli è penultima, mentre Bari è tra le poche a salire: un aumento di 4 posizioni la porta al 65° posto.

I criteri su cui viene stilata la classifica

L’indagine fotografa il benessere nelle province italiane con 90 indicatori divisi in sei categorie: ricchezza e consumi; affari e lavoro; ambiente e servizi; demografia, società e salute; giustizia e sicurezza; cultura e tempo libero.

La classifica della Qualità della vita, dove la Calabria è stata bocciata inesorabilmente, è una media delle medie calcolata su 90 indicatori da fonti certificate (Istat, Banca d’Italia, Istituto Tagliacarne, Infocamere e molti altri), su base provinciale e rapportati alla popolazione residente, divisi in sei categorie: ricchezza e consumi; affari e lavoro; ambiente e servizi; demografia, salute e società; giustizia e sicurezza; cultura e tempo libero.

L’obiettivo è rappresentare un concetto multisfaccettato come quello della Qualità della vita indagandone i vari aspetti. Dei 90 indicatori fanno parte anche dieci indici sintetici che nel corso dell’anno sono stati pubblicati sul Sole 24 Ore: l’Indice del Clima, i tre Indici Generazionali (Qualità della vita di Anziani, Giovani, Bambini); l’Indice di Sportività, l’Indice della Criminalità; Ecosistema Urbano; l’Indice di Fragilità del Territorio; Icity Rank e l’Indice della Qualità della vita delle donne.

Alcuni indicatori sono rimasti uguali a quelli delle precedenti edizioni: dai depositi bancari alla raccolta differenziata, passando per gli iscritti all’Aire e il numero di librerie. Altri, in totale 27, sono di nuova introduzione: i rischi di frane e alluvioni, le mensilità di stipendio necessarie per acquistare casa, gli omicidi. L’indagine, che ha debuttato nel 1990, ogni anno si rinnova dando spazio a indicatori che possono raccontare al meglio l’evoluzione della società e dei territori. (ac)

[Courtesy LaCNews24]

AUTONOMIA, ATTENTI AL REBUS QUORUM
SE LA CONSULTA DIRÀ SÌ AL REFERENDUM

di PIETRO MASSIMO BUSETTA – Il primo passaggio per l’ammissibilità del referendum abrogativo della autonomia differenziata  si è consumato.

È stata infatti giudicata legittima la richiesta di abrogare l’Autonomia differenziata, anche se prima di indire il referendum sarà necessario un altro passaggio davanti ai giudici della Consulta.

Lo hanno stabilito i giudici dell’ufficio centrale del referendum che hanno in parte ribaltato quanto stabilito dalla Corte Costituzionale.

Con il suo solito stile  sprezzante il Doge di Venezia, Luca Zaia, dichiara: «C’è il referendum? Bene l’opposizione dovrà trovare i voti. Oggi abbiamo una novità, pare che ci sarà un referendum. Ora però avete un problema, cioè quello di trovare i voti». Così, rivolgendosi alle opposizioni di centrosinistra nell’aula del Consiglio regionale, ha commentato la decisione della Cassazione sul referendum abrogativo della legge Calderoli.

E poi ha aggiunto e non poteva smentirsi: «sull’Autonomia differenziata, noi andiamo avanti. Siamo capofila assieme alla Regione Lombardia, la Regione Liguria, la Regione Piemonte anche su questo fronte». Manifestando un rispetto per le decisioni della Consulta e della Corte a dir poco discutibile.

Ma anche se le dichiarazioni del Doge Veneto sono nella forma assolutamente sgradevoli, nella sostanza Egli ha ragione. Vi sono infatti due temi fondamentali perché il ricorso al referendum abbia successo: il primo riguarda il grande tema di portare a votare il 51% degli aventi diritto al voto. Si tratta di un numero enorme che in genere si mobilita per problematiche riguardanti i diritti civili come è stato per il divorzio e per l’aborto, ma che difficilmente va a votare per problematiche diverse.

In particolar modo quando si tratta di un argomento complesso e che semplificando viene ritenuto da molti settentrionali come un passaggio necessario per costringere un Sud che non vuole lavorare ad impegnarsi in maniera più decisa. Vi è in tale pensiero, in realtà, una forma di “invidia”, perché si ritiene che alla fine la qualità della vita che hanno i meridionali sia migliore di quella dei settentrionali e che se la possono permettere perché vi è qualcuno che si impegna e lavora e che alla fine contribuisce con i propri soldi a mantenerli.

Il pensiero che ognuno contribuisce in base alla quantità del proprio reddito, in maniera proporzionale e progressiva ai fabbisogni dello Stato nazionale non li sfiora nemmeno, dopo anni di propaganda leghista che lì ha indottrinati su un modello che li vede vittima di una sottrazione illegittima di risorse. E, quindi, che molti non si coinvolgano e che possano non andare a votare è un fatto assolutamente atteso.

Ma anche i meridionali sappiamo che non sono caratterizzati da una partecipazione attiva alla cosa pubblica tale da ritenere che possano in massa recarsi alle urne.  Anche se il numero di adesioni per indire il referendum ha superato abbondantemente il quorum richiesto di 1.500.000 firme, se non vi sarà un’opera di sensibilizzazione molto intensa e continua il rischio che il referendum diventi un flop annunciato è grande.

Ma, al di là del risultato certamente difficile da conseguire, se la Consulta seguirà la Corte di  Cassazione nella approvazione della possibilità di indire il referendum, si potrà verificare un momento di presa di coscienza importante e di consapevolezza da parte di un Sud, che finora ha sempre pensato che le problematiche che lo riguardano siano dovute ad una propria incapacità di autogestirsi, di utilizzare in modo appropriato le risorse che erano disponibili, conseguenti agli sprechi conseguenti alla presenza di criminalità organizzata, per cui il passaggio successivo era una autoflagellazione, e un’auto commiserazione, accettando un destino che vedeva lombrosianamente una incapacità dovute a mancanze genetiche.

Dimenticando che l’alta velocità ferroviaria come l’autostrada del sole si sono fermate a Napoli per una decisione del Governo Centrale, che la responsabilità di una dispersione scolastica che in alcune realtà meridionali arriva fino al 30% era di chi gestiva il Ministero della Pubblica Istruzione e il Ministero degli Interni, che la sostituzione della spesa ordinaria con i fondi strutturali rendeva questi inefficaci rispetto al cambiamento, che continuare con la spesa storica portava ad una spesa pro capite differente tra le varie parti del Paese, che sottraeva ogni anno 60 miliardi ai fondi destinati al Mezzogiorno.

Riuscire a far passare il messaggio che è necessario mobilitarsi per battere un nemico esterno che considera questa parte del Paese come colonia interna dalla quale estrarre giovani formati, energia, malati da curare per avere quel numero sufficiente per impinguare il conto economico o studenti da attrarre nelle proprie università non è facile.

Convincere a  consumare prodotti locali per supportare la propria industria alimentare è un messaggio complicato oltre che anti storico, soprattutto quando la maggior parte dell’informazione è monopolio dell’altra parte del Paese.

Per questo è necessaria che continui la mobilitazione di intellettuali e media meridionali che diffondano la consapevolezza di una condizione e facciano capire che un modello che preveda di spostare la gente dove c’è il lavoro prevede lo spopolamento e la desertificazione di alcune parti del Paese, così come la perdita di una cultura, di un’identità che potrebbe rappresentare un ulteriore forza per la crescita e la competitività di tutto il sistema Italia.

Vuol dire che il vero lavoro comincia adesso e che non siamo per nulla alla conclusione di un impegno, ma solo all’inizio di esso. Che quella che viene vista come la seconda locomotiva di strada da fare per recuperare il terreno perso ne ha tanta.

E che è ancora troppo presto per magnificare i risultati ottenuti che, pur se rappresentano un inizio di percorso, devono essere seguiti da un’attenzione sempre maggiore a che le risorse destinate dall’Europa col Pnrr non vengano sottratte, come peraltro sta avvenendo, per esempio con le risorse del Fondo Sviluppo e Coesione, destinate per un importo rilevante a finanziare un’opera importantissima per il Paese, come il ponte sullo stretto di Messina, ma che non deve pesare sulle risorse aggiuntive destinate alle regioni del Mezzogiorno. Insomma, il motto “nessun dorma” è sempre più attuale. (pmb)

[Courtesy Il Quotidiano del Sud – L’Altravoce dell’Italia]

DUE CALABRIE CHE SI FRONTEGGIANO ALLA PARI: UNA BENESTANTE, L’ALTRA POVERA

di DOMENICO CERSOSIMO E ROSANNA NISTICÒ – I più recenti dati medi nazionali segnalano, pur in un quadro di sostanziale stabilità della povertà assoluta, un’incoraggiante riduzione dell’incidenza degli italiani a rischio di povertà o di esclusione sociale (Istat 2024).

Questa brezza congiunturale positiva, tuttavia, non rinfresca in modo uniforme il paese: alcune aree, segnatamente diverse regioni del Nord, beneficiano di correnti comparativamente più favorevoli; altrove, la situazione è stagnante o addirittura in peggioramento. La media, come spesso accade, spiega poco: nasconde le differenze tra i territori dove la povertà è un fenomeno fisiologico, contenuto, e quelli in cui invece assume caratteri acuti e persistenti.

La Calabria è l’estremo: una regione nel vortice di un processo di polarizzazione e sfaldamento sociale, con una popolazione spaccata in due metà quantitativamente equivalenti, per metà benestanti e metà poveri o a rischio di povertà-esclusione; due realtà scollate tra loro che tendono a configurare una non-società.

Guardando all’insieme delle regioni d’Europa, nelle prime 50 posizioni della graduatoria ordinata in senso decrescente per incidenza del rischio povertà-esclusione sociale, si collocano, ad eccezione della Basilicata, tutte le regioni meridionali, e di contro, nelle ultime 50 posizioni tutte le regioni del Nord, ad eccezione della Liguria: un’asimmetria acuta che fa dell’Italia il paese Eu con le disparità interne più pronunciate (Eurostat 2024).

La Calabria è la regione europea, ad esclusione delle “ultraperiferiche”, con la più alta quota di poveri-vulnerabili sulla popolazione complessiva (48,6%), a fronte di valori pari a poco più di un quinto nella media italiana, del 5,8% nella provincia di Bolzano e del 7,4% in Emilia-Romagna. Anche all’interno del Mezzogiorno, il gap è notevole: addirittura 24 punti in più in Calabria rispetto al Molise e oltre 21 nei confronti della Basilicata.

Allarmante è il trend recente: tra il 2022 e il 2023, il rischio povertà-esclusione sociale dei calabresi subisce una drastica impennata, dal 42,8 al 48,6%, a fronte di un calo generalizzato nelle altre regioni, anche meridionali.

Anche con riferimento al sub-indicatore “rischio di povertà”, il picco calabrese è elevatissimo: 41 calabresi su 100 vivono in famiglie con un reddito netto equivalente inferiore al 60% di quello mediano, un’incidenza più che doppia rispetto a quella nazionale, dieci volte superiore a quella della Provincia di Bolzano e sette volte più alta di quella dell’Emilia-Romagna.

Allargando lo sguardo all’Europa, la Calabria raggiunge il tetto più elevato, seguita dalla Sicilia (38%) e dalla Campania (36,1%); al lato opposto della distribuzione, solo 9 regioni hanno un’incidenza delle persone a rischio di povertà più bassa o uguale al 7,5%, tra cui tre italiane: la provincia Autonoma di Trento, quella di Bolzano e l’Emilia-Romagna. Ne segue che il divario interregionale dell’Italia risulta il più ampio, segnando 35 punti percentuali di differenza tra la Calabria e la Provincia autonoma di Bolzano.

Rispetto agli altri due sotto-indicatori che concorrono a definire la popolazione a rischio di povertà ed esclusione sociale, la quota di calabresi che deve fronteggiare una “grave deprivazione materiale e sociale” (20,7%) è pressoché uguale e quella dei soggetti caratterizzati da “bassa intensità lavorativa” (20,9%).

Dunque, più di un quinto della popolazione regionale, tra 350 mila e 400 mila persone (circa il 15% del totale nazionale), è costretto a fare i conti con severe e plurime privazioni materiali e sociali: essere in arretrato con il pagamento di bollette, affitti, mutui; non poter sostenere spese impreviste; riscaldare adeguatamente la casa; sostituire mobili danneggiati o abiti consumati; non potersi permettere un pasto adeguato almeno a giorni alterni, due paia di scarpe in buone condizioni per tutti i giorni, una piccola somma di denaro settimanale per le proprie esigenze personali, una connessione internet utilizzabile a casa, un’automobile, di incontrare familiari o amici per mangiare insieme almeno una volta al mese. Nella media nazionale, gli italiani costretti a così gravi deprivazioni sono il 4,7% ma in Emilia-Romagna sono meno dell’1%.

Più di un quinto sono anche i calabresi tra 18 e 64 anni che vivono in famiglie a bassa intensità di lavoro (soprattutto quelle più numerose e con più figli), ossia che hanno lavorato meno del 20% del loro tempo potenziale, e che conseguentemente percepiscono retribuzioni insufficienti per uscire dal rischio povertà.

Ancora. La Calabria è l’unica regione italiana a subire, nel biennio 2022-23, un incremento-peggioramento di tutti e tre i sub-indicatori. Peggiora poco l’indicatore “bassa densità lavorativa”, che passa dal 19,6 al 20,9% (dal 9,8 all’8,9% in Italia), ma che tuttavia segnala che è in aumento la frazione, già elevata, di famiglie con forme estese di sottooccupazione, a testimonianza tanto del deficit strutturale della domanda di lavoro locale quanto del fatto che il lavoro di per sé non è in grado di tutelare da situazioni di grave difficoltà economica, soprattutto nel caso dei lavoratori dipendenti a tempo parziale e con basse retribuzioni.

Ben più consistente è l’incremento dei calabresi a “rischio di povertà”, che passa dal 34,5 al 40,6% e di quelli con “grave deprivazione materiale e sociale”, che nel giro di un solo anno quasi raddoppiano (dall’11,8 al 20,7%), contro una sostanziale stabilità nella media nazionale (dal 4,5 al 4,7%), e di una leggera flessione in oltre la metà delle regioni, anche in tutte quelle del Sud, ad eccezione della Puglia.

Insomma, come in nessuna altra regione italiana, i dati configurano in modo evidente due società, due Calabrie, due gruppi di cittadini profondamente dissimili e slegati tra loro. Da un lato, ci sono i calabresi che godono di redditi, patrimoni, consumi, stili di vita analoghi a quelli medi nazionali. Singoli e famiglie a cui fa capo la quasi totalità della ricchezza netta regionale, reale e finanziaria.

Appartengono a questa “prima” Calabria anche i calabresi, per lo più dipendenti della pubblica amministrazione, con redditi medi ma sufficienti per condurre una vita decorosa, e che, seppure a fatica, riescono a districarsi nelle maglie sconnesse dei servizi pubblici essenziali e ad evitarne gli effetti perversi ricorrendo al proprio bagaglio di amicizie e conoscenze personali. Accanto a questi, si ritrovano anche i calabresi, inquilini del privilegio, che possono permettersi consumi opulenti, dalle auto alla cosmesi, come qualunque altro ricco di qualunque società urbana d’Europa, e che possono influenzare le politiche pubbliche a loro favore.

Nell’insieme, sono calabresi che si sostengono tra loro attraverso reti relazionali sia di natura interpersonale che associativa, come, ad esempio, i club Lyons o Rotary, gli Ordini professionali, le Associazioni di commercianti, industriali, agricoltori, artigiani, i circoli massonici palesi e occulti, le reti informali di comparatico, le aggregazioni politico-elettorali strumentali, temporanee, trasversali. In aggiunta, non va trascurata l’incidenza dell’estremo del capitale sociale “cattivo”, ovvero quei circuiti di ‘ndranghetisti e di soggetti criminali che costruiscono il loro benessere distruggendo quello di cittadini e imprenditori, consumando futuro all’intera comunità regionale.

Pur prescindendo dalle derive delinquenziali di questi ultimi e di coloro che vivono nell’illegalità perenne dell’evasione fiscale e dello sfruttamento dei lavoratori, si percepisce l’esistenza nella sfera dei benestanti di una Calabria della densità orizzontale, delle cooptazioni, delle arene a geometria variabile dello scambio e della reciprocità particolaristica, clientelare, professionale, e che può aspirare, individualmente, a qualche forma di mobilità sociale ascendente.

Sono i calabresi “estrattivi”, che traggono benefici dallo status quo, dalla politica come “motore primo” degli standard di vita, dai bonus pubblici, dalla dipendenza macroeconomica della regione dal respiratore artificiale della spesa pubblica, che intercetta e beneficia della quasi totalità dei trasferimenti pubblici nazionali ed europei e dei grandi programmi di intervento pubblico destinati allo sviluppo locale. Cittadini che hanno sviluppato speciali abilità di torsione dei provvedimenti pubblici, centrali e locali, alle logiche di riproduzione dei propri benefici, anche degli interventi che astrattamente avrebbero potuto destabilizzare la legittimazione delle loro rendite di posizione; che diffidano dei progetti di trasformazione sociale in nome di una sorta di “apologia del quietismo”.

Cittadini concentrati, nelle parole di Mauro Magatti, soprattutto a “consumare benessere” piuttosto che a creare sviluppo e ad affrontare le sfide strutturali (organizzative, produttive, innovative) che esso comporta. Ottimati della rendita e della disuguaglianza polarizzata, tesi a mantenere o catturare nuovi vantaggi individuali e non interessati al bene comune. A prendere piuttosto che a contribuire al benessere della collettività.

Poi c’è la “seconda” Calabria, di dimensioni simili alla prima ma radicalmente diversa: quella dei sommersi, dei rimossi, dei precari, degli occultati che, in quanto tali, non disturbano l’estetica della “prima” Calabria.

Poveri con deprivazioni materiali estreme, con disagi quotidiani e persistenti, con difficoltà ad alimentarsi con pasti adeguati, a vestirsi in modo decoroso, a dormire sotto un tetto sicuro. Sono tantissimi e in crescita: poveri di “partenza”, ascritti dalla nascita. Anche questo gruppo è fortemente composito. Si tratta di anziani soli con pensioni sociali al minimo; lavoratori occasionali e per lo più sommersi, riders, camerieri a ore, operatori di call center, che contribuiscono alla tenuta e alla riproduzione di un’economia locale minuta, informale, e con salari così bassi da non consentire l’uscita dalla trappola della povertà assoluta; giovani, spesso descolarizzati, che perseguono l’autonomia familiare ma che sono imprigionati in lavoretti dequalificati e con salari striminziti; disabili rimasti senza famiglia, con sostegni pubblici assenti o inadeguati; disoccupati scoraggiati che hanno rinunciato a cercare un’occupazione perché hanno perso la speranza di trovarlo; immigrati con difficoltà di integrazione che riescono a racimolare pochi euro al giorno con lavoretti in nero o con espedienti vari; giovani imprigionati nell’eterno limbo del non lavoro, non studio, non formazione. Un catalogo infinito di soggetti, ad evidenza che, parafrasando Lev Tostoj in “Anna Karenina”, ogni povero è povero a modo suo.

Un altro buon quinto di calabresi è, come si è detto, a rischio povertà per la bassa intensità occupazionale: singoli e famiglie spesso alle prese con lavori precari, a tempo, con contratti di part-time involontario, e, di conseguenza, con redditi ben al di sotto della soglia media di un lavoratore a tempo pieno. Sovente, poveri di “arrivo”, “risultato” di politiche assenti o controproducenti.

Ne fanno parte famiglie numerose con occupati per poche ore alla settimana che racimolano un reddito monetario complessivo al di sotto della soglia per soddisfare i consumi essenziali; famiglie di immigrati con difficoltà di integrazione e con percettori di reddito di pochi euro all’ora, soprattutto in agricoltura, in edilizia e nel multiforme e crescente “proletariato dei servizi” a bassa qualificazione.

Sono singoli e famiglie che rischiano un ulteriore impoverimento quando la congiuntura diventa avversa per la perdita dell’occupazione oppure per la contrazione dei trasferimenti pubblici alle famiglie e ai singoli in difficoltà, come l’abolizione del reddito di cittadinanza, favorendo ulteriormente lo scivolamento verso la condizione di grave depauperazione materiale.

A differenza della prima, questa seconda Calabria è atomizzata, sbriciolata; più fragile e indifesa, composta da calabresi isolati gli uni dagli altri, senza legami né rappresentanza né voce, senza sovrastrutture. Scie disperse e spesso divergenti, senza sciame. Calabresi che praticano, quando possono, relazioni “verticali” individuali: con la Caritas, con la parrocchia, con i servizi comunali di welfare, con il gruppo di volontariato, con l’impresa di terzo settore, con la mensa sociale. Calabresi silenziati, privi di mezzi e strumenti, senza occasioni per parlare di sé.

A questa Calabria sembra non pensare nessuno. Non solo perché sommersa e difficile da incrociare se non si hanno sguardi sensibili, adeguati, interessati, ma anche perché è la Calabria degli outsider, del non-voto, che non protesta, che non fa rumore, che non urla, che non ha né trattori né vernici né gilets jaunes né protettori; che non minaccia l’ordine dominante.

I partiti-residui continuano a guardare alla prima Calabria, a quella dei garantiti, degli insider, delle rare imprese di “successo”, delle micro-esperienze socio-produttive locali puntiformi, spesso “cartolinizzate”; a vagheggiare su una mai definita altra Calabria e su narrazioni aneddotiche consolatorie; dimenticando che la somma di micro-esperienze positive disperse, seppure importanti di per sé, non è sufficiente per determinare un cambiamento di sistema; che non basta guardare “dall’alto” per decifrare le sofferenze e il declassamento sociale della Calabria praticata “dal basso”. (dn e rn)

[Courtesy Etica ed Economia]

NO A INTERVENTI SPOT, ALLA CALABRIA
SERVE UN SERIO PROGETTO INTEGRATO

di ANGELO PALMIERI – La Calabria, una delle regioni più affascinanti ma anche più vulnerabili d’Italia, rappresenta oggi un banco di prova cruciale per l’elaborazione di strategie di sviluppo in contesti caratterizzati da vincoli strutturali e risorse sottoutilizzate. Il rilancio economico di questo territorio richiede una visione multidimensionale che sappia integrare interventi strutturali e strategie partecipative, con una particolare attenzione al capitale umano, sociale e culturale.

Una diagnosi strutturale: le cause profonde del ritardo

Il prof. Francesco Aiello, autore di numerosi studi sull’economia calabrese, ha sottolineato che le difficoltà della regione derivano da una combinazione di fattori storici e strutturali, che vanno dalla marginalità geografica alla fragilità istituzionale.

«La Calabria – scrive Aiello – vive una doppia perifericità, sia geografica, per la distanza dai principali mercati europei, sia istituzionale, per la debolezza di governance che caratterizza molti enti locali».

A queste criticità si aggiunge un problema storico di sottosviluppo infrastrutturale, che limita la mobilità delle persone e delle merci, rendendo meno competitivi i prodotti locali sui mercati nazionali e internazionali. Inoltre, la regione soffre di una scarsa integrazione tra il sistema educativo e il mondo del lavoro, con un conseguente fenomeno di emigrazione intellettuale che priva il territorio di risorse umane altamente qualificate.

Le risorse inespresse: un potenziale da valorizzare

Nonostante le criticità, la Calabria dispone di un patrimonio naturale, culturale ed economico di straordinario valore. Il suo paesaggio unico, che combina spiagge incontaminate, aree montane e borghi storici, rappresenta una risorsa fondamentale per il turismo sostenibile. Inoltre, il territorio calabrese vanta una tradizione agroalimentare di eccellenza, con prodotti come il bergamotto, il peperoncino e i vini autoctoni, che possono essere valorizzati attraverso strategie di marketing territoriale e l’integrazione in filiere produttive di qualità.

Dal punto di vista economico, l’innovazione tecnologica rappresenta un’opportunità per superare le barriere geografiche e favorire la competitività delle imprese locali. La presenza di centri di eccellenza come l’Università della Calabria offre un punto di partenza per lo sviluppo di progetti imprenditoriali innovativi, in particolare nei settori dell’ICT, delle energie rinnovabili e dell’agroalimentare.

Una strategia integrata per il rilancio economico

Per superare le storiche fragilità e costruire un percorso di crescita sostenibile, è necessario adottare una strategia integrata che coinvolga diversi livelli di intervento: istituzionale, economico e sociale. Ecco alcune proposte operative:

Sviluppo infrastrutturale e mobilità sostenibile: La prima priorità è migliorare la rete infrastrutturale della regione, con un’attenzione particolare alla modernizzazione dei trasporti. Un potenziamento delle linee ferroviarie e stradali, accompagnato da investimenti in mobilità sostenibile, potrebbe favorire l’accessibilità del territorio e attrarre investitori esterni.

Un piano regionale per l’innovazione: È fondamentale incentivare la creazione di startup e poli tecnologici, con il supporto di università e centri di ricerca. Questo piano dovrebbe includere finanziamenti per la digitalizzazione delle imprese e per lo sviluppo di prodotti e servizi innovativi, con un focus particolare su settori strategici come l’agroalimentare, il turismo e l’energia verde.

Valorizzazione del turismo culturale e sostenibile: La Calabria può trasformarsi in una destinazione turistica di alta qualità puntando sulla valorizzazione del patrimonio culturale e naturale. È necessario sviluppare itinerari tematici che combinino cultura, natura ed enogastronomia, migliorare le infrastrutture turistiche e promuovere un brand territoriale riconoscibile. Un esempio concreto potrebbe essere la creazione di un “Parco culturale del Mediterraneo”, che metta in rete le eccellenze del territorio.

Rafforzamento delle comunità locali e delle reti sociali: Il capitale sociale è un elemento essenziale per lo sviluppo economico. La creazione di piattaforme partecipative, che favoriscano il dialogo tra imprese, cittadini e istituzioni, può contribuire a rafforzare la fiducia reciproca e a promuovere progetti condivisi. Inoltre, sarebbe utile incentivare forme di cooperazione tra le imprese locali, attraverso la creazione di distretti produttivi e reti di collaborazione.

Un programma di attrazione e rientro dei talenti: La Calabria deve invertire il fenomeno della fuga di cervelli, offrendo ai giovani qualificati opportunità di lavoro e crescita professionale. Un’idea potrebbe essere quella di istituire borse di studio e incentivi fiscali per giovani professionisti che decidono di rientrare in regione o di investire nel territorio.

Il ruolo delle istituzioni e della società civile

Il successo di qualsiasi strategia di rilancio dipende dalla capacità delle istituzioni di agire come catalizzatori del cambiamento. Questo richiede un forte impegno per migliorare la trasparenza e l’efficienza della pubblica amministrazione, nonché una maggiore integrazione tra le politiche regionali, nazionali ed europee. Allo stesso tempo, è fondamentale il coinvolgimento della società civile, che deve essere protagonista attiva del cambiamento.

Le esperienze di successo in altre regioni europee dimostrano che lo sviluppo sostenibile non è solo una questione di risorse economiche, ma anche di visione strategica e capacità di collaborazione tra i diversi attori. Come sottolinea Francesco Aiello, “lo sviluppo di territori marginali richiede una governance multilivello, capace di coordinare interventi locali e politiche nazionali in un’ottica di lungo periodo”.

Conclusioni: un nuovo modello di sviluppo per la Calabria

Il rilancio economico della Calabria non può basarsi su interventi frammentari o emergenziali, ma deve fondarsi su un progetto di sviluppo integrato, che metta al centro il territorio, le sue risorse e le sue comunità. Solo attraverso un approccio di questo tipo sarà possibile superare le storiche fragilità della regione e costruire un futuro di crescita inclusiva e sostenibile.

Il prof. Aiello, con le sue analisi, ci invita a riflettere su un punto essenziale: «La crescita non può essere imposta dall’alto, ma deve partire dal basso, dalle energie e dalle risorse del territorio».

Seguendo questa lezione, la Calabria può diventare un esempio di rinascita per l’intero Mezzogiorno, dimostrando che il cambiamento è possibile anche nei contesti più complessi. (ap)

[Courtesy OpenCalabria]

IL SUD UN FUTURO CE L’HA, MA BISOGNA
CREARE E GARANTIRE I DIRITTI ESSENZIALI

di PIETRO MASSIMO BUSETTAEsistono dei diritti costituzionalmente garantiti che però hanno realizzazione diversa nelle varie parti del Paese. In particolare il diritto al lavoro, a una buona formazione, alla salute, alla mobilità.     

Le 100.000 persone che ogni anno si trasferiscono dal Sud al Nord, con un costo per le regioni di provenienza di oltre 20 miliardi, considerato che portare una persona a livello di scuola media superiore costa già 200.000 €, e che la maggior parte di coloro che si trasferiscono hanno invece una laurea, rappresentano una sconfitta per il Paese. 

Tale costo, cosiddetto di “allevamento”, viene utilizzato dalle regioni di destinazioni, alcune volte dal Paesi esteri, ogni qual volta tale capitale umano non viene valorizzato nelle stesse realtà nelle quali si è formato. 

Ed è inutile strombazzare successi ed aumenti di occupazione senza tener conto dei dati macroeconomici che riguardano tutto il Mezzogiorno. Una realtà che, se fosse una nazione dell’Unione Europea a se stante, avrebbe nella graduatoria dei Paesi  europei una dimensione demografica che la posizionerebbe tra i primi  dieci. Prima di tanti Paesi importanti, come per esempio l’Olanda. E che con i suoi poco meno di venti milioni di abitanti ha un numero di occupati, compresi i sommersi, che si avvicina ai sei milioni e quattrocentomila. Lontano dal rapporto uno a due delle realtà a sviluppo compiuto.

E poiché è noto che il sommerso nella realtà poco sviluppate ha una dimensione più ampia di quanto non l’abbia nella realtà a sviluppo compiuto, per un effetto di smarcamento dovuto alla mancanza di lavoro, se le possibilità alternative non sono numerose o addirittura inesistenti c’è più facilità che chi ha bisogno di lavorare e non vuole spostarsi, accetti un lavoro a qualunque condizione. 

Peraltro, tale evidenza emerge chiaramente dal costo del lavoro più basso, pur in presenza di contratti di lavoro collettivi simili e in assenza di gabbie salariali. 

Fin quando tale gap di mancanza di posti di lavoro non sarà colmato sarà impossibile frenare quel flusso dovuto ad un modello di sviluppo che continua a creare posti di lavoro nelle realtà nelle quali il mercato è saturo e si manifestano tutte le difficoltà a trovare capitale umano formato. 

Ma le persone non si spostano soltanto alla ricerca di un’occupazione che consenta di immaginare un progetto di vita. E spesso non sono solo i giovani che si trasferiscono perché dietro loro alcune volte, sempre più spesso, le famiglie di origine sono tentate di  seguirli per fornire un aiuto nella tenuta dei figli, considerato che in genere nella coppia si cerca di lavorare entrambi, anche perché è l’unico modo per avere un reddito minimo di sussistenza. 

Peraltro l’altro diritto negato o meglio non garantito adeguatamente è quello alla salute. Per cui i cosiddetti viaggi della speranza continuano ad aumentare alimentando il sistema del Nord che ormai si è organizzato per supportare e supplire alle carenze del sistema sanitario meridionale, che malgrado i tanti interventi effettuati anche a livello centrale, vedasi il commissariamento della sanità calabrese, non riesce a fornire un livello di servizi adeguati ad un paese civile e in ogni caso paragonabili a quelli che si possono avere disponibili nelle aree settentrionali. 

E anche se non mancano eccellenze sanitarie riconosciute universalmente, il sistema complessivo denuncia carenze non più tollerabili, dovute ad una carenza di risorse che riguarda tutto il Paese, ma che si manifesta maggiormente nelle aree meridionali.  

Un altro diritto fondamentale negato è quello alla formazione. Le carenze che si registrano nei sistemi formativi meridionali hanno portato a tassi di dispersione scolastica non degni di un paese civile, soprattutto in alcune aree periferiche delle grandi città meridionali, che arrivano ad avere percentuali vicine al 30%. 

Il danno della perdita di questi ragazzi, che spesso non completano nemmeno le scuole elementari è inestimabile. 

Infatti un primo elemento riguarda la perdita di un capitale umano che potrebbe, se ben formato, fornire anche eccellenze importanti che in questo modo vanno sprecate. Un secondo aspetto da non trascurare è l’incidenza che una base elettorale non adeguatamente acculturata può rappresentare nella scelta della classe dirigente che viene eletta. Tali gruppi non adeguatamente formati rappresentano un pericolo per la democrazia, perché facilmente possono essere manipolati ed indirizzati, vista la loro mancanza di consapevolezza civica. 

La mancanza di tempo pieno a scuola, poi diventa un ulteriore elemento che porta a livelli di istruzione non competitivi. 

Un ultimo diritto inalienabile e che è alla base di ogni sviluppo economico e quello alla mobilità. Diritto negato come si vede dai tentativi goffi di superarli con treni della speranza e delle feste, organizzati nei periodi natalizi o con sconti sulle tratte aeree per raggiungere le parti più isolate dello stivale e delle Isole. 

Purtroppo l’inesistenza della concorrenza tra aereo e ferrovia in alcune zone porta ad un incremento di costi delle tratte insopportabile, che diventa molto più evidente nei periodi in cui il ritorno a casa di molti emigranti porta le compagnie aeree a seguire la legge della domanda dell’offerta, che fa incrementare il costo del volo. 

L’insieme di questa mancanza di diritti porta la gente a pensare che le realtà meridionali siano senza futuro e che il detto per cui per poter avere successo nella vita bisogna andarsene trova una conferma nel diverso approccio e comportamento delle istituzioni nei confronti del Sud.

Tale convinzione diventa ulteriore elemento di impoverimento perché se ormai in tanti cominciano a non credere che esista un futuro nelle realtà di origine, la conseguenza non potrà che essere lo spopolamento e la desertificazione.

Cambiare tale convinzione e proporre un paradigma diverso necessita  di molte conferme che ancora la gente non vede. 

Ma tale cambiamento è indispensabile non soltanto per le aree meridionali ma per tutto il Paese, che ha bisogno di mettere a regime una realtà periferica, che necessita di una seconda locomotiva, che faccia aumentare i tassi di sviluppo insufficienti per assicurare quel welfare al  quale siamo abituati o in alcuni casi che si desidera, e infine anche che eviti l’affollamento di alcune aree che non può portare tanto danno come si vede. (pmb)

[Courtesy Il Quotidiano del Sud – L’Altravoce dell’Italia]

IL FOTOVOLTAICO E IL CONSUMO DEL SUOLO
PERPLESSITÀ SULLA LEGGE DELLA REGIONE

Dal 3 luglio 2024 sono in vigore i criteri del Ministero dell’Ambiente che devono essere usati dalle Regioni per individuare le aree idonee e non idonee alla realizzazione di impianti di energia da fonti rinnovabili dando priorità all’obiettivo generale di sviluppo loro assegnato. 

Il territorio regionale sarà così classificato: aree idonee con procedimento autorizzatorio accelerato; aree non idonee dove specifiche tipologie di impianti non si potranno realizzare; aree ordinarie dove gli impianti si potranno realizzare con il previsto procedimento autorizzatorio; aree dove sarà vietato installare impianti fotovoltaici a terra.

Le aree idonee e non idonee saranno individuate dalle Regioni con apposita legge da approvare entro il 30 dicembre 2024 (180 giorni dall’entrata in vigore del Dm 21 giugno 2024). Superato tale termine scatteranno i poteri sostitutivi statali. 

Abbiamo avuto in via preliminare la Proposta di legge regionale che fissa tale disciplina e non poche sono le perplessità e le preoccupazioni derivanti dall’aumento del consumo di suolo che ne deriverebbe, dalla mancanza di valutazioni di quanto la Calabria ha già dato in appoggio al Decreto Fonti di Energia Rinnovabile (Fer) ai fini del raggiungimento degli obiettivi 2030, e non solo.

Il nostro senso civico e la nostra sensibilità di cittadini ci obbligano a prendere posizione in merito a questo pericolo e, pertanto, invieremo la seguente lettera aperta al Presidente della Regione Calabria, al Presidente del Consiglio Regionale, agli Assessori e Consiglieri Regionali della Calabria.

“Prendo a prestito le parole di un amico che, come noi, ha a cuore le sorti della Calabria:  «Quei mostri, paradigma dell’ipocrisia di chi usa artatamente la parola rinnovabile come falso sinonimo di sostenibile, inquinano la terra e le acque con cemento tossico, falcidiano avifauna, allontanano le api, impoveriscono interi territori vocati al primario, arricchiscono pochissimi a spese di tutti, favoriscono corruzione e dinamiche mafiose, attuano un danno culturale che richiederà decenni per essere riparato (ammesso che sia riparabile). Il vero rinnovabile sostenibile sta nella microproduzione diffusa su edifici già esistenti. Questo sì, genererebbe ricchezza e posti di lavoro diffusi, sostenibilità sociale ed economica, cultura della dignità ed orgoglio locale. L’eolico industriale è una menzogna gravissima e delinquente».

Dunque, al consumo di suolo si sommano la perdita dei servizi ecosistemici, la diminuzione della qualità dell’habitat, la perdita della produzione agricola, lo stoccaggio di CO2, gli eventi climatici estremi, la capacità del terreno di assorbire e trattenere l’acqua e regolare il ciclo idrologico con danni stimati di oltre 400 milioni di euro all’anno per il nostro Paese.

Ci preoccupa che i prati spontanei, i pascoli ed i tratti distintivi delle nostre campagne e delle nostre colline, siano classificati come “superfici agricole non utilizzabili” e dunque come “aree idonee”; Mentre sappiamo bene che boschi, macchia mediterranea, garighe, prati, calanchi, pascoli, incolti, fossati, ecc., sono giacimenti vitali di biodiversità per piante spontanee, fauna selvatica a rischio di estinzione; 

Ci preoccupa che le stesse aree agricole, che dovrebbero essere al sicuro se sono inserite come tali nei piani regolatori, e le altre aree classificate non idonee, possono comunque essere asservite all’attraversamento dei cavidotti che comportano disboscamento, realizzazione di piste, scavi, distruzione, ecc.; 

Ci preoccupa che in caso di vincoli paesaggistici, l’autorità dovrà esprimersi entro trenta giorni, mentre oggi il termine è di almeno 45 giorni. E nel caso di interventi di rifacimento o ripotenziamento di impianti esistesti o già autorizzati, a prescindere dalla collocazione dell’impianto, non occorre neanche l’autorizzazione paesaggistica. Mentre nei procedimenti di autorizzazione di impianti su aree idonee, il parere obbligatorio per la Valutazione di Impatto Ambientale non è vincolante ed i termini delle procedure di autorizzazioni sono ridotti di un terzo. Mentre sappiamo bene che la Soprintendenza, da molti anni con molta fatica e non sempre con risultati ottimali, tenta di limitare gli impatti sui beni culturali e paesaggistici;

Ci preoccupa che Alle Regioni è attribuita la possibilità di stabilire una fascia di rispetto dal perimetro dei beni sottoposti a tutela, fino a un massimo di 7 chilometri di ampiezza e che tale fascia di rispetto dovrà essere discrezionalmente (ma non si sa con quale criterio) differenziata a seconda della tipologia di impianto Fer e proporzionata al bene oggetto di tutela;

Ci preoccupa che il rispetto dei principi della minimizzazione degli impatti sul territorio, sul capitale naturale, sul patrimonio culturale e sul paesaggio, è secondario agli obiettivi e alla sostenibilità dei costi correlati al raggiungimento di tali obiettivi;

Ci preoccupa che “al fine di tutelare la risorsa mare, caratterizzata dal grande valore paesaggistico/panoramico nonché economico delle coste della Calabria, sono state classificate aree non idonee le fasce costiere per una profondità di 5 km, calcolate prendendo come riferimento le strade costiere panoramiche statali SS 18 Tirrena Inferiore e la SS 106 Statale Ionica. 

Dunque, cosa succederà dopo questi 5 Km?

Ci preoccupano le fasce di rispetto dal perimetro dei parchi come il Pollino, l’Aspromonte, la Sila, le Serre, e quelli istituendi, che è ristretta a 500 metri dai confini dei parchi per gli impianti fotovoltaici ed a 5 km per gli impianti eolici o altre fonti; 

Ci preoccupa che siano classificate idonee le aree agricole distanti meno di 500 metri da impianti o stabilimenti industriali e le aree collocate entro 300 metri dalle autostrade, a prescindere se si tratta di aree di pregio; 

Ci preoccupa che nei siti, ove sono già installati impianti per produzione di energie rinnovabili, siano possibili interventi di modifica, anche sostanziale, per rifacimento, potenziamento o integrale ricostruzione, eventualmente abbinati a sistemi di accumulo, fino ad un aumento dell’area del 20 per cento;

Ci preoccupa che a circa 20 giorni dalla scadenza per la presentazione della proposta di legge, non siano stati opportunamente convocati e coinvolti gli enti locali;

Ci preoccupa che nella nostra Costituzione, si attribuiva la sovranità al popolo nei limiti e nelle forme previste dalla stessa Costituzione, e si desumeva il conseguente principio della partecipazione dei privati al procedimento amministrativo….in un’ottica di imparzialità tra l’interesse pubblico con quello dei soggetti privati coinvolti…

Mentre oggi si esercitano i “poteri sostitutivi” per imporre la sovranità delle multinazionali con conseguenze sul piano della tutela dei diritti e del bene pubblico, calpestati e annientati a vantaggio di privati e, ancor peggio, sacrificando aree vitali, devastando, prima di produrre, cancellando ogni forma di vita vegetale o animale e contribuendo significativamente al consumo di suolo.  

A causa della ipercementificazione selvaggia si accrescono, dunque, i rischi di cambiamenti irreversibili, il punto di non ritorno che fa presagire uno scenario di progressivo peggioramento della crisi climatica negli anni a venire che si inserisce in un territorio particolarmente fragile con trombe d’aria, frane, mareggiate, grandinate, temperature eccezionali, piogge intense, alluvioni ed esondazioni, siccità e incendi, gestiti faticosamente ed economicamente inaccettabili con logiche emergenziali. 

La minimizzazione o peggio la negazione della realtà che stiamo vivendo può risultare tragica se non agiamo con intelligenza seguendo le indicazioni dell’Ispra, secondo le quali si può e si deve evitare altro consumo di suolo nella realizzazione degli impianti senza venire meno agli impegni di produzione da rispettare entro il 2030, privilegiando l’utilizzo di superfici di strutture edificate, quali capannoni industriali, di edifici pubblici e privati, di strutture sanitare, edifici scolastici, parcheggi pubblici (leggi cittadella regionale, università, ospedali) e privati (leggi centri commerciali, autostrade, distributori carburante) ecc. 

Sarebbe sufficiente per la Calabria attenersi al Quadro Territoriale Regionale Paesaggistico (QTRP) che ha valore di piano urbanistico-territoriale con valenza paesaggistica, riassumendo le finalità di salvaguardia dei valori paesaggistici ed ambientali di cui all’art. 143 e seguenti del D.Lgs n. 42/2004.

È necessario che l’energia prodotta nel Mezzogiorno e nelle Isole sia destinata al fabbisogno locale, evitando l’ulteriore impoverimento dei nostri territori a favore di soggetti esterni e di altre aree del Paese. In quest’ottica un sostegno deciso al fotovoltaico familiare non solo non consuma suolo e non inquina, ma afferisce risorse direttamente nelle tasche delle famiglie che lo adottano.

È necessario favorire piuttosto che pregiudicare la difesa degli ecosistemi, dei paesaggi e della biodiversità nel rispetto dei nostri luoghi, della nostra storia che, secondo la nostra Costituzione, è un compito fondamentale della Repubblica.

(Italia Nostra sezione Alto Tirreno Cosentino, Vibo Valentia, Lamezia Terme, Crotone e Soverato-Guardavalle)

AUTONOMIA, REFERENDUM QUASI INUTILE
PRESTO LA DECISIONE SULL’AMMISSIBILITÀ

di ERNESTO MANCINI –Ed ora cosa succede dopo che la Corte Costituzionale con sentenza n. 192 del 14 novembre 2024 ha dichiarato illegittime e perciò cancellato molte norme della legge Calderoli sull’autonomia regionale differenziata?

La stragrande maggioranza dei costituzionalisti parlano di avvenuta demolizione della legge nelle sue norme più significative al punto che ora si discute se ancora sia ammissibile svolgere il referendum per la sua abrogazione totale posto che la legge, nel suo impianto originario e nei suoi princìpi ispiratori, non esiste più. Sul punto si può osservare quanto segue.

1) L’iter per i giudizi di legittimità e ammissibilità del referendum.

Saranno la Corte di Cassazione e la Corte Costituzionale a decidere sul referendum, sia pure con due distinti ruoli: alla prima spetta un giudizio di legittimità, alla seconda un giudizio di ammissibilità. Vediamo in che senso.

1.1) Corte di Cassazione: giudizio di legittimità

Secondo l’art. 32 della legge n. 352 del 25.7.1970 che detta la disciplina dei referendum, la Corte di Cassazione, dopo avere accertato con propria ordinanza che le firme per la richiesta di referendum sono regolari per numero e conformità e dopo avere stabilito, sentiti i promotori, la denominazione del referendum da riprodurre nelle schede di votazione, trasmette il tutto alla Corte Costituzionale per il giudizio di ammissibilità.  Infatti, una richiesta di referendum potrebbe essere legittima sotto il profilo degli adempimenti di legge (regolarità di almeno 500 mila firme, presentazione entro i termini di legge della richiesta, ecc.) ma la sua ammissibilità, cioè il fatto che il referendum possa svolgersi, è affidata alla Corte Costituzionale.

L’ordinanza della Cassazione sulla legittimità del referendum dovrà essere trasmessa al Presidente della Corte Costituzionale entro il prossimo 15 dicembre c.a. e cioè nei prossimi giorni. Non vi sono dubbi che ciò avverrà.

1.2) Corte Costituzionale: giudizio di ammissibilità

Il Presidente della Corte Costituzionale, ricevuta l’ordinanza della Corte di Cassazione, fissa entro il 20 gennaio l’udienza per la deliberazione sulla ammissibilità nominando, tra i giudici costituzionali, un relatore. La sentenza che ammette o rigetta l’ammissibilità del referendum deve essere pubblicata entro il 10 febbraio successivo e deve essere formalmente trasmessa al Presidente della Repubblica, ai Presidenti delle due Camere, al Presidente del Consiglio dei Ministri ed all’Ufficio Centrale della Cassazione per il referendum. Si tratta di termini massimi sicché il procedimento può concludersi anche prima.

1.3) indizione del referendum con decreto Presidente della Repubblica previa deliberazione del Consiglio dei Ministri

Ricevuta la sentenza di ammissibilità pronunciata dalla Corte Costituzionale il Presidente della Repubblica indice il referendum sulla base di una deliberazione ad hoc adottata dal Consiglio dei Ministri. Da notare che la data del referendum deve essere fissata in una domenica compresa tra il 15 aprile ed il 15 giugno.

2) Le insidie per l’abrogazione totale della legge Calderoli

2.1) Il quorum per la validità del referendum abrogativo

Come è noto il quorum per la validità del referendum è costituito dalla metà più uno degli italiani aventi diritto al voto cioè iscritti formalmente nelle liste elettorali. Al riguardo va notato:

– che tale numero al momento può quantificarsi in 25.607.175 cioè la meta più uno di 51.214.348 (tali erano gli aventi diritto al voto alle recenti elezioni europee del 9 giugno 24 -vedi su Eligendo – Ministero Interno);

–  che alle recenti elezioni europee hanno votato solo il 48,31 % degli aventi diritto al voto e cioè 24.741.651 (ancora su Eligendo – Min. Interno);

– che ulteriori difficoltà per il quorum sono rappresentate dal fatto che si vota nel solo giorno di domenica mentre alle recenti elezioni europee si è votato dalle 14 alle 22 del sabato e alla domenica;

– che tra gli aventi diritto al voto per il referendum sono compresi anche gli italiani residenti all’estero (Aire) come specifica il Ministero dell’Interno sul proprio sito istituzionale. Al 1° gennaio 2023: erano iscritti all’AIRE circa 5.933.418 italiani;

– che il referendum possa essere considerato come uno scontro Nord-Sud anziché una battaglia per l’unità d’Italia contro ogni frammentazione;

È dunque di tutta evidenza che la battaglia dei referendari per il quorum sarà durissima atteso il diffuso astensionismo dalle urne degli italiani. Peraltro, all’astensionismo ormai consolidato si aggiungerà sicuramente l’astensionismo indotto dai partiti di governo che spingono per l’autonomia differenziata (Lega soprattutto ma anche gli altri, almeno esteriormente, stante il noto pactum sceleris sulle riforme programmate: autonomia differenziata, premierato, separazione carriere magistrati).

E tutto ciò sarà ancora più difficile se si dovesse votare in una domenica di giugno poichè moltissimi cittadini fissano per giugno le loro vacanze stanti i prezzi di soggiorno minori rispetto a luglio ed agosto. Il Comitato Referendario dovrà perciò rivendicare dal Governo una data giusta e non pregiudizievole.

Gioca invece a favore del quorum la circostanza che si voterà anche per altri referendum abrogativi di norme ingiuste (tra gli altri il referendum sulla cittadinanza, i quattro referendum Cgil sul lavoro – reintegro, licenziamenti, lavoro a termine, precarietà negli appalti).

2.2) sul giudizio di ammissibilità

Come si è detto il giudizio sull’ammissibilità del referendum è affidato alla Corte Costituzionale e ciò dà tutte le garanzie ai promotori per una decisione giusta ed equilibrata.

Il problema che la Corte dovrà risolvere è se possa svolgersi un referendum abrogativo su una legge che nel frattempo è stata, nelle parti più importanti, dichiarata illegittima e pertanto, nelle stesse parti, non più in vigore dal giorno successivo alla pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale.

Beninteso non si tratta solo di caducazione di norme per illegittimità costituzionale ma anche di correzione di norme che in alcuni casi è ancora più penetrante.  Infatti, stante il dictum della Corte, è già subentrato nell’ordinamento ed è perciò perfettamente vigente il principio per cui non possono trasferirsi alle regioni intere materie ma solo singole funzioni in relazione a specifiche esigenze, peraltro debitamente motivate e giustificate da una situazione peculiare della Regione e perciò da una situazione non comune alle altre. Con il contestuale obbligo che si applichi il principio di sussidiarietà che impone di svolgere la funzione al livello più adeguato. Tale livello, come ha insegnato la Corte, non è necessariamente quello regionale ma può essere quello statale e perfino europeo secondo il principio di efficienza, vincolanti direttive europee, ecc.ecc. Il tutto sulla base del “bene comune” e non certo del mero trasferimento di poteri per fini competitivi ed egoistici contrari ai princìpi costituzionali di cui agli artt. 3,5 e 7 Costituzione: solidarietà, uguaglianza, unità ed indivisibilità della Repubblica.

Sulla base del tassativo criterio così indicato dalla Corte non si vede come, ad esempio, nella sanità pubblica possano attribuirsi funzioni in via esclusiva (assistenza ospedaliera, medicina di base, specialistica, igiene pubblica, sistema di accreditamento sanità privata, ecc. ecc.) che non hanno la caratteristica di unicità e peculiarità delle singole regioni richiedenti bensì sono comuni a tutte. Per il trasferimento di istruzione, commercio estero, professioni, ambiente, energia, trasporti ed altro, la Corte ha già detto che di ulteriore devoluzione non se ne parla nemmeno (sia pure in modo più elegante rispetto a questo mio dire). Tutto ciò a tacer di molto altro che qui, per brevità non riportiamo avendone già trattato in recenti scritti (vedi su www.dirittoepersona.it ).

Ora va detto che sul tema dell’ammissibilità sembra prevalere da parte della dottrina costituzionale la tesi per cui, rimanendo comunque formalmente in piedi la legge sia pure assai rimaneggiata, il referendum è ammissibile. Sul punto si vedano i recentissimi interventi dei costituzionalisti De Minico, De Fiores, Iannello, Villone al Convegno sul Referendum (Napoli – 5 dicembre u.s. Istituto Studi Filosofici con registrazione audio-video di Radio Radicale https://www.radioradicale.it/scheda/745705/lammissibilita-del-referendum-sullautonomia-differenziata-dopo-i-rilievi-della-).

Per altra dottrina costituzionalista ugualmente autorevole (Ceccanti) ““sembrerebbe impossibile negare che siano cambiati i “principi ispiratori” e “i contenuti normativi essenziali” che sono le due condizioni che la Corte costituzionale nella sentenza 68/1978 riteneva necessari per considerare quesiti referendari superati, esauriti e quindi non più proponibili al voto degli elettori””.

Sarà il Giudice delle Leggi a decidere con sentenza non impugnabile.

2.3 Sulla inammissibilità del referendum per altre possibili cause

Si potrebbe mettere nel conto che nelle more della indizione del referendum il Governo approvi un decreto-legge (Calderoli bis) che modifichi ed integri ciò che è rimasto della legge n.86/2024 rendendola perciò superata e quindi non più soggetta a referendum. Ci sono precedenti al riguardo: referendum sulla procreazione assistita (2005); referendum sulla legge elettorale (2009): referendum sulle concessioni per l’estrazione di idrocarburi in mare (2016).

Nel caso dell’autonomia differenziata l’improvvido legislatore non potrebbe derogare ai princìpi sanciti dalla Consulta (come quello che nega la trasferibilità della materia e limita le funzioni a pochi e rarissimi casi) salvo a creare un conflitto istituzionale gravissimo che gli si ritorcerebbe contro. Queste eventuali nuove norme, sarebbero infatti clamorosamente in contrasto con la sentenza del novembre scorso e tornerebbero alla cognizione della Corte Costituzionale previo ricorso delle regioni interessate per un’ulteriore dichiarazione di illegittimità.

Dalla parte opposta i promotori referendari, nella difficile prospettiva di raggiungere il quorum (oltre 25 milioni di elettori) stante il diffuso e radicato astensionismo, potrebbero rinunciare al referendum avendo già ampiamente conseguito una netta vittoria sotto il profilo giuridico stante l’abbattimento della  legge nelle sue parti essenziali. Sul punto la dottrina è divisa: c’è chi ritiene che la rinuncia non sia possibile e chi all’opposto la ritiene possibile purché avvenga prima della indizione. Va da sé che il referendum con esito abrogativo più che una vittoria legale ormai già conseguita nella sede suprema della Corte Costituzionale, rappresenterebbe una vittoria politica affinché nessuno più ci provi a fare leggi così obbrobriose, palesemente incostituzionali e comunque spaccaitalia.

E ad una vittoria politica, dopo anni di bocconi amari per l’insipienza e l’incoscienza dei Governi Gentiloni e Conti che hanno sottoscritto le prime intese Stato/Regione, la prepotenza di Calderoli & co. dell’attuale maggioranza che se ne sono infischiati delle censure mosse dalla gran parte degli attori istituzionali, culturali, accademici e perfino ecclesiastici, è troppo importante per rinunciarvi(em)

 

COESIONE E RIFORME, DIFFICILE L’AGENDA
DEL NUOVO COMMISSARIO EUROPEO FITTO

di PIETRO MASSIMO BUSETTA – “Rispondere alle sfide demografiche e offrire opportunità a tutti, in particolare ai giovani, affinché possano rimanere e prosperare nelle loro regioni d’origine, utilizzando il cosiddetto “approccio basato sul territorio” per rispondere meglio alle esigenze locali e collaborare più strettamente con le autorità locali”.

Cosi Raffaele Fitto, vicepresidente esecutivo della Commissione europea, responsabile per la coesione e le riforme, quando è stato audito, nelle osservazioni introduttive dichiarate  al Parlamento Europeo.

Ma proviamo a proporre una agenda per il nuovo Commissario, in particolare per gli interessi che riguardano il nostro Paese.

Un compito arduo, quello a cui è chiamato il  cavallo di razza pugliese. Ma cambiare cappello e indossare quello super partes dell’ Unione non sarà né semplice né automatico.         

Mentre nel ruolo rivestito nel Governo italiano doveva fare i conti con le esigenze di compatibilità con la politica e il bilancio nazionale, adesso dovrà puntare a raggiungere gli obiettivi che l’Europa si pone.

Primo fra questi, come dice bene nelle sue dichiarazioni, puntare a che si eliminino le disparità.                        Già in queste prime dichiarazioni però si rileva una contraddizione rispetto a quello che si continua a fare a livello nazionale, perché al di là di una distribuzione delle risorse del PNRR, che non ha tenuto conto dell’algoritmo costruito dall’Unione Europea, modificandolo a vantaggio del Nord del Paese, vi è proprio un modello di sviluppo da mettere in discussione.

Poiché il nostro prevede ancora, contrariamente alle sue dichiarazioni, che vi sia uno spostamento delle persone verso i luoghi dove continuano a crearsi posti di lavoro, invece che procedere al contrario. L’esempio di Amazon e Microsoft, come anche la richiesta fallita di una localizzazione della Intel a Vigasio, a due passi da Verona, dimostra che oggi, malgrado tutte le provvidenze sbandierate a favore del Mezzogiorno, l’individuazione della Zes unica di tutto il Sud come nuova terra promessa nella quale investire è solo un mantra.

Che l’affermazione che localizzarsi nel Mezzogiorno  diventa molto più interessante che in qualunque altra parte d’italia e  d’Europa è solo uno slogan. Perché  il risultato è che quando le aziende devono decidere la loro localizzazione hanno più convenienza a stabilirsi nelle realtà già sviluppate, contribuendo a quell’estremo affollamento di alcune aree, che porta a fenomeni di sovra popolazione nazionale  e straniera, prodromi agli episodi di violenza che registriamo negli ultimi mesi e che, in una corsa tra affollamento ed esigenza di controllo, esigono l’aumento di Polizia e in generale di Forze dell’Ordine.

Accanto ad una crisi abitativa che certo non viene risolta da  quei piccoli vantaggi che il nostro Governo ultimamente, in una visione di un Sud ancillare e colonia interna, riserva a coloro che cambiano la residenza, senza che si affronti mai il vero problema di far creare i nuovi posti di lavoro laddove vi è capitale umano formato disponibile.    

Queste le azioni necessarie se non si vuole che le  dichiarazioni rimangano grida manzoniane ripetute periodicamente, come litania che dimostra l’inconsistenza delle azioni.

“La politica di coesione si trova al cuore dell’integrazione europea. Deve svolgere un ruolo essenziale per garantire il progresso sociale ed economico dell’Unione europea e nel ridurre le disparità tra i diversi territori e le diverse regioni. Le nostre regioni, le nostre città, le nostre comunità locali e i nostri cittadini sono al centro di questa politica”, ha rilevato Raffaele Fitto.

Per questo nella sua agenda non può esserci soltanto il raggiungimento teorico degli obiettivi del PNRR, in modo da poter incassare le varie rate, ma il controllo effettivo di un’azione che deve produrre risultati tangibili, che vanno misurati sulla base di due parametri fondamentali che sono l’aumento del Pil delle aree interessate e dell’occupazione regolare.

In tal senso Raffaele Fitto sottolinea l’importanza di garantire un’occupazione di alta qualità, la capacità amministrativa locale, le infrastrutture, anche digitali, e i servizi pubblici in ogni regione. Obiettivi importanti se non saranno solo parole.

Avere un commissario italiano, per lo più meridionale, dovrebbe servire a imporre al Paese, che prevalentemente privilegia le esigenze di un Nord bulimico, una politica più equilibrata, che porti fuori dalle secche di uno sviluppo che si confronta con gli zero virgola e conduca a regime quasi la metà  del territorio ed un terzo della popolazione.

Un controllo che dovrebbe privilegiare la destinazione dei fondi strutturali, in modo che non vadano a sostituire le risorse ordinarie, come è accaduto anche recentemente per il Fondo Sviluppo e Coesione, destinato in parte al finanziamento del Ponte sullo Stretto, e invece siano utilizzati come risorse aggiuntive.

In alcuni casi tali indirizzi complessivi potranno rientrare nei suoi compiti istituzionali, in altri probabilmente dovranno  passare quali indirizzi generali, con le difficoltà che comporta qualunque azione che vuole sovrapporsi alle esigenze nazionali, come si è visto dal comportamento del nostro Paese che per anni ha utilizzato i fondi strutturali per sostituirli a quelli ordinari, con il risultato di avere una spesa pro capite per il Mezzogiorno invece che superiore, come sarebbe naturale considerati  i fondi aggiuntivi, invece inferiore visto che era basata sulla spesa storica.

Potrà  il nostro Commissario fare molto se riuscirà a comprendere la delicatezza del compito e se le indicazioni della politica nazionale glielo consentiranno, ma anche limitarsi a una continuità che penalizzerà il Sud, come è avvenuto negli anni passati. λ

(Courtesy Il Quotidiano del Sud /

L’Altravoce dell’Italia)

NON CHIAMATEMI EMINENZA: LA CALABRIA
HA UN CARDINALE: DON MIMMO BATTAGLIA

di PINO NANOCommovente. È quasi straziante l’immagine di questo giovane sacerdote di periferia che sta è diventato Cardinale. Don Mimmo Battaglia che è qui, oggi, nel cuore della Basilica Vaticana, ai piedi dell’altare della Confessione nella Cappella di San Sebastiano, appare più solo che mai. Fantasma di sé stesso, la modestia fatta persona, la semplicità dichiarata e quasi irriverente di chi arriva da molto lontano. Lui era qui in attesa del “giudizio universale” della sua vita futura. “Vi prego, non chiamatemi Eminenza”. Lo guardo da lontano. L’uomo avanza lentamente verso il Papa per ricevere da Francesco l’imposizione della berretta, la consegna dell’anello e l’assegnazione del Titolo. Lo vedo commuoversi più volte, ma chi non lo farebbe? Lo sguardo basso, le mani strette in cerca di aiuto, il volto tirato, ma la fierezza di sempre. Deve essere un’emozione forte, e anche difficile da tradurre in parole scritte. Quello che ha ricevuto da Francesco sull’altare di San Pietro è il frutto reale della riconoscenza di Santa Madre Chiesa per tutto quello che lui ha fatto in favore degli ultimi nella sua terra natale, dove gli ultimi sono ancora la stragrande maggioranza, e dove lui ha vissuto da povero come loro. Attorno a lui migliaia di fedeli, tantissimi sono napoletani, perché don Mimmo è anche il loro Arcivescovo, ma tantissimi sono venuti dalla Calabria, Satriano, Catanzaro, Soverato, Chiaravalle, insomma la sua gente di sempre, i suoi vecchi amici di allora, i “poveri di Calabria” che non hanno mai smesso di considerarlo il loro Messia.

«La fragilità non è mai una sconfitta, ma un’opportunità per aprire il nostro cuore all’azione di Dio, per permettere alla sua grazia di entrare e trasformare le nostre vite».

È la fragilità che ci rende più umani, e, allo stesso tempo, più capaci di comprendere e amare gli altri, fino a “sacrificare tutto in nome dell’amore”.

Non è forse questo l’insegnamento del Vangelo? Non è forse questo ciò che il martire Gennaro ha vissuto sacrificando la propria vita per la fede in Cristo e per l’amore verso i suoi fratelli? Non è forse questo il più alto esempio di amore? Un amore che non conosce limiti, che è disposto a dare tutto, anche la vita, per il bene degli altri, un amore che non è solo un sentimento, ma un impegno concreto, una scelta di vita».

Dopo mezzo secolo, la Calabria torna ad essere presente in Concistoro con uno dei suoi figli più illustri. Prima di don Mimmo c’era stato Giuseppe Maria Sensi, originario di Cosenza, nominato cardinale da Paolo VI il 24 maggio del 1976, e morto all’età di 94 anni il 26 luglio 2001, dopo essere stato Nunzio Apostolico in Costa Rica dal 1955 al 1957, delegato apostolico in Palestina dal 1957 al 1962 e, infine, Nunzio Apostolico in Irlanda e in Portogallo fino al 1976.

Non so se posso dirlo, ma questa di don Mimmo Battaglia sembra davvero la trasposizione della favola del brutto anatroccolo che diventa cigno bellissimo del grande lago della vita.

Nel cuore della Basilica, dove questa mattina il nuovo cardinale di Satriano celebrerà messa insieme al Pontefice, risuona forte la sua preghiera, che è una poesia bellissima, scritta credo l’altra notte, la notte “prima degli esami”, e che lo racconta meglio di qualunque altra nota letteraria o giornalistica che si possa immaginare su don Mimmo. Leggiamola insieme.

«Eminenza buongiorno». Guai a chiamarlo “Eminenza”. «Sono semplicemente don Mimmo, ti prego». E tu rimani interdetto, perché da piccolo ti hanno insegnato che un cardinale è un “Ministro di Dio” e come tale va salutato e va trattato. Ma è lui che ha stravolto ogni canone possibile di confronto e di relazione con gli altri. Povero tra i poveri. Figura di un pastore prestato alla società come strumento di redenzione e di dialogo, uno di quei sacerdoti che per tutta la sua vita ha inseguito i più poveri per aiutarli, e per dare loro conforto. Uno di quelli che pareva essere destinato a rimanere per sempre e soltanto, e per tutta la vita, un profeta del dolore e della miseria, lui figlio del Sud del mondo, in una regione lontana come la Calabria e in una città così piena di problemi come Catanzaro. E invece, un giorno per uno strano gioco del destino il profeta dei poveri diventa vescovo. Anzi, diventa Arcivescovo di Napoli-Capitale del Sud. Da oggi anche Cardinale.

Una delle Omelie più intense e più suggestive di quelle pronunciate a Napoli da don Mimmo, nella sua veste di Arcivescovo di Napoli è il discorso recentissimo dedicato ai sacerdoti della sua nuova Curia, “Preti, seminatori, pellegrini e testimoni di speranza”. Era il Plenum del clero diocesano, 5 novembre scorso, e in questa preghiera pubblica don Mimmo racconta nei fatti quella che è stata poi la sua vita vera e la sua straordinaria missione pastorale da sacerdote e da prete di campagna.

«Ha senso la mia vita? Ha ancora un significato essere prete oggi? In questa notte che a volte sembra non finire è utile ancora essere vigili come le sentinelle di Isaia? Ne vale ancora la pena? Fratelli miei sono certo che la mia risposta convinta è anche la vostra: si, ne vale la pena, eccome!».

«Essere prete in questo tempo e in questo spazio vale la pena perché il nostro servizio diventa ancora più prezioso, come una fiamma che resiste al vento e continua ad illuminare la strada e a scaldare i cuori di chi non resiste al freddo. In un mondo che spesso assume uno sguardo superficiale, dimenticando il desiderio profondo che abita nell’uomo, e la sete immensa di un amore eterno che lo abita, il prete è colui che si gioca la vita per annunciare la fedeltà di un Amore più forte perfino della morte e di un’eternità che inizia già qui, su questa terra, nella misura in cui viviamo secondo il comandamento nuovo di Gesù, il comandamento dell’amore».

«Essere prete in questo tempo vale la pena perché significa costruire la pace non solo in un mondo lacerato da guerre e dilaniato dai conflitti ma nel cuore dell’uomo, che oggi sappiamo essere così complesso, ferito, affamato, da vivere una continua sofferenza, indecisione, che solo una Parola ferma e certa può donare».

«Sì, vale la pena essere prete perché questo tempo, questa nostra terra ha bisogno più che mai di servi della Parola, persone capaci di camminare sulle strade polverose dell’umanità, portando con sé il mistero di un Dio che si fa vicino, in ogni respiro, in ogni sguardo. Ed è lì, nel donarsi silenzioso del presbitero, che la Parola non sdegna di prendere corpo, fino a diventare pane spezzato, capace di nutrire e ridestare la vita in coloro che se ne nutrono».

Grazie don Mimmo. Grazie Eminenza. (pn)

LA CALABRIA HA DI NUOVO UN CARDINALE
OGGI LA NOMINA DI DON MIMMO BATTAGLIA

di PINO NANO – «Dobbiamo trovare il coraggio di sporcarci davvero le mani, per le cose in cui crediamo, come credenti, come cristiani nel nome del Vangelo, che è la nostra forza, che è la nostra liberazione. Il coraggio di mettersi in gioco. Dobbiamo imparare che di fronte alle sofferenze degli altri, di fronte al dolore degli altri, di fronte alla disperazione degli altri, non bisogna voltarsi mai dall’altra parte. Impara ad esserci. Con la tua vita, con le tue fragilità, anche con le tue contraddizioni, impara a esserci. Accompagna, sii presente. Nel nascondimento della carità. E poi nel dono totale di sé. Perché la vita è donarsi totalmente. Oggi siamo chiamati davvero a riconciliarci con la speranza».

È una meravigliosa favola moderna questa di don Mimmo Battaglia. Oggi lui diventa, per uno strano gioco del destino, cardinale di Santa Romana Chiesa, e siamo certi porterà in Concistoro il profumo intenso di una vita interamente trascorsa in Calabria tra i poveri, e totalmente dedicata ai poveri. È la vittoria, la sua, di una Chiesa in perenne cammino e in perenne ricerca di sé stessa, e lui di questa Chiesa rimane testimone autentico, e protagonista di assoluto rilievo. Cardinale a pieno titolo, dunque, di questa comunità cristiana continuamente in bilico tra i valori evangelici originari e una società sempre più governata e condizionata dall’intelligenza Artificiale. 

La sua è la storia di un sacerdote alla vecchia maniera, che il mese scorso, ritornato in Calabria per qualche giorno, si ferma a salutare tutti uno per uno, atteso acclamato e ammirato come un santo. Effetto questo, certo, del suo passato, del suo trascorso esistenziale, dell’esempio quotidiano offerto alla città di Catanzaro, vissuto tutto in trincea, giorno per giorno, in una terra lontana dal resto del mondo e solo al servizio degli altri. 

«Davanti al Signore risorto, non si può stare se non in piedi. In piedi. Non in ginocchio, quasi schiacciati da quelle che sono le vicende della vita. Né tantomeno seduti, indifferenti e rassegnati per ciò che accade. Vi prego, mai rassegnazione, mai indifferenza, ma: in piedi, con le mani alzate al cielo, mai in segno di resa, sempre in segno di resistenza. E anche quando, per mille ragioni, la vita ti mette all’angolo, da quell’angolo, non smettere mai di gridare la tua voglia di vivere, la tua speranza e la tua sete di riscatto. Perché Dio è dentro a quel grido»

Don Mimmo Battaglia per noi calabresi è uno di quei sacerdoti rari, che non dice mai “ne parliamo domani”. È un uomo che usa le mani per dialogare con gli altri, perché ti vede e prende le tue mani fra le sue, perché ti incontra e ti abbraccia, perché si ferma e ai più vecchi concede una carezza, perché non ha mai tempo per sé stesso.

Don Mimmo è un uomo che però trova il tempo per annullare tutti i suoi impegni istituzionali in agenda quel giorno a Napoli per correre a Mendicino ai funerali del suo vecchio allenatore giovanile di calcio, con cui avevano costruito insieme le passioni e le pulsioni di intere generazioni di ragazzi soli e diseredati. Ecco perché per noi calabresi don Mimmo è stato molto di più di quello che era stato don Pino Puglisi per il quartiere Brancaccio di Palermo. 

«Eminenza buongiorno». Guai a chiamarlo “Eminenza”. «Sono semplicemente don Mimmo, ti prego». E tu rimani interdetto, perché da piccolo ti hanno insegnato che un cardinale è un “Ministro di Dio” e come tale va salutato e va trattato. Ma è lui che ha stravolto ogni canone possibile di confronto e di relazione con gli altri. 

Povero tra i poveri. Figura di un pastore prestato alla società come strumento di redenzione e di dialogo, uno di quei sacerdoti che per tutta la sua vita ha inseguito i più poveri per aiutarli, e per dare loro conforto. Uno di quelli che pareva essere destinato a rimanere per sempre e soltanto, e per tutta la vita, un profeta del dolore e della miseria, lui figlio del Sud del mondo, in una regione lontana come la Calabria e in una città così piena di problemi come Catanzaro. E invece, un giorno per uno strano gioco del destino il profeta dei poveri diventa vescovo. Anzi, diventa Arcivescovo di Napoli-Capitale del Sud. Oggi anche Cardinale. 

Dopo mezzo secolo, la Calabria torna ad essere presente in Concistoro con uno dei suoi figli più illustri. Prima di don Mimmo c’era stato Giuseppe Maria Sensi, originario di Cosenza, nominato cardinale da Paolo VI il 24 maggio del 1976, e morto all’età di 94 anni il 26 luglio 2001, dopo essere stato Nunzio Apostolico in Costa Rica dal 1955 al 1957, delegato apostolico in Palestina dal 1957 al 1962 e, infine, Nunzio Apostolico in Irlanda e in Portogallo fino al 1976.

Non so se posso dirlo, ma questa di don Mimmo Battaglia sembra davvero la trasposizione della favola del brutto anatroccolo che diventa cigno bellissimo del grande lago della vita. 

Se posso paragonare questo sacerdote a qualcosa o a qualcuno, vi dico subito che mi riporta con i ricordi indietro nel tempo, quando per la prima volta incontrai Hélder Pessoa Câmara, famosissimo vescovo delle favelas brasiliane.

«Quando io do da mangiare a un povero – mi raccontò Helder Camara – tutti mi chiamano santo. Ma quando chiedo perché i poveri non hanno cibo, allora tutti mi chiamano comunista». Don Mimmo Battaglia è ancora molto di più di mons. Hélder Câmara. 

Pastore alla vecchia maniera, educato all’ascolto e alla pazienza, imbevuto di mille letture sacre, e quando scrive, don Mimmo, diventa un poeta dell’infinito. Ho letto decine e decine dei suoi scritti, e vi assicuro che è un uomo che scrive col cuore immerso nelle nuvole. Sul sito ufficiale della Curia di Napoli ci sono le sue omelie, i suoi discorsi alla città, le sue preghiere, che sono un testamento per chi verrà dopo di noi.

Migliaia gli attestati di affetto e di stima arrivati in queste ore nel suo paese natale di Satriano. Sono fiumi di parole e di elogio, che arrivano dal sindaco della città capoluogo della Calabria, Nicola Fiorita, dal Governatore Roberto Occhiuto, dal Presidente del Consiglio Regionale Filippo Mancuso, dai sindaci dell’intera regione, dagli amministratori regionali, deputati, senatori, alti dirigenti dello Stato, insieme a tantissima altra gente comune che da queste parti non ha mai avuto voce. 

È la conferma di come don Mimmo sia oggi un simbolo riconosciuto della Chiesa contemporanea, di quella Chiesa che non conosce il senso della mediazione, soprattutto quando c’è da ricordare al mondo esterno della politica che c’è ancora troppa gente che soffre di fame e di stenti. E finalmente, per una volta tanto, non si poteva scegliere un pastore migliore di lui per questa grande capitale europea che è Napoli, e a cui don Mimmo ha regalato e dedicato, l’ultima Pasqua fatta, una delle sue omelie più intense e più belle.

«Signore della Pace, perdona la nostra pace sazia! Perdonaci la pace del ricco, che banchetta sul sopruso del povero. Perdonaci la pace del potente, che si accampa tra le afflizioni del debole. Perdonaci la pace del padrone, che sfrutta il lavoratore. Perdonaci la pace delle città, che disdegnano il lavoro dei campi. Perdonaci la pace della casa, che non guarda chi non ha una casa. Perdonaci la pace della famiglia, che non si fa famiglia per le solitudini altrui».

Don Mimmo, eternamente don Mimmo. Don Mimmo forever. La semplicità e la modestia in persona. La consapevolezza assoluta che la Chiesa ha bisogno di testimoni come lui, e non di protagonisti, ma soprattutto la magia della parola e dell’ascolto. La capacità dell’ascolto. Solo lui è capace di dimostrare che l’ascolto è una dote rara e che a volte vale più di un tesoro. 

Basterebbe raccogliere le mille storie legate alla sua vecchia parrocchia di Catanzaro per capire quante vite lui abbia salvato e quante anime lui abbia redento. La voglia di capire gli altri, ascoltando quello che ti dicono. Il desiderio di amare gli altri, sentendo le storie private di ognuno. L’intimità dell’ascolto, che porta poi alla condivisione di una vita insieme, e don Mimmo da queste parti è stato tutto questo insieme. 

Ecco perché il 12 novembre scorso a Soverato, sua prima uscita pubblica da cardinale designato al prossimo Concistoro, don Mimmo viene salutato e accolto come un Messia. E alla folla presente affida la sua preghiera forse più bella: «Mi capita spesso in questo periodo a Napoli di incontrare tanti giovani, purtroppo anche durante i funerali di giovani morti per mano violenta. Dico loro: “Vi prego, ragazzi, non date mai in appalto la vostra coscienza a nessuno”. Oggi, la Calabria ha bisogno di uomini liberi, appassionati della vita, del Vangelo, appassionati di questa terra. In piedi, mai in ginocchio…».  

Superba, bellissima, vera più che mai. Grazie Padre. (pn)

[Pino Nano è caporedattore Rai Calabria dal 2001 al 2010]