LA CALABRIA HA DI NUOVO UN CARDINALE
OGGI LA NOMINA DI DON MIMMO BATTAGLIA

di PINO NANO – «Dobbiamo trovare il coraggio di sporcarci davvero le mani, per le cose in cui crediamo, come credenti, come cristiani nel nome del Vangelo, che è la nostra forza, che è la nostra liberazione. Il coraggio di mettersi in gioco. Dobbiamo imparare che di fronte alle sofferenze degli altri, di fronte al dolore degli altri, di fronte alla disperazione degli altri, non bisogna voltarsi mai dall’altra parte. Impara ad esserci. Con la tua vita, con le tue fragilità, anche con le tue contraddizioni, impara a esserci. Accompagna, sii presente. Nel nascondimento della carità. E poi nel dono totale di sé. Perché la vita è donarsi totalmente. Oggi siamo chiamati davvero a riconciliarci con la speranza».

È una meravigliosa favola moderna questa di don Mimmo Battaglia. Oggi lui diventa, per uno strano gioco del destino, cardinale di Santa Romana Chiesa, e siamo certi porterà in Concistoro il profumo intenso di una vita interamente trascorsa in Calabria tra i poveri, e totalmente dedicata ai poveri. È la vittoria, la sua, di una Chiesa in perenne cammino e in perenne ricerca di sé stessa, e lui di questa Chiesa rimane testimone autentico, e protagonista di assoluto rilievo. Cardinale a pieno titolo, dunque, di questa comunità cristiana continuamente in bilico tra i valori evangelici originari e una società sempre più governata e condizionata dall’intelligenza Artificiale. 

La sua è la storia di un sacerdote alla vecchia maniera, che il mese scorso, ritornato in Calabria per qualche giorno, si ferma a salutare tutti uno per uno, atteso acclamato e ammirato come un santo. Effetto questo, certo, del suo passato, del suo trascorso esistenziale, dell’esempio quotidiano offerto alla città di Catanzaro, vissuto tutto in trincea, giorno per giorno, in una terra lontana dal resto del mondo e solo al servizio degli altri. 

«Davanti al Signore risorto, non si può stare se non in piedi. In piedi. Non in ginocchio, quasi schiacciati da quelle che sono le vicende della vita. Né tantomeno seduti, indifferenti e rassegnati per ciò che accade. Vi prego, mai rassegnazione, mai indifferenza, ma: in piedi, con le mani alzate al cielo, mai in segno di resa, sempre in segno di resistenza. E anche quando, per mille ragioni, la vita ti mette all’angolo, da quell’angolo, non smettere mai di gridare la tua voglia di vivere, la tua speranza e la tua sete di riscatto. Perché Dio è dentro a quel grido»

Don Mimmo Battaglia per noi calabresi è uno di quei sacerdoti rari, che non dice mai “ne parliamo domani”. È un uomo che usa le mani per dialogare con gli altri, perché ti vede e prende le tue mani fra le sue, perché ti incontra e ti abbraccia, perché si ferma e ai più vecchi concede una carezza, perché non ha mai tempo per sé stesso.

Don Mimmo è un uomo che però trova il tempo per annullare tutti i suoi impegni istituzionali in agenda quel giorno a Napoli per correre a Mendicino ai funerali del suo vecchio allenatore giovanile di calcio, con cui avevano costruito insieme le passioni e le pulsioni di intere generazioni di ragazzi soli e diseredati. Ecco perché per noi calabresi don Mimmo è stato molto di più di quello che era stato don Pino Puglisi per il quartiere Brancaccio di Palermo. 

«Eminenza buongiorno». Guai a chiamarlo “Eminenza”. «Sono semplicemente don Mimmo, ti prego». E tu rimani interdetto, perché da piccolo ti hanno insegnato che un cardinale è un “Ministro di Dio” e come tale va salutato e va trattato. Ma è lui che ha stravolto ogni canone possibile di confronto e di relazione con gli altri. 

Povero tra i poveri. Figura di un pastore prestato alla società come strumento di redenzione e di dialogo, uno di quei sacerdoti che per tutta la sua vita ha inseguito i più poveri per aiutarli, e per dare loro conforto. Uno di quelli che pareva essere destinato a rimanere per sempre e soltanto, e per tutta la vita, un profeta del dolore e della miseria, lui figlio del Sud del mondo, in una regione lontana come la Calabria e in una città così piena di problemi come Catanzaro. E invece, un giorno per uno strano gioco del destino il profeta dei poveri diventa vescovo. Anzi, diventa Arcivescovo di Napoli-Capitale del Sud. Oggi anche Cardinale. 

Dopo mezzo secolo, la Calabria torna ad essere presente in Concistoro con uno dei suoi figli più illustri. Prima di don Mimmo c’era stato Giuseppe Maria Sensi, originario di Cosenza, nominato cardinale da Paolo VI il 24 maggio del 1976, e morto all’età di 94 anni il 26 luglio 2001, dopo essere stato Nunzio Apostolico in Costa Rica dal 1955 al 1957, delegato apostolico in Palestina dal 1957 al 1962 e, infine, Nunzio Apostolico in Irlanda e in Portogallo fino al 1976.

Non so se posso dirlo, ma questa di don Mimmo Battaglia sembra davvero la trasposizione della favola del brutto anatroccolo che diventa cigno bellissimo del grande lago della vita. 

Se posso paragonare questo sacerdote a qualcosa o a qualcuno, vi dico subito che mi riporta con i ricordi indietro nel tempo, quando per la prima volta incontrai Hélder Pessoa Câmara, famosissimo vescovo delle favelas brasiliane.

«Quando io do da mangiare a un povero – mi raccontò Helder Camara – tutti mi chiamano santo. Ma quando chiedo perché i poveri non hanno cibo, allora tutti mi chiamano comunista». Don Mimmo Battaglia è ancora molto di più di mons. Hélder Câmara. 

Pastore alla vecchia maniera, educato all’ascolto e alla pazienza, imbevuto di mille letture sacre, e quando scrive, don Mimmo, diventa un poeta dell’infinito. Ho letto decine e decine dei suoi scritti, e vi assicuro che è un uomo che scrive col cuore immerso nelle nuvole. Sul sito ufficiale della Curia di Napoli ci sono le sue omelie, i suoi discorsi alla città, le sue preghiere, che sono un testamento per chi verrà dopo di noi.

Migliaia gli attestati di affetto e di stima arrivati in queste ore nel suo paese natale di Satriano. Sono fiumi di parole e di elogio, che arrivano dal sindaco della città capoluogo della Calabria, Nicola Fiorita, dal Governatore Roberto Occhiuto, dal Presidente del Consiglio Regionale Filippo Mancuso, dai sindaci dell’intera regione, dagli amministratori regionali, deputati, senatori, alti dirigenti dello Stato, insieme a tantissima altra gente comune che da queste parti non ha mai avuto voce. 

È la conferma di come don Mimmo sia oggi un simbolo riconosciuto della Chiesa contemporanea, di quella Chiesa che non conosce il senso della mediazione, soprattutto quando c’è da ricordare al mondo esterno della politica che c’è ancora troppa gente che soffre di fame e di stenti. E finalmente, per una volta tanto, non si poteva scegliere un pastore migliore di lui per questa grande capitale europea che è Napoli, e a cui don Mimmo ha regalato e dedicato, l’ultima Pasqua fatta, una delle sue omelie più intense e più belle.

«Signore della Pace, perdona la nostra pace sazia! Perdonaci la pace del ricco, che banchetta sul sopruso del povero. Perdonaci la pace del potente, che si accampa tra le afflizioni del debole. Perdonaci la pace del padrone, che sfrutta il lavoratore. Perdonaci la pace delle città, che disdegnano il lavoro dei campi. Perdonaci la pace della casa, che non guarda chi non ha una casa. Perdonaci la pace della famiglia, che non si fa famiglia per le solitudini altrui».

Don Mimmo, eternamente don Mimmo. Don Mimmo forever. La semplicità e la modestia in persona. La consapevolezza assoluta che la Chiesa ha bisogno di testimoni come lui, e non di protagonisti, ma soprattutto la magia della parola e dell’ascolto. La capacità dell’ascolto. Solo lui è capace di dimostrare che l’ascolto è una dote rara e che a volte vale più di un tesoro. 

Basterebbe raccogliere le mille storie legate alla sua vecchia parrocchia di Catanzaro per capire quante vite lui abbia salvato e quante anime lui abbia redento. La voglia di capire gli altri, ascoltando quello che ti dicono. Il desiderio di amare gli altri, sentendo le storie private di ognuno. L’intimità dell’ascolto, che porta poi alla condivisione di una vita insieme, e don Mimmo da queste parti è stato tutto questo insieme. 

Ecco perché il 12 novembre scorso a Soverato, sua prima uscita pubblica da cardinale designato al prossimo Concistoro, don Mimmo viene salutato e accolto come un Messia. E alla folla presente affida la sua preghiera forse più bella: «Mi capita spesso in questo periodo a Napoli di incontrare tanti giovani, purtroppo anche durante i funerali di giovani morti per mano violenta. Dico loro: “Vi prego, ragazzi, non date mai in appalto la vostra coscienza a nessuno”. Oggi, la Calabria ha bisogno di uomini liberi, appassionati della vita, del Vangelo, appassionati di questa terra. In piedi, mai in ginocchio…».  

Superba, bellissima, vera più che mai. Grazie Padre. (pn)

[Pino Nano è caporedattore Rai Calabria dal 2001 al 2010]

LA CALABRIA PUNTI SULL’AGRO-ECOLOGIA
COSÌ SI VALORIZZANO I PRODOTTI BIO

La Calabria è ai primi posti per agricoltura biologica, ma la maggior parte dei prodotti vengono venduti fuori regione. La Calabria, infatti, il 36,3% della superficie agricola utilizzata è bio, a fronte di una media nazionale pari al 17,4%.

Dati, questi, che dovrebbero portare la Calabria a «puntare sull’agroecologia, che è capace anche di salvaguardare un territorio idrogeologicamente instabile come quello regionale e dovrebbe sviluppare strategie per valorizzare ed incrementare la produzione dei propri prodotti biologici oltre a migliorare i meccanismi di distribuzione e commercio che incentivino il lavoro di qualità», ha detto Anna Parretta, presidente di Legambiente Calabria, nel corso della presentazione del dossier “Stop pesticidi nel piatto”, sottolineando come la presentazione del dossier «è un’occasione per riflettere anche in Calabria, su sistemi alimentari più sani, equi e rispettosi dell’ambiente e della salute umana».

«L’agricoltura biologica – ha detto la presidente – costituisce una risposta sia dal punto di vista della tutela delle risorse naturali e della biodiversità sia per la sua maggiore capacità di adattamento agli effetti negativi dei cambiamenti climatici».

Dal report è emerso come su 5.233 campioni di alimenti analizzati, provenienti sia da agricoltura convenzionale che biologica, emerge una percentuale di irregolarità pari all’1,3%.

Una cifra contenuta ma non di certo rassicurante. Il 41,3% dei campioni, infatti, presenta tracce di uno o più residui di fitofarmaci. Di questi, il 14,9% è classificato come monoresiduo, mentre il 26,3% rientra nella categoria multiresiduo, sollevando preoccupazioni significative. Infatti, la presenza di molteplici residui in un unico alimento può generare effetti additivi e sinergici, con potenziali danni per la salute umana.

Tra gli alimenti più colpiti spicca la frutta, con il 74,1% di campioni contaminati da uno o più residui. Seguono la verdura (34,4%) e i prodotti trasformati (29,6%), con i peperoni (59,5%), seguiti da cereali integrali (57,1%) e dal vino (46,2%).L’uso di insetticidi e fungicidi, come Acetamiprid,BoscalidFludioxonilImazalil, resta prevalente, evidenziando quanto la protezione delle colture sia ancora fortemente legata a sostanze chimiche di sintesi. Importante sottolineare il caso dell’Imazalil, il cui LMR nel 2019, dopo essere stato classificato come probabile cancerogeno dall’Epa  (Agenzia per la Protezione Ambientale degli Stati Uniti d’America), è stato abbassato a 0,01 mg/kg nelle banane e a 4 mg/kg per i limoni mentre per le arance e altri agrumi, è rimasto a 5 mg/kg. ma con l’obbligo di scrivere in etichetta “buccia non edibile”.

Altri ritrovamenti risultano emblematici: un campione di peperoncini ha mostrato la presenza di ben 18 residui diversi, mentre in due campioni di pesche sono stati rilevati rispettivamente 13 e 8 residui.

Eppure, non mancano segnali incoraggianti. Nel settore dei prodotti trasformati, l’olio extravergine di oliva si distingue con altissime percentuali di campioni privi di residui, a conferma della sua eccellenza e del rigore produttivo che caratterizza questa filiera.Anche il vino mostra un trend in positivo: il 53,1% dei campioni analizzati è risultato privo di residui, segnando un miglioramento rispetto al 48,8% dell’anno precedente. Piccoli ma importanti passi in avanti verso una maggiore sostenibilità e qualità. Nonostante ciò, il deterioramento registrato nel comparto della frutta nel 2023 racconta un’altra storia. Le condizioni climatiche, segnate da piogge abbondanti e temperature miti, hanno favorito la proliferazione di micopatologie, costringendo gli agricoltori a un uso massiccio di anticrittogamici per salvare i raccolti.

Altro dato allarmante è quello sui sequestri dei pesticidi illegali. Quasi raddoppiati nel 2023 i pesticidi illegali sequestrati in Europa: 2.040 tonnellate di veleni fuorilegge intercettati dall’Europolgrazie all’operazione “Silver Axe”, sviluppata in Italia dai Carabinieri forestali. Impressionante l’escalation rispetto alla prima operazione fatta nel 2015, quando i sequestri dei pesticidi messi al bando in Europa per la loro pericolosità per la salute erano stati pari a 190 tonnellate. La Cina rimane il primo paese di origine di questi prodotti ma dalle indagini stanno emergendo traffici importanti dalla Turchia.

Numeri e dati che hanno portato l’Associazione a ribadire l’appello di ridurre l’uso di fitofarmaci, non più solo un obiettivo auspicabile, ma una condizione necessaria per salvaguardare l’ambiente, la salute umana e la qualità delle produzioni. Ricordando che l’agroecologia è l’unica via per tutelare gli ecosistemi e contrastare le conseguenze dei cambiamenti climatici. Buone pratiche come rotazioni, sovesci, consociazioni, abbinate all’uso di strumenti digitali e tecniche innovative, possono offrire un modello più sostenibile per il futuro del settore. Di contro, decisioni come quella europea di rinnovare l’autorizzazione al Glifosato per altri dieci anni rappresentano ostacoli significativi alla transizione ecologica, soprattutto considerando l’efficacia ormai comprovata di alternative sostenibili sia dal punto di vista agronomico che economico, come l’acido pelargonico.

«Il quadro che emerge dai dati è preoccupante – ha dichiarato Stefano Ciafani, presidente di Legambiente – ma, allo stesso tempo, rappresenta un’opportunità per riconsiderare il nostro modello agricolo. La mancata adozione sia del Regolamento europeo sull’uso sostenibile dei fitofarmaci (SUR) che di un nuovo Piano di Azione Nazionale (PAN), fermo alla versione del 2014, è un freno inaccettabile per il processo di transizione verso un’agricoltura più sicura e sostenibile. È altresì urgente introdurre una norma che regolamenti il multiresiduo per limitare l’accumulo di più pesticidi in un singolo prodotto alimentare, con il rischio di effetti dannosi per la salute umana».

«Anche il Piano Strategico Nazionale (PSN) per l’attuazione della Pac, pur presentando alcuni segnali positivi – ha proseguito – non sta ancora offrendo i risultati sperati. A quasi un anno dalla sua implementazione, emergono, infatti, difficoltà che ne rallentano l’efficacia, soprattutto rispetto alla diminuzione degli impatti di agricoltura e zootecnia intensive. Sono comunque apprezzabili i passi verso pratiche agricole sostenibili, a partire dall’introduzione degli ecoschemi per la protezione degli impollinatori e gli investimenti nel biologico, fondamentali per aumentare la Superficie Agricola Utilizzata (Sau) e incentivare la nascita di biodistretti».

«Tuttavia – ha concluso – è necessario fare di più, soprattutto per supportare le piccole e medie imprese agricole, garantire un accesso equo alle risorse e promuovere un uso intelligente dei fondi europei, per favorire la transizione verso una produzione alimentare sempre più sana, sostenibile e decarbonizzata».

Per Angelo Gentili, responsabile Agricoltura di Legambiente, «una delle risposte all’allarme relativo all’uso dei fitofarmaci e alla necessità di ridurre l’impatto ambientale dell’agricoltura è sicuramente l’agricoltura biologica, che rappresenta un modello virtuoso di transizione ecologica per le filiere produttive. Basti pensare che i residui nei prodotti biologici sono pochissimi (7% dei campioni analizzati) e dovuti presumibilmente alla contaminazione accidentale».

«L’Italia – ha ricordato – continua a essere un leader europeo con 2,5 milioni di ettari coltivati a biologico, pari al 19,8% della Superficie Agricola Utilizzata (SAU). Tuttavia, per incentivare una crescita maggiore di questo settore e colmare il divario tra domanda e offerta, è fondamentale introdurre strumenti che facilitino i consumatori (bonus per le categorie più fragili, mense bio in ospedali, scuole e università) e riducano i costi per i produttori, a partire dalla certificazione, favorendo l’accesso a pratiche agricole sostenibili».

«Oltre a questo, l’altra proposta cruciale – ha concluso – riguarda l’approvazione di una legge contro le agromafie, che costituiscono una minaccia diretta alla legalità e alla sicurezza delle filiere agroalimentari, alimentando fenomeni come l’utilizzo di pesticidi illegali, il caporalato e i reati ambientali. La protezione del lavoro agricolo e la tutela dell’ambiente devono essere una priorità per costruire un futuro più sano, sostenibile e giusto». (ams)

ASSISTENZA SANITARIA, PER COLPA DELLA
SPESA STORICA IL SUD È SEMPRE IN AGONIA

di PIETRO MASSIMO BUSETTANel 2022, ultimi dati disponibili, i posti residenziali per l’assistenza alle persone che hanno più di 65 anni, delle strutture territoriali, per 1000 residenti anziani sono a Bolzano 42,6 a Trento 36,4 in Italia in media 15,2, in Basilicata 1,4  e in Sicilia 1,2, ultima in classifica.

Anche i pazienti in età pediatrica beneficiano di servizi di assistenza territoriale differenziati su base regionale. Numerosi studi mostrano che i bambini ricoverati frequentemente per asma tendono ad avere meno visite programmate a livello di assistenza territoriale e una minore aderenza alla terapia farmacologica.

Queste evidenze suggeriscono che una carente organizzazione dell’assistenza territoriale e una scarsa accessibilità alle cure possono essere responsabili di un aumentato ricorso alle cure ospedaliere. Su queste basi concettuali, il tasso di ospedalizzazione per asma può essere utilizzato per misurare la qualità dei servizi territoriali in termini di prevenzione, accesso alle cure e trattamento, presupponendo che, al migliorare di queste, diminuisca il ricorso al ricovero in ospedale.

Un argomento analogo vale per la gastroenterite, una malattia comune nei bambini, nei confronti della quale una tempestiva ed efficace cura a livello territoriale pare essere associata a una riduzione del rischio di ospedalizzazione.

E i dati seguono: il tasso di dimissione ospedaliere, per 1000 pazienti in età pediatrica 0-17 anni nel 2021, sempre ultimi dati disponibili, per affetti da gastroenterite vanno dallo 0,32 della Toscana al 2,07 dell’Abruzzo, evidenziando come la qualità dei servizi territoriali anche per i bambini è molto più scadente al Sud come al Nord. 

Questi dati potete trovarli nell’ultimo rapporto Svimez, che dedica un lungo capitolo alla sanità, con una serie di informazioni  a livello regionale che dimostrano, se ce ne fosse ancora bisogno, che il diritto alla salute è diverso a secondo da dove nasci e va diminuendo man mano mano che scendi lo stivale. Tutto ciò porta come è evidente ed è facile immaginare ad una speranza di vita diversa. 

Infatti nell’intera Penisola hanno l’attesa di vita maggiore le province di Trento (84,2 anni) e Bolzano (83,8 anni). Seguono Veneto e Lombardia (83,6 anni), Toscana e Umbria (83,4 anni), Emilia-Romagna e Marche (83,2 anni), secondo l’analisi Eurostat hanno un’aspettativa di vita di 83 anni: Valle d’Aosta, Liguria e Sardegna. Segue con un piccolo scostamento il Lazio, dove l’aspettativa è di 82,9 anni. Mentre sono in fondo alla classifica  l’Abruzzo (82,8 anni), Basilicata (82,7 anni), Puglia (82,2), Calabria (81,7 anni) e Sicilia (81,3 anni). 

Cioè se hai la fortuna di nascere in provincia di Trento in media vivrai  tre anni  in più che se nasci in Sicilia.  Per cui se qualcuno definisce lo Stato italiano ladro di vita dei meridionali nessuno potrà dire che non è vero. Certo ci sarà sempre chi dirà che la responsabilità di tale situazione è di coloro che gestiscono le strutture sanitarie, nella maggior parte dei casi individuati dalla politica. Riportando tutto alla colpa degli stessi meridionali che, come nella vulgata, confermano di essere incapaci, con una classe dirigente e politica corrotta e non adeguata. 

Poi si scopre che il commissariamento di 10 anni della sanità calabra, effettuata dal Governo centrale, non ha portato a grandi miglioramenti e che alla fine il lavoro di recupero lo sta svolgendo Roberto  Occhiuto, Presidente della Regione e calabrese Doc. 

E che i commissari scelti, alcuni emiliano-romagnoli, quindi senza il peccato originale di essere meridionali, non hanno migliorato per nulla la situazione. 

Forse se si smettesse di utilizzare anche in questo campo la spesa storica e si dessero meno risorse alla sanità privata anche di eccellenza, così presente nelle aree settentrionali, si eviterebbero non solo i tanti viaggi della speranza ma che le Regioni del Mezzogiorno li finanziassero, pagando i costi delle cure dei pazienti emigranti.  

Purtroppo il meccanismo della colonia interna, così come funziona nella formazione, visto che le università del Nord continuano a reggersi sulle rette, private o statali, dei ragazzi meridionali, nel ritenere il Sud un bacino dal quale attingere i giovani lavoratori, dal quale trasportare l’energia prodotta dalle raffinerie, dai rigassificatori o adesso dagli impianti solari o eolici, è perfetto anche nell’ambito sanitario. 

E sarà complicato convincere chi è abituato ad un percorso di sfruttamento a farne a meno. Anche gli inglesi che se ne andarono dall’India con un percorso di non violenza promossa dal Mahatma Gandhi furono cacciati con una lunga lotta politica che ha visto l’adozione di diverse strategie tra cui la disobbedienza civile non violenta, ma anche proteste  volente, divisioni interne e pressioni internazionali.

Ovviamente la situazione del Mezzogiorno non è paragonabile, ma non vi è dubbio che se non vi è una presa di coscienza e una consapevolezza diversa il meccanismo rimarrà quello che è sempre stato. (pmb)

[Courtesy Il Quotidiano del Sud –L’Altravoce dell’Italia]

SPOPOLAMENTO: TRA 25 ANNI LA CALABRIA
AVRÀ OLTRE 300MILA ABITANTI IN MENO

di PABLO PETRASSO – Deserto 2050. Dalla Calabria scomparirà un numero di cittadini pari alla somma degli abitanti di Reggio Calabria, di Catanzaro e della nuova città unica di Cosenza.

In poco più di un quarto di secolo la regione scenderà sotto il milione e mezzo di abitanti (1 milione 478mila), 368mila in meno rispetto al 2023. I dati Istat rielaborati nel rapporto Svimez rilanciano il tema del gelo demografico, decrescita destinata ad abbattersi (soprattutto) sul Sud.

Il dato nazionale fa impressione: l’Italia dovrebbe perdere 4,5 milioni di abitanti al 2050. Meno popolata, più vecchia, meno attrattiva. Con casi limite nel Mezzogiorno: l’82% della perdita secca di popolazione nazionale interesserà infatti le regioni meridionali: 3,6 milioni.

Svimez spiega che «alla forte riduzione della popolazione meridionale dovrebbe contribuire un continuo calo delle nascite, dalle 137mila del 2023 alle 101mila del 2050, per la forte contrazione prevista per le donne in età feconda».

La struttura demografica sarà sempre più invecchiata: «In questo scenario, infatti, il Mezzogiorno perderebbe 813mila giovani under 15, quasi un terzo di quelli attuali (-32,1%); la popolazione di 15-64 anni dovrebbe ridursi di 4,1 milioni (-32,1%); gli anziani con 65 anni e più aumenterebbero di 1,3 milioni (+29%)».

Gli indicatori demografici sono una mazzata per le prospettive della Calabria: il rapporto tra la popolazione non attiva (0-15 e oltre 64 anni) e occupati (15-64 anni) sarà il più alto d’Italia nelle proiezioni che guardano al 2050. Uno squilibrio ingestibile tra popolazione da sostenere e componente attiva.

Il guaio è che i problemi sono estesi a tutto il Paese. Anche per il Centro si prevede una decrescita demografica di una certa consistenza:-761mila residenti al 2050 (-6,5% rispetto al 2023). E il Nord-Ovest perderebbe 110mila residenti al 2050, mentre la popolazione del Nord-Est resterebbe sostanzialmente stazionaria. La popolazione dovrebbe crescere in Lombardia (+3,3%), in Emilia Romagna (+2,9%) e in Trentino Alto Adige (+7,4%) grazie al consistente afflusso di immigrati, dal Sud e dall’estero.

L’analisi è drammatica e tocca ovviamente aspetti economici: «Ipotizzando che restino invariati nel periodo il tasso di occupazione e la produttività del lavoro, nel 2050 il Pil nazionale si ridurrebbe del 20,9%; nel Mezzogiorno, anche in ragione della più veloce riduzione della popolazione attiva, la diminuzione sarebbe del -32,1%, il doppio del Centro-Nord (-15,1%). Il Pil pro capite si ridurrebbe nel Sud del 18% e del 13% nel Nord: aumenterebbe così il divario economico tra le due aree».

Svimez va oltre i numeri di un declino che pare inesorabile e prova a indicare qualche traccia per contrastare il gelo demografico. Innanzitutto «consistenti aumenti del tasso di occupazione e della produttività del sistema: una vera sfida in un contesto dominato da una popolazione in età avanzata meno incline a percorrere i sentieri dell’innovazione e delle sfide tecnologiche che rappresentano invece il terreno ideale per le giovani generazioni sempre più sguarnite e meno tutelate».

E poi «un ampio programma di rafforzamento del welfare familiare territoriale, degli strumenti di conciliazione dei tempi di vita-lavoro, dell’offerta dei servizi per l’infanzia, dei sostegni effettivi ai redditi e alla genitorialità, superando la frammentarietà degli interventi».

Altro aspetto centrale è il ribaltamento della «percezione di un pericolo immigrazione, inserendo a pieno titolo le politiche di cittadinanza e integrazione economica e sociale, a partire dai minori, in un progetto che favorisce l’attrazione in Italia di nuove famiglie».

Una sfida nella sfida che, finora, il clima di caccia alle streghe non ha incardinato nella direzione suggerita dagli esperti. (pp)

[Courtesy LaCNews24]

REFERENDUM, È FLOP DI PARTECIPAZIONE
VINCE IL NO, PERÒ IL PROGETTO RIMANE

di MASSIMO CLAUSI – Il dato del referendum sulla fusione di Cosenza, Rende e Castrolibero alla fine è stato clamoroso. 10652 votanti a Rende, 10655 votanti a Cosenza e 3657 votanti a Castrolibero hanno detto ampiamente no al progetto incardinato dal centrodestra regionale. I numeri finali dicono che a Cosenza e si sono stati il ​​69,48% e no il 29,45. A Rende i “si” il 18,12% e i no l’81,43; a Castrolibero i “si” il 25,57 ei no il 73,81% In totale, quindi, il no ha vinto con il 56,81 (13166 voti) contro il 42,45 (9838 voti).

E davvero in pochi alla vigilia erano disposti a scommettere su un’affermazione così netta del no, anche perché il percorso verso la fusione dei tre comuni è davvero ineludibile. Quello che non ha convinto è stato evidentemente il progetto, ammesso ce ne fosse uno.

Un brutto colpo per l’attuale amministrazione regionale che si è fatta promotrice della proposta, nonostante il presidente della giunta, Roberto Occhiuto, abbia preferito rimanere sott’acqua. Non così il fratello, il senatore Mario, che ha cavalcato moltissimo le ragioni del sì con post e dichiarazioni quasi quotidiane.

A salvare il centrodestra regionale dalla clamorosa sconfitta è stato l’atteggiamento dell’opposizione che ha votato in linea con la maggioranza sulla proposta di legge di fusione con l’eccezione di Laghi e Tavernise che si sono astenuti e il no del consigliere del Misto, Antonio Lo Schiavo, in splendida solitudine. Quanto basta per far dire a Sandro Principe di essere dispiaciuto per l’atteggiamento del centrosinistra che avrebbe potuto fare una battaglia caratterizzante contro la destra sul punto.

Il problema di fondo è stata la partecipazione, fiacca anzi fiacchissima che non si può spiegare solo con il progressivo astensionismo che attanaglia la politica. Se questa, infatti, è dato dalla scarsa capacità dei partiti di interpretare le istanze della gente, in un meccanismo di partecipazione diretta come il referendum l’assioma non può reggere.

INFRASTRUTTURE, CALABRIA LA REGIONE
CON PIÙ OPERE STRATEGICHE DA FARE

di ERCOLE INCALZA – Ho fatto un’attenta e capillare analisi su tutti gli interventi di natura infrastrutturale che vanno realizzati nelle varie Regioni del Paese nell’arco del prossimo quinquennio o, al massimo, decennio ed ho trovato che la Regione in cui è previsto il massimo numero di interventi, con la contestuale rilevante esigenza di risorse, è la Regione Calabria.

Vanno, infatti, realizzati i seguenti interventi: Il completamento e la messa in esercizio delle dighe presenti nella Regione (in Calabria ci sono 24 grandi dighe ma alcune non sono completate altre non sono adeguatamente utilizzate); La realizzazione dell’asse ferroviario ad alta velocità – alta capacità Battipaglia – Reggio Calabria; La riqualificazione funzionale dell’asse ferroviario jonico per renderlo omogeneo alla rete nazionale (le caratteristiche attuali sono davvero pessime); La realizzazione del Ponte sullo Stretto; La realizzazione del completamento integrale della strada statale 106 Jonica; La realizzazione di un impianto retroportuale del porto di Gioia Tauro; La realizzazione di un sistema integrato di impianti interportuali con nodi chiave a Corigliano e Castrovillari; La riqualificazione funzionale degli aeroporti e dei relativi accessi di Crotone, Lamezia e Reggio Calabria; La rivisitazione, di intesa con la Regione Basilicata, delle via di accesso e degli impianti interni al Parco nazionale del Pollino.

Di questo rilevante elenco di esigenze allo stato sono disponibili solo le risorse destinate alla realizzazione del Ponte sullo Stretto, una quota di 2,2 miliardi per un tratto, non in Calabria, della Battipaglia – Reggio (la tratta Battipaglia – Romagnano) e 3 miliardi per un ulteriore tratto della Strada Statale 106 Jonica. Invece, effettuando un’analisi dettagliata delle reali esigenze legate ai nove atti strategici prima riportati scopriamo che il valore globale si attesta su un importo di circa 62 miliardi di euro; occorrono, ripeto, 62 miliardi di euro altrimenti continuiamo ad inseguire disegni teorici che, al massimo, arricchiranno i programmi dell’attuale e delle prossime Legislature. Continueranno questi elenchi a far parte di quegli interventi che assicurano, da sempre, sistematicamente il rispetto teorico (ripeto teorico) della soglia del 30% della quota nazionale da assegnare ad interventi nel Mezzogiorno, (una quota che soprattutto nell’ultimo decennio non ha mai superato il 7% – 8%).

La prossima Legge di Stabilità, a differenza delle precedenti, avrà un arco programmatico non limitato a tre anni ma a cinque anni e, quindi, a mio avviso deve essere leggibile sin dal prossimo anno cosa concretamente sia possibile inserire nel quadro programmatico degli interventi da realizzare in Calabria.

Senza dubbio nel 2025 la Legge non potrà prevedere risorse sostanziali perché, purtroppo, in partenza già appesantita da due voci esose come il mantenimento del cuneo fiscale (15 miliardi di euro) e il contenimento del debito pubblico (12 miliardi di euro); cioè in partenza è una Legge di Stabilità praticamente difficilmente utilizzabile per altre finalità; tuttavia dovremmo poter leggere in tale strumento già tre cose: Quali possano essere le reali assegnazioni alla Regione Calabria per il prossimo quinquennio; Quali quote sia possibile ancora garantire, sempre alla Regione, attraverso l’utilizzo di Fondi comunitari; Quali risorse sia possibile attrarre ricorrendo a forme innovative di Partenariato Pubblico Privato

Il Presidente Occhiuto sin dal suo insediamento ha rivendicato, in modo trasparente, la esigenza di concretezza delle azioni dell’organo centrale nei confronti della Calabria, lo ha fatto confrontandosi sistematicamente con il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti e con Il Ministero dell’Economia e delle Finanze, lo ha fatto con l’Anas e con le Ferrovie dello Stato e non posso non riconoscere ad Occhiuto la richiesta formale al Governo di destinare davvero risorse per il Ponte, di destinare davvero risorse per dare continuità alla Strada Statale 106 Jonica, ecc.

Oggi però siamo di fronte ad uno che definisco “anno cerniera” tra un biennio dell’attuale Governo legato al PNRR e che ha lasciato poco alla Regione Calabria ed un prossimo triennio, quello di fine Legislatura, in cui definire, in modo chiaro, un misurabile assetto programmatico.

La Regione Calabria dei nove punti da me riportati in precedenza dispone (almeno lo spero), in modo dettagliato, delle azioni, delle esigenze finanziare e dei empi necessari per dare ad ognuno di loro i crismi della concretezza; in realtà la Regione è in grado di produrre dettagliati Piani Economici Finanziari di ogni intervento utili per poter dare vita a forme di Partenariato Pubblico Privato.

Speriamo che questo “anno cerniera” diventi, lo ripeto fino alla noia, concreto. La Regione Calabria lo merita. (ei)

CITTÀ UNICA, SÌ O NO: OGGI IL REFERENDUM
PER DECIDERE SULLA “GRANDE COSENZA”

di SANTO STRATI – Oggi i cittadini di Cosenza, Rende e Castrolibero sono chiamati ad esprimere con un voto il loro parere sulla fusione dei tre comuni. È un referendum consultivo, quindi non impone vincoli per chi governa, ma risulterà sicuramente utile per mettere a confronto favorevoli e contrari.

E soprattutto aiuterà, forse, a capire perché si è arrivati a un quasi scontro tra chi pensa alla “Grande” Cosenza con la modifica dei confini territoriali e chi invece vuol mantenere lo status quo, con la continuità dell’autonomia (non differenziata…) dei tre comuni. Questa della fusione – su cui abbiamo dedicato ampio spazio accogliendo le varie opinioni e mettendo a confronto le tesi a favore e contro – è una battaglia persa in partenza per tutt’e tre i comuni, qualunque sia l’esito referendario, perché sono state prese decisioni dall’alto senza sondare e ascoltare il territorio.

È tornato in auge il vecchio (formidabile) progetto della Grande Cosenza, che piaceva molto a Beniamino Andreatta, primo Rettore dell’Università della Calabria, ma non si è ritenuto di tenere nella dovuta considerazione le ragioni del No, dei sindaci di Rende e Castrolibero. Si è deciso quindi di chiedere ai cittadini un parere consultivo da esprimere attraverso un voto in piena regola. Un voto che non potrà essere un eventuale veto, ma di cui non si potrà ignorare il risultato.

Tra l’altro, nella scheda, i votanti posso anche esprimere un parere su tre proposte per la nuova denominazione del Comune se dovesse passare la fusione (al di là delle indicazioni referendarie che non hanno, appunto, efficacia di legge). Le proposte sono: a) Cosenza, b) Cosenza-Rende-Castrolibero, c) Nuova Cosenza (ma quest’ultima – permetteteci – sembra più una testata giornalistica che il nome di una Città…). Manca invece, a nostro avviso, la denominazione più consona e indicata, se avverrà – come si pensa – la fusione dei tre comuni: ovvero Grande Cosenza. Senza presunzione per l’utilizzo dell’aggettivo “Grande”, ma con la precisa convinzione che prenderebbe piede davvero una “grande” città, secondo un vecchio futuribile progetto poi naufragato.

Oppure – permettete un ulteriore suggerimento – ancora meglio Cosenza Unica, che rende appunto l’idea una “grande” città che ha allargato il territorio con ambiziosi obiettivi di unicità rispetto alle realtà metropolitane del Sud, guardando alla crescita e al futuro delle nuove generazioni. Quest’ultimo, finalmente, sembra sempre più dipingersi di rosa, visti i continui e brillanti successi di Arcavacata. Certo oltre a sfornare fior di laureati e a formare super specialisti, l’Università dovrebbe diventare anche un centro di “reclutamento” per i propri studenti, individuando, nell’intera regione, opportunità di impiego e di utilizzo delle competenze, con una generosa ricaduta su tutto il territorio. Ma questo è un altro discorso.

Torniamo alla “città unica”: Cosenza – è una facile profezia – è predestinata a diventare la Milano del Mezzogiorno, grazie anche a un’Università di eccellenza a cui guarda tutto il mondo. Andate a contare gli studenti stranieri e chiedete quante sono le domande di ammissione – da tutto il mondo – che purtroppo ogni anno devono venire respinte. E la crescita di Cosenza sarà il volano di sviluppo per l’intera Calabria, se finiscono le rivalità di campanile e si pensa, finalmente, a fare rete tra le province calabresi.

Peccato che i politici locali non abbiano voluto sentire ragione dell’opportunità di includere anche Montalto Uffugo nella “città unica”, visto che mezza Università poggia su quel territorio. Ma a tutto c’è rimedio, se prevale il buon senso e non viene a mancare la volontà politica.

Inutile dire che  bisogna osservare che – evidentemente – ci sarebbero due municipalità che vedranno apparentemente “cancellata” la loro storia, ma in realtà la “Grande Cosenza” – a nostro avviso – costituisce una apprezzabile visione di futuro, soprattutto per le nuove generazioni, nel rispetto delle storie e dei traguardi raggiunti dai rispettivi comuni. (s)

Chi vota

Al referendum consultivo (non è richiesto il raggiungimento di alcun quorum dei votanti) sono chiamati gli elettori dei Comuni di Cosenza, Rende e Castrolibero. Le operazioni di voto inizieranno alle ore 8,00 e termineranno alle 21,00. Le operazioni di scrutinio inizieranno immediatamente dopo la conclusione delle operazioni di voto.

Gli aventi diritto al voto sono 55.717, di cui 25.963 uomini e 29.754 donne. I cittadini dell’Aire (Anagrafe Italiani residenti all’estero) che potrebbero tornare in città per esercitare il diritto di voto, sono 4347. 260 sono, invece, i maggiorenni del secondo semestre 2024.

Saranno 82 le sezioni elettorali sparse sul territorio cittadino. Si ricorda che, in occasione delle ultime consultazioni elettorali europee del giugno 2024, l’ufficio elettorale del Comune comunicò lo spostamento di alcuni seggi elettorali approvato dalla Commissione elettorale Circondariale. In particolare i seggi elettorali n.7, 8 e 9 sono stati trasferiti dall’edificio dell’ex scuola elementare di Donnici Inferiore, “Suor Elena Aiello” (strada Provinciale n. 84) all’edificio di località Bivio Donnici, Strada provinciale 241 (ex SS19) che fa parte dell’Istituto Comprensivo Cosenza 1 Zumbini, attualmente adibito a scuola elementare e media.

Un altro spostamento ha riguardato i seggi elettorali n. 29, 30 e 45 dalla sede della ex scuola di via Francesco Principe, già via Asmara, alla sede della scuola dell’infanzia di Via L. Picciotto, già via Somalia, che fa parte sempre dell’Istituto Comprensivo Cosenza 1 Zumbini. Oltre al seggio ordinario istituito presso l’Ospedale civile dell’Annunziata, saranno in funzione altri 5 seggi speciali (dove saranno raccolti i voti dell’Ospedale, espressi dai pazienti non deambulanti, e nelle case di cura e riposo con più di 100 posti letto). Altri 9 seggi volanti saranno allestiti nelle case di cura e riposo con meno di 100 posti letto. (rcs)

 

 

SFRUTTARE I FONDI DEL PNRR CONTRO
IL CONSUMO DEL SUOLO IN CALABRIA

di GIOVANNI MACCARRONEL’estate ho l’abitudine di lasciare una vaschetta piena d’acqua in giardino. Serve al mio cane per rinfrescarsi durante le giornate di caldo afoso. Siamo alla fine di novembre e quella vaschetta continuo a tenerla in giardino. Il cane ci va spesso perché fuori le temperature sono ancora alte.

Ma cosa sta succedendo. Ovunque si guardi, il clima sembra essere veramente impazzito.  Basta guardarsi attorno per capire che qualcosa è cambiato. I climatologi stimano che l’aumento della temperatura terrestre ha sicuramente un effetto diretto sull’innalzamento della temperatura superficiale dei mari, che si traduce in una maggiore quantità di vapore acqueo nell’atmosfera. Un’atmosfera con più vapore acqueo favorisce l’insorgenza di eventi atmosferici più imprevedibili e impetuosi 

Come più volte segnalato, l’aumento della temperatura terrestre è dovuta principalmente all’attività dell’uomo. L’Ipcc (Intergovernmental Panel on Climate Change, Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico, emanazione dell’Onu) ha fatto notare che esiste un forte legame fra utilizzo di fonti fossili (carbone, petrolio e gas naturale) e l’incremento delle emissioni di gas come anidride carbonica (CO2), metano, protossido di azoto e idrocarburi alogenati che impediscono al calore prodotto dalla terra di ritornare in buona parte nello spazio e fanno salire la temperatura del pianeta (c.d. effetto serra antropico che si aggiunge all’effetto serra naturale).

Bisogna, quindi, fare di tutto per abbandonare le fonti fossili e sviluppare sempre più le fonti di energia rinnovabili. Diversamente, le cose potrebbero presto addirittura peggiorare con l’insorgenza di numerosi processi climatici avversi legati all’innalzamento delle temperature, come ad esempio ridotte precipitazioni, siccità e fenomeni di degradazione del suolo. Inoltre, come abbiamo avuto modo di notare negli ultimi anni, l’aumento della temperatura non ha solo un effetto diretto sul processo di desertificazione. Al contrario, si stima che potrebbe verificarsi un ulteriore aumento della piovosità in certe aree geografiche con un possibile conseguente aumento delle inondazioni in queste zone

È terribile quello che sta accadendo. Pertanto, è subito necessario adottare provvedimenti urgenti per invertire la rotta a causa del riscaldamento globale. Soprattutto, occorre adottare misure coerenti al fine di far tornare il clima globale a qualcosa che si avvicini il più possibile al normale. 

Il problema è che se è vero che i difensori della lotta al mutamento climatico (che oggi si chiama “decarbonizzazione”) pensano che la transizione energetica ed ecologica (cioè il passaggio da un sistema di produzione di energie basato soprattutto sulle fonti fossili – quali il carbone, che ad oggi è la più grande fonte di emissioni globali di carbonio e che ha toccato un +9% nel 2021, il petrolio e il gas naturale – alle fonti rinnovabili) possa avvenire attraverso l’energia solare, l’eolico (inclusi gli impianti off-shore), gli impianti di biometano e la promozione dell’agri-voltaico, è altrettanto vero però che essi rimangono totalmente indifferenti davanti alla considerazione secondo la quale l’interesse sotteso alla realizzazione e alla ricerca di fonti energetiche alternative è normalmente non già quello di tutela ambientale ma quello economico imprenditoriale del soggetto privato ad effettuare un investimento pubblico.

Per cui, in qualche modo, si continua ad avallare un modo di pensare che, attraverso la spinta alla realizzazione e allo sviluppo delle fonti di energia rinnovabili, tutela indirettamente la creazione di uno strumento economico.

Invece, bisognerebbe evitare questa strumentalità al mercato delle fonti rinnovabili. Così come bisognerebbe evitare di pensare ancora oggi che “occorre una severa comparazione tra i diversi interessi coinvolti nel rilascio dei titoli abilitativi — ivi compreso quello paesaggistico — alla realizzazione ed al mantenimento (come nel caso di specie, trattandosi di un procedimento di sanatoria) di un impianto di energia elettrica da fonte rinnovabile. Tale comparazione, infatti, nei casi in cui l’opera progettata o realizzata dal privato ha una espressa qualificazione legale in termini di opera di pubblica utilità, soggetta fra l’altro a finanziamenti agevolati (a pena di decadenza senza il rispetto di tempi adeguati) non può ridursi all’esame dell’ordinaria contrapposizione interesse pubblico/interesse privato, che connota generalmente il tema della compatibilità paesaggistica negli ordinari interventi edilizi, ma impone una valutazione più analitica che si faccia carico di esaminare la complessità degli interessi coinvolti. Ciò in quanto la produzione di energia elettrica da fonte solare è essa stessa attività che contribuisce, sia pur indirettamente, alla salvaguardia dei valori paesaggistici” (cfr. in specie Consiglio di Stato, sez. V, 12 aprile 2021, n. 2983, ma nello stesso senso Consiglio di Stato, sez. VI, 9 giugno 2020, n. 3696 e Consiglio di Stato, sez. VI, 23 marzo 2016, n. 1201).

Lo sviluppo economico imprenditoriale del privato rappresenta certamente un interesse meritevole di tutela (ai sensi dell’art. 41 Cost.), ma non deve necessariamente porsi in modo da compromettere la qualità dell’ambiente e la disponibilità delle risorse naturali, la qualità della vita. A tale soluzione è pervenuto di recente il nostro legislatore che ha provveduto ad integrare l’art.41, secondo cui “la libertà dell’azione economica privata non può danneggiare la salute e l’ambiente“.

In tal senso, del resto, già l’art. 3-quater del “codice dell’ambiente” che, in proposito, ha, per l’appunto, esplicitato la regola per cui, in applicazione del principio dello sviluppo sostenibile, in qualsiasi procedimento amministrativo che comporti il bilanciamento di istanze e interessi pubblici e privati contrapposti, l’interesse alla tutela ambientale deve essere tenuto in prioritaria considerazione nella ponderazione e comparazione degli interessi in gioco.  

Pertanto, per ridurre le emissioni di gas serra e garantire un futuro energetico più pulito e sostenibile, le fonti energetiche alternative sono cruciali. Come già detto in altra occasione, sarebbe auspicabile, però, che tale riduzione non finisca per tradursi in un ulteriore pregiudizio per l’ambiente, la qualità dei paesaggi e in un ulteriore depauperamento delle risorse ecosistemiche (e non solo alimentari) dell’agricoltura.

Pur affermando che le fonti rinnovabili possono dare un forte impulso al cambiamento climatico, si deve tuttavia riconoscere che soprattutto in territori come il nostro, dove la perdita di superficie utile per il settore agricolo è già imponente a causa della cementificazione spinta e l’erosione collinare, l’introduzione di quantità considerevoli di impianti di energia elettrica da fonti rinnovabili (in particolare eolico e fotovoltaico) determinerebbe inesorabilmente uno scenario “catastrofico, “apocalittico”.

La Calabria con i suoi 479.000 ettari si pone tra le regioni italiane con il più alto indice di boscosità. Nell’ultimo cinquantennio, tuttavia, abbiamo avuto una forte perdita di alberi determinata in particolar modo dagli incendi boschivi. Inoltre, nel tempo abbiamo avuto anche una forte perdita di superficie utile per il settore agricolo. Tutto questo è stato in generale determinato dai fenomeni erosivi (molto più evidenti nel versante ionico rispetto a quello tirrenico) a loro volta favoriti dai numerosi e ripetuti incendi estivi che hanno ridotto sensibilmente la buona copertura vegetale di tipo arboreo o arbustivo del nostro territorio. Nello specifico, invece, la perdita di suolo è stato anche determinato dalla cementificazione spinta che negli anni ha sottratto al settore primario imponenti superfici.

Pensate, quindi, cosa potrebbe accadere in futuro se non riuscissimo a fermare l’ulteriore consumo del suolo provocato da un incremento considerevole dei parchi eolici oppure di campi fotovoltaici. Possiamo solo immaginare uno scenario “apocalittico e un territorio completamente devastato dal forte incremento delle aeree impermeabilizzate realizzato anche grazie al d.lgs 29 dicembre 2003, n. 387 che, nel prevedere espressamente all’art. 12, comma 1, che “le opere per la realizzazione degli impianti alimentati da fonti rinnovabili, nonché le opere connesse e le infrastrutture indispensabili alla costruzione e all’esercizio degli stessi impianti, autorizzate ai sensi del comma 3, sono di pubblica utilità”, sostanzialmente spiana la strada all’espropriazione per pochi soldi delle aree agricole.

Quello che addolora è constatare che in futuro con molta probabilità la bellezza dei territori calabresi verrà completamente sacrificata in nome di una riduzione su scala globale del gas ad effetto serra, dietro la quale – dobbiamo proprio dirlo – “agiscono in realtà molto concreti e potenti interessi economici locali delle imprese del settore (finanziati con lauti incentivi statali, a carico della finanza pubblica e delle bollette dei consumatori)”.

Mi auguro che ciò non accada. Anche perché da un certo punto in avanti non ci sarà più modo di tornare indietro. La nostra generazione e soprattutto quella precedente hanno già causato enormi criticità ambientali. Perciò, in futuro, bisogna intervenire energicamente per migliorare le condizioni di vita sul pianeta e garantire alle nuove generazioni l’accesso a un ambiente pulito e salubre (a tal fine gli stati che aderiscono all’Onu si sono infatti impegnati con l’Agenda 2030 a mettere a punto un piano per il miglioramento delle condizioni di vita sul pianeta entro tale data; inoltre, nell’art. 9 della nostra Costituzione recentemente è stato aggiunto: “Tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni.”).

Non c’è più tempo da perdere, dobbiamo mettere a frutto la normativa vigente e, in particolare, l’articolo 9, comma 1 del decreto-legge 31 maggio 2021, n. 77 (convertito con modificazioni dalla legge 29 luglio 2021 n. 108), il quale precisa che “alla realizzazione operativa degli interventi previsti dal Pnrr provvedono le Amministrazioni centrali, le Regioni, le Province autonome di Trento e di Bolzano e gli Enti locali, sulla base delle specifiche competenze istituzionali, ovvero della diversa titolarità degli interventi definita nel Pnrr, attraverso le proprie strutture, ovvero avvalendosi di soggetti attuatori esterni individuati nel Pnrr, ovvero con le modalità previste dalla normativa nazionale ed europea vigente”.

L’attuazione del Pnrr (che è il mezzo con cui, all’interno di ciascuno Stato, si realizzano gli obiettivi di Next Generation Eu) avviene secondo un cronoprogramma con millestones (traguardi) definite e il trasferimento delle risorse avviene periodicamente per tranches, a seguito di un procedimento di verifica del conseguimento da parte dello Stato dei traguardi.

Ogni indugio e ritardo delle amministrazioni pubbliche, compreso le nostre, può compromettere il rispetto del cronoprogramma stabilito, bloccando, alla scadenza prevista, l’erogazione da parte dell’Eu delle tranche di risorse stanziate.

Per cui, compromettere l’attuazione del Pnrr equivale ad impedire ai soggetti attuatori la realizzazione delle Missioni (il Pnrr prevede sette Missioni a loro volta suddivise in sedici componenti e 216 Misure) e, per quello che ci interessa, della Missione 2 relativa ad “Energia rinnovabile, idrogeno, rete e transizione energetica e mobilità sostenibile” che prevede ingenti stanziamenti finalizzati alla crescita delle rinnovabili, al potenziamento delle infrastrutture di rete e all’utilizzo dell’idrogeno che può essere generato anche da rinnovabili e, in tal caso, viene specificamente definito come “verde” per distinguerlo da quello generato da altre fonti.

Con la conseguenza che l’eventuale inerzia amministrativa da parte dei nostri enti locali viene a pregiudicare gravemente la realizzazione di interventi diretti a contribuire alla lotta (globale) ai gas serra, quali l’installazione di impianti diretti allo sfruttamento dell’energia solare, idrica, del vento, geotermica, delle biomasse (come i rifiuti organici), delle onde, delle correnti e delle maree, oppure di interventi finalizzati allo sviluppo della filiera idrogeno verde pari a €3,64 miliardi (di questi, il Governo ha già stanziato €500 milioni per la creazione di 52 Hydrogen Valley in aree industriali dismesse).

Quindi, armiamoci di santa pazienza e vediamo se le istituzioni pubbliche hanno l’intenzione seria di adottare – in tempi brevi – le misure connesse con la tutela dell’ambiente e, soprattutto, se sono in qualche modo in grado di impedire o al massimo di limitare il consumo di territorio e di paesaggio.

“Chi vivrà vedrà” (dalla canzone “Gianna” di Rino Gaetano). Speriamo bene. (gm)

L’ITALIA SI FERMA PER LO SCIOPERO DI
CGIL E UIL, LA CISL NON HA ADERITO

Oggi  tutti in piazza “Per cambiare la manovra di bilancio”. È questo lo slogan della mobilitazione indetta per oggi da Cgil e Uil, con l’obiettivo di chiedere  di cambiare la manovra di bilancio, considerata del tutto inadeguata a risolvere i problemi del paese, e per rivendicare l’aumento del potere d’acquisto di salari e pensioni e il finanziamento di sanità, istruzione, servizi pubblici e politiche industriali.

«Il Governo – si legge in una nota – ci infliggerà 7 anni di austerità con: perdita del potere d’acquisto di lavoratori e pensionati causata da un’inflazione da profitti; crescita della precarietà e del lavoro nero e sommerso; tagli ai servizi pubblici, a partire da Sanità, Istruzione, Trasporto pubblico, Enti locali; rinnovi contrattuali per il pubblico impiego che coprono appena 1/3 dell’inflazione; taglio del cuneo fiscale (con perdite per molti) pagato dagli stessi lavoratori con il maggior gettito Irpef; politiche fiscali che riducono la progressività e che, attraverso condoni e concordati, favoriscono gli evasori; nessun intervento sugli extraprofitti; peggioramento della Legge Monti/Fornero che si applicherà al 99,9% dei lavoratori; insufficiente rivalutazione delle pensioni, con la beffa di un aumento di soli 3 euro al mese per le minime; assenza di una politica industriale e tagli agli investimenti; ritardi nell’attuazione del Pnrr e nessuna strategia per il Mezzogiorno; attacco alla libertà di manifestare il dissenso con il Disegno di Legge Sicurezza».

In Calabria la mobilitazione sarà a Cosenza, a Piazza Kennedy, con il comizio conclusivo a Piazza. G. Carratelli. Presente, anche, la Fillea Cgil Calabria.

«Se non ora, quando?», ha chiesto il segretario generale di Cgil Calabria, Gianfranco Trotta, ospite di Buongiorno Regione, invitando tutti i lavoratori e le lavoratrici calabresi ad aderire allo sciopero, «di scendere in piazza con noi».

«Voglio solo sottolineare il fatto che dalla legge di Bilancio è sparito il Mezzogiorno. Non solo le risorse sono scomparse, ma quando vengono tolte tutte quelle agevolazioni che potevano incentivare le assunzioni, come la decontribuzione del 30%, le aziende se ne accorgeranno a partire dal 1 gennaio 2025, ma nessuno ne parla», ha detto Gianfranco Trotta, segretario generale Cgil Calabria, intervenendo all’assemblea di Cgil Area Vasta svoltasi nei giorni scorsi.

Trotta, intervenendo all’assemblea di Cgil Area Vasta,  ha poi parlato della mancanza di un piano di assunzione per il comparto sanitario, evidenziando le difficoltà nel reclutamento di medici e infermieri e il bisogno urgente di politiche che rispondano alle necessità della Calabria: «Così come in una legge di Bilancio dove mancano i fondi per un piano di assunzione nel comparto sanità, per medici e infermieri. Qui in Calabria abbiamo medici cubani, ma a livello nazionale non ci danno le risorse per un piano di assunzione nel settore sanitario. I calabresi devono scendere in piazza a protestare ancora di più, senza delegare la protesta a nessuno, perché i dati impietosi dell’Inps presentati ieri ci dicono che la realtà è ben diversa rispetto ai TikTok e agli annunci a cui assistiamo ogni giorno».

«Per il nostro settore – ha spiegato Simone Celebre, segretario generale Fillea Cgil Calabria –  gli obiettivi e le ragioni della mobilitazione di venerdì sono: stop alle morti sui posti di lavoro, una nuova e più giusta riforma fiscale e un nuovo modello sociale».

«Come Fillea Cgil – ha aggiunto – venerdì scenderemo in piazza, con pullman provenienti da tutte le province calabresi, perché la salute e la sicurezza sul lavoro devono diventare un vincolo per poter esercitare l’attività d’impresa. È necessario cancellare le leggi che negli anni hanno reso il lavoro precario e frammentato, così come bisogna superare la logica del subappalto a cascata e ripristinare la parità di trattamento economico e normativo per le lavoratrici e i lavoratori di tutti gli appalti pubblici e privati».

«Questo “sacrificio economico” – ha proseguito – chiesto a tutti i lavoratori dell’intero settore delle costruzioni servirà anche per ribadire il nostro categorico No al lavoro senza un’adeguata formazione e diritto alla formazione continua per tutte le lavoratrici e i lavoratori. Saremo in piazza soprattutto per ribadire, per l’ennesima volta, che l’istituzione della “patente a crediti” non basta a risolvere la piaga degli infortuni mortali e il problema della sicurezza nei cantieri, una misura simbolica, senza un reale impatto sui luoghi di lavoro».

«Per noi è importante introdurre il reato di omicidio colposo sui luoghi di lavoro – ha concluso – garantire il diritto delle lavoratrici e dei lavoratori di eleggere in tutti i luoghi di lavoro i propri rappresentanti per la sicurezza (RLS) e, infine, istituire una procura speciale che si possa occupare solo ed esclusivamente degli infortuni mortali sui luoghi di lavoro».

«Riteniamo che questa mobilitazione rappresenti un momento cruciale per dare voce alle tante istanze sociali, economiche e lavorative che attraversano la nostra regione e l’intero Paese», hanno detto i consiglieri regionali del Partito Democratico Calabria, annunciando la propria adesione alla manifestazione. 

«Temi come il diritto al lavoro dignitoso, la sanità pubblica – hanno spiegato – il potenziamento dei servizi pubblici, il sostegno alle fasce più fragili della popolazione e la lotta contro le disuguaglianze sono da sempre al centro delle nostre battaglie politiche. L’adesione a questa giornata di lotta è, dunque, un atto di responsabilità nei confronti di quei cittadini che ogni giorno chiedono un futuro più giusto, equo e sostenibile. Ci schieriamo al loro fianco, per riaffermare con forza la necessità di politiche pubbliche capaci di garantire crescita, coesione sociale e rispetto dei diritti».

«Ribadiamo che c’è una necessità urgente, in una fase così particolare e complicata, che il popolo calabrese dia sostegno a questa manifestazione. Bisogna mobilitarsi per spostare in avanti la discussione e risolvere le questioni che stiamo affrontando, a partire dal lavoro. Soprattutto dopo aver visto i report che ci sono stati consegnati ieri, nel rendiconto sociale dell’Inps, che evidenziano le problematiche che stiamo denunciando: persone che abbandonano questa terra, il tema dei contratti a tempo determinato e le difficoltà che questa situazione comporta», ha detto Enzo Scalese, segretario generale Cgil Area Vasta nell’assemblea territoriale organizzata in vista della mobilitazione del 29 novembre.

«Il collegato al lavoro è uno degli esempi di come le politiche attuate – ha detto Scalese – non vadano nella giusta direzione e contribuiscano a creare precarietà. In Calabria, la sanità è in difficoltà e la politica industriale non riesce a dare un futuro ai nostri giovani, costringendoli ad emigrare. I vari decreti del governo vanno in direzione opposta, e non possiamo tollerare un attacco alla nostra organizzazione, che ha sempre contrastato le ingiustizie». (rrm)

 

SVIMEZ: MEZZOGIORNO NON È UN DESERTO
INDUSTRIALE MA CRESCE MENO DEL NORD

di ANTONIETTA MARIA STRATI – Nel 2025 il Mezzogiorno tornerà a crescere meno del Centro-Nord. È quanto emerso dal Rapporto Svimez, in cui denuncia «i rischi di un ritorno alla “normalità” di una crescita più stentata al Sud rispetto al resto del Paese», con il Meridione che rimane sullo +0,7% contro il Centro-Nord che registrerà una crescita di +1,0%. Una tendenza che si confermerebbe anche nel 2026: (+0,8% contro 1,1%).

Dati in controtendenza a quelli positivi riscontrati dall’Associazione: Il Sud, infatti, per il secondo anno consecutivo, cresce più della media del Centro-Nord: +0,9% contro +0,7%. Si riduce tuttavia sensibilmente lo scarto di crescita favorevole al Sud rispetto al 2023, quando il Pil del Sud era cresciuto quasi un punto percentuale sopra la media del Centro-Nord. La crescita più sostenuta del Mezzogiorno è dovuta a una più robusta dinamica degli investimenti in costruzioni (+4,9% contro il 2,7% del resto del Paese) trainati dalla spesa in opere pubbliche del Pnrr. I consumi delle famiglie tornano, invece, in negativo nel 2024 (-0,1% contro +0,3% nel Centro-Nord), frenati dalla crescita dimezzata del reddito disponibile delle famiglie rispetto all’anno scorso (+2,3% nel 2024 contro il +4,5% del 2023) e da una dinamica dei prezzi in rallentamento, ma lievemente più sostenuta rispetto al resto del Paese.

A politiche invariate, il 2025 rappresenta un anno di passaggio verso differenziali territoriali di crescita guidati da fattori strutturali sfavorevoli al Sud, a causa del rientro dalle politiche di stimolo agli investimenti privati e di sostegno ai redditi delle famiglie, solo parzialmente compensati dall’impatto positivo degli investimenti del Pnrr.

Nel triennio 2024-2026, al Sud gli investimenti del Pnrr valgono 1,8 punti percentuali di Pil meridionale (1,6 punti nelle regioni del Centro-Nord). In media, circa tre quarti della crescita del Pil del Mezzogiorno nel triennio è legata alla capacità di attuazione degli investimenti del Piano, a fronte di circa il 50% nel resto del Paese.

A fronte della ripresa occupazionale, il colpo inferto dall’inflazione al potere d’acquisto dei redditi da lavoro resta la criticità più rilevante, soprattutto nel Mezzogiorno. Tra il quarto trimestre 2019 e la prima metà del 2024, i salari reali si sono ridotti del -5,7% al Sud e del -4,5% nel Centro-Nord (-1,4% nell’eurozona). Un vero e proprio crollo al Sud causato da una più sostenuta dinamica dei prezzi e dai ritardi nei rinnovi contrattuali, in un mercato del lavoro che ha raggiunto livelli patologici di flessibilità.

A metà 2024, l’occupazione in Italia ha superato i livelli del 2019 di circa 750mila unità (+3,2%), un’espansione che è andata dunque ben al di là del semplice recupero degli effetti della crisi. Nello stesso periodo, il numero di occupati è cresciuto di 330mila unità (+5,4%) nel Mezzogiorno.

La ripresa dell’ultimo triennio ha riportato nel Mezzogiorno l’occupazione sui livelli, mai recuperati f ino a tutto il 2019, di metà 2008. Al Sud, sono tre milioni i lavoratori sottoutilizzati o inutilizzati. Il labour slack Svimez, l’indice del “non lavoro”, è calato, tra il 2019 e il 2023 dal 39,3 al 33% nel Mezzogiorno.

Allo stesso tempo, il “non lavoro” al Sud resta su valori più che doppi che nel resto del Paese. Le tre regioni meridionali con i tassi di “non lavoro” più elevati sono Sicilia (38%), Campania e Calabria (entrambe 36,8%). Dei tre milioni di lavoratori meridionali sottoutilizzati o inutilizzati, quasi un milione rientra tra i disoccupati secondo la definizione ufficiale, 1,6 milioni sono forze di lavoro potenziali e 400mila sono occupati in part-time involontario. Nel Centro-Nord, l’area del non lavoro si attesta intorno a 2,8 milioni.

Nel Mezzogiorno la precarietà è diventata un fenomeno tutt’altro che marginale in comparazione ad altre economie europee. Nelle regioni meridionali più di un lavoratore su cinque è assunto con contratti a termine: 21,5%, contro una media europea del 13,5%. La minore diffusione di posizioni permanenti è spiegata soprattutto dalla presenza di una struttura produttiva che più si presta a ricorrere al lavoro flessibile, per la più marcata specializzazione nel terziario tradizionale e la più contenuta dimensione media delle imprese.

Quasi i tre quarti degli occupati meridionali a tempo parziale sono in part-time involontario (72,9%), a fronte del 46,2% nel Centro-Nord e meno del 20% nell’Ue. Nel Mezzogiorno si concentra il 60% dei 2,3 milioni di lavoratori poveri italiani (circa 1,4 milioni). L’andamento positivo dell’occupazione non ha impedito l’aumento delle famiglie con persona di riferimento occupata in povertà assoluta nel Mezzogiorno: 9,5% nel 2023 dall’8,5% del 2021. L’aumento è stato addirittura di 3 punti percentuali per le famiglie con persona di riferimento occupata con qualifica di operaio o assimilato: dal 13,8 del 2021 al 16,8%.

Al 2050, il Paese perderà 4,5 milioni di abitanti e l’82% della perdita interesserà le regioni meridionali: -3,6 milioni. Non solo spopolamento, ma un progressivo degiovanimento che colpirà soprattutto il Mezzogiorno, che perderà 813mila under 15, quasi un terzo di quelli attuali (-32,1%), mentre gli anziani con più di 65 anni aumenteranno di 1,3 milioni (+29%). Un trend demografico avverso che avrà un forte impatto sul numero degli iscritti nelle scuole italiane. Al 2035, la riduzione di studenti è stimata al -21,3% nel Mezzogiorno, addirittura al -26% nelle regioni del Centro (-18% nelle regioni settentrionali).

Per la scuola primaria, il rischio chiusura è concreto in 3mila comuni con meno di 125 bambini, numero sufficiente per una sola “piccola scuola”: il 38% del totale dei comuni (quota che sale al 46% nel Mezzogiorno), localizzati soprattutto nelle aree interne. Il contrasto al gelo demografico necessita di politiche di lungo periodo orientate al rafforzamento del welfare familiare, degli strumenti di conciliazione dei tempi di vita-lavoro, dell’offerta dei servizi per l’infanzia, dei sostegni effettivi ai redditi e alla genitorialità, superando la frammentarietà degli interventi. L’emergenza è l’emigrazione, non l’immigrazione.

«Dal 2012 al 2022 – ha rilevato la Svimez – 138mila giovani laureati (25-34 anni) hanno lasciato l’Italia. Tra gli altri fattori, incidono sulla scelta le basse retribuzioni: dal 2013 le retribuzioni reali lorde per dipendente sono calate di 4 punti percentuali (-8 nel Mezzogiorno), contro una crescita di 6 punti in Germania».

«Negli ultimi 10 anni – si legge nel Rapporto – i giovani laureati che hanno lasciato il Mezzogiorno per il Centro-Nord sono quasi 200mila. Le migrazioni intellettuali da Sud a Nord sono alimentate anche dalla mobilità studentesca: due studenti meridionali su dieci (20mila all’anno) si iscrivono a una triennale al Centro-Nord, quasi quattro su dieci (18mila all’anno) a una magistrale in un ateneo settentrionale. Per alcune regioni meridionali il tasso di uscita degli studenti magistrali è nettamente superiore: in Basilicata l’83% lascia la regione, il 74% in Molise, più del 50% in Abruzzo, Calabria e Puglia. Tra il 2010 e il 2023, il sensibile aumento del numero di laureati meridionali si è realizzato esclusivamente grazie ai titoli conseguiti presso atenei del Centro-Nord (+40mila), mentre è addirittura diminuito il numero di laureati presso gli atenei meridionali».

Il quadro internazionale è segnato da nuove crescenti incertezze: i conflitti in corso, i nuovi rischi di shock inflazionistici, le tensioni commerciali globali, i rischi di una nuova ondata protezionistica. Ma la riconfigurazione delle global supply chain fornisce nuove opportunità di sviluppo al Mezzogiorno, che possono essere intercettate valorizzando il contributo del Sud alle transizioni, a partire dalle sue specializzazioni mature. Il Mezzogiorno non è un deserto industriale. Per contributo a valore aggiunto e occupazione, in termini di internazionalizzazione, competenze e tecnologia, il peso del Sud è rilevante in diverse filiere nazionali: Agroindustria, Navale e Cantieristica, Aerospazio, Edilizia e Automotive.

«È il momento di mettere in campo una politica industriale più ambiziosa, declinata attraverso strumenti utili ad attivare processi di trasformazione strutturale e creare occasioni di lavoro qualificato. Non si tratta solo di assicurare risorse adeguate al Mezzogiorno, ma di adottare un’impostazione orientata all’identificazione e al supporto delle priorità produttive e delle specializzazioni strategiche», viene detto nel Rapporto, sottolineando come «il  superamento dell’impostazione orizzontale delle politiche industriali degli ultimi decenni impone una riflessione sotto il profilo degli strumenti, andando al di là degli incentivi senza vincoli di destinazione settoriale».

La distribuzione territoriale degli incentivi dei Piani Transizione 4.0 e 5.0 dipende dalle capacità ex ante delle imprese (struttura, organizzazione, dimensione) di intercettarli, consolidando il tessuto industriale esistente nelle aree forti, ma pregiudicando l’attivazione di un vero processo di cambiamento strutturale nelle regioni deboli.

Per la Svimez, poi, «la filiera dell’Automotive è il settore sul quale si giocherà la sfida europea nel cambiamento strutturale del sistema produttivo e il futuro industriale del Mezzogiorno».

L’industria automobilistica italiana è collocata, infatti, prevalentemente nel Mezzogiorno. Nei primi 9 mesi del 2024, gli stabilimenti del Mezzogiorno hanno fornito quasi il 90% degli autoveicoli prodotti in Italia, ma hanno perso più di 100mila unità sul 2023 (-25%). Lo stabilimento di Melfi ha visto da solo una perdita di quasi 90mila unità (-62%), ma anche gli altri stabilimenti – in crescita nella prima parte dell’anno – sono entrati in territorio negativo, con cali che hanno interessato sia gli autoveicoli (Pomigliano, -6%) che i veicoli commerciali (Atessa, -10%). Ad aggravare il quadro, è stato sospeso l’investimento da oltre 2 miliardi per la realizzazione della gigafactory di batterie a Termoli, che indica una generalizzata vulnerabilità europea nella transizione all’elettrico. La filiera estesa nel Mezzogiorno dell’Automotive vale quasi 13 miliardi in termini di valore aggiunto, di cui più di quattro quinti in Campania (29%), Puglia (20%), Sicilia (22%) e Abruzzo (13%). Gli occupati riconducibili alla filiera Automotive sono circa 300mila, più della metà in Campania (30%) e Puglia (21%), seguite da Sicilia (21%) e Abruzzo (11%).

Il rilancio dell’industria automobilistica in Europa e la difesa dell’occupazione e dell’indotto richiede un cambio di paradigma che passa da un piano industriale europeo, finalizzato al rafforzamento della filiera elettrica e alla riduzione del gap tecnologico accumulato rispetto ai competitor, mettendo al centro gli stabilimenti del Mezzogiorno.

Per quanto riguarda la Zes, la Svimez ha rilevato come «il Piano strategico non risulta ancora formalmente approvato».

Serve, infatti, «un’accelerazione delle procedure attuative e di risorse – si legge nel Rapporto – certe nel tempo per le agevolazioni alle imprese (il credito d’imposta Zes è finanziato per il solo 2025), ma soprattutto di una continuità di impegno politico. L’incertezza sulle prospettive delle deleghe governative per il Mezzogiorno e il rischio di uno spacchettamento delle deleghe su Affari europei, Sud e Pnrr rischiano di pregiudicare il completamento delle riforme avviate».

Per dare continuità a investimenti e servizi è importante che i fondi europei e nazionali per la coesione 2021-2027 operino in complementarità con le azioni del Pnrr. Questo significa introdurre nel dibattito di politica economica la possibilità di utilizzare i fondi per la coesione anche per finanziare servizi di rilevante utilità sociale. Il Rapporto Svimez evidenzia i limiti, oramai strutturali, dell’attuale modello, la cui programmazione si fonda su obiettivi tematici generici e non adattabili alle diverse priorità e fabbisogni dei territori, secondo un criterio imperniato sulla rendicontazione della spesa e non legato al raggiungimento di precisi obiettivi di crescita o di riduzione dei divari.

Al contrario, l’applicazione di un metodo Pnrr adattato alle politiche di coesione, che subordini l’erogazione delle risorse al raggiungimento di precisi obiettivi, piuttosto che alla semplice rendicontazione delle spese, potrebbe rappresentare una proposta di riforma concretamente percorribile e in grado di condurre a un sostanziale miglioramento dell’efficacia di queste politiche. L’Accordo di partenariato dovrebbe contenere precisi target quantitativi, fissati a livello quantomeno regionale, accompagnati da milestone che presentino una connotazione anche territoriale, soprattutto in tema di riforme della regolazione dei servizi pubblici locali, di prestazione dei servizi essenziali (in primis istruzione e salute), e di rispetto delle direttive europee.

«Le analisi Svimez – si legge – confermano il ruolo determinante di stimolo del Pnrr alla crescita dell’area, ma evidenziano anche la necessità di accompagnare il ciclo di investimenti in infrastrutture economiche e sociali con un rilancio delle politiche industriali volte al rafforzamento del tessuto produttivo locale. La maggior parte dei progetti risultano in corso (105 su 140 miliardi di euro), e le diverse aree del Paese sembrano sostanzialmente allineate nel percorso attuativo. Bene i comuni, che gestiscono progetti Pnrr per circa 30 miliardi».

«Un terzo delle risorse – continua il Rapporto – risulta ancora da avviare, ma la maggior parte dei progetti ha avvio previsto nell’autunno/inverno 2024, vale a dire che la partita si sta giocando proprio in questi mesi. Al Sud spetta uno sforzo attuativo sicuramente maggiore; i comuni rispondono bene specialmente sulla realizzazione di investimenti connessi alle infrastrutture sociali con un importo avviato pro capite maggiore rispetto al dato del Centro-Nord. A rilento invece le infrastrutture più complesse, come quelle di trasporto, che vedono una percentuale di cantieri aperti inferiore al 20% e leggermente più elevata, per i progetti superiori ai 5 milioni di euro, al Sud (27% contro una media nazionale del 26%)».

L’Associazione, infine, ha evidenziato come «l’eliminazione della Decontribuzione Sud dal 31 dicembre 2024 comporta impatti significativi su crescita e occupazione. Nel 2023, ha riguardato mediamente più di 2 milioni di lavoratori per una spesa di oltre 3,6 miliardi e lo stanziamento cancellato per effetto dell’abolizione dell’agevolazione è pari a 5,9 miliardi per il solo 2025. Secondo stime Svimez, l’abrogazione comporterà una riduzione di due decimi di punto della crescita del Pil del Mezzogiorno e di tre decimi dell’occupazione, con circa 25 mila posti di lavoro a rischio».

Nonostante la Legge di Bilancio preveda, a compensazione, il finanziamento di un nuovo Fondo per interventi al Sud, con una dotazione di 2,4 miliardi nel 2025 e ulteriori 4,4 nel successivo biennio, per la Svimez si tratta di fondi «che, il finanziamento di un nuovo Fondo per interventi al Sud, con una dotazione di 2,4 miliardi nel 2025 e ulteriori 4,4 nel successivo biennio».

In Italia, il 54% degli alunni della scuola primaria frequenta un edificio scolastico che dispone di una mensa. Questo dato si ferma al 30% per il Mezzogiorno (240mila su circa 800mila bambini) e sale al 67% per il Centro-Nord (980mila sui circa 1,4 milioni). La percentuale di alunni che frequentano un edificio scolastico dotato di palestra è del 54% in Italia, ma nel Mezzogiorno si ferma al 46% (370mila su 800mila circa) rispetto al 60% (850mila su 1,4 milioni) del Centro-Nord. Le carenze nell’offerta dei servizi incidono sull’accesso al tempo pieno nelle scuole primarie del Sud e condizionano significativamente i processi di apprendimento degli studenti meridionali lungo l’intero ciclo scolastico, spiegando buona parte dei divari Nord/Sud nei livelli delle competenze maturate.

La dispersione scolastica è più alta al Sud. Dei 583.644 alunni iscritti al I anno di scuola secondaria di I grado a settembre 2012, 96.177 (il 16,5%) hanno abbandonato il sistema scolastico senza conseguire un titolo di studio nei sette successivi anni. L’abbandono scolastico è particolarmente diffuso al Sud (17,4%) e nelle Isole (20,6%), mentre nel Centro-Nord si attesta al di sotto del dato nazionale (14,6% per il Centro e 15,6% per Nord-Est e Nord-Ovest). L’istruzione è un bene pubblico essenziale, la cui qualità e diffusione capillare tra territori sono condizioni imprescindibili per uno sviluppo inclusivo. Dare priorità all’investimento in istruzione significa restituire alla scuola il suo ruolo di primo presidio di contrasto alle disuguaglianze, garantendo a tutti gli studenti, indipendentemente dal contesto familiare e sociale, pari condizioni di accesso a un diritto di cittadinanza fondamentale.

Nel biennio 2022-2023, 7 donne italiane su 10 di 50-69 anni hanno avuto accesso agli screening mammografici a cadenza biennale, 5 su 10 nell’ambito di un programma organizzato. Questa media nazionale nasconde profondi differenziali territoriali. La prima regione per copertura è il Friuli-Venezia Giulia: 9 donne su 10, quasi 7 nell’ambito di un programma organizzato. L’ultima è la Calabria: solo 2 donne su 10, appena 1 su 10 nell’ambito di un programma organizzato.

Nel 2022, la mobilità passiva ha interessato 629mila pazienti, il 44% dei quali residente in una regione del Sud. Nello stesso anno, i Ssr meridionali hanno attirato 98mila pazienti, solo il 15% della mobilità attiva totale. Complessivamente, i malati oncologici residenti nel Mezzogiorno che ricevono cure presso un Ssr di una regione del Centro-Nord sono 12.401, circa il 20% dei pazienti oncologici meridionali da un minimo del 15% della Campania a un massimo del 41% della Calabria. Al Sud non mancano le esperienze positive, come il modello innovativo della Rete Oncologica Campana, sulle quali bisognerebbe investire per rafforzare l’offerta di percorsi di cura territorialmente omogenei e ridurre le diseguaglianze di accesso alle cure.

Escludendo dai criteri di allocazione i fattori socioeconomici che impattano sui fabbisogni di cura e assistenza, il riparto regionale delle risorse per la sanità penalizza i cittadini delle regioni del Mezzogiorno. La presa in conto di questi fattori (povertà, istruzione, deprivazione sociale) renderebbe la distribuzione del finanziamento nazionale tra Ssr più coerente con le finalità di equità orizzontale del Ssn. (ams)