di ANNA MARIA VENTURA – Nella Biblioteca Gullo, a Macchia di Casal Del manco, il 14 Dicembre, si è tenuta la “Conversazione” sul libro di Anna De Vincenti Il Pozzo Oscuro. Il lavoro tra filosofia e antropologia, Falco, Cosenza, 2016, che ha dato modo di trattare il tema «Il lavoro che c’è e il lavoro che non c’è«. A discutere con l’autrice ed il pubblico sono intervenuti il Prof. Romeo Bufalo, già Docente di Estetica presso l’Unical, il Sindacalista Massimo Covello, il Politico e Avvocato Giuseppe Giudiceandrea. Presenti le rappresentanti dell’ “Associazione Donne e Diritti” di San Giovanni in Fiore. Preziosa la presenza del Vicesindaco Arsenia De Donato, in rappresentanza dell’Amministrazione comunale, che ha espresso parole di encomio verso l’ iniziativa culturale In Biblioteca non solo per leggere – Conversazioni a Macchia. Ad accogliere il pubblico lo storico Peppino Curcio, che, porgendo i saluti iniziali, ha dato inizio ai lavori.
Il libro della De Vincenti è denso di pensiero, ricco di studi e conoscenze che afferiscono al mondo della filosofia, dell’antropologia, della sociologia, senza difettare dell’attenzione al quadro storico, specialmente contemporaneo.
L’autrice vanta una lunga carriera di insegnante di Storia e Filosofia nei licei, ha collaborato con l’Unical nell’ambito della didattica della filosofia, ha ricoperto l’incarico di Vice Presidente della Sfi Calabria e negli anni è stata coordinatrice di diverse fasi delle Olimpiadi della filosofia, da quella cittadina fino a quella internazionale. Si interessa di Filosofia del lavoro, Filosofia di genere e di Inter-cultura. Ha al suo attivo diverse pubblicazioni. Intellettuale raffinata, ha fatto della cultura la sua abitudine di vita e della filosofia e. quindi, dell’amore per il sapere, secondo l’etimo della parola, il suo pane quotidiano. Ma la cosa che più le appartiene è la capacità di trasmettere agli altri le perle del suo sapere. I suoi interventi in convegni, conferenze e dibattiti, che si svolgono nell’ampio panorama culturale del nostro territorio, sono apprezzati per la ricchezza di contenuti e di idee, per la profondità delle riflessioni e per la chiarezza e immediatezza del linguaggio, mediante il quale riesce a far comprendere anche i concetti più difficili. Dice di sè «Ragazza del secolo scorso, ho il desiderio di voler piantare un ulivo per vederlo fiorire anche se non con i miei occhi, perché la vita è un intreccio di tante vite. Il mio orgoglio più grande sono i miei tre splendidi nipoti».
Il pozzo oscuro, titolo del libro, oggetto del dibattito presso la Biblioteca Gullo, fa riferimento all’aneddoto, di cui parla Platone nel Teeteto, della caduta del protofilosofo Talete in un pozzo mentre camminava intento ad osservare le stelle. Il fatto suscitò il riso della servetta tracia che assistette all’evento e. da allora. il filosofo è diventato sinonimo di superficialità ed astrattezza, indicando chi non si occupa delle cose concrete e terrene di ‘questo mondo’, che gli stanno davanti agli occhi, ma contempla cose di un altro mondo. Ma le cose, verosimilmente, stanno in modo diverso. Come sostiene autorevolmente Hans Georg Gadamer, Talete non cadde nel pozzo, ma vi si calò per osservare meglio, protetto dall’oscurità, gli astri, ossia le cose che, ad occhio nudo, con le interferenze proprie del mondo sensibile, non si vedono, ma che tuttavia stanno a fondamento proprio della concretezza delle vicende e dei fenomeni di cui è intessuta la nostra vita quotidiana. Anche l’autrice, con questo libro, si è voluta calare nel pozzo oscuro e secco della riflessione filosofico-antropologica per proiettare più lontano l’occhio teoretico e vedere di più e meglio, al fine di far luce su quello che chiama l’enigma misterioso del lavoro.
E del lavoro, come cifra essenziale dell’umano. tratta la De Vincenti in questo libro, soffermandosi sui molteplici profili sotto i quali può essere indagata questa sfera centrale della vita dell’uomo: da quello filosofico e antropologico a quello economico e giuridico-politico, da quello sociologico a quello psicologico.
Il libro, la cui presentazione è stata scritta da Francesco Totaro, di cui riprende e sviluppa molte posizioni, ruota intorno all’idea che il lavoro è una dimensione fondamentale per la definizione dell’identità individuale e collettiva dell’uomo. Una dimensione in cui la componente “operosa”, quella che rinvia all’érgon, all’opus del mondo antico, riscatta quella ‘penosa’, defatigante, che rinvia invece al pónos, al labor, che ne rimarca l’aspetto servile e fa del lavoro una prestazione umiliante. E tuttavia, ammonisce De Vincenti, non bisogna neanche sovraccaricare la nozione di lavoro fino a farle assumere una valenza onnicomprensiva. Bisogna sempre riconoscere l’eccellenza della persona rispetto al lavoro. La persona è sempre più del lavoro, il lavoro è solo una parte della persona, se pur importante e necessaria. L’equilibrio è dato dalla sintesi nell’umano del contemplare e dell’agire, oltre che del lavorare. Per dirla con Hannah Arendt, la “vita activa” è inestricabilmente fusa con la “vita contemplativa”.
“In una prospettiva filosoficamente ampia, sotto la quale l’autrice sviluppa la sua indagine, il lavoro è umano, definisce cioè l’uomo, se, come dice Carlo Sini, genera un ‘resto’, ossia qualcosa di non immediatamente spendibile o consumabile nell’immediatezza del produrre, ma si conserva per la sua disponibilità ad essere impiegato in futuro in casi simili.
Non ogni movimento ed erogazione di energia fisica da parte di un ‘meccanismo’ o di un organismo animale è “lavoro”. Il lavoro non è, cioè, puro “dispendio”, dissipazione e consumo senza remunerazione e reintegro. Tant’è vero che gli animali non lavorano (nonostante le api, le formiche o i castori facciano impallidire molti architetti ed ingegneri); e non lavorano neanche gli umani la cui attività non realizzi un trasferimento di qualcosa in qualcos’altro. Questo mi sembra il punto teoreticamente cruciale del libro. Perché è il luogo in cui si profila la nascita del “lavoro” come coincidente, grosso modo, con la nascita dell’umano. Uomo e lavoro sono, cioè, cooriginari. Come ha sostenuto, a suo tempo, Jurij Davidov (Il lavoro e la libertà, Torino, 1966) è stato il lavoro come riorganizzazione sensata delle attività operative orientate ad uno scopo a segnare il passaggio dall’animale non-umano all’uomo. In altri termini, il lavoro si insedia nella vita teoretica e nella prassi storico-naturale dell’uomo quando, come sostiene André Leroi-Gourhan, circa un milione di anni fa, i nostri antenati, sulla base di reiterate esperienze ripetitive che essi ogni volta riaffrontavano come se fosse la prima, ‘intuirono’ che potevano costruire uno strumento non impiegabile direttamente per un uso immediato, ma che potesse servire, indirettamente, per azioni future. Scoprirono, cioè, che potevano approntare strumenti per costruire altri strumenti. È la nascita del pensiero riflessivo. Che è anche un modo per sottrarsi alla rigidità meccanica della natura, ossia al mondo della necessità, e guadagnare un margine di ‘operatività’ che è, ad un tempo, un margine di libertà”. (Dalla recensione di Romeo Bufalo, Quotidiano del Sud, 13 Gennaio 2018).
Spazio viene dato poi nel libro alla concezione di Karl Marx, secondo il quale il lavoro è quell’intervento consapevole nel mondo che trasforma l’animale umano-naturale in animale umano-sociale; e che fa di ogni umano un soggetto libero. Soprattutto, attraverso il lavoro l’uomo non solo produce i mezzi della propria esistenza (o sussistenza), ma riproduce se stesso. Di per sé il lavoro non è un male. È il carattere capitalistico tipico della produzione industriale moderna a provocare la disumanizzazione dell’uomo, la sua dipendenza da un lavoro che egli percepisce come non suo, come un’attività in cui non si realizza la sua essenza umana.
«Il lavoro non è più il luogo del riconoscimento di sé, ma dell’alienazione e della reificazione. Perché capitale e lavoro sono separati e contrapposti nella sfera della produzione. La divisione sociale del lavoro fa il resto nel processo di riduzione del proletario moderno allo stato servile. Da questo punto di vista, liberare l’uomo non significa allora liberarsi dal lavoro e del lavoro, sbarazzarsi di esso come di un ingombro fastidioso, ma significa liberarsi del carattere capitalistico del lavoro per restituirgli quella dimensione poietica che ancora aveva quando il lavoro era attività artigianale, in cui il fare era unito al saper-fare». (Dalla recensione di Romeo Bufalo, Quotidiano del Sud, 13 Gennaio 2018).
Dunque: che fare? Come far coesistere necessità e libertà, costrizione e piacere? Già in Marx, scrive l’autrice riprendendo e sviluppando le posizioni di Ferruccio Andolfi, necessità e libertà, nel lavoro, non stanno in una opposizione radicale e irriducibile, ma giungono ad un dignitoso compromesso, nel senso che la liberazione del lavoro deve coesistere con il superamento della sua centralità quasi assoluta. Il lavoro è un aspetto essenziale delle nostre ‘forme di vita’. Ma la vita è più che lavoro.
Oggi i problemi sono tanti. La profonda riorganizzazione del lavoro nell’epoca del globalismo, riducendo significativamente la centralità del lavoro, ha lasciato il posto ad una incertezza di progettualità crescente, ad un vuoto che va riempito, soprattutto in relazione ai soggetti più deboli, agli anziani e alle donne.
La lettura del libro suggerisce ulteriori riflessioni. Abbiamo bisogno di lavoro, è vero, ma, a mio avviso, soprattutto abbiamo bisogno di lavoro dignitoso. Il lavoro è indispensabile ma ancora di più lo è «sentirsi utili e perfino indispensabili», come scriveva Simon Weil, questo è un vero «bisogno vitale dell’anima» di cui è deprivato non solo il disoccupato, ma anche chi si trova intrappolato in un lavoro socialmente inutile o perfino dannoso.
Siamo una civiltà alla ricerca di senso, anche nel lavoro, forse soprattutto nel lavoro, dobbiamo trovare un senso.
Nel sua interpretazione del mito di Sisifo, condannato da Zeus a far rotolare un macigno, dalla base fin sulla cima di una montagna, per poi, una volta raggiunta la cima, vedere la pietra precipitare nuovamente giù, pronta per essere issata nuovamente verso la vetta, Albert Camus fa notare che la pena vera non è tanto legata alla fatica e allo sforzo a cui Sisifo è costretto, neanche alla ripetitività del gesto, ma piuttosto all’assurdità del compito cui Sisifo è condannato, alla sua totale inutilità, alla sua mancanza di senso.
Altro spunto di riflessione che dà il libro è sulle condizioni materiali per il benessere dei lavoratori, che sono ancora di là dall’essere soddisfatte: la sicurezza, un giusto compenso, la piena rappresentanza, la stabilità, la previdenza. Ma sono dell’avviso che le rivendicazioni rispetto a questi temi possano acquistare ancora più forza e ragione se inserite nell’ambito di una lotta collettiva volta alla rivendicazione di un lavoro degno, significativo, utile e sensato. C’è qualcosa di malato in un sistema economico e sociale che non riconosce questo punto. Vale la pena battersi per il lavoro degno e sensato, per un lavoro che non è primariamente merce di scambio in un mercato come un altro, ma una via di umanizzazione, di realizzazione, di crescita individuale e collettiva.
L’apprezzamento sociale è infatti fondamentale, perché è in gran parte attraverso di esso che la persona costruisce la sua autostima. Cosa è, se non il lavoro, ciò che ci lega alla realtà, che ci dà il senso dell’identità personale («sono un insegnante, un fabbro, un medico»), che conferisce valore alle nostre capacità, alla nostra appartenenza sociale? E’ per questo che, in una parola, il lavoro dà la dignità. Sentirsi capaci di fare qualcosa che gli altri apprezzano riempie di significato la propria vita, permette alla persona di avere considerazione di sé e induce a mettere in atto dei comportamenti responsabili, misurati, equilibrati.
Purtroppo i dati sull’occupazione in Italia mettono in luce un fatto assai preoccupante: circa un quarto della popolazione giovanile del nostro Paese non trova lavoro, soprattutto nel Mezzogiorno.
Il quadro ci deve interrogare su quanto la nostra società, le nostre istituzioni, le nostre comunità investano per dare prospettive di presente e di futuro ai giovani. Essi pagano anche il conto di un modello culturale che non promuove a sufficienza la formazione, fatica ad accompagnarli nei passi decisivi della vita e non riesce a offrire motivi di speranza. Conosciamo molto bene l’impatto sulla vita ordinaria di tale situazione: vengono rimandate le scelte di vita e si rimuove dall’orizzonte futuro la generazione di figli. La crisi demografica in corso nel nostro Paese aggrava la situazione. I giovani diventano sempre più marginali. Le giovani donne conoscono un ulteriore peggioramento delle opportunità lavorative e sociali. Preoccupa anche il numero elevato di giovani che lasciano il nostro Sud, le Isole e le aree interne per cercare fortuna nelle aree metropolitane del Nord Italia o che addirittura abbandonano per sempre la terra di origine. Si avverte la fatica di far incontrare la domanda e l’offerta di lavoro, per cui molte professionalità non trovano accoglienza.
Nessuno ha ricette definitive in tasca, nemmeno l’autrice di questo importante libro Il pozzo oscuro., oggetto della “Conversazione” presso la Biblioteca Gullo. «Ma non c’è dubbio – conclude Romeo Bufalo nel suo intervento – che la via prospettata da Anna De Vincenti (e da Totaro, da De Masi, da Rifkin, da Sennet, ecc.), ossia quella di sfruttare le enormi potenzialità della tecnologia da un lato e di immettere forme di creatività intelligente nella prassi del lavoro, rappresenti la direzione giusta o, perlomeno, una delle direzioni giuste, per evitare il collasso e costruire un nuovo e più umano ordine sociale». (rcs)