LA CALABRIA E LA SFIDA DA NON PERDERE
NELLA GESTIONE DELLE RISORSE EUROPEE

di GUIDO LEONE – Oggi anche la Calabria  festeggia la Giornata dell’Europa e, quest’anno, segna il 75° della Dichiarazione Schuman da cui nacque la Comunità europea.

Con l’allargamento abbiamo dimostrato che intendevamo veramente rendere l’Europa globale e libera:oggi più di 448 milioni di uomini e donne in 27 democrazie vivono in una Unione che condivide istituzioni e  moneta mentre altri Paesi bussano alla porta.

Certo, la crisi economica e sociale di questi ultimi anni, nel mezzo di una tempesta iniziata all’interno del nostro continente, ha messo alla prova la determinazione comune.

Secondo l’ultimo  sondaggio Eurobarometro cresce il sentimento positivo degli italiani verso l’Ue, passando dal 63% al 67%. Ma la percentuale degli euroscettici è la più alta d’Europa: il 31% dei cittadini ritiene che l’Italia non abbia beneficiato dall’ingresso nella Ue.

Tra gli effetti positivi dell’Unione gli intervistati citano il contributo di Bruxelles al mantenimento della pace e al rafforzamento della sicurezza, primo beneficio per il 35% degli europei. Inoltre, vi è un’ampia convergenza di opinioni sull’idea che gli Stati membri debbano agire in modo più unito per affrontare le sfide globali, dato al 89% per l’Ue e al 88% in Italia. Ed anche sul fatto che l’Ue abbia bisogno di più risorse per affrontare le sfide future, parere condiviso dal 76% degli europei, e dall’82% degli italiani.

La preoccupazione prevalente nella testa degli italiani, il 43%, non è più l’immigrazione, ma il costo della vita. Poi il sostegno all’economia e la creazione di posti di lavoro, 37%. E appena dopo, insieme alla questione difesa, viene la richiesta al Parlamento europeo di occuparsi di lotta alla povertà il 26%.

Ora, non vi è chi non veda e riconosca indispensabile, nella nuova fase politica in cui è entrata la costruzione dell’Europa, la funzione della scuola, perché essa dipenderà dalla possibilità che si realizzi un grande spazio europeo dell’istruzione e della formazione, senza il quale sarà difficile costruirla.

La nuova Europa di questo decennio dovrà irrobustirsi nelle scuole contro i tentativi dei disfattisti ed un antieuropeismo nascente. Gli ambasciatori di questa Europa sono e saranno i giovani. Non sono slogan, ma la pura e semplice realtà.

Basti pensare alla Generazione Erasmus. Se c’è un ambito in cui l’Italia primeggia in Europa, anzi dove occupa proprio la prima posizione, quello è l’interesse degli studenti per l’istruzione internazionale e i viaggi di studio all’estero.

L’Italia è al primo posto fra i Paesi del programma Erasmus+ per numero di persone in partenza per attività di studio e formazione.

Dal 1987 ad oggi, oltre 720.000 studenti italiani hanno partecipato a programmi Erasmus per periodi di studio o tirocinio.

In crescita anche la partecipazione del settore scolastico, che ha chiuso il 2024 con oltre 16.000 studenti e 10.000 insegnanti in mobilità per formazione e scambi e 1.400 istituti scolastici accreditati. Il Paese ha dimostrato anche una forte capacità di attrazione, e si colloca al secondo posto in Europa per accoglienza, con circa 200mila studenti ospitati dal 2024.

Ora fino a poco tempo fa è stato  di moda parlare male dell’Unione Europea (ora certamente di meno dopo i finanziamenti previsti col Recovery Fund per oltre 200 miliardi), criticare con forza la sua mancata coesione, la sua moneta forte e debole nello stesso tempo.

Certo, tutto questo è legittimo ma forse dovremmo anche ricordare l’enorme investimento fatto dall’Ue per la Calabria, compresa la scuola in particolare nel mondo della scuola, dove, nel corso di questi anni, le attività proposte nelle classi, assolutamente gratuite, sono state moltissime e variegate, dal rafforzamento dei servizi e delle strutture per l’istruzione e la formazione al miglioramento dei processi di apprendimento, qualificazione e crescita professionale e per la riqualificazione degli edifici scolastici.

Secondo il Documento di Indirizzo strategico Regionale (Disr) per il ciclo di programmazione in base a cinque obiettivi strategici  della politica di coesione 2021-2027, in Calabria gli investimenti europei per il periodo 2021-2027 ammontano a oltre 3,17 miliardi di euro, con un contributo specifico di 700 milioni di euro dal Fse. La gestione di queste risorse, che vanno ulteriormente rafforzate, costituisce una opportunità straordinaria per far crescere la Calabria, e resta una sfida complessa che la regione sicuramente vincerà.

La posta in gioco, dunque, è alta. Riguarda il futuro dell’Europa Unita, la prosperità e il tenore di vita comune a fronte di tentazioni isolazionistiche nazionali, di involuzioni storiche tali da far ritornare a contrapposizioni disastrose. La costruzione politica dell’Europa non é stata fin qui e non sarà certamente per il futuro il risultato dell’egemonia politica o militare di qualche potenza dominante. La costruzione dell’Ue può e deve essere il risultato di una capacità di condivisione di regole e principi e di una cultura politica democratica partecipata.

Gli interessi dei singoli Stati possono essere meglio difesi da un’Europa più forte, non più debole e divisa. Oltre alla moneta comune e alla Bce servirebbero un’unica politica estera e della difesa (sul modello degli Usa), e un governo unitario – purché efficiente e realmente comunitario – delle strategie economiche e finanziarie. E anche delle politiche educative, con il superamento delle preclusioni contenute negli attuali Trattati e il varo (almeno) di un core curriculum europeo.

Oggi le tre superpotenze planetarie con le quali l’Europa dovrebbe confrontarsi e competere, gli Usa, la Russia e la Cina, hanno sistemi scolastici nazionali, pur ciascuno con caratteristiche peculiari, e – oltre che una lingua nazionale – piani di studio che garantiscono una formazione di base fino ai 18 anni con elementi comuni, che concorrono alla costruzione dell’identità nazionale. I 51 Stati che formano gli Usa hanno una scuola di base comune di dodici anni (il cosiddetto K12), egualmente la Russia e la Cina, malgrado le forti differenze regionali. Si tratta di tre Paesi-continente. L’Europa è invece un continente non-Paese. Anche perché non ha un sistema scolastico che aiuti a darle un’identità forte.

L’alternativa alla disgregazione dell’Europa è insomma più Europa, da costruire a partire dalla scuola, che deve formare cittadini europei. 

Questo rimanda al concetto di cittadinanza europea, alla costruzione di noi stessi, di noi tutti, come cittadini dell’Europa attraverso nuove reciproche relazioni.

Ricordando, altresì, che occorre una nuova pedagogia della cittadinanza perché l’Europa di oggi e del domani non potrà essere realizzata senza o contro i giovani e che non si costruisce l’Europa senza e tantomeno contro il Mediterraneo, dove la nostra Calabria svolge la funzione di regione cerniera a cavallo di due grandi culture.

Sarebbe come formare una persona senza tener conto o contrastando la sua infanzia e la sua adolescenza. (gl)

[Guido Leone è già dirigente tecnico Usr Calabria]

 

PNRR SALUTE, LA CALABRIA È INDIETRO
SERVE ACCELERARE E COLMARE DIVARI

di ANTONIETTA MARIA STRATI – In Calabria sono programmate 63 Case della Comunità, ma solo una è con almeno un servizio dichiarato attivo. È quanto emerso dal monitoraggio indipendente dell’Osservatorio Gimbe sul Servizio sanitario nazionale in merito sull’attuazione della Missione Salute del Pnrr.

Se si guardano i dati degli ospedali di Comunità, invece, si può notare come nella nostra regione ne sono previsti 20, ma nessuno di questi è attivo. Un miglioramento, invece, si riscontra sulla disponibilità dei documenti del Fascicolo sanitario elettronico, dove la Calabria registra un 88%, ma per il consenso alla consultazione solo l’1% della popolazione ha espresso parere positivo.

Dati che mettono nero su bianco quello che, recentemente, la consigliera del PD, Amalia Bruni, aveva denunciato: «i numeri, aggiornati al febbraio 2025 e forniti dalla stessa Regione Calabria, confermano il ritardo: Case di Comunità,  su 84,6 milioni stanziati, spesa al 5,11%; Ospedali di Comunità, su 37,6 milioni, spesa al 2,42%; Grandi Infrastrutture e Ospedali sicuri, 0,87% su oltre 24 milioni; Digitalizzazione DEA di I e II livello, 1,72% su 54,5 milioni; Grandi apparecchiature sanitarie, spesa al 15,5% su 44,7 milioni».

«Il rischio concreto – ha sottolineato – è che, se i fondi non verranno effettivamente spesi e rendicontati nei tempi stabiliti dal cronoprogramma europeo, si blocchino anche le progettazioni in corso, o si decida ancora una volta di drenare risorse dal Fondo di Coesione, già saccheggiato in passato, come nel caso del Ponte sullo Stretto».

Ma, in realtà, non è solo la Calabria a essere indietro, perché solo il 2,7% delle Case di comunità è pienamente operativo, mentre per quanto riguarda gli ospedali di comunità, nessuno ha tutti i servizi attivi e per il fascicolo sanitario elettronico nessuna regione risulta operativa al 100%. Accanto a questo quadro sconfortante, poi, si registrano «marcate diseguaglianze tra le Regioni», ha evidenziato Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe.

«Anche se non incidono direttamente sull’erogazione dei fondi del Pnrr – ha spiegato Cartabellotta – questi step intermedi vanno monitorati con attenzione, perché ritardi accumulati oggi potrebbero compromettere il rispetto delle scadenze europee di domani».

Per il periodo 2021-2025 risultano raggiunti tutti i target previsti: in particolare, al 31 marzo è stato raggiunto il target “Nuovi pazienti che ricevono assistenza domiciliare (terza parte)”, che prevede un ulteriore incremento dei pazienti over 65 da trattare in assistenza domiciliare, al fine di raggiungere la soglia della presa in carico del 10% della popolazione in quella fascia di età.

«Tuttavia – osserva il Presidente – persistono grandi disparità regionali, sia nel numero di assistiti a domicilio, sia nella tipologia di servizi offerti». Infatti, come documentato dal Report Agenas sul monitoraggio del Dm 77 – aggiornato a dicembre 2024 – solo Molise, Provincia Autonoma di Trento, Umbria e Valle D’Aosta garantiscono in tutti i distretti sanitari gli 8 servizi previsti (Figura 1): nelle altre Regioni le principali carenze riguardano l’assistenza del medico e del pediatra di famiglia, l’assistenza specialistica, i servizi socio-assistenziali e la fornitura di farmaci e dispositivi.

Per quanto riguarda la riforma dell’assistenza territoriale, guardando i dati nazionali, emerge come «a tre anni dall’adozione del Dm 77, la riforma dell’assistenza territoriale procede a rilento, con forti diseguaglianze tra le Regioni, in particolare nell’attivazione e nella piena operatività delle Case della Comunità e degli Ospedali di Comunità. Lo confermano i dati elaborati dalla Fondazione Gimbe a partire dal Report Agenas sul monitoraggio del DM 77, aggiornati al 20 dicembre 2024».

«Il potenziamento dell’assistenza territoriale – ha proseguito Cartabellotta – è la chiave per decongestionare ospedali e pronto soccorso e garantire una reale sanità di prossimità. Tuttavia, i dati ufficiali trasmessi dalle Regioni dimostrano che nonostante i fondi già stanziati, il ritmo resta inaccettabilmente lento».

Al 20 dicembre 2024, su 1.717 CdC previste, per 1.068 (62,2%) le Regioni non hanno dichiarato attivo alcun servizio tra quelli previsti dal Dm 77; per 485 strutture (28,2%) è stato dichiarato attivo almeno un servizio e solo per 164 (9,6%) tutti i servizi obbligatori sono stati dichiarati attivi. Di queste ultime, tuttavia, soltanto 46 (2,7% del totale) risultavano pienamente operative, cioè con presenza sia medica che infermieristica.

«Tenendo conto – ha precisato Cartabellotta – che tra le Case della Comunità senza servizi attivi rientrano anche quelle non ancora realizzate o in fase di riconversione, resta evidente il forte ritardo accumulato sulla tabella di marcia e, soprattutto, la distanza abissale tra le Regioni».

Sempre guardando i dati nazionali, «solo quattro Regioni superano il 50% di CdC con almeno un servizio dichiarato attivo: Emilia-Romagna (70,6%), Lombardia (66,7%), Veneto (62,6%) e Marche (55,2%). Sei Regioni si collocano tra il 25% e il 50%: Molise (38,5%), Liguria (33,3%), Piemonte (29,5%), Umbria (27,3%), Toscana (26,9%), Lazio (26,5%)».

«In altre cinque Regioni la percentuale varia dallo 0,8% della Puglia al 5% della Sardegna, mentre in sei Regioni non risulta attiva alcuna CdC. Considerando solo le CdC con tutti i servizi dichiarati attivi, la media nazionale si attesta al 6,9% per quelle prive di personale medico e infermieristico e al 2,7% per quelle pienamente funzionanti. Le differenze tra Regioni dipendono non solo dal completamento delle strutture, ma soprattutto dalla disponibilità di personale. In tutte le Regioni, fatta eccezione per il Molise, la quota di CdC pienamente operative è sempre inferiore rispetto a quelle che hanno attivato tutti i servizi».

Anche sul fronte degli Ospedali di comunità, «al 20 dicembre 2024, dei 568 Ospedali di Comunità previsti, solo 124 (21,8%) risultano avere almeno un servizio attivo (Tabella 2), per un totale di quasi 2.100 posti letto. In termini assoluti, i numeri più alti si registrano in Veneto (n. 43), Lombardia (n. 25) ed Emilia-Romagna (n. 21). Altre dieci Regioni hanno attivato almeno un OdC: dagli 8 della Puglia a un solo OdC in Campania e Sardegna. Otto Regioni restano invece ancora a quota zero».

«Rispetto alle Case della Comunità – ha commentato Cartabellotta – lo stato di attuazione degli Ospedali di Comunità appare ancora più indietro: non solo sul piano strutturale, ma anche perché nessuna Regione ha attivato tutti i servizi previsti dal DM 77». Infatti, per essere pienamente operativi, gli OdC devono garantire presenza medica per almeno 4,5 ore al giorno sei giorni su sette, assistenza infermieristica continuativa (H24 7/7 giorni), la figura del case manager, posti letto per pazienti con demenza o disturbi comportamentali e spazi dedicati alla riabilitazione motoria».

Incoraggianti, invece, i dati sulle Centrali Operative Territoriali, che «risultano attivate in tutte le Regioni. Al 31 dicembre 2024, su 650 Cot programmate, 642 risultavano pienamente funzionanti, di cui 480 hanno contribuito al raggiungimento del target europeo».

Per quanto riguarda il Fascicolo sanitario elettronico, «secondo la Corte dei Conti, il cronoprogramma ha già subìto ritardi: la milestone sulla piena interoperabilità nazionale, inizialmente prevista per giugno 2024, è stata posticipata a dicembre 2024, mentre la digitalizzazione nativa dei documenti è attesa per giugno 2025».

«Senza la piena operatività del Fse su tutto il territorio nazionale e senza il consenso dei cittadini alla consultazione dei documenti – avverte Cartabellotta –  rischiamo di centrare i target solo sulla carta per incassare i fondi, ma di lasciare la digitalizzazione del SSN incompiuta, frammentata e inefficace».

Al 30 novembre 2024, secondo i dati elaborati dal portale Fascicolo Sanitario Elettronico 2.0, nessuna Regione rende disponibili tutte le 16 tipologie di documenti previste dal DM 7 settembre 2023. Il grado di completezza varia sensibilmente tra le Regioni: si va dal 94% di Lazio, Piemonte e Sardegna al 63% di Marche e Puglia.

Al 30 novembre 2024 (al 31 ottobre 2024 per le Marche), solo il 42% dei cittadini ha espresso il consenso alla consultazione del Fse da parte di medici e operatori del SSN, con forti disomogeneità regionali: dall’1% in Abruzzo, Calabria, Campania e Molise all’89% in Emilia-Romagna. Tra le Regioni del Mezzogiorno, solo la Puglia supera la media nazionale (42%) con un tasso di adesione del 71% (Figura 7). «La scarsa adesione da parte dei cittadini – spiega il Presidente – soprattutto nelle Regioni del Mezzogiorno, è un segnale preoccupante di sfiducia nella sicurezza dei dati personali e nella reale utilità del FSE».

«A poco più di un anno dalla rendicontazione finale della Missione Salute del Pnrr – ha spiegato Cartabellotta – l’avanzamento di Case e Ospedali di Comunità procede ancora troppo lentamente e con velocità profondamente diverse tra le Regioni».

Ma il problema principale è che, oltre ai ritardi infrastrutturali, il “pieno funzionamento” delle strutture – requisito indispensabile per la rendicontazione finale – è pesantemente ostacolato dalla carenza di personale sanitario, in particolare infermieristico, una vera emergenza nazionale. Nel caso delle Case della Comunità pesa poi anche l’assenza di un reale coinvolgimento dei medici di famiglia, perno insostituibile dell’assistenza territoriale».

«È, dunque – ha concluso – indispensabile accelerare in maniera sinergica su più fronti, per scongiurare rischi concreti. Il primo, da evitare ad ogni costo, è quello di non raggiungere i target europei e dover restituire il contributo a fondo perduto. Il secondo è di raggiungere il target nazionale, senza però ridurre le diseguaglianze regionali e territoriali, che rischiano anzi di ampliarsi. Il terzo, il più grave, è “portare i soldi a casa” senza produrre benefici reali per cittadini e pazienti, lasciando in eredità solo scatole vuote e una digitalizzazione incompleta, a fronte di un indebitamento scaricato sulle generazioni future». (ams)

IN CALABRIA È GELO DEMOGRAFICO
TRA DENATALITÀ ED EMIGRAZIONE

di GIUSEPPE DE BARTOLO – Man mano che l’Istat aggiorna il Report su natalità e fecondità, come quello rilasciato il 31 marzo scorso, si rafforza sempre di più la convinzione che la denatalità, ovvero la Peste Blanche, come la definiva in un famoso libro degli anni ’70 del secolo scorso lo studioso francese Pierre Chaunu, con qualche eccezione, sia ormai una componente strutturale della nostra società senza distinzioni territoriali.

Vediamo i tratti più salienti che emergono da questo Rapporto. La demografia italiana nel 2024 ha registrato ancora due minimi storici: le nascite si sono ulteriormente ridotte toccando 370mila bambini, 10mila in meno rispetto all’anno precedente; il tasso di natalità è sceso ancora, attestandosi al 6,3 per mille abitanti del 2024 contro il 6,4 del 2023. La fecondità stimata per il 2024 ha toccato 1,18 figli per donna feconda, valore al disotto non solo di quello dello scorso anno (1,20) ma anche del minimo storico di 1,19 figli per donna registrato nel lontano 1995.

La forchetta dei valori regionali è molto ampia, 1,39 figli per donna feconda in Trentino-Alto Adige, 0,91 in Sardegna, valori tutti largamente al di sotto della soglia di sostituzione delle generazioni di 2,1 figli per donna feconda. La contrazione della fecondità riguarda in particolare il Nord e il Mezzogiorno, anche se in quest’ultima ripartizione troviamo tre regioni, Sicilia, Campania e Calabria, con indici di fecondità i più alti in assoluto dopo il Trentino-Alto Adige, dunque con un inverno demografico più temperato.

Questi trend sono il risultato di tre fattori: la diminuzione in corso ormai da anni della propensione delle donne a procreare; l’innalzamento dell’età alla maternità, che a sua volta contribuisce a ridurre sempre di più l’intervallo fecondo; la diminuzione numerica della popolazione femminile in età feconda (15- 49 anni compiuti) che da 14,3 milioni di unità del 1995 è scesa a 11,4 milioni del primo gennaio 2025. Tutto ciò si riverbera sul numero delle nascite in continua e costante riduzione che nel 2024, come già visto, si sono attestate sulle 370mila unità, dunque lontano dalla soglia psicologica del mezzo milione di appena dieci anni fa.

I dati del Report forniscono anche l’occasione per andare oltre la mera analisi descrittiva, spesso privilegiata da molti commentatori, e utilizzare qualche strumento demografico un po’ più sofisticato, come il modello della “popolazione stabile” di Lotka, che consente, in assenza di migrazione, di stimare sia l’intensità della decrescita (mediante il tasso potenziale annuo di decremento naturale) sia la sua velocità (mediante il tempo in anni di dimezzamento della popolazione).

I valori, riportati nella tavola 1, riferentisi al 2024, fotografano la graduatoria del gelo demografico prossimo venturo italiano nelle sue declinazioni territoriali, graduatoria che conferma il Trentino Alto Adige nella posizione migliore a livello nazionale con -1,22% annuo di decremento naturale e 56,4 anni di tempo di dimezzamento della popolazione. A seguire per incremento di disagio troviamo Campania, Sicilia e Calabria, e poi ancora più giù la gran parte delle regioni italiane. Chiudono la graduatoria il Molise, la Valle d’Aosta e la  Sardegna, quest’ultima con gli indici negativi più alti a livello nazionale (-2,47% annuo di decremento naturale e 28 anni per il dimezzamento della sua popolazione).

Questa geografia risulterebbe ulteriormente diversificata addentrandoci nelle singole realtà provinciali. Per la Calabria, per esempio, le provincie di Crotone, Reggio Calabria e Vibo Valentia registrerebbero indicatori di disagio demografico molto temperati (-1,3/-1,4% di decremento naturale annuo e 50-51 anni per il dimezzamento della popolazione) mentre in quella di Catanzaro e Cosenza questo disagio sarebbe molto più intenso (-1,7/-1,8% annuo di decremento naturale e 38/41 anni per il di dimezzamento della popolazione).

Il Report certifica ancora che nel 2024 la popolazione italiana avrebbe avuto una diminuzione maggiore se non fosse stato per il saldo migratorio positivo che ha largamente compensato quello naturale, segnato da un forte segno meno. Un dato confortante è l’aumento della vita media alla nascita pari a 83,4 anni, cinque mesi di vita in più rispetto al 2023, valore che, paradossalmente, facendo lievitare le classi anziane, contribuisce ad accrescere l’indice di invecchiamento della popolazione.

Altri dati su cui riflettere sono l’aumento dell’emigrazione con l’estero in sensibile crescita e le perdite di popolazione nel Mezzogiorno causate dagli spostamenti tra Comuni. Spostamenti che, pur interessando tutte le regioni del Mezzogiorno, riguardano maggiormente la Basilicata e la Calabria, in cui sono stati registrati tassi emigratori negativi rispettivamente del 5 per mille e del 4,6 per mille.

In definitiva tutti questi elementi certificano che l’Italia e le sue regioni sono entrate in un inverno demografico ancora più severo rispetto a qualche anno fa con un invecchiamento molto più pronunciato, tratti che condizioneranno decisamente il prossimo futuro. Ricordiamo che per esempio entro il 2050 l’aumento ulteriore della popolazione anziana renderebbe necessario e urgente adottare le politiche di protezione sociale ad una quota di popolazione sempre più numerosa e per quanto riguarda la fecondità, come ammonito recentemente dallo stesso Istituto di statistica, si starebbe per raggiungere quel punto, la Sardegna, a nostro avviso, lo ha già raggiunto, oltre il quale l’Italia non avrebbe più la capacità d’invertire il trend della denatalità.

Questo declino, come è stato da noi sottolineato anche in altre occasioni potrà essere contrastato solo se la questione demografica sarà assunta a vera e propria emergenza nazionale; costruendo una politica sociale e economica che aiuti la popolazione anziana ad avere un ruolo attivo nella società; che sostenga la famiglia e la procreazione con un insieme razionale di interventi robusti e di lungo periodo; che consideri l’immigrazione, piuttosto che un problema, una vera e propria risorsa da valorizzare attraverso l’accoglienza e l’integrazione. (gdb)

[Courtesy OpenCalabria]

IN CALABRIA IL LAVORO NON MANCA, MA C’È
MOLTA FATICA A TROVARE LE COMPETENZE

di ANTONIETTA MARIA STRATI – «In Calabria il lavoro non manca, ma mancano le competenze». Così Roberto Matragrano, presidente di Confartigianato Calabria, commenta i dati dell’Osservatorio Mpi  (Micro e Piccole Imprese) che fotografano la realtà occupazionale calabrese: un settore che tiene e crea lavoro, ma che fatica sempre più a trovare le competenze necessarie per affrontare le sfide della doppia transizione digitale ed ecologica.

In Calabria, gli occupati dell’artigianato sono 53.301, equamente distribuiti tra lavoratori dipendenti (26.646) e indipendenti (26.655). Gli artigiani rappresentano quasi un quinto (18,7%) dell’intera forza lavoro regionale e contribuiscono al 6,4% del valore aggiunto della Calabria e all’1,8% di quello nazionale: un comparto vitale per l’economia del territorio.

Il 2024 si apre con un timido ma significativo +0,4% nell’occupazione regionale (+2.000 unità), trainato esclusivamente dai lavoratori dipendenti (+8.000), mentre gli indipendenti segnano un calo (-7.000). Il dato si inserisce in un trend triennale (2021-2024) che, nonostante i forti contraccolpi globali – dalla guerra in Ucraina allo shock energetico, fino alla crisi in Medio Oriente – ha visto un aumento dell’occupazione del 3,9% (+20.000 unità), contribuendo alla crescita del Mezzogiorno (+8%).

Il tessuto delle micro e piccole imprese si conferma uno dei principali canali d’accesso al lavoro per i giovani calabresi. Nelle imprese fino a 49 addetti (tra cui rientra l’intero comparto artigiano), la quota di dipendenti under 30 è del 20,1%, contro il 10% delle medie e grandi imprese. Nelle micro imprese con meno di 9 dipendenti la percentuale sale addirittura al 22,9%.

La crescita dell’occupazione si associa ad un rilevante e crescente mismatch tra domanda ed offerta di lavoro, soprattutto se qualificato. Da una analisi dei dati annuali dal Sistema informativo Excelsior di Unioncamere e Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali (2025), nel 2024 nell’artigianato la difficoltà di reperimento arriva al 52,9%, quota superiore di 7,7 punti percentuali alla media delle imprese del 45,2% e in aumento 6 punti percentuali rispetto al 46,9% del 2023. Mentre la difficoltà di reperimento delle micro e piccole imprese si attesta al 47,8% (2,6 punti in più rispetto alla media).

I 10 profili più difficili da trovare per le MPI calabresi- I 10 profili più ricercati (con oltre 200 entrate programmate nel 2024) e più difficili da reperire per le micro -piccole imprese con 1-49 dipendenti tra Professioni tecniche, Impiegati, Professioni qualificate nelle attività commerciali e nei servizi, Operai specializzati e Conduttori impianti, operai di macchinari fissi e mobili, conducenti di veicoli, sono: Tecnici programmatori (75,0%), Montatori di carpenteria metallica (72,9%), Disegnatori industriali (71,4%), Falegnami ed attrezzisti di macchine per la lavorazione del legno (71,1%), Idraulici e posatori di tubazioni idrauliche e di gas (69,0%), Pasticcieri, gelatai e conservieri artigianali (65,6%), Elettricisti nelle costruzioni civili (64,2%), Carpentieri e falegnami nell’edilizia (esclusi i parchettisti) (64,2%), Panettieri e pastai artigianali (63,9%) e Autisti taxi, conduttori automobili, furgoni, altri veicoli trasporto persone (63,9%).

La rivoluzione digitale e la transizione green pongono sfide ancora più complesse. Nel 2024, le MPI calabresi prevedono 13.000 ingressi con richieste di competenze digitali avanzate (cloud computing, big data, intelligenza artificiale, blockchain, IoT), ma quasi la metà di questi profili (47,7%) è difficilmente reperibile. Ancora più critica la situazione nel comparto artigiano, dove il tasso di difficoltà sale al 50,8%.

Sul fronte ambientale, sono 49.000 i lavoratori richiesti dalle MPI con competenze green, ma per oltre 26.000 di queste posizioni (52,6%) non si riesce a trovare personale adeguato. Nell’artigianato, delle 7.100 figure attese con competenze ecologiche, il 56,8% è considerato di difficile reperimento.

Alla luce di questi dati, per Matragrano «se vogliamo rendere le nostre imprese protagoniste della nuova economia, servono investimenti massicci e strutturati nella formazione tecnica e professionale. È fondamentale rafforzare il legame tra scuola, università, enti di formazione e imprese per colmare il divario tra domanda e offerta».

CALDEROLI, IL DECRETO DELEGATO SUI LEP
È IL GRIMALDELLO CHE SPEZZA L’ITALIA

di ERNESTO MANCINIIl Ministro Calderoli ha proposto al Consiglio dei Ministri un disegno di legge per determinare i livelli essenziali delle prestazioni (Lep).

La proposta mira ad ottenere dal Parlamento la delega al Governo per definire questi livelli, adempimento preliminare per l’autonomia regionale differenziata. In pratica, è una delega che il Ministro richiede per se stesso, essendo lui il dominus del procedimento per giungere a tale deleteria autonomia differenziata.

Il Consiglio dei Ministri, stanti i patti di maggioranza per conseguire gli obbiettivi di ciascuna componente politica (premierato, separazione carriere magistrati, autonomia differenziata), ha approvato la proposta ed è molto probabile che il Parlamento, data la corrispondente maggioranza, delegherà il Governo a legiferare.

Sul disegno di legge possono farsi le seguenti osservazioni.

La legge delega ed il Decreto delegato

Seppure lo strumento del decreto delegato appaia formalmente legittimo – si tratta infatti di disciplinare una materia che presenta molti aspetti tecnici, giuridici e finanziari assai complessi – va detto che tale strumento legislativo nelle mani del Ministro Calderoli appare pericoloso e foriero di parecchie insidie per l’unità e l’indivisibilità della Repubblica nonché per l’uguaglianza dei cittadini (artt. 2, 3 e 5 della Costituzione).

Nel disegno di legge-delega, Calderoli prevede nove mesi per la determinazione dei Lep. Considerato che il Ministro utilizzerà il lavoro già svolto dalla Commissione per tali livelli (Clep – Commissione Cassese) c’è da credere che egli arriverà certamente a legiferare nel termine previsto.

Il Ministro non incontrerà al riguardo ostacoli significativi perché i pochi passaggi previsti dalla procedura sono congegnati in modo tale che gli organi preposti al controllo avranno scarsa capacità di incidere sul testo con efficaci emendamenti o con significative correzioni successive. Non lo potrà fare la Conferenza Unificata delle Regioni perché in essa predomina una maggioranza analoga a quella parlamentare; si è già visto come tale maggioranza è stata prona ai diktat di Calderoli al momento dei preliminari pareri sull’autonomia differenziata di fine anno 2023 – primi mesi 2024.

Non lo potranno fare, per gli stessi vincoli di maggioranza, le apposite Commissioni Parlamentari cui il decreto legislativo sarà sottoposto per la prevista valutazione; anche in questo caso si è già visto come la stragrande maggioranza delle qualificate audizioni in Commissione (costituzionalisti, amministrativisti, economisti, autorevoli istituzioni)  contrarie alla indicata prospettiva di autonomia differenziata siano state del tutto non considerate nel testo finale della legge Calderoli n. 86/2024.

Peraltro, in ogni caso, si tratta di valutazioni-pareri da esprimersi in tempi brevissimi (solo 30 giorni) e perciò inaccettabili data la complessità della materia e gli interessi pubblici in gioco. Per giunta si tratterà di pareri non vincolanti sicché il Ministro potrà proseguire disinvoltamente a prescindere dalle valutazioni eventualmente contrarie che, stanti i rapporti di forza politici, non saranno certo prevalenti.

Le materie, le funzioni ed i possibili trasferimenti dallo Stato alle Regioni

Ora va detto che nella bozza di legge-delega si prevedono quattordici “settori organici di materie” all’interno delle quali si intende individuare le “funzioni” ai fini della determinazione delle prestazioni.

Tale settori sono i seguenti: a)principi generali sull’istruzione; b) protezione dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali; c) sicurezza e tutela del lavoro; d) istruzione; e) ricerca scientifica e tecnologica e supporto all’innovazione nei settori produttivi; f) protezione della salute; g) nutrizione; h) organizzazione sportiva; i) pianificazione territoriale; l) porti e aeroporti civili; m) grandi infrastrutture di trasporto e navigazione; n) regolamentazione della comunicazione; o) produzione, trasporto e distribuzione dell’energia a livello nazionale; p) valorizzazione dei beni culturali e ambientali e organizzazione di attività culturali. Viene specificato che è esclusa la protezione della salute (lettera f) poiché i Lea (livelli essenziali di assistenza cioè il Lep della sanità) sono già vigenti.  

Si tratta di quattordici “settori organici di materie” (così li definisce la bozza del disegno legge delega) rispetto alle ventitré materie previste dall’art. 117 della Costituzione. Tuttavia, questa riduzione non è effettiva perché si tratta solo di una mera riclassificazione con altro criterio.

Al riguardo va ricordato che la Corte Costituzionale ha escluso il trasferimento di “materie” dallo Stato alla esclusiva competenza delle Regioni perché ciò è in palese contrasto con la Costituzione (art.117, 3° comma). Ha però ammesso che specifiche funzioni relative a tali materie possano essere trasferite alle regioni che ne facciano richiesta sempre che venga rispettato il principio di sussidiarietà cioè l’obbligo di collocare la funzione nel livello più adeguato (Europa, Stato, Regione, Comuni) secondo le caratteristiche della funzione medesima e le esigenze del “bene comune”.

Ora, siccome i quattordici settori organici si articolano ciascuno in molteplici funzioni e siccome queste possono essere oggetto di trasferimento, ne discende che l’autonomia differenziata può avere una dimensione eclatante fino al punto da privare lo Stato delle funzioni più importanti in favore delle Regioni che ne facciano richiesta.

Un esempio chiarirà meglio quanto andiamo dicendo: Con riguardo al solo settore “istruzione”, si contano nel disegno di legge ben quindici articolazioni (articoli da 4 a 19 tra cui le funzioni relative ai piani di studio, alla formazione delle classi, all’edilizia scolastica, alla formazione personale docente, al diritto allo studio, e molto altro). In ognuna di queste articolazioni sono indicate, a loro volta, decine e decine di funzioni facendo riferimento generico ai titoli delle numerose leggi che vengono richiamate (vedi comma due di ciascun articolo dedicato all’istruzione).

Ne consegue che il numero complessivo delle funzioni dei quattordici settori organici delle materie è amplissimo (oltre 500)sicché è amplissima la possibilità di trasferirle alle Regioni che intendono acquisirle quale forma particolare di autonomia ex art. 116. 3° comma del nuovo titolo V della Costituzione.

La realizzazione del “disegno spacca Italia”

Si potrebbe così realizzare il disegno “criminoso” di Calderoli & co, di spaccare l’Italia assegnando alle regioni del nord che ne fanno richiesta gran parte delle funzioni o comunque le più importanti per garantire loro maggiore potere politico, legislativo ed amministrativo rispetto alle altre Regioni ed allo stesso Stato.

Tutto ciò creerà disordine e caos nell’ordinamento pubblico perché i cittadini, le imprese e le altre organizzazioni sociali, dovranno rivolgersi per l’esercizio dei medesimi diritti civili e sociali o allo Stato o alla Regione a seconda del territorio dove risiedono o verso il quale, per mobilità od altro, intendono esercitare tali diritti. Con l’aggravante di diverse procedure, diversi presupposti  e diverse graduazioni dei diritti stanti le diverse capacità, anche finanziarie, delle regioni favorite con l’autonomia differenziata. Insomma, un ulteriore e distruttivo distacco delle regioni ricche del nord rispetto a quelle del sud. Lo Stato, peraltro, dovrà comunque mantenere gli apparati e le relative spese per gestire la funzioni in riferimento alle Regioni che non si differenziano ed in più perderà capacità imperativa o negoziale con qualsiasi interlocutore, pubblico o privato, interessato alla funzione (concessioni, contratti pubblici, economie di scala, ecc.).

Il decreto delegato come grimaldello per spezzare l’Italia

C’è da temere che nessuno spazio avrà l’applicazione obbiettiva del principio di sussidiarietà secondo cui bisogna valutare con la massima imparzialità a quale livello ottimale si può collocare ogni singola funzione (come si diceva: Europa, Stato, Regione, Comuni). Il Governo, stante la matrice secessionista del Ministro ed il pactum sceleris di cui si è detto, è del tutto sbilanciato verso le regioni (beninteso quelle del nord) e la maggioranza parlamentare, pur di evitare una crisi che porterebbe allo scioglimento anticipato delle Camere, sarà acquiescente al volere del ministro e del partito leghista.

Va pure detto che in astratto la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni è cosa buona perché consente di misurare quanto le autorità pubbliche siano obbligate a garantire in modo uniforme su tutto il territorio nazionale e quanto sia, regione per regione, il distacco o il superamento tra gli attuali livelli e quelli essenziali. Tuttavia, in concreto, nelle mani di un Ministro clamorosamente secessionista, tale determinazione diventa invece il grimaldello per il successivo passaggio alle intese con le regioni del Nord a danno di quelle del Sud notoriamente lontane da tali livelli.

Con l’aggravante che i finanziamenti che  il promesso legislatore prevede per eliminare il gap tra Nord e Sud sono solo teorici ed anzi assolutamente improbabili stante la insufficiente capacità finanziaria dello Stato già  gravemente indebitato; incapacità e debito che si aggraveranno ulteriormente se lo Stato dovrà lasciare gran parte delle entrate fiscali  alle Regioni che pretendono la  differenziazione (il Veneto dopo il referendum farsa del 2017 chiese addirittura l’80% delle entrate fiscali originate nel proprio territorio !!!).

Una battaglia durissima

Si prospetta pertanto una battaglia durissima nella quale si dovranno ancora fare valere nelle Piazze,  nel Parlamento e se del caso ancora davanti al Giudice delle Leggi  i principi costituzionali di unità, indivisibilità della Repubblica ed uguaglianza dei cittadini  e cioè, con espressione univoca e omnicomprensiva “il principio di non frammentarietà” , secondo cui  “quando la funzione attiene agli interessi dell’intera comunità nazionale, la sua cura  non può essere frammentata territorialmente senza compromettere la stessa esistenza di tale comunità, o comunque l’efficienza della funzione” (Sentenza Corte Costituzionale 192/24 in più passaggi ed in particolare al punto 4.2.1.). (em)

(Questo articolo è un contributo al Gruppo di Lavoro dei Comitati NO AD,Tavolo Tecnico NO AD per lo studio e l’approfondimento delle problematiche sui livelli essenziali delle prestazioni)

CHI PERDE IL LAVORO E CHI NON LO TROVA
L’AMAREZZA DI GIOVANI ED EX DIPENDENTI

di ALESSIA TRUZZOLINO – Per una vita ha lavorato come operaio specializzato per una grossa azienda di Lamezia Terme. A 56 anni, però, da un giorno all’altro si è trovato senza un impiego, senza uno stipendio ma anche senza uno scopo da dare alle proprie giornate. Nonostante vivesse da solo, ad un certo punto non è più riuscito a mantenere neanche se stesso. Perché, per quanto specializzato, non c’è posto per un artigiano di più di 50 anni.
Le difficoltà economiche lo hanno costretto a chiedere aiuto ai servizi sociali. «Mi sono accorto che non aveva denaro nemmeno per un biglietto d’autobus. Si vergognava a chiede un passaggio», racconta Antonio Mangiafave, presidente della comunità di volontariato SS Pietro e Paolo – Progetto Gedeone.
Ma, soprattutto, Mangiafave si è accorto che l’uomo versava in uno stato di profonda depressione. «La mancanza di lavoro e di potersi autostenere come aveva fatto per una vita lo tormentava».

A risollevarlo, per un certo periodo di tempo, è stata l’attività di volontariato con il Progetto Gedeone. Oggi l’uomo lavora in nero, sbarca il lunario ma è tutt’altra cosa rispetto alla stabilità e serenità che aveva un tempo.

«Si sopravvive», spiega Antonio Mangiafave che di casi di depressione legata alla mancanza di uno scopo nella vita, di un lavoro che dia un senso alle giornate e porti la tranquillità di uno stipendio, ne ha incontrati diversi negli anni spesi nel Terzo settore.
La depressione si manifesta anche nei giovani laureati. Molti, dopo aver raggiunto il traguardo, si accorgono che la loro laurea non è spendibile nel mondo del lavoro. Sono spesso vittime di lauree senza sbocchi, corsi che nascono e muoiono alla fine del primo quinquennio.
Il caso incontrato da Mangiafave è quello di una giovane di 28 anni, in tasca un pezzo di carta che la rendeva esperta in restauri. All’orizzonte concorsi che dovevano partire e che non sono mai partiti.
Oggi anche lei, dopo aver affrontato una brutta depressione, «sopravvive» con lavori part time che non hanno alcun collegamento con i propri studi.

Sono l’esempio di due generazioni, vittime di un sistema economico fragile, in Calabria più che altrove, e di un disallineamento allarmante tra la formazione scolastica e quello che chiede il mondo del lavoro.
«Oggi – dice Mangiafave – c’è molta formazione e poco lavoro». L’operatore è scettico anche sui risultati del programma Gol (Garanzia di occupabilità dei lavoratori), un’iniziativa finanziata con il Pnrr per rilanciare l’occupazione in Italia e combattere la disoccupazione.
«Dal nostro punto di vista Gol non funziona: ci sono troppi corsi di formazione che non terminano col lavoro».
Un esempio è quello sui servizi socio sanitari. «La richiesta nella formazione è 100, la domanda nel mondo del lavoro è 10», dice Mangiafave.
Cadere nella depressione o in altre forme di disagio psico-sociale è fenomeno ormai molto comune e diffuso a tutte le età. La cura tarda ad arrivare: «Il lavoro rappresenta un pezzo importante in qualsiasi terapia». (at)

[Courtesy LaCNews24]

LA CALABRIA E IL PROBLEMA DEPURAZIONE:
UNA BATTAGLIA CHE SI DEVE VINCERE OGGI

di BRUNO GUALTIERIIn Calabria, terra bellissima e fragile, l’ambiente ha bisogno di essere difeso con determinazione e competenza.

Lo ha fatto recentemente il giornalista Alfonso Naso con un articolo pubblicato sulla Gazzetta del Sud, nel quale ha raccontato con chiarezza che il mancato funzionamento della depurazione produce effetti negativi sul mare, che ne paga le conseguenze. È un esempio di giornalismo che non si limita a descrivere i problemi, ma cerca di smuovere coscienze e responsabilità. E proprio da quel tipo di narrazione parte questa riflessione.

Da anni la Calabria è maglia nera per il trattamento delle acque reflue; con 188 agglomerati urbani fuori norma, situazione questa che ci rende la seconda regione peggiore in Italia. Una condizione che ha portato l’Unione Europea ad aprire diverse procedure d’infrazione, tra cui la 2017/2181, ancora oggi non definita. Le richieste dell’Ue sono precise: monitoraggi continui, sistemi di controllo, validazione dei dati e verifiche indipendenti. Eppure, a distanza di anni, queste azioni restano inattuate.

Se l’inerzia è preoccupante, lo è ancora di più la scelta, reiterata, di non agire. La Regione Calabria, attraverso il Dipartimento Ambiente e Territorio, ha promesso, ma non ha realizzato: il catasto unico degli impianti non è stato completato, i misuratori di portata non sono stati installati, i controlli automatizzati mai attivati. Ancora più grave è che i dati inviati a Ispra/Sintai ogni sei mesi sono incompleti o inutilizzabili ai fini della procedura europea, impedendo di fatto qualsiasi verifica. Nessuna richiesta di audit di conformità è mai stata formalizzata, perché la Regione non ha nemmeno avviato l’iter necessario. Non si può uscire da un’infrazione se prima non si dimostra, per almeno due anni, di rispettare i requisiti, ma se neanche si comincia, è evidente che si è deciso di restare fermi.

E purtroppo non finisce qui: non solo quegli interventi strategici previsti sin dal 2012 – e già finanziati con la Delibera Cipe n. 60 – sono stati ignorati, ma in alcuni casi addirittura osteggiati. Nel 2021, con la Delibera Cipes n. 79, sono stati proposti nuovi finanziamenti per interventi, in sovrapposizione con quelli già previsti anni prima, creando un cortocircuito amministrativo che ha prodotto uno stallo totale: nessun progetto nuovo, nessun completamento del vecchio. Solo spreco di risorse e di tempo.

Lo stesso Piano d’Ambito redatto dall’Arrical, che rappresenta lo strumento operativo per pianificare gli interventi in modo razionale e secondo le direttive europee – dando priorità ai territori con maggiore carico inquinante – è bloccato. Non per mancanza di fondi o di progettualità, ma perché il Dipartimento regionale ne ostacola l’attuazione, impedendo l’avvio delle procedure. È un fatto molto grave, che rischia di vanificare ogni sforzo tecnico e programmatico. A peggiorare il quadro, c’è l’inerzia dell’Assemblea dell’Arrical, che non ha ancora assunto alcuna decisione concreta, paralizzando il sistema proprio nel momento in cui servirebbe il massimo della reattività.

Eppure, sul piano politico, i segnali non sono mancati. Il presidente della Regione, Roberto Occhiuto, ha mostrato sin da subito un atteggiamento deciso, commissariando dove necessario e mettendo la tutela del mare tra le priorità del suo mandato. L’assessore all’Ambiente, Giovanni Calabrese, ha lavorato in stretto contatto con Comuni e Consorzi per sbloccare cantieri e sostenere interventi. Ma quando la burocrazia è lenta o, peggio, ostile, anche la migliore volontà politica rischia di naufragare.

Ogni estate si ripete lo stesso copione: acque inquinate, divieti di balneazione, turisti delusi, cittadini esasperati. E intanto la Regione diffonde dati poco utili, promette controlli che non arrivano mai, rinvia decisioni attese da anni. Il rischio non è solo ambientale o economico, ma anche culturale: si consolida l’idea che la Calabria non sia capace di governare se stessa, che l’emergenza sia la norma. Un’inerzia burocratica che costringe la Giunta Regionale a correre ai ripari all’ultimo minuto, stanziando risorse straordinarie per provare a salvare, almeno in parte, la stagione estiva. Quando invece, con interventi strutturali e tempestivi, l’emergenza non esisterebbe affatto.

Ma non può essere così. I calabresi hanno diritto a un mare pulito, a istituzioni trasparenti e funzionanti. È tempo che la società civile si faccia sentire: comitati, associazioni, tecnici, cittadini. Chi ha responsabilità deve rispondere. E chi vuole cambiare, deve essere messo in condizione di farlo.

Non è un problema tecnico, è una sfida di civiltà. Lo sviluppo turistico, la qualità della vita, la credibilità della Calabria si giocano anche – e soprattutto – nella capacità di risolvere un problema come la depurazione. Un problema che dura da troppo tempo e che può essere superato solo se la volontà politica e il coraggio amministrativo si incontrano davvero.

Il mare calabrese non può più aspettare. E neppure noi. (bg)

[Bruno Gualtieri è già Commissario Straordinario dell’Autorità Rifiuti e Risorse Idriche della Calabria (ARRICal)]

1° MAGGIO, MA NON TUTTI FESTEGGIANO
IL LAVORO NON C’È, I GIOVANI SONO TRADITI

di PINO APRILE – Buon Primo Maggio, Sud. Buon Primo Maggio ai nostri ragazzi costretti a emigrare come i loro padre e i nonni, dopo aver studiato, conquistato livelli di sapere e saper fare che avrebbero dovuto metterli al riparo da quella sorte e invece, paradossalmente, sono diventati una ragione in più per andare via.

Questo non era mai accaduto, al Sud, in tutta la storia dell’umanità, da Neanderthal a Garibaldi e i Savoia. L’emigrazione, prima di allora settentrionale e soprattutto piemontese e veneta, passò al Sud, nella direzione inversa delle risorse meridionali che andavano a finanziare lavoro e infrastrutture in casa dei vincitori della guerra civile.

E non Buon Primo Maggio agli ascari che, nelle università, nei libri di scuola, nei giornali, nelle istituzioni, nei partiti, non spiegano perché i terroni sono costretti a emigrare da quando vennero imprigionati nell’Italia unificata (che andava fatta, non così), come una colonia interna, senza diritto a quanto, a loro spese, era garantito agli altri.

Buon Primo Maggio a quelli che hanno deciso di restare al Sud, nonostante sia più difficile fare le cose facilitate altrove, pure con i soldi rubati al Mezzogiorno dallo Stato e dall’economia razzista del Nord, d’intesa con governi succubi e parlamentari e classe dirigente complice meridionale. Pur senza i trasporti pubblici del Nord (strade, treni, aerei, porti iper-finanziati persino a perdere), fanno lo stesso e spesso anche più e meglio, questi meraviglioso “rimanenti”.

E son sempre di più, perché non vogliono rinunciare al bello e ai sentimenti di casa, del paese, della radice che li rende come sono. Sono quel movimento sociale ed economico che l’etnografo Vito Teti ha definito “Restanza”, una nuova branca dell’antropologia.

E non Buon Primo Maggio a quei meschini che, dalle istituzioni al crimine organizzato, all’invidia per quel che questi eroi civili riescono a realizzare, mettono loro i bastoni fra le ruote, mirano a strappare parte dei meriti e degli utili così miracolosamente prodotti.

Buon Primo Maggio a quelli che, andati via, tornano per nostalgia, per calcolo intelligente (visto cosa c’è “fuori”, scoprono quanto si può “a casa”). E fanno. Non sono un grande flusso, ma sono un fenomeno che non c’era e cresce, mentre diminuisce l’età di quelli che rientrano. Una volta erano professionisti a fine carriera, pensionati che ridavano vita alla casa ormai vuota dei genitori. Oggi sono giovani determinati, che hanno visto mondo e questo ha ridato valore al loro paese, da cui alcuni, magari, erano fuggiti maledicendolo, per le possibilità negate. Adesso, sono loro a dare al paese quelle possibilità.

E non Buon Primo Maggio a chi, alla guida della “Nazione” (ma mi faccia il piacere!, direbbe Totò), vede i dati della disoccupazione al Sud che sono i peggiori d’Europa; della povertà, che è la più profonda e diffusa d’Europa, con le regioni meridionali tutte prime nella classifica di chi sta peggio; vede i dati dello spopolamento massiccio delle città e dei borghi del Sud, anche perché non ci sono le strade, chiudono gli ospedali, le scuole e, “per rimediare”, toglie il reddito di cittadinanza, non incentiva la formazione delle famiglie, non combatte il crollo delle nascite, addirittura finanzia, pure con i soldi dei meridionali, l’emigrazione dei nostri giovani, garantendo loro facilitazioni per l’affitto di casa, sconti e altro, ma al Nord.

Buon Primo Maggio ai tarantini che si sono ribellati alla complicità dei sindacati con i padroni delle acciaierie (tacquero persino sulla Palazzina Laf, dove i “disturbatori” venivano isolati, indotti alla malattia mentale e qualcuno al suicidio). Buon Primo Maggio alla memoria a Massimo Battista, il saggio e coraggioso operaio che non lo accettò, protestò, divulgò, seppe raccogliere intorno a sé altri lavoratori “liberi e pensanti” che non vendettero la dignità e i diritti conquistati con le lotte di tanti prima di loro, a prezzi altissimi.

E Buon Primo a Michele Riondino, che su “La Palazzina Laf” ha fatto un grande film che ci ha reso giustizia; e che con Antonio Diodato e Roy Paci anche quest’anno organizza il Primo Maggio di Taranto, dedicando il concerto a Massimo Battista, ora morto di cancro (Taranto è “terra sacrificale”, nelle mappe dell’Onu). Ricordo quando nacque il Primo Maggio della mia città: ero con Massimo e gli altri, accompagnato dal collega Gianluca Coviello, li intervistavo per scrivere “Il Sud puzza”, in cui li racconto.

E non Buon Primo Maggio ai sindacalisti che si vendettero la storia del sindacato, le vite e i diritti dei loro compagni di lavoro; i politici che sapevano della “Palazzina Laf” e non mossero un dito; i giornalisti, gli amministratori, i sindacalisti che erano a libro paga dell’acciaieria o ponevano la vita degli altri al disotto dei loro vantaggi personali o di fazione o “per quieto vivere” (non dei sacrificati, ovvio).

Trovo inutile continuare, perché penso che ci siamo capiti.

Io credevo di sapere cosa fosse il Primo Maggio, giovane presuntuosello perché giornalista di vent’anni (modestamente, capisciammè). E invece, me lo spiegò un fattorino precario, occasionale e semianalfabeta della Gazzetta del Mezzogiorno, in cui lavoravo (ero stato trasferito da Taranto a Bari). Era cresciuto senza famiglia, orfano, e appena fisicamente in grado, se ne fece una, sfornando figli e campandoli di mille lavoretti, elemosina e tanta Divina Provvidenza. Lo chiamavano, per questo, Gesù. Molto anziano. Io i giorni in cui i giornali chiudono, vedi il Primo Maggio, lavoravo sempre, perché pagavano tre volte tanto e avevo molte cambiali da pagare (mobili, macchina…).

E Gesù venne al giornale anche il Primo Maggio, passava per un saluto, un caffè, una mancia. Era un narratore straordinario, intelligente e arguto.

«Gesù, ma sotto il fascismo?»

«Il Primo Maggio lo festeggiavamo lo stesso. Non potevi in piazza, il comizio… Così, andavamo a Torre a Mare (un borghetto marino alle porte di Bari) e mangiavano le sardine fritte tutti insieme. Se non avevamo i soldi (cioè quasi sempre…), ce li facevamo prestare, ma il Primo Maggio doveva essere festa. Quelli del fascio, vedendo questa gente tutta insieme a far festa, venivano a chiedere: “Beh, come si sta con il Duce?”. “Non ci possiamo lamentare”, rispondevamo noi: infatti, se ti lamentavi, la pagavi cara. “E che state festeggiando: il Primo Maggio dei lavoratori?”. “No”, dicevo e loro restavano disorientati, perché la frase non coincideva con quella “proibita”, “festeggiamo quelli che vivono del lavoro”. Non sapevano che fare e andavano via, con una mezza minaccia e mezza raccomandazione: “Non fate casini, se no…”. Manganello».

«Gesù, ma se t’avessero preso, con tutti quei figli… rischiavi!»

«Sì, lo sapevamo. Ma noi volevamo essere liberi».

E io che credevo di sapere, perché scrivevo, leggevo tanti libri e a vent’anni ero giornalista.

Grazie, Gesù. E Buon Primo Maggio, ma non a tutti, solo a chi vuol essere libero, ma soprattutto vuole che anche gli altri lo siano. E la prima libertà è quella dal bisogno. (pa)

FERMARE LE STRAGI SUI LUOGHI DI LAVORO
CALABRIA TRA LE REGIONI “MAGLIA NERA”

di ANTONIETTA MARIA STRATI – Oggi è il Primo Maggio, la Festa dei Lavoratori, ma la strada per una vera sicurezza sul lavoro è ancora lunga e tortuosa.

«Quella delle morti del lavoro è una piaga che non accenna ad arrestarsi e che, nel nostro Paese ha già mietuto, in questi primi mesi, centinaia di vite, con altrettante famiglie consegnate alla disperazione», ha detto il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in occasione della sua visita a Latina all’Azienda Bsp Pharmaceutica Spa, per la Festa del Lavoro.

Quella che sta avvenendo in Calabria e in Italia, infatti, è una strage silenziosa che non può più essere ignorata: Il 2024 è passato con tre morti sul lavoro al giorno, mentre il primo bimestre del 2025 ha registrato un aumento del 16% delle vittime. Si contano già 138 decessi, 19 in più rispetto allo scorso anno. Di queste, 101 in occasione di lavoro (10 in più rispetto a febbraio 2024) e 37 in itinere (9 in più rispetto a febbraio 2024). Questi i dati dell’Osservatorio Sicurezza sul Lavoro e Ambiente Vega di Mestre, elaborati in occasione della Giornata mondiale per la sicurezza sul lavoro, in cui emerge come la Calabria fa parte delle sette regioni con una incidenza superiore a +25% rispetto alla media nazionale (Im=Indice incidenza medio, pari a 4,2 morti sul lavoro ogni milione di lavoratori).

Nell’ultimo quadriennio, dal 2021 al 2024, sono 4.442 le persone hanno perso la vita sul lavoro in Italia. Il settore delle Costruzioni è quello in cui si conta il maggior numero di decessi con 564 vittime. Le zone con il rischio più alto sono al Centro e al Sud: Basilicata e Umbria sono in zona rossa da quattro anni consecutivi, seguite da Campania e Valle d’Aosta per tre.

Gli aspetti più preoccupanti: gli over 65 sono i più vulnerabili, gli stranieri registrano un tasso di mortalità doppio rispetto agli italiani, sia sul posto di lavoro sia in itinere. 418 le donne che hanno perso la vita sul lavoro.

Per Mauro Rossato, presidente dell’Osservatorio, si tratta di un bilancio «più che drammatico, perché le nostre indagini sono elaborate su dati ufficiali che escludono, quindi, il mercato del lavoro sommerso in cui ovviamente risulta assai difficile indagare. Ma i dati ufficiali da soli parlano di una situazione allarmante. L’incidenza di mortalità rispetto alla popolazione lavorativa non accenna a diminuire. Ciò significa che il rischio di morte per i lavoratori rimane sempre elevato e pressoché invariato negli ultimi anni».

Cosa fare, allora? Il Presidente Mattarella è categorico: «non sono tollerabili né indifferenza né rassegnazione», ma, come evidenziato dal segretario generale della Uil, Pierpaolo Bombardieri, «ogni anno ci sono più di mille morti e 500.000 incidenti: sono numeri da guerra civile».

Anche il Presidente della Repubblica ha riconosciuto – nel corso del suo intervento – come sia «evidente che l’impegno per la sicurezza nel lavoro richiede di essere rafforzato». A tal proposito, la presidente del Consiglio dei ministri, Giorgia Meloni, ha annunciato che, in occasione della Festa dei Lavoratori, il Governo sta preparando un decreto proprio sulla sicurezza sul lavoro, «un lavoro – ha detto Mattarella – che non può essere quello di consegnare alla morte, ma che sia indice di sviluppo, motore di progresso, sia strumento per realizzarsi come persona, come poc’anzi ricordava il Presidente di Unindustria».

«Il lavoro non può separarsi mai dall’idea di persona, dalla unicità e dignità irriducibile di ogni donna e di ogni uomo. Nessuno deve sentirsi scartato o escluso», ha continuato il Presidente della Repubblica, ricordando che «la Repubblica è fondata sul lavoro» e che «il lavoro è radice di libertà, ha animato la nostra democrazia, ha prodotto eguaglianza e, dunque, coesione sociale».

«Il Primo Maggio non è solo festa. È memoria, responsabilità, impegno», ha detto categorica Mariaelena Senese, segretaria generale di Uil Calabria.

«Non si può più accettare che una giornata lavorativa si trasformi in una tragedia familiare – ha sottolineato – ogni morte sul lavoro è una sconfitta per lo Stato e per chiunque continui a ignorare il problema. Ogni giorno si muore cadendo dai tetti, schiacciati da macchine da cantiere, senza protezioni adeguate, senza controlli e senza formazione vera. È intollerabile che queste morti, evitabili, continuino a essere considerate un prezzo accettabile per il profitto».

«Non possiamo più accettare – ha proseguito Mariaelena Senese – un sistema ispettivo ridotto all’osso, in cui gli stessi ispettori devono controllare un’ azienda tessile, un cantiere edile o un’azienda agricola. Non si può vigilare sulla sicurezza senza specialisti nei settori più a rischio. Gli organi ispettivi vanno necessariamente specializzati. Punto!»

«Troppi lavoratori muoiono – ha spiegato – perché non hanno ricevuto una formazione adeguata o perché le certificazioni sono falsificate. Proprio per questo chiediamo un portale regionale digitale che renda tracciabile ogni attestato di formazione. Basta con i fogli di carta che non valgono nulla!».

La Uil Calabria invita tutte le cittadine e i cittadini, i delegati sindacali, le famiglie, le istituzioni a partecipare alla marcia silenziosa organizzata per questa mattina, alle 11, nella zona industriale di Lamezia, per ricordare le due vittime sul lavoro o avvenute nei primi mesi dell’anno proprio in quell’area industriale: Francesco Stella di soli 38 anni e Roberto Falbo di 53 anni.

«Ogni morte sul lavoro è una ferita che non si rimargina. Non vogliamo più piangere operai, madri, padri, giovani che escono di casa per guadagnarsi il pane e non tornano mai più», ha concluso Senese.

Ma non solo in Calabria: a livello nazionale, Cgil, Cisl e Uil hanno organizzato in tre luoghi simbolici (Roma, Casteldaccia (PA) e Montemurlo (PO) una manifestazione dal titolo “Uniti per un lavoro sicuro”, perché è inaccettabile «che ogni giorno si muore sul lavoro», hanno tuonato Cgil nazionale e Inca. (ams)

AL SUD C’È UN “CAMBIO DI PARADIGMA”
COSA SIGNIFICA E LE SUE CONSEGUENZE

di ERCOLE INCALZA – Ricordo spesso la delusione di Pasquale Saraceno, consigliere di Amministrazione della Cassa del Mezzogiorno, fondatore dello Svimez e grande meridionalista, quando nel 1973, dopo praticamente 23 anni di attività della Cassa del Mezzogiorno, precisò che, purtroppo, non era cambiato praticamente nulla e ricordò gli indicatori che erano rimasti quasi identici a quelli del 1950 e cioè: Il reddito pro capite; Il tasso di occupazione; Il costo del denaro e l’accesso al prestito.

Ma, sempre Saraceno, ricordò che il Mezzogiorno possedeva tutte le condizioni per “cambiare paradigma”; si usò proprio la frase “cambiare paradigma” e portò come riferimento, in difesa di questo suo “ottimismo della ragione”, alcuni punti chiave come: La portualità campana ed il suo retroporto ricco di attività commerciali; La elevata produzione agricola della Regione Calabria e la rilevante potenzialità industriale di Gioia Tauro (allora si pensava di realizzare un secondo centro siderurgico); La elevata capacità produttiva della Regione Sicilia e degli hub portuali di Catania e di Palermo; L’avvio dei lavori di costruzione del porto canale di Cagliari, determinante piastra logistica all’interno del bacino del Mediterraneo; La rilevanza strategica del porto di Taranto e del nuovo centro siderurgico; La grande produzione agro alimentare presente nelle Regioni Basilicata, Molise ed Abruzzo.

Sono passati più di cinquanta anni, sì sono passati un numero enorme di anni, però oggi finalmente stiamo misurando davvero un cambiamento di paradigma sostanziale. Tre anni fa, al primo Festival Euromediterraneo svoltosi a Napoli, nelle conclusioni dei lavori fu prodotta la “Carta di Napoli” in cui venne chiaramente denunciato il cambiamento della narrazione del Mezzogiorno ed emersero subito le conferme ed i dati che confermavano un simile cambiamento, emersero i dati che davano ragione alle previsioni di Saraceno e cioè: Il Mezzogiorno stava diventando un riferimento determinante della ricerca, stava diventando un polmone di eccellenze tutte comparabili con analoghe realtà a scala comunitaria ed internazionale; Il Mezzogiorno, anno dopo anno, si confermava come elemento determinante del sistema agro alimentare, un sistema che incideva per oltre il 25% nella formazione del Pil nazionale e che in tale percentuale il Sud era presente con oltre il 50%; Gli Hub portuali ed in modo particolare Gioia Tauro diventava sempre più il porto transhipment più strategico dell’intero Mediterraneo; La Regione Campania aveva al suo interno un Hub logistico, formato dai porti di Napoli e di Salerno e dagli interporti di Nola, Marcianise e di Battipaglia, che lo rendevano, in termini di movimentazione, paragonabile ai grandi Hub comunitari; Crescevano sempre più, proprio nelle attività commerciali e produttive, le Regioni Basilicata, Puglia, Molise ed Abruzzo; Il Mezzogiorno diventava in modo inequivocabile un teatro di crescita del turismo, una crescita testimoniata dalla vera esplosione della domanda passeggeri negli aeroporti del Sud: oltre 50 milioni di passeggeri (un aumento del 30% in soli dieci anni).

Ebbene, questo cambio di paradigma si è ulteriormente consolidato sicuramente grazie anche alla istituzione della Zona Economica Speciale Unica e si potrà ulteriormente rafforzare se le 8 Regioni del Sud cercheranno, in modo sinergico, di: Utilizzare in modo organico ed in tempi certi le risorse già assegnate e disponibili dal Pnrr; Utilizzare le risorse del Fondo di Sviluppo e Coesione 2021 – 2027. Più Istituti di ricerca hanno in più occasioni anticipato che se a questo cambiamento di paradigma facesse seguito anche una misurabile capacità della spesa allora la incidenza del Mezzogiorno nella formazione del Pil del Paese passerebbe dall’attuale soglia del 22% ad oltre il 30 – 32% ed una simile percentuale non rappresenterebbe un dato sporadico di una felice annualità ma diventerebbe un riferimento stabile. (ei)