QUESTIONE RIFIUTI, SCELTE STRATEGICHE
CHE NON TUTELANO DAVVERO I CITTADINI

di BRUNO GUALTIERI – Sui giornali calabresi abbondano, in questi mesi, articoli e dichiarazioni preoccupate dei sindaci sul caro-Tari. Preoccupazioni più che legittime. Ma è arrivato il momento di raccontare ai cittadini perché la tariffa sui rifiuti aumenta e chi ha interesse a mantenerla alta. Perché no, non è sfortuna cosmica o inflazione galoppante. È il frutto di scelte ben precise. O, peggio ancora, di non-scelte calcolate.

Vi ricordate i cumuli di rifiuti per le strade calabresi nella primavera del 2022? Sembrava l’ennesima estate rovinata. Eppure, con un po’ di volontà e tanto lavoro, la situazione è stata risolta in pochi mesi. Da allora il sistema ha retto e le “emergenze” si sono dissolte. È bastato così poco? La risposta è sì. Una riforma voluta dal Presidente Occhiuto ha segnato la svolta, supportata dal lavoro silenzioso di chi ha agito guardando solo all’interesse pubblico. Giorni e notti a sistemare ciò che per anni era stato lasciato marcire.

Altro che “emergenza”: era strategia.

Facciamo un esempio concreto. Un impianto pubblico per il trattamento dei rifiuti, finanziato con fondi europei – che spesso non riusciamo nemmeno a spendere. Se l’impianto si realizza, il costo di trattamento si riduce drasticamente. Perché? Il pubblico, a differenza del privato, non deve scaricare il peso dell’investimento sui cittadini. Niente profitti da garantire, niente business da proteggere. Solo servizio. Ed è proprio questo il problema: servire i cittadini non conviene a tutti.

C’è poi la questione del monopolio. Quando il pubblico non ha impianti, chi ce li ha – i privati – detta le regole: stabilisce i prezzi e gli altri devono solo pagare. Un monopolio coltivato con cura, bloccando sistematicamente ogni tentativo pubblico di entrare in campo. La domanda nasce spontanea: perché non si fanno gli impianti pubblici? Risposta: perché da decenni il sistema calabrese non lavora per i cittadini, ma per chi vuole approfittarsene. È una vera e propria filiera del freno: ogni volta che si tenta di fare ordine, scatta il sabotaggio.

Durante il mio incarico in Arrical, ho provato a rompere questo schema con quattro iniziative concrete, tutte nella stessa direzione: ridurre la spesa pubblica, spezzare il monopolio, abbassare la Tari.

La piattaforma di Bisignano (CS)

Si voleva realizzare una piattaforma nel Comune di Bisignano per la selezione e valorizzazione delle frazioni secche (carta, plastica, metalli, vetro). In parole povere: anziché regalare questi materiali, li si sarebbe selezionati e venduti, recuperando risorse per i Comuni e riducendo la Tari per i cittadini. Un’operazione semplice, sostenuta anche dall’Amministrazione comunale guidata da Francesco Fucile. Ma, come spesso accade, niente da fare.

Il cantiere di Sambatello (RC) A Reggio Calabria, in località Sambatello, l’impianto pubblico da realizzare era fermo. È bastata una diffida e una rescissione in danno per far ripartire il cantiere. Ma il tempo perso è costato caro: secondo Arrical, circa 26 milioni di euro a quella data. Tradotto: 26 milioni finiti nelle bollette dei cittadini.

Il caso di Alli (CZ)

A Catanzaro, località Alli, stesso tentativo. Anche qui si tentava la rescissione per far ripartire i lavori. Ma l’operazione si è impantanata. Il danno stimato? Oltre 26 milioni di euro. E continua a crescere. E dire che, se fosse entrato in funzione, l’impianto avrebbe trattato l’umido a 29,60 euro a tonnellata, contro i 150 euro pagati oggi. A Milano – che certo non è il Far West – si pagano 35 euro. E noi? Non solo non trattiamo, ma nemmeno bandiamo gare aperte. Continuiamo a strapagare.

La gara per il gestore unico dei rifiuti

Infine, la più grande operazione: la gara per il gestore unico dei rifiuti dell’area centrale della Calabria (Vibo Valentia, Catanzaro, Crotone), per una concessione da 2 miliardi di euro in 20 anni. Il Piano d’Ambito prevedeva un sistema integrato di completamento degli impianti e di raccolta, trattamento, valorizzazione, smaltimento e bollettazione puntuale. Ogni cittadino avrebbe pagato solo per quanto effettivamente prodotto, finalmente con una Tari equa e trasparente. Il Piano era pronto, ma la gara non è mai stata pubblicata.

Perché? Il Piano Regionale dei Rifiuti è stato approvato in Consiglio Regionale a marzo 2024 (propedeutico all’approvazione del Piano d’Ambito), ma l’Assemblea di Arrical da ottobre 2024 ha preferito dedicarsi ai PEF comunali, balbettando su questioni ben più strategiche. Intanto i cittadini continuano a pagare.

Si dirà: “ci vogliono competenze”. Vero. Ma allora perché Arrical non si dota di una struttura tecnica autonoma, competente, capace di operare nell’interesse dei cittadini e contribuire concretamente alla riduzione della Tari? Oggi, invece, l’Assemblea appare paralizzata, ostaggio di una burocrazia autoreferenziale e delle solite logiche di palazzo. I sindaci, anziché essere sostenuti e orientati, vengono lasciati soli, disorientati da finte verità ambientali e dossier confezionati ad arte da chi ha tutto l’interesse a coprire storture e malaffare. E così, chi prova a cambiare le cose viene sistematicamente isolato.

Il sistema attuale costa 125 milioni l’anno, quello pubblico ne costerebbe 95. La differenza? 30 milioni che finiscono chissà dove, invece che nelle tasche dei cittadini. Non è questione di ideologia, ma di matematica. E di onestà. Importo che consentirebbe di azzerare tutti i debiti storici dei Comuni sui rifiuti in circa 3 anni. Invece, continuiamo a pagare di più, per avere meno.

E allora la vera domanda è: a chi conviene davvero che tutto resti così com’è? Non sarà che – tra una Tari che sale e un impianto che non si fa – c’è chi ci mangia sopra?

Ai posteri, e ai contribuenti, l’ardua sentenza. (bg)

[Bruno Gualtieri, già Commissario Straordinario dell’Autorità Rifiuti e Risorse Idriche della Calabria (Arrical)]

L’ECONOMIA CALABRESE E LA NATURA E I
PERSISTENTI RITARDI NEL SUO SVILUPPO

di FRANCESCO AIELLO

T

rent’anni rappresentano un orizzonte temporale sufficientemente ampio per valutare l’evoluzione strutturale di un sistema economico. Utilizzando dati macroeconomici a partire dal 1995, è possibile cogliere non solo gli effetti di lungo periodo dei mutamenti demografici e produttivi, ma anche la capacità dell’economia calabrese di reagire agli shock esogeni e ai cambiamenti del contesto nazionale. In questa prospettiva, il posizionamento della Calabria rispetto al Mezzogiorno, al Centro-Nord e all’Italia offre una chiave di lettura utile per comprendere meglio la natura e la persistenza dei ritardi che caratterizzano il modello di sviluppo dell’economia calabrese.

Il Pil pro capite: la sintesi del divario

Il Pil pro capite rappresenta una sintesi delle dinamiche demografiche e della capacità di generare valore economico. Nel 2023, il reddito per abitante a prezzi costanti 2015 si attesta in Calabria a 17.235 euro, in aumento rispetto ai 15.435 euro del 1995. La variazione, pari all’11,7%, è più bassa di quella del Centro-Nord (+14%) e con la media nazionale (+14,9%). Anche il Mezzogiorno, con un incremento dell’11,3% (da 17.814 a 19.824 euro), mantiene un livello di reddito pro capite più elevato di quello calabrese. Il PIL pro capite si può scomporre nel prodotto tra il tasso di occupazione e la produttività del lavoro (produzione per occupato). In Calabria, entrambi questi fattori hanno mostrato segnali di debolezza lungo tutto il trentennio: il tasso di occupazione è rimasto sistematicamente inferiore rispetto alle altre macroaree e la produttività ha registrato un andamento altalenante, spesso sostenuto da una riduzione del numero di occupati più che da una reale crescita della produzione.

Per comprendere meglio la traiettoria dello sviluppo della nostra regione, analizzeremo questi due elementi in dettaglio nei paragrafi 3-6. Ora, al fine di avere un ordine di grandezza dei divari territoriali, confrontiamo la Calabria con il Centro-Nord. Nonostante la crescita dell’11,7% che abbiamo osservato del Pil pro-capite calabrese, negli ultimi 30 anni il ritardo della Calabria si è ampliato: nel 1995 il Pilpro-capite regionale rappresentava il 58,5% di quello del Centro-Nord; nel 2023 tale rapporto scende al 48,4%. Si tratta di un indicatore chiaro dell’aggravarsi del divario territoriale. I dati consentono anche di osservare se in specifici sotto-periodi si sia avuta convergenza. Emerge che nonostante una moderata crescita fino al 2007, la dinamica del PIL pro-capite calabrese si appiattisce nella fase successiva. Nel decennio 2010–2019, il livello si stabilizza intorno ai 16.500–17.000 euro, mentre il Centro-Nord supera stabilmente i 34.000 euro. La crisi pandemica del 2020 accentua la fragilità del sistema regionale, con una caduta sotto i 16.000 euro, seguita da un recupero molto lento.

In estrema sintesi si può affermare che, rispetto ad altre macroaree, la Calabria ha beneficiato in misura marginale delle fasi di crescita e ha invece subito più duramente gli effetti degli shock. L’evidenza indica che il basso reddito pro capite è il risultato di una combinazione sfavorevole di crescita economica, produttività e demografia, ma rappresenta anche un freno allo sviluppo: limita gli investimenti, riduce i consumi e incentiva la migrazione di capitale umano.

Demografia e popolazione attiva: un declino strutturale

Il livello e l’andamento del Pil pro capite sono anche il riflesso delle dinamiche demografiche, che in Calabria appaiono particolarmente sfavorevoli. Nel periodo 1995–2023, la popolazione residente in Calabria si è ridotta da 2.063.300 unità nel 1995 a 1.850.366 nel 2023, registrando una flessione del 10,3%. La variazione negativa si distingue nettamente dal dato nazionale (+3,8%) e ancor più da quello del Centro-Nord, dove si è osservato un incremento dell’8,1%. Anche rispetto al Mezzogiorno, che nello stesso periodo ha perso il 3,8% della popolazione, la Calabria mostra più criticità.

Il declino demografico calabrese è continuo e privo di fasi di stabilizzazione significative.  A partire dal 2000, l’indice relativo della popolazione scende costantemente, con un’accelerazione tra il 2003 e il 2005 e poi, in misura ancora più marcata, dal 2014 in avanti. Tra il 2014 e il 2023 il calo è di quasi 6 punti percentuali, segno di un processo di spopolamento intenso e strutturale. Nel frattempo, il Centro-Nord raggiunge un picco massimo nel 2017, mentre la Calabria continua a decrescere. A partire dal 2020 anche la popolazione italiana inizia a contrarsi, pur restando ben distante dalla dinamica negativa della Calabria. Nel complesso, la regione si caratterizza per una traiettoria divergente non solo rispetto al Centro-Nord, ma anche rispetto al resto del Mezzogiorno, configurandosi come una delle aree a maggiore contrazione demografica del Paese.

Lo spopolamento ha impatti rilevanti sull’offerta di lavoro, sulla domanda interna e sulla tenuta del sistema territoriale nel medio-lungo periodo. Per esempio, la popolazione in età lavorativa (15–64 anni) nel trentennio 1995–2024 ha sperimentato in Calabria una progressiva riduzione, passando da oltre 1.296.000 persone nel 1995 a circa 1.163.000 nel 2024. Si tratta di una perdita netta di circa 133.000 individui, pari a un calo del 10,3%. A titolo di confronto, la popolazione in età lavorativa si è ridotta del 4,2% in Italia, dell’1,6% nel Centro-Nord e dell’8,8% nel Mezzogiorno. La Calabria, con il suo -10,3%, si conferma come una delle regioni in cui la fragilità della popolazione in età lavorativa si è si è espressa in modo più netto.

Tutto ciò è l’esito di due fattori: da un lato l’invecchiamento della popolazione e il calo delle nascite, dall’altro i saldi migratori negativi, in particolare di giovani e adulti in età da lavoro. Il risultato è una riduzione non solo del numero di potenziali partecipanti al mercato del lavoro, ma anche della qualità della forza lavoro disponibile.

Partecipazione e occupazione: bassa l’aderenza al mercato del lavoro.

Nel 2024, la forza lavoro calabrese ammonta a 601.755 persone, mentre gli inattivi tra i 15 e i 64 anni sono 561.170. Su una popolazione complessiva in età lavorativa di circa 1.163.000 persone, quasi il 48% risulta inattiva. Un valore molto elevato per un’economia avanzata, che riflette una persistente difficoltà di attivazione del capitale umano. La configurazione attuale non rappresenta una novità: nel 1995 la forza lavoro era pari a 656.905 persone e gli inattivi 639.138, con un tasso di inattività del 49,3%. Dopo un parziale miglioramento tra il 1997 e il 2002, le due dinamiche si invertono e, con la crisi del 2008, gli inattivi sono di più della forza lavoro.

Lo stesso problema si può guardare dal lato del tasso di attività. Nel 1995, la Calabria registrava un valore del 50,7%, in linea con il dato medio del Mezzogiorno (50,8%), ma ben al di sotto del Centro-Nord (66,2%). L’indicatore cresce lentamente fino al 2008 (54,6%) per poi stabilizzarsi e tornare su valori simili a quelli di partenza. Nel 2024 è pari al 51,7%, appena un punto percentuale sopra il livello di trent’anni prima, mentre nel Centro-Nord si mantiene stabilmente oltre il 70%.

In altri termini, la Calabria fatica da tre decenni a coinvolgere stabilmente la propria popolazione attiva nel mercato del lavoro. Il dato riflette non solo una più debole partecipazione femminile, ma anche una radicata sfiducia nella possibilità di accesso al mercato del lavoro. La presenza di migliaia di persone in età attiva disimpegnate dalla partecipazione economica rappresenta uno dei principali vincoli allo sviluppo della regione.

Passando dal potenziale alla concreta utilizzazione della forza lavoro, la dinamica dell’occupazione rafforza la lettura “declinista” dell’economia calabrese. Nel trentennio si osserva una contrazione del numero di occupati da 559.000 nel 1995 a 540.000 nel 2024 (-19.000 unità). A differenza di quanto avviene nel resto del Paese, dove gli occupati aumentano (+4,7% in Italia, +10,3% nel Centro-Nord), in Calabria si registra una riduzione, che risulta particolarmente significativa tra il 2008 e il 2014 e nel biennio pandemico 2020–2021. Il picco massimo di occupazione si osserva nel 2008 con oltre 595.000 occupati. Il minimo è 510.000 unità riferito al 2014. Dopo una parziale ripresa, la crisi pandemica del 2020 determina un nuovo arretramento. Solo nel biennio 2022–2023 si osserva una certa stabilizzazione, ma i livelli restano inferiori a quelli di inizio periodo.

La dinamica calabrese si distingue da quella nazionale anche per una minore capacità di creare nuova occupazione in fase espansiva e per una maggiore vulnerabilità nei momenti di crisi. Questa evoluzione occupazionale, unitamente alla stagnazione della partecipazione, offre un quadro di persistente debolezza del mercato del lavoro calabrese. Più in generale, la traiettoria dell’occupazione in Calabria suggerisce una debolezza strutturale del sistema economico regionale, incapace di assorbire in modo stabile e crescente la forza lavoro disponibile. Il confronto con le altre aree del Paese evidenzia un ulteriore elemento di fragilità: la distanza tra la Calabria e il Centro-Nord in termini di tasso di occupazione è passata da 21 punti percentuali nel 1995 a 23 nel 2024, confermando l’assenza di processi di convergenza. In trent’anni, la Calabria ha sperimentato una delle peggiori performance occupazionali d’Italia, con effetti evidenti sulla coesione sociale e sulla capacità di attivare dinamiche di sviluppo.

Disoccupazione: livelli elevati e miglioramenti solo apparenti

Nel trentennio 1995–2024, la disoccupazione in Calabria si è attestata su livelli persistentemente elevati, rappresentando uno degli aspetti più problematici del mercato del lavoro regionale. Calcolato come rapporto tra disoccupati e forza lavoro, il tasso di disoccupazione segue tre fasi distinte.

La prima fase (1995–2007) è caratterizzata da un picco iniziale del 22,2% nel 1999, seguito da una graduale discesa fino al 10,8% nel 2007. Questo calo riflette un lento miglioramento della domanda di lavoro, ma anche un progressivo scoraggiamento che riduce la dimensione della forza lavoro. Nella seconda fase (2008–2014), coincidente con la crisi economico-finanziaria globale e la recessione europea, la disoccupazione cresce rapidamente: dal 12,1% nel 2008 si arriva al 24,2% nel 2014, valore massimo della serie. Un dato che evidenzia la drastica perdita di occupati e l’incapacità del sistema produttivo di assorbire l’eccesso di offerta di lavoro. La terza fase (2015–2024) mostra un miglioramento apparente: il tasso scende progressivamente dal 23,2% al 13,3%. Tuttavia, questa riduzione è in larga parte attribuibile al ritiro dal mercato del lavoro di molte persone occupabili. Tra il 2014 e il 2024, gli occupati aumentano di appena 11.000 unità, mentre la forza lavoro si riduce di oltre 40.000. Una parte dei disoccupati ha dunque smesso di cercare lavoro, determinando una flessione del tasso di disoccupazione non accompagnata da una vera ripresa occupazionale.

In valore assoluto, i disoccupati erano poco meno di 100.000 nel 1995, superano i 135.000 nel 2014 e scendono a circa 80.000 nel 2024. Anche qui, il minor numero di disoccupati non riflette un’espansione occupazionale robusta, ma piuttosto una contrazione della partecipazione economica.

Il confronto con il resto del Paese conferma l’anomalia calabrese. Nel 1995, il tasso di disoccupazione in Calabria era al 15%, contro l’11% dell’Italia e l’8% del Centro-Nord. Nel 2014, la Calabria raggiunge il 24,2%, mentre l’Italia si ferma al 13% e il Centro-Nord al 10%. Nel 2024, il tasso calabrese è ancora al 13,3%, a fronte dell’8% nazionale, del 4% nel Centro-Nord e del 12% nel Mezzogiorno. Il divario con il Centro-Nord è oggi di quasi 10 punti percentuali.

Si ha, quindi, qualche conferma che la riduzione della disoccupazione, quando si manifesta, non segnala un miglioramento strutturale, ma riflette fenomeni di scoraggiamento e fuoriuscita dal mercato del lavoro, che impoveriscono ulteriormente il tessuto produttivo e limitano le prospettive di sviluppo regionale.

Valore aggiunto aggregato: una crescita discontinua e debole

Espresso a prezzi costanti 2015, il valore aggiunto della Calabria passa da 28,6 miliardi di euro nel 1995 a 29 miliardi nel 2023, con un incremento cumulato del +1,7%. Si tratta di una crescita molto contenuta, soprattutto se confrontata con l’aumento osservato a livello nazionale (+21%), nel Mezzogiorno (+8,7%) e, in misura ancora più marcata, nel Centro-Nord (+25%). Questo divario evidenzia la bassa capacità del sistema produttivo regionale di generare espansione economica nel lungo periodo, anche in un contesto di stabilità macroeconomica.

L’evoluzione temporale consente di distinguere diverse fasi. Tra il 1995 e il 2007, la Calabria registra una crescita in linea con le altre macroaree: nel 2007 l’indice supera quota 115, poco al di sotto della media nazionale. Tuttavia, la crisi del 2008–2009 rappresenta un primo punto di discontinuità. Mentre il Centro-Nord recupera rapidamente (superando quota 120 già nel 2010), la Calabria entra in una fase di stagnazione e poi di declino. Un secondo momento di frattura si osserva a partire dal 2012: mentre l’Italia e il Centro-Nord riprendono gradualmente a crescere, la Calabria e l’intero Mezzogiorno seguono una traiettoria divergente. Il valore aggiunto della Calabria si contrae quasi ininterrottamente fino al 2020, anno della pandemia, in cui tocca il minimo relativo (indice intorno a 87). In nessun’altra area del Paese si osserva una caduta così profonda. La ripresa successiva, pur visibile, è più contenuta: nel 2023 l’indice calabrese è ancora al di sotto del livello del 2007 e poco al di sopra del valore del 1995.

I dati del valore aggiunto aggregato segnalano la fragilità della struttura produttiva regionale, incapace di resistere agli shock esogeni e poco reattiva nelle fasi di espansione. In questo contesto, la distanza accumulata rispetto al Centro-Nord e al dato nazionale assume una valenza strutturale, non più solo congiunturale.

La produttività del lavoro: una crescita senza convergenza

Ulteriori importanti elementi di valutazione sono forniti dalla produttività del lavoro, espressa come valore aggiunto per occupato a prezzi costanti 2015. Questo indicatore mostra che l’Italia è un paese a bassa crescita e che i divari territoriali di sviluppo rimangono ampi, senza alcun significativo segnale di convergenza.

Nel 2023, la produttività del lavoro in Calabria è pari a 55.882 euro, nettamente inferiore a quella del Centro-Nord (75.071 euro), del dato nazionale (70.786 euro) e del Mezzogiorno (58.854 euro). Il divario con il Centro-Nord rimane ampio: nel 1995 la produttività calabrese era il 73,2% di quella settentrionale; nel 2023 è al 74,4%. Questo andamento conferma nuovamente che, in trent’anni, nessuna vera convergenza si è realizzata.

Anche il tasso medio annuo di crescita della produttività conferma la stagnazione: in Calabria è pari a +0,31%, poco sopra il dato nazionale (+0,26%) e superiore a quello del Centro-Nord (+0,25%) e del Mezzogiorno (+0,22%). Tuttavia, si tratta di un incremento debole, privo di un rafforzamento strutturale: la Calabria parte da livelli molto più bassi e non riesce a ridurre significativamente i divari.

Le traiettorie temporali confermano questa lettura. Tra il 2015 e il 2020 la produttività del lavoro in Calabria si contrae da un massimo di 58.493 euro a un minimo di 52.743 euro, con un calo di circa il 10% in cinque anni. Questo arretramento precede l’impatto pandemico, che nel 2020 ha ulteriormente aggravato la situazione. Solo dal 2021 si osserva una parziale ripresa, ma i livelli del 2023 restano inferiori a quelli del 2015. L’analisi comparata evidenzia come le fluttuazioni calabresi riflettano una struttura economica esposta a shock esterni, con bassa capacità di adattamento e scarsa resilienza. È anche utile osservare che le dinamiche della produttività sono spesso l’esito di una contrazione dell’input lavoro piuttosto che di un’espansione reale dell’output. In più fasi – come tra il 2008 e il 2014 e tra il 2016 e il 2019 – la produttività appare sostenuta da una riduzione degli occupati, non da un rafforzamento del valore aggiunto aggregato. Nel confronto con il Centro-Nord, emerge con estrema chiarezza questa differenza: in Calabria la produttività cresce, quando cresce, “per sottrazione”, ossia in presenza di un calo dell’occupazione; al contrario, nel Centro-Nord la crescita è più stabile e coerente con una dinamica di lungo periodo sostenuta da investimenti, innovazione e capacità di adattamento. In sintesi, in Calabria la produttività rimane fragile, discontinua e incapace di contribuire a una crescita duratura.

Le cause strutturali del declino: una specializzazione poco orientata alla crescita

L’analisi della struttura economica regionale evidenzia una specializzazione settoriale che non favorisce la crescita. In Calabria, dominano ancora comparti a bassa produttività come i servizi tradizionali, la pubblica amministrazione e l’agricoltura, mentre risultano sottodimensionati i settori più dinamici, come la manifattura in senso stretto e i servizi ad alta intensità di conoscenza. Nel 2022, l’industria manifatturiera rappresenta solo il 3,8% del valore aggiunto regionale, una quota significativamente inferiore rispetto a quella del Centro-Nord, dove i valori sono più che tripli. Questo comparto ha subito una marcata contrazione: per esempio tra il 2010 e il 2021, il numero di imprese manifatturiere si è ridotto di circa 1.400 unità, mentre gli investimenti si sono contratti del 41%. La marginalità della manifattura compromette la capacità della regione di partecipare alla produzione di beni a domanda globale e ai processi di innovazione industriale. A ciò si aggiunge il peso relativamente elevato dell’agricoltura, che in Calabria rappresenta il 4,4% del valore aggiunto, contro una media nazionale molto più bassa. Anche il settore pubblico incide in modo rilevante: amministrazione pubblica, difesa e istruzione generano il 21,7% del valore aggiunto, a fronte del 14,9% nel Centro-Nord. Analogamente, il terziario tradizionale (commercio, alloggio, ristorazione, trasporti e servizi alla persona) incide per il 32,4%, rispetto al 25,6% del Centro-Nord.

Questa configurazione settoriale penalizza la capacità di crescita: le attività più presenti in Calabria sono, per struttura e dinamica, meno esposte alla concorrenza e meno connesse con le catene globali del valore. La scarsa presenza della manifattura – il comparto che più di altri contribuisce all’innovazione e all’export – è un limite storico e strategico. Le imprese industriali, quando presenti, sono di piccola dimensione, scarsamente capitalizzate e poco orientate ai mercati esterni. Nel complesso, la specializzazione produttiva della Calabria non si è tradotta in vantaggi competitivi né in dinamiche espansive. Al contrario, ha reso il sistema economico più vulnerabile alle crisi e meno reattivo nelle fasi di ripresa. Il risultato è un equilibrio di lungo periodo caratterizzato da bassa produttività, crescita modesta e debole domanda interna, alimentando una spirale negativa difficile da invertire.

Alcune conclusioni

L’analisi dell’evoluzione macroeconomica della Calabria negli ultimi trent’anni restituisce l’immagine di una regione che ha faticato a mantenere il passo con il resto del Paese. Il calo demografico, la stagnazione dell’occupazione e la debolezza della partecipazione al mercato del lavoro si combinano con una crescita del valore aggiunto modesta e una produttività del lavoro instabile, spesso sostenuta da dinamiche legate al ridimensionamento della base occupazionale più che da trasformazioni strutturali.

Il divario rispetto al Centro-Nord non si è ridotto, anzi in alcune dimensioni si è ampliato. L’assenza di processi di convergenza dipende in misura prevalente da una composizione strutturale in cui il settore manifatturiero in senso stretto contribuisce con una quota irrisoria alla creazione del valore aggiunto aggregato, mentre dominano i settori a bassa produttività (agricoltura, servizi maturi, pubblica amministrazione): si tratta di un modello di specializzazione che, evidentemente, non ha saputo assorbire adeguatamente la forza lavoro disponibile, non è stato in grado di adottare o produrre innovazione e, quindi, non ha generato crescita sostenibile.

L’analisi degli ultimi 30 anni suggerisce che la debolezza del sistema economico calabrese ha radici profonde e richiede interventi mirati non solo sul lato delle politiche pubbliche, ma anche su quello dell’organizzazione produttiva e di scelte industriali selettive. In un contesto di persistente fragilità demografica e occupazionale, l’attrazione di investimenti extraregionali e la valorizzazione del capitale umano appaiono condizioni necessarie per favorire un cambiamento strutturale dell’economia calabrese. Per interrompere la spirale regressiva che ha segnato la storia della regione, sarà indispensabile puntare sulla produzione di beni a domanda globale e ad alto contenuto tecnologico e su servizi ad elevata professionalizzazione. In assenza di questa “rivoluzione” del modello di sviluppo dell’economia calabrese, tra trent’anni ci ritroveremo a commentare i dati macroeconomici di una regione ancora più piccola, più povera e più assistita. (fa)

[Courtesy il Quotidiano del Sud  – L’Altra Voce]

PONTE E OPERE COMPLEMENTARI: SISTEMA
INTEGRATO PER LO SVILUPPO DEL SUD

di MASSIMO MASTRUZZOTra le critiche più ricorrenti al progetto del Ponte sullo Stretto di Messina c’è quella secondo cui ci sarebbero “altre opere più urgenti o utili” da realizzare prima.

Ma questa argomentazione, pur legittima nel merito, rischia di semplificare e distorcere la realtà: il Ponte non è un’opera isolata, ma il fulcro di un sistema infrastrutturale molto più ampio e strategico, fatto di strade, ferrovie, interconnessioni e interventi di riqualificazione territoriale. Un insieme organico di opere complementari già programmate, molte delle quali già finanziate e in corso di realizzazione, che diventano davvero funzionali e sostenibili proprio grazie alla presenza del Ponte.

Le opere complementari: ferrovia e intermodalità

Il Ponte non porterà solo auto da una sponda all’altra dello Stretto: collegherà due sistemi ferroviari oggi disallineati, restituendo continuità alla dorsale Palermo-Catania-Messina-Villa San Giovanni-Salerno. In particolare:

Il potenziamento dell’asse ferroviario Palermo–Catania–Messina, con investimenti superiori agli 11 miliardi di euro, finanziati in parte dal PNRR e dal programma TEN-T dell’Unione Europea. Tra i cantieri più rilevanti: il raddoppio della tratta Fiumefreddo-Giampilieri (oltre 2 miliardi), e la tratta Bicocca-Catenanuova (circa 600 milioni).

Il nodo intermodale di Messina e Villa San Giovanni, pensato per connettere passeggeri e merci in modo fluido, diminuendo drasticamente i tempi di attraversamento e i costi logistici.

Senza il Ponte, molte di queste tratte perderebbero parte della loro funzionalità sistemica e rischierebbero di rimanere infrastrutture isolate.

La viabilità stradale: integrazione e fluidità

Anche per la viabilità su gomma è previsto un ampio piano di opere complementari:

L’adeguamento dell’Autostrada A2 “del Mediterraneo” sul versante calabrese, per gestire in modo efficiente i nuovi flussi veicolari.

La Tangenziale Nord di Messina, indispensabile per liberare la città dal traffico urbano e raccordare il ponte alla rete autostradale.

L’ammodernamento delle Strade Statali 113 e 114, con rampe e viabilità secondaria che garantiranno accessibilità capillare al territorio.

Nessun conflitto tra il Ponte e le “opere utili”

È importante chiarire un punto: le risorse destinate al Ponte e alle sue opere complementari provengono da fonti specifiche, tra cui fondi europei (TEN-T), PNRR e stanziamenti pluriennali del Mit. Non sono alternative agli investimenti su sanità o istruzione. Non esiste, dunque, un “conflitto di priorita” fra la realizzazione del Ponte e la costruzione di scuole o ospedali. Anzi, molte delle opere complementari sono state sbloccate proprio perché rese più urgenti e strategiche dal progetto del Ponte.

Un’opera sistemica per superare l’isolamento infrastrutturale

Il Sud Italia soffre da decenni un deficit infrastrutturale che penalizza mobilità, investimenti e competitività. Il Ponte, insieme alle opere complementari, non è solo una risposta ingegneristica, ma un cambio di paradigma: integrazione reale tra Sicilia e continente, accessibilità, continuità logistica, attrazione di capitali e imprese. In una parola: sviluppo.

Un’opera da valutare non isolatamente, ma come parte di una visione più ampia, moderna e responsabile. (mm)

 

[Massimo Mastruzzo, direttivo nazionale MET – Movimento Equità Territoriale]

BRACCIANTI IN CATENE: LA PIANA DI SIBARI
TRA LO SFRUTTAMENTO E L’AGROMAFIA

di ANGELO PALMIERI – Sotto un sole che cuoce la terra e spacca la pelle, l’estate calabrese mostra il suo volto più feroce. Le campagne della Piana di Sibari non profumano di frutta matura ma di sudore e sopraffazione.

Tra le zolle secche di Cassano allo Ionio e Corigliano‑Rossano, centinaia di stranieri, perlopiù africani e asiatici, continuano a lavorare in condizioni al limite della sopravvivenza, senza contratto, né protezioni legali. Non sono invisibili.  Sono volti consumati dalla miseria, privati perfino di quella pietas che spetta ai vinti. Ben noti alle organizzazioni criminali che ne gestiscono reclutamento, trasporto e paga da fame.

Il lavoro nero: piaga strutturale

Secondo l’ultimo rapporto ISTAT (2024), la Calabria registra un tasso di lavoro irregolare pari al 19,6%, con oltre 117.000 lavoratori in nero. In agricoltura, l’irregolarità tocca punte del 16,8%, un dato superiore alla media nazionale. A livello italiano, si stimano oltre 200.000 braccianti irregolari, spesso pagati 2 euro l’ora o meno. Il lavoro agricolo è sempre più stagionale, precario, intermittente. Il volume di lavoro nel primo trimestre 2024 ha subito un calo dell’1,6%, segno che la manodopera viene ancora usata come carne da macello nei periodi di punta, e poi abbandonata.

Agromafie e caporalato: la filiera del sopruso

Nella Sibaritide, secondo diverse inchieste giudiziarie tra cui “Demetra” e “Kossa 2”, alcune strutture criminali attive nel territorio – ricondotte anche a realtà locali – avrebbero gestito il caporalato come un’attività strutturata e redditizia. Gli stagionali sono trattati come oggetti: trasportati all’alba, controllati, sottopagati, minacciati. Ribellarsi significa sparire. Uscire dal giro, essere dimenticati. Chi osa contestare l’ordine dei padroni viene espulso come un ingranaggio rotto, dimenticato, silenziato. Lo sfruttatore comanda la vita: assegna il lavoro, regola il riposo, controlla il cibo. E mentre l’unica acqua disponibile è quella torbida e stagnante dei fossi, i lavoratori abitano baraccopoli senza luce né dignità.

Intanto, le merci raccolte finiscono nei nostri supermercati con etichette rassicuranti, che nulla raccontano del sangue versato per ciascun frutto estivo raccolto a mani nude sotto il sole impietoso.

Quali risposte sono possibili?

Per fortuna, non tutto tace. Progetti come Su.Pr. Eme.2, attivo da maggio 2025, stanno aprendo poli sociali a Cassano e Corigliano, offrendo assistenza legale, mediazione culturale, trasporti sicuri e accoglienza dignitosa a chi ogni giorno manda avanti i nostri raccolti. Ma le forze in campo sono ancora esigue.

Esperienze virtuose come quelle di NoCap, fondata da Yvan Sagnet, dimostrano che un’alternativa è possibile: contratti regolari, stipendi giusti, abitazioni decorose. Non è utopia: è il segno concreto che anche nei campi più sfruttati può germogliare giustizia. Anche in Calabria, sindacati e cooperative sociali propongono un distretto agroalimentare etico, basato su certificazioni verificate, filiere trasparenti, e il coinvolgimento dei consumatori. Perché la libertà, anche quella dei migranti, passa anche dal carrello della spesa.

 Le azioni urgenti e necessarie

Serve un cambio di passo immediato. Il lavoro stagionale nella Sibaritide non può più essere lasciato alla spirale dell’abuso sistemico e del lavoro irregolare. Di seguito, alcune misure da attivare subito per affermare valore umano, legalità e diritti.

Attivare nuclei mobili di ispezione interforze
Nei mesi di picco (giugno–settembre), con accessi a sorpresa nelle aziende agricole della Sibaritide. Rafforzare l’obbligo del registro elettronico giornaliero, integrandolo con sistemi di tracciamento orario geolocalizzato e collegamento diretto all’INPS, per evitare elusioni.

Istituire un servizio di trasporto pubblico stagionale gratuito per i braccianti
Navette coordinate dalle amministrazioni locali e dalle cooperative sociali, con partenza dai poli sociali e arrivo nei luoghi di lavoro agricolo. Ogni mezzo deve essere tracciato e autorizzato, per interrompere il monopolio degli intermediari illegali.

Costruire presìdi abitativi pubblici temporanei
Avviare la realizzazione – anche modulare – di “villaggi del lavoro stagionale” su terreni pubblici o confiscati alle mafie, con moduli abitativi essenziali, bagni, cucine collettive, spazi per la mediazione e condizioni minime di decoro.

Rendere obbligatoria la certificazione etica per le aziende che ricevono fondi pubblici
Chi accede a fondi PSR, PNRR o PAC deve sottoscrivere un protocollo di legalità e trasparenza, con controlli annuali indipendenti. I prodotti agricoli etici devono riportare un bollino riconoscibile (es. “filiera pulita” o “senza caporale”).

Costituire tavoli territoriali permanenti
Coordinamento tra Comuni, sindacati, forze dell’ordine, associazioni e prefetture per una vigilanza continua. Pubblicazione di un rapporto semestrale per ciascun ambito.

Non si tratta di inventare il futuro: si tratta di smettere di accettare un presente disumano. E di agire adesso.

 Non una fine, ma un appello
Quello che accade nella Piana di Sibari non è una deriva, è un sistema criminale che si ripete ogni giorno, sotto gli occhi accidiosi – cioè stanchi, indifferenti, complici – di un’intera comunità locale che ha smesso di indignarsi. Ed è tempo di disarticolarlo. Non con le buone intenzioni, ma con interventi strutturali, leggi applicate, verifiche sul campo capillari e cultura della legalità. In queste terre splendide e ferite, la manodopera straniera non chiede carità, ma giustizia: quella giustizia che si misura in tutele, contratti e sguardi che riconoscono. Non serve pietà, ma dignità. Perché la persona – a differenza dell’anguria – non si pesa a chilogrammi, ma in diritti. (ap)

[Courtesy OpenCalabria]

LA MANCATA INFRASTRUTTURAZIONE AL
SUD PER SUPERARE IL DIVARIO NEL PAESE

di ERCOLE INCALZA – Il Ceo di The European House Ambrosetti Valerio De Molli al Forum di Sorrento ha dichiarato: «Il quadro del Sud che scaturisce dalla nostra analisi è quello di un’area che già oggi ha tutti gli elementi per smentire l’immagine stereotipata di peso per il Paese ma che necessita di un ulteriore salto di qualità. Non può esistere un Sud fatto solo di turismo deve esserci un Sud fatto di investimenti produttivi ed infrastrutture».

Sempre dal Forum di Sorrento emergono dati che supportano questa denuncia di De Molli come, solo a titolo di esempio, quello relativo al transito di gas: oltre il 74% è entrato in Italia attraverso il gasdotto di Mazara del Vallo, Gela e Melendugno. Il Sud si piazza al terzo posto nella classifica dei territori più attrattivi tra i 20 Paesi mediterranei presi in esame. Sempre il Sud ha registrato nel 2022 e nel 2023 un aumento del Pil rispettivamente del 5,9% e dell’1,5%; una crescita dello 0,9% superiore alla media del Centro Nord.

Ed ancora, sempre  dal rapporto presentato nel Forum di Sorrento, emerge che il Mezzogiorno si configura ormai come un polo attrattivo per capitali sia pubblici e privati; infatti il valore aggiunto prodotto dai granfi gruppi multinazionali esteri nell’area è cresciuto del 27% tra il 2021 ed il 2022 di gran lunga di più della media italiana (+13%); in proposito è sufficiente un dato: dal 2021 sono stati identificati investimenti nuovi o incrementali con orizzonte 2030 per oltre 320 miliardi di euro e più di un milione di occupati. Né possiamo sottovalutare il dato legato alla istituzione della Zona Economica Speciale Unica che tra gennaio 2024 e maggio 2025 ha rilasciato 620 autorizzazioni ed ha attivato direttamente 8,5 miliardi di euro di investimenti.

Ebbene, leggendo questi dati nasce spontaneo un interrogativo: “Come mai le otto Regioni del Mezzogiorno continuano a rimanere all’interno dell’Obiettivo Uno della Unione Europea (cioè tutte  hanno un Pil pro capite inferiore al 75% della media europea) e se effettuiamo una analisi più mirata scopriamo che il valore medio del Pil pro capite non supera la soglia di 18.000 – 21.000 euro quando nelle altre Regioni del Paese tale soglia raggiunge e, addirittura, supera (vedi alcune province lombarde) il valore di 40.000 euro.”

A questo interrogativo penso sia possibile rispondere ricordando quanto sia stato determinante ed al tempo stesso sottovalutato il “fattore tempo” nella attuazione concreta delle scelte definite dalla Legge 443 del 2001 (Legge Obiettivo); una Legge, ripeto, varata nel 2001 e portata avanti in modo davvero encomiabile fino al 2014 e poi, dal 2015 fino al 2023, rimasta praticamente ferma.

In fondo questa stasi infrastrutturale, voluta in modo chiaro dai Governi Conte 1, Conte 2 ed anche Draghi, trovava una precisa motivazione nel trasferimento delle risorse in conto capitale, destinate alle infrastrutture, alla copertura dei programmi relativi al “Reddito di Cittadinanza”, al “Quota 100 per l’accesso al sistema pensionistico”, al “Super bonus nel comparto edilizio”. E questa scelta ha praticamente prodotto un risultato leggibile in modo inequivocabile nel ritardo nell’attuazione, solo a titolo di esempio di questi interventi: Il Ponte sullo Stretto di Messina è ancora nella fase istruttoria; L’asse ferroviario ad alta velocità Salerno – Reggio Calabria, pur sostenuto da risorse del Pnrr e cantierato solo per una tratta di 2,2 miliardi di euro (l’asse completo costa 29 miliardi di euro); Gli assi ferroviari ad alta velocità Palermo – Catania e Catania – Palermo, pur sostenuti da risorse del Pnrr, sono oggi, dopo dieci anni, nella fase di avvio e soggetti al rischio di una rivisitazione della copertura da parte del Pnrr; L’asse ferroviario ad alta velocità Taranto – Potenza – Battipaglia ancora fermo alla fase progettuale e anche esso soggetto al rischio di una esclusione dalle risorse del Pnrr; L’asse viario Taranto – Reggio Calabria (Strada Statale 106 Jonica) vede in corso di realizzazione solo un tatto di 38 Km (l’intero asse è lungo 491 Km); Il blocco negli “Schemi idrici nel Mezzogiorno”; in modo particolare un blocco soprattutto nella realizzazione di un numero rilevante di dighe; Gli interventi di rilancio e di riassetto produttivo del Centro siderurgico di Taranto si sono rivelati dal Governo Conte 1 in poi, cioè dal 2018, un tragico fallimento strategico.

Mi fermo qui perché penso sia inutile ricordare e, al tempo stesso, misurare quanto abbia pesato per il Mezzogiorno la sottovalutazione del “fattore tempo” nella infrastrutturazione del territorio; in proposito ricordo che l’Istituto di ricerca “Divulga” della Coldiretti un anno fa fece presente che la mancata infrastrutturazione del Paese aveva provocato, nel solo 2022, un danno all’intero sistema logistico, sempre del Paese, di circa 96 miliardi di euro e di tale valore la carenza infrastrutturale del Sud incideva per oltre il 50% con un danno, per il solo comparto agro alimentare,  di oltre 9 miliardi di euro.

Cosa davvero preoccupante la vivremo proprio nei prossimi giorni in cui, proprio per la sottovalutazione del “fattore tempo”, saremo costretti a rinunciare a risorse del Pnrr proprio per opere ferroviarie del Sud come quelle ubicate in Puglia, in Calabria e Sicilia e prima elencate.

Questa triste presa di coscienza ci fa capire quanto sarebbe stata determinante l’attuazione concreta delle opere della Legge Obiettivo per ridimensionare il grave gap che ancora caratterizza il Sud nei confronti del resto del Paese e quanto gravi siano le responsabilità di quei Governi e di quegli schieramenti che hanno sottovalutato la visone strategica della Legge Obiettivo. (ei)

CARO BENZINA, LA CALABRIA PER IL PIENO
REGISTRATI RINCARI FINO A OLTRE 2 EURO

di ANTONIETTA MARIA STRATILa benzina è diventata cara in Calabria. È quanto emerso dall’ultima rilevazione dell’Unione Nazionale Consumatori (UNC), basata sui dati ufficiali del Ministero delle Imprese e del Made in Italy (Mimit), nella settimana dal 16 al 23 giugno, che posiziona la nostra regione terza per i rincari.

La benzina, infatti, in modalità self è aumentata di 4,4 centesimi al litro, pari a 2,20 euro in più per un pieno da 50 litri. Un incremento che colloca la Calabria al terzo posto nazionale per rincari, alla pari con la Lombardia e dietro solo a Sicilia (+4,9 cent) e Valle d’Aosta (+4,7 cent).

Per il gasolio, la Calabria non compare nelle prime tre posizioni, ma segue il trend nazionale in crescita: su tutto il territorio italiano, il diesel è aumentato in media di 6,16 centesimi al litro, con un aggravio di oltre 3 euro a rifornimento.

Il peso del caro carburanti è ancora più gravoso in regioni come la Calabria, dove l’uso dell’auto privata è spesso indispensabile per studenti, lavoratori e turisti, a causa della scarsa capillarità dei trasporti pubblici e di una rete ferroviaria insufficiente. In questo contesto, anche pochi centesimi in più al litro possono incidere pesantemente sui bilanci familiari.

«La buona notizia, se così si può definire – ha dichiarato Massimiliano Dona, presidente di UNC – è che per una volta le autostrade non sono le peggiori per rincari settimanali, anche se continuano a registrare i prezzi assoluti più elevati».

A confermare l’allarme è anche il Codacons, che ha monitorato i prezzi lungo le principali autostrade italiane. Sulla A3 Salerno-Reggio Calabria, uno degli assi viari più trafficati del Sud, la benzina in modalità self ha raggiunto punte di 1,984 euro al litro, sfiorando la soglia psicologica dei 2 euro.

I rincari, tuttavia, non sono solo a Sud: sulla rete autostradale nazionale si registrano picchi ancora più elevati: A4 Milano-Brescia: benzina servito a 2,389 €/l, gasolio a 2,284 €/l; A21 Torino-Piacenza: benzina a 2,369 €/l, diesel a 2,289 €/l; A1 Milano-Napoli: benzina self a 2,349 €/l, gasolio a 2,249 €/l

Il Codacons ha precisato che si tratta di prezzi massimi rilevati in singoli impianti, spesso nelle aree di servizio autostradali, dove il costo del carburante è generalmente superiore rispetto alla rete urbana.

Un rincaro, quello della benzina, che delinea un quadro preoccupante per il Codacons, soprattutto alla vigilia delle grandi partenze estive, con il rischio concreto di una vera e propria stangata per gli italiani.

«La situazione è preoccupante – ha avvertito il Codacons – e potrebbe peggiorare ulteriormente nei prossimi giorni, complici l’aumento della domanda estiva e le tensioni internazionali». Tra i fattori di rischio, anche la possibile chiusura dello Stretto di Hormuz, snodo cruciale per il transito del petrolio, e le speculazioni legate al conflitto in Iran, che potrebbero spingere i prezzi verso l’alto.

Se l’attuale tendenza non rallenta, l’estate 2025 rischia di essere una delle più costose degli ultimi anni, soprattutto per chi si sposterà in auto nel Mezzogiorno. (ams)e

LA CALABRIA IN 30 ANNI TRA MIGRAZIONE
SPOPOLAMENTO E GELO DEMOGRAFICO

di GIUSEPPE DE BARTOLOLa storia demografica della Calabria è stata segnata da fasi ben distinte. Regione scarsamente popolata fino ai primi dell’800, con l’Unità conosce una dinamica naturale positiva, temperata, tra la fine dell’800 e l’inizio della Prima guerra mondiale, dal grande esodo migratorio.

Questo esodo, interrotto nel ventennio fascista, prosegue con rinnovata, ma più ridotta intensità, fino agli anni ’70 del secolo scorso, epoca in cui termina la parabola dell’emigrazione italiana.

In seguito, anche se con cadenze e intensità differenti da regione a regione, l’Italia da Paese di emigrazione diventa luogo di accoglienza di flussi migratori via via più consistenti. Negli ultimi trent’anni, la potenzialità demografica della Calabria ha conosciuto un forte rallentamento per effetto della lenta ma costante riduzione delle componenti naturali della sua popolazione, natalità e mortalità, che hanno completato quella che viene chiamata la “Transizione Demografica”.

Nel contempo si sono affacciati nuovi processi di redistribuzione della popolazione, continui nel tempo ed estesi nello spazio. Terminata l’emigrazione tradizionale, è via via cresciuto però il numero dei giovani istruiti che emigrano dalla Calabria, conseguenza diretta della crisi economica. Tutti questi accadimenti ci consegnano oggi una regione profondamente segnata da denatalità, spopolamento, nuova emigrazione e immigrazione straniera.

Sin dalla fine degli anni ’70 del secolo scorso la propensione della donna a procreare (fecondità osservata) si è ridotta in tutte le regioni italiane, anche se in modo più o meno marcato, fino a scendere in ciascuna di esse al di sotto del livello di sostituzione delle generazioni di 2,1 figli per donna feconda. Si sono modificate anche le caratteristiche strutturali del comportamento riproduttivo, quali l’ordine e la cadenza delle nascite.

Questi cambiamenti hanno prodotto la contrazione del numero di nascite in tutte le regioni italiane, scese nel complesso del Paese sotto la soglia psicologica delle 400 mila unità. In Calabria, più in particolare, negli ultimi trent’anni le nascite sono diminuite del 28% e della medesima percentuale sono aumentati invece i decessi. L’effetto congiunto delle dinamiche naturali e migratorie ha fatto si che la popolazione calabrese sia diminuita progressivamente nel tempo: nel 1995 era di 2.064.738 abitanti, nel 2001 di 2.009.623 abitanti, al 1/1/2025 di 1.832.147 con una riduzione dell’11,3% nell’ultimo trentennio.

Un tratto che oggi caratterizza il territorio calabrese è lo spopolamento, definito come una sintesi delle conseguenze demografiche, economiche, sociali, culturali e psicologiche che si osservano in una popolazione a seguito dell’alterazione della sua struttura per età, sinteticamente rappresentata dalla forma quasi rovesciata della piramide della popolazione che per la Calabria del 2024 abbiamo qui di seguito riportato. La popolazione in età giovanile diminuisce per effetto della riduzione del numero delle nascite; quella anziana invece cresce  grazie all’aumento dell’aspettativa di vita che negli ultimi trent’anni ha superato la soglia degli 80 anni (nel 1995 era di 77, 8 anni; nel 2024 di 82,3 anni). Ciò nonostante, si osserva un costante aumento del suo divario rispetto al valor medio italiano che oggi è di 83,4 anni; sintomo evidente del peggioramento del livello del servizio socio sanitario calabrese.

Lo spopolamento, pur presente su tutto il territorio regionale, segnato da denatalità e emigrazione giovanile, ha interessato soprattutto le zone interne e montane. A questo fenomeno, rilevante per le sue conseguenze negative, come lo svuotamento di interi centri abitati, lo sperpero di risorse umane e economiche, la perdita di un grande patrimonio culturale e ambientale, fino ad oggi è stata data poca importanza, e comunque è mancato un disegno integrato per contrastarne gli effetti negativi.

Conseguenza delle dinamiche prima descritte è stato il progressivo invecchiamento della popolazione, misurato dal rapporto vecchi/giovanissimi. Più in particolare, dal 1995 al 2025 il numero dei vecchi per 100 giovanissimi è aumentato da 75,5% a 196,2% con differenze molto marcate tra centri più urbanizzati e piccoli comuni. In questi ultimi si osservano infatti indici di vecchiaia elevatissimi: solo per fare qualche esempio ricordiamo che ad Alessandra del Carretto e a Castroregio in provincia di Cosenza oggi convivono rispettivamente 988 vecchi per 100 giovanissimi e 667 vecchi per 100 giovanissimi; a San Nicola dell’Alto in provincia di Crotone questo rapporto è di 620 vecchi per 100 giovanissimi.

L’invecchiamento demografico ha conseguenze potenzialmente molto negative, in particolare in una regione come la Calabria, caratterizzata in passato da un intenso esodo e da scarsi flussi migratori in entrata, per cui essa può essere considerata a ragion veduta un chiaro esempio di come la recente evoluzione dei comportamenti demografici e familiari (e le modificazioni quantitative che ne derivano) rappresentino un forte ostacolo ad un armonico sviluppo del sistema sociale ed economico del suo territorio. Una regione, dunque, a rischio concreto di implosione demografica e sociale se non saranno messi in campo strategie a livello nazionale e locale quanto meno per temperare le forti criticità prima segnalate.

La diminuzione della natalità, oltre alle conseguenze esaminate in precedenza, sta causando la riduzione numerica della popolazione giovanile: i giovani stanno divenendo sempre di più una risorsa rara. Di contro, l’aumento continuo della sopravvivenza sta gonfiando a dismisura le classi di età più elevate. Ricordiamo che questi trend demografici non rappresentano una prerogativa della popolazione italiana, ma sono un tratto comune a molti Paesi sviluppati. In Italia, però, questi accadimenti si caratterizzano per la forte intensità e velocità, provocando un intenso “inverno demografico”, che si avvia a divenire molto “severo” con conseguenze sociali ed economiche di grande impatto, per esempio anche sul mercato del lavoro e sul sistema pensionistico, per citarne soltanto due.

Recentemente la CGIA di Mestre in un suo Report ha mostrato, sulla base degli ultimi dati Istat disponibili, gli effetti della natalità sulle età giovanili, e in particolare nella fascia tra i 15 e i 34 anni, che è il segmento in procinto di entrare nel mercato del lavoro o che vi è entrato da poco, evidenziandone il calo nell’ultimo decennio e rimarcando i decrementi differenziali a livello regionale e provinciale. Per l’autorevolezza della fonte, quest’analisi ha avuto una vasta eco nei media, con considerazioni e prese di posizione e proposte a volte estemporanee da parte di commentatori politici, commenti che denotano una scarsa conoscenza dell’impatto delle dinamiche demografiche sulla società mentre, come le esperienze della storia sociale passata e più recente insegnano, far nascere più figli in un paese, e nel nostro in particolare, richiede una politica demografica razionale e molto pervasiva, di non facile implementazione, con corposi investimenti finanziari di lungo periodo che vadano a incidere in modo profondo sulla vita delle famiglie, in modo da creare un clima favorevole verso una prole più numerosa; che sappia trasformare l’immigrazione da problema a risorsa strategica.

Politica demografica fino ad oggi da noi del tutto assente, a parte alcuni interventi: semplici “ristori” alle famiglie che hanno già dei figli. Dai dati del Report della CGIA si coglie ancora che le regioni del Mezzogiorno negli ultimi dieci anni hanno occupato le prime posizioni nella graduatoria delle regioni italiane per diminuzione della popolazione giovanile (15-34 anni), con riduzioni che vanno da -19,9% della Sardegna a -19.0 della Calabria, che è il valore negativo più elevato del Mezzogiorno dopo la Sardegna, e via via fino ad giungere al -12,7% della Campania, a fronte di un calo medio dell’Italia di -7,4%. Ricordiamo che, sempre nello stesso periodo, il calo della numerosità della fascia giovanile nelle altre ripartizioni italiane è stato molto contenuto: Nord- Ovest -1,0%; Nord-Est -0,5%; Centro -6,6%.

Gli effetti della denatalità sulle popolazioni giovanili del Mezzogiorno si associano a livelli di disoccupazione molto elevati. Ricordiamo che nel 2022 i tassi di disoccupazione giovanile (15-24 anni di età) di queste regioni sono i più alti d’Italia: Sicilia 43,2%, Campania 42,6%, Calabria 34,8%, Puglia 32,0%, Molise 30,8%, Sardegna 27,4%, Basilicata 25,1%, Abruzzo  23,8%, valor medio Italia 23,7%. Secondo le previsioni Istat, ipotesi mediana, nel 2030 la popolazione complessiva della Calabria dovrebbe ridursi a 1.755.756, nel 2040 a 1.646.306, nel 2050 a 1.516.652 e addirittura a 1.236.168 abitanti nel 2070. Sulla base di queste previsioni la fascia dei giovani calabresi conoscerà una ulteriore e continua diminuzione, passando da 395.436 giovani del 2023 a 267.758 nel 2050 (-32,3%): una risorsa dunque sempre più rara ma nel contempo sempre più fragile.

Questi dati, insieme con gli alti tassi di abbandono scolastico e livelli educativi bassi osservati, marcano un’area del Paese, e la Calabria in particolare, con un grave disagio sociale che sarà ancora più acuto se andrà in porto l’autonomia differenziata, che costringerà le giovani generazioni del Mezzogiorno a emigrare verso le aree più ricche del Paese, dove avranno la possibilità di trovare più facilmente un lavoro e salari più elevati. Coloro i quali resteranno andranno verosimilmente incontro ad una vita lavorativa precaria e frammentata, destinata a concludersi,”, con una pensione molto prossima a quella sociale, stante il sistema pensionistico attuale del “retributivo puro.

In epoca recente la mobilità degli italiani è cresciuta notevolmente. Questo aspetto si coglie chiaramente dalle statistiche dell’Aire – l’Anagrafe degli italiani residenti all’estero. Infatti, negli ultimi diciotto anni il numero degli iscritti all’Aire è raddoppiato, passando da 3 milioni 106 mila del 2006 a 6 milioni 134 mila nel 2023. Ciò è da attribuire, oltre all’accresciuta mobilità degli italiani, anche alla maggiore consapevolezza che l’iscrizione all’Aire è il requisito essenziale per poter usufruire di tutta una serie di servizi forniti dalle rappresentanze consolari.

L’esame degli espatri degli anni più recenti, oltre a confermare che la gran parte di essi riguarda i giovani e i giovani adulti, fa emergere anche un aspetto nuovo, e cioè l’aumento degli espatri nell’età adulta (classe 50-64, incremento del 21,0%), ma soprattutto quello dei pensionati (classe 65 e oltre, incremento del 43,4%), fenomeno, quest’ultimo, ancora tutto da analizzare. Da questa fonte, anche se lacunosa ma comunque importante, si coglie anche quanto sia consistente la comunità dei calabresi all’estero, conseguenza in parte della sua storia passata ma anche della nuova mobilità: nel 2023 è la Sicilia ad avere la popolazione residente all’estero più numerosa, 815 mila iscritti all’Aire, seguono Lombardia con 611 mila iscritti, Campania con 549 mila, Veneto con 526 mila, Lazio con 502 mila e la Calabria con 441 mila iscritti, che risulta altresì una delle prime regioni per incidenza rispetto alla popolazione residente (24%). Dunque, un patrimonio di persone molti dei quali possiedono un livello di istruzione elevato; importante oltre che dal punto di vista numerico anche sociale ed economico; una comunità fortemente legata alla terra di origine dalla quale si aspetta attenzione e considerazione.

Da regione di emigrazione a regione di immigrazione e di accoglienza. Sono questi anche altri due tratti importanti che si colgono da uno sguardo alla Calabria degli ultimi decenni. Ricordiamo che al censimento del 2023 la popolazione residente straniera in Calabria è risultata essere 99.097 su una popolazione di 1.838.568 (incidenza 5,4%; valor medio italiano 8,8%). Ricordiamo ancora che a fine 2023 sono stati oltre 6 mila i presenti nelle strutture di accoglienza regionali e che la Calabria si colloca al decimo posto per  numero di persone accolte.

Questo fenomeno, pur ancora poco rilevante sia numericamente sia per incidenza sulla popolazione residente è comunque in crescita e sta trasformando sempre di più la nostra regione in una società multi etnica e multi culturale, facendo emergere è vero nuovi problemi, come quelli connessi per esempio all’integrazione, pur tuttavia non dobbiamo dimenticare gli indubbi apporti postivi dei lavoratori immigrati al settore agricolo, a quello dell’edilizia, all’assistenza familiare e il loro contributo alla crescita del Pil regionale. (gdb)

[Giuseppe De Bartolo, già ordinario di Demografia Università della Calabria]

ACQUA IN CALABRIA: LA SOSTENIBILITÀ
HA BISOGNO DI OBIETTIVI DI INNOVAZIONE

di BRUNO GUALTIERI – Il 19 aprile scorso, con Acque di Calabria, ho sollevato una questione tanto semplice quanto cruciale: il sistema idrico regionale sta davvero evolvendo verso un modello moderno e sostenibile, oppure si sta solo preparando a un nuovo ciclo di promesse incompiute? Un mese dopo, con Calabria, assetata di futuro, ho descritto le implicazioni reali della crisi idrica: impoverimento dei suoli, salinizzazione dei pozzi, interruzioni idriche subite dalle famiglie. Con l’avvicinarsi dell’estate e un quadro meteorologico che preannuncia nuovi stress, la situazione non è affatto migliorata, anzi si è aggravata ulteriormente.

L’11 giugno, l’Università della Calabria ha ospitato la giornata di studi “Siccità e scarsità idrica nel Mezzogiorno”, promossa dal CeSMMA del Dipartimento di Ingegneria dell’Ambiente. L’incontro, ricco di contenuti scientifici, ha visto la presentazione di modelli climatici avanzati, analisi idrogeologiche e strumenti di valutazione sofisticati. Tuttavia, è emersa chiaramente la distanza tra la conoscenza tecnica del fenomeno e la capacità delle istituzioni di tradurla in azioni concrete. Pur presenti, le istituzioni si sono limitate a un ruolo formale, senza proporre alcuna roadmap né progetti attuativi. A oggi, l’unico intervento reale resta il ricorso all’invio di autobotti per rifornire le comunità in crisi, segno di una gestione priva di visione strategica.

È noto da tempo che il sistema idrico calabrese soffre di fragilità strutturali. Di governance pubblica, perdite idriche, riuso delle acque reflue e valorizzazione degli invasi si discute da anni. Molti interventi sono stati programmati e in parte finanziati, ma manca ancora una visione coerente. Occorre superare l’approccio emergenziale e definire una strategia basata su priorità oggettive e decisioni coraggiose.

La strategia per uscire dalla crisi: priorità normative, gestione integrata e investimenti mirati

Un nodo centrale è quello normativo. La proposta di legge regionale n. 75/11, pur licenziata in Commissione nel 2021, non è mai arrivata in Aula. Un suo aggiornamento tecnico, allineato agli orientamenti comunitari, è oggi indispensabile. È necessario riaffermare il primato dell’uso potabile nella gerarchia degli usi idrici, subordinando le concessioni a fini energetici al fabbisogno umano, agricolo e industriale. Il diritto all’acqua potabile va sancito come principio incondizionato.

Gli invasi silani, gestiti da soggetti privati ma contenenti una risorsa pubblica, richiedono una revisione dei vincoli concessori. Vanno introdotti obblighi minimi di rilascio, mantenuti livelli ecologici, vietato lo svuotamento completo e attivati meccanismi compensativi per i territori interessati. La redistribuzione delle rendite idroelettriche può finanziare direttamente la manutenzione e digitalizzazione delle reti locali.

Sorical, oggi società in house con una concessione trentennale ottenuta nel 2023, è chiamata a esercitare la gestione unica del servizio idrico. Per farlo efficacemente, deve rafforzarsi sul piano organizzativo e tecnologico: personale qualificato, sistemi digitali, piattaforme di telecontrollo, politiche tariffarie eque e sostenibili. L’esperienza campana di GORI dimostra che trasparenza e controllo pubblico sono fattori decisivi.

Il problema delle perdite idriche rimane centrale. In Calabria, oltre il 50% dell’acqua immessa in rete viene dispersa, con punte superiori al 60% in alcune città. Il Piano d’Ambito prevede oltre due miliardi di euro per dimezzare le perdite entro il 2030. In questo contesto, strumenti innovativi come il project financing basato sui volumi effettivamente risparmiati possono fare la differenza. Una task force tecnico-finanziaria regionale, stabile e operativa, dovrebbe assicurare la bancabilità e la cantierabilità degli interventi, sfruttando il nuovo Codice dei Contratti Pubblici.

Un patrimonio poco valorizzato è rappresentato dalle circa 500 sorgenti dismesse, escluse dall’attuale sistema di approvvigionamento. Il loro recupero permetterebbe di alimentare reti a gravità, ridurre i consumi energetici e aumentare la resilienza del sistema. Servono censimenti aggiornati, progetti comunali di ripristino e un fondo regionale dedicato, finanziato con i canoni concessori.

Va poi strutturato un rapporto stabile e trasparente tra pubblico e privato. Il Codice dei Contratti consente oggi la costruzione di partenariati pubblico-privati articolati, che integrino la gestione di invasi, sorgenti, reti e impianti di depurazione. Una struttura tecnica regionale, competente in PPP idrici, può fornire supporto operativo a enti locali e gestori pubblici per attrarre investimenti senza perdere la regia pubblica.

Tutto questo richiede una governance efficace e competente, fondata su una Cabina di regia regionale “Acqua” che coinvolga Regione, Arrical, Sorical, Comuni, Consorzi di bonifica, Università e stakeholder locali. Pianificazione, trasparenza e monitoraggio devono essere i pilastri di questa struttura, che dovrà garantire anche la raccolta e condivisione pubblica dei dati e l’attivazione di sistemi di allerta preventiva.

Accanto alle riforme tecniche, serve una nuova consapevolezza collettiva. Occorre passare dalla cultura dell’acqua – spesso intesa come mera disponibilità della risorsa – a una cultura per l’acqua, fondata su cura, partecipazione e responsabilità diffusa. La sostenibilità passa anche da utenti più consapevoli: bollette intelligenti, campagne educative, strumenti di monitoraggio dei consumi e coinvolgimento della cittadinanza nelle scelte strategiche sono elementi imprescindibili per rendere stabile il cambiamento.

I benefici attesi sono concreti: 250 milioni di metri cubi d’acqua recuperati ogni anno, un risparmio energetico del 30%, 1.200 nuovi posti di lavoro e 50 milioni di euro di indotto economico annuale

Ma soprattutto: rubinetti sempre attivi, un’agricoltura più competitiva, invasi valorizzati anche turisticamente, ecosistemi più protetti

La risorsa c’è. Le competenze vanno ricercate. Ora serve solo il coraggio di cambiare.

Calabria, dalla sete alla strategia. Una nuova cultura per l’acqua è possibile. (bg)

 

[Bruno Gualtieri, già Commissario Straordinario dell’Autorità Rifiuti e Risorse Idriche della Calabria]

 

GUARIRE LA FERITA DEL TERRITORIO DI KR
ATTRAVERSO LA FORZA DELLA LEGALITÀ

di EMILIO ERRIGO –  Torno dopo qualche settimana a Crotone per continuare a fare ciò che sto facendo da tempo in tutte le sedi, lavorare incessantemente nel rispetto del mandato che mi è stato affidato. Solo il diritto, applicato con fermezza, può guarire questa ferita che dura da quasi un secolo. La bonifica non è un concetto teorico: è terra, scavi, rimozione, conferimento, norme sulla sicurezza. Ed abbiamo capito purtroppo, che può essere anche contrasto quando prevalgono interessi e punti di osservazione divergenti. Tuttavia, resta fermo un principio: la legge e la tutela della salute dei cittadini devono essere i pilastri su cui si fondano tutte le nostre azioni.

Il 18 giugno, il Tar Calabria, si è riservato la decisione sull’impugnativa dell’Ordinanza 1/2025, con cui lo scorso aprile il Commissario aveva imposto a Eni Rewind S.p.A. l’utilizzo dell’unica discarica nazionale pienamente autorizzata, quella di Columbra, per il trattamento dei rifiuti pericolosi del Sin.

Aspettiamo con enorme rispetto e grande fiducia il pronunciamento di giudici esperti che sapranno certamente distinguere tra responsabilità amministrative, scelte politiche e disinformazione. Il mio compito è quello di rimuovere ostacoli, nel pieno rispetto della normativa nazionale e unionale.

Sullo sfondo, resta la questione dell’autorizzazione al trasferimento in Svezia di 40.000 tonnellate di rifiuti: È un passo molto utile, ma parliamo di meno del 5% del problema, tra meno di un anno l’Europa, probabilmente, vieterà questo tipo di esportazioni.

Lo sostengo dal primo giorno: l’alternativa estera può affiancare, non sostituire, la soluzione interna. Questo è il senso profondo dell’Ordinanza.

Ho recentemente incontrato nuovamente il Ministro dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica, Gilberto Pichetto Fratin, al quale ho fornito un puntuale aggiornamento sull’attività svolta e sulle prossime iniziative previste.

L’incontro ha rappresentato un momento di confronto importante, durante il quale sono state condivise le azioni già intraprese e quelle in programma, in stretta sinergia con le articolazioni amministrative competenti del Mase.

Il costante supporto delle donne e degli uomini del Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica è stato ed è determinante per proseguire con determinazione lungo il percorso tracciato dal Governo, che ha dimostrato e continua a dimostrare una forte attenzione per la salute dei cittadini calabresi.

Ma non è solo in sede ministeriale che mi sto muovendo. 

Nei giorni scorsi  ho avuto un proficuo incontro presso l’Istituto Superiore di Sanità con il Direttore del Dipartimento Ambiente e Salute, Dott. Giuseppe Bortone, nel corso del quale ho rappresentato l’urgenza di avviare azioni concrete a tutela della salute pubblica sottoponendo dettagli riferiti alla complessa realtà ambientale del Sin di Crotone all’attenzione dell’ISS, diretto dal Prof. Rocco Bellantone.

Ho, poi, richiamato l’importanza di ricostruire un clima di fiducia istituzionale: “Auspico davvero che si possa ripristinare un dialogo cooperante con tutti gli attori coinvolti, a partire dagli enti territoriali fino alla comunità civile tutta. Solo tutti insieme possiamo restituire dignità a questa terra”.

Rivolgo, infine, un pensiero alle recenti vicende che hanno interessato il Presidente della Regione Calabria: Ho espresso subito al Governatore la mia solidarietà e sono pienamente fiducioso che il Presidente Roberto Occhiuto saprà superare questa fase, dimostrando con trasparenza che il suo instancabile impegno e la sua nota dedizione, sono sempre stati rivolti al bene dei cittadini calabresi. (ee)

[Emilio Errigo è commissario straordinario per la bonifica Sin Crotone]

IL PIL DELLA CALABRIA NON CRESCE
NEL 2024 REGISTRATO A MENO 0,2%

di ANTONIETTA MARIA STRATI – Nel 2024 in Calabria il Pil non cresce. Anzi, diminuisce dello 0,2%, mentre quello del Mezzogiorno, per il terzo anno consecutivo, cresce più del Nord. È quanto emerso dal rapporto Svimez sul Pil delle regioni nel 2024.

Nel 2024, come nel biennio precedente, il Pil delle regioni meridionali è aumentato più del Centro-Nord: +1% contro +0,6%. Quel punto in più è stato possibile grazie al PNRR. La crescita è stata più sostenuta nelle regioni centrali (+1,2%), meno nel Nord-Ovest (+0,9%). Per il Nord-Est si stima una sostanziale stagnazione dell’attività economica (-0,2%).

La migliore performance di crescita del Sud è determinata dallo stimolo maggiore offerto dalle costruzioni (+3% contro il +0,6% del Centro-Nord), in continuità con il biennio precedente (Tab. 2). Leggermente superiore al dato del Centro-Nord anche la dinamica dei servizi (+0,7% contro +0,6%). Nella media d’area, il comparto industriale meridionale presenta una sostanziale tenuta (+0,1%), a fronte di una leggera contrazione nel resto del Paese (-0,2%). L’agricoltura cresce solo dello 0,5% al Sud rispetto al +2,9% del Centro-Nord. La crescita italiana, in un contesto di forte incertezza internazionale e di crisi di ampi comparti dell’industria europea, è stata sostenuta dalla spinta propulsiva degli investimenti in opere pubbliche, trainati dal Pnrr e da una migliorata capacità realizzativa delle amministrazioni. La Svimez ha stimato che il Pnrr ha offerto un contributo alla crescita del Pil nel 2024 pari a 0,6 punti percentuali nel Mezzogiorno e a 0,4 punti nel Centro-Nord.

Il Pil nelle regioni: forte eterogeneità interna alle macro-aree

Anche nel 2024 si conferma l’ampia differenziazione interna alle diverse ripartizioni territoriali nei tassi di crescita regionali osservata nel triennio precedente (Informazioni Svimez 4/2024). Al Sud, spiccano le performance di Sicilia (+1,5%) e Campania (+1,3%), accomunate dalle migliori dinamiche d’area del valore aggiunto delle costruzioni, rispettivamente pari a +6,3% e +5,9%.

In Sicilia anche l’espansione del settore industriale (+2,7%) contribuisce al risultato (Tab. 2). Basilicata (+0,8%), Sardegna (+0,8%) e Abruzzo (+1%) mostrano tassi di crescita simili, frutto però di diverse dinamiche settoriali: nell’economia sarda l’espansione riguarda i diversi settori ad eccezione dei servizi; in Abruzzo la crescita è trainata dai servizi che compensano la perdita di valore aggiunto delle costruzioni e dell’industria; nell’economia lucana pesa il calo del valore aggiunto industriale e il minor stimolo offerto dalle costruzioni, ma l’aumento dei servizi sostiene la crescita. Più distante dalla media meridionale la Puglia (+0,6%), frenata dalla stagnazione del terziario e da una crescita meno vivace del valore aggiunto delle costruzioni rispetto al resto del Mezzogiorno.

Infine, Molise (-0,9%) e Calabria (-0,2%) dovrebbero segnare un calo del Pil nel 2024. Nel primo caso, il dato risente della contrazione significativa delle costruzioni (-12,7%) – la più ampia a livello nazionale – e del ristagno di servizi e industria. Sullo stallo dell’economia calabrese incidono andamenti negativi diffusi tra settori, che sterilizzano la crescita dell’industria. Nel Centro, alla stagnazione delle Marche e alla crescita moderata della Toscana (+0,4%) si contrappongono le buone performance dell’Umbria (+1,2%) e, soprattutto, del Lazio, prima regione italiana per crescita del Pil nel 2024 (+1,8%). Nel Nord-Ovest, solo il Piemonte (+1,5%) registra una crescita significativa, seguito dalla Lombardia (+0,9%), mentre Liguria (-0,5%) e Valle d’Aosta (-0,1%) registrano il segno meno. La contrazione del prodotto in Veneto (-0,4%) ed Emilia-Romagna (-0,2%), principali economie dell’area, dovrebbero portare in territorio negativo il dato del Nord-Est (-0,2%).

A consuntivo di una inedita fase di ripresa, il Pil è cresciuto complessivamente dell’8,6% tra il 2022-2024 al Sud, contro il 5,6% del Centro-Nord, con uno scarto cumulato di 3 punti percentuali. Nel triennio 2022-2024, in termini di crescita cumulata del Pil, Sicilia (+11,2%), Campania (+9,5%) e Abruzzo (+9,2%) hanno registrato risultati superiori alla media del Mezzogiorno. Sardegna (+7,7%) e Puglia (+7%), pur collocandosi al di sotto della media dell’area, hanno comunque superato il tasso di crescita medio del Centro-Nord. Restano invece al di sotto della media meridionale Molise (+5,2%), Calabria (+4,2%) e Basilicata (+2,7%).

Un altro dato importante è la continua crescita degli investimenti pubblici: nel 2024 il progressivo indebolimento degli investimenti privati in edilizia, legati al Superbonus, ha ridotto il contributo alla crescita della componente privata delle costruzioni. Al contrario, è aumentato il contributo delle opere pubbliche, soprattutto grazie all’avvio della fase esecutiva del Pnrr. Nel 2024, per il complesso degli enti attuatori, gli investimenti pubblici hanno raggiunto circa 45 miliardi di euro. Poco meno della metà delle risorse è stata mobilitata dalle amministrazioni comunali, che si confermano primi investitori pubblici con una spesa pari a 21,7 miliardi. Nel complesso, gli investimenti pubblici sono cresciuti di circa 6 miliardi rispetto al 2023 (+3 miliardi per i Comuni).

Per la Svimez «si tratta di un risultato di notevole rilievo, considerato che il 2023 aveva beneficiato anche dell’effetto una tantum della chiusura del ciclo di programmazione 2014-2020 dei fondi europei della coesione, quantificabile, per le opere pubbliche, in circa 4 miliardi».

Tra il 2022 e il 2024, gli investimenti comunali sono aumentati del 75,3% nel Mezzogiorno, passando da 4,2 a 7,4 miliardi. A livello italiano, i Comuni hanno realizzato investimenti per 21,7 miliardi, +64% rispetto al 2022.

Ma non sono gli investimenti pubblici ad aver aiutato il Sud a crescere: una fetta di merito lo ha anche il settore dei servizi. Il valore aggiunto del comparto registra un aumento medio dello 0,7% nelle regioni meridionali, a fronte di un +0,6% nel resto del Paese (Tab. 2), con Abruzzo (+1,5%), Sicilia (+1,3%) e Campania (+1,1%) che si attestano su valori superiori all’1%. In calo il settore in Sardegna (-0,1%), Molise (-0,3%) e, soprattutto, in Calabria (-0,6%). Tra le attività del terziario, il comparto delle attività finanziarie e immobiliari, professionali e scientifiche ha mostrato la dinamica di crescita più pronunciata a livello nazionale, con una lieve prevalenza al Mezzogiorno (+2,3% contro il +2,1% Centro-Nord) per effetto da un lato dell’espansione delle attività immobiliari legate alla crescita del settore delle costruzioni e, dall’altro per il dato, rilevante soprattutto al Sud, della crescita dei servizi a più elevato valore aggiunto e contenuto di conoscenza.

La forbice della crescita del valore aggiunto a favore del Mezzogiorno è più ampia per i comparti – che risentono positivamente anche della spesa turistica – relativi a commercio, trasporti, servizi di alloggio e ristorazione, cresciuti nel Mezzogiorno dello 0,8% a fronte di una flessione del -0,2% nel Centro-Nord. In questo ambito, Basilicata, Sardegna e Molise registrano le migliori performance al Sud.

L’industria segna una sostanziale stagnazione livello nazionale (-0,1%), con andamenti simili tra macro-aree: (-0,2% nel Centro-Nord e +0,1% nel Mezzogiorno), ma con impatti molto più significativi al Nord per effetto del maggior peso sull’economia locale. Mentre in Lombardia e in Emilia Romagna si registra una contrazione, in Calabria l’industria cresce (5,8%), seguita da Sardegna (4,7%) e Sicilia (+2,7%).

Lo stallo dell’industria italiana si riflette nella contrazione dell’export (-1,1% sul 2023), che penalizza principalmente le economie esportartici del Nord, dove il contributo della domanda estera, espresso in percentuale al Pil regionale, supera il 30%.

Nel Mezzogiorno, la riduzione delle esportazioni è più pronunciata che nelle altre aree, ma il suo impatto sulla dinamica del Pil meridionale è contenuto in ragione di un contributo meno rilevante apportato dalla domanda estera alla crescita dell’area. Il risultato del Sud è in buona parte da attribuire al crollo dell’export di autoveicoli, in riduzione del 39,7% sul 2023, ai prodotti della raffinazione (-13%) e alla riduzione delle esportazioni dell’aerospazio che scendono del 9,9%. In negativo le esportazioni del settore dell’elettronica che si contraggono del 22%. Supera gli 11,5 mld l’export agroalimentare meridionale, con un aumento medio superiore al 10%.

Nel 2024 la crescita dell’occupazione si è confermata sostenuta, soprattutto nel Mezzogiorno, dove il numero di occupati è aumentato del 2,2% su base annua – oltre 142 mila unità in più – contribuendo per il 40% all’incremento nazionale (+1,5%). Il Sud ha risentito meno della crisi occupazionale dell’agricoltura (-0,5% contro -4,9% del Nord-Est e -12% del Centro), mentre rimane buona la dinamica occupazionale anche dei servizi legati al turismo (come alloggio e ristorazione), che fanno segnare +5,4% al Mezzogiorno a fronte di un +2,1% nazionale. In crescita in tutto il Paese anche l’occupazione nel commercio (+1,9% al Nord-Est; +3,9% nel Nord-Ovest; + 4% al Centro; +5,6% nel Mezzogiorno).

Al contrario, la variazione occupazionale degli addetti manifatturieri nelle regioni del Mezzogiorno risulta allineata al dato nazionale (+0,6%) e inferiore nelle circoscrizioni del Nord-est (+1,2%) e del Centro (+1,8%).

A livello nazionale, i servizi alle imprese hanno mostrato variazioni positive al Nord (+0,6% al Nord-est e +2,4% al Nord-ovest) e negative al Centro (-0,6%) e al Sud (-0,5%). Per i servizi Ict emerge un dato di interesse: con una crescita del +0,9%, il Mezzogiorno appare in positiva controtendenza rispetto alle altre aree che registrano dei cali di addetti.

Le retribuzioni reali nazionali mostrano un doppio divario: italiano rispetto agli altri paesi europei, e del Sud rispetto al resto del Paese, nell’intero periodo osservato.

La questione salariale italiana si riflette nella presenza di un’ampia platea di lavoratori poveri, soprattutto al Sud. La Svimez ha stimato i lavoratori in questa condizione a partire dai dati relativi alle retribuzioni disponibili per gli anni 2023 e 2024 mutuando la metodologia adottata a livello europeo. La soglia di reddito annuo al di sotto della quale un lavoratore dipendente o autonomo viene definito povero è pari a circa 7.300 euro annui (circa 600 euro mensili).

Al 2024, ricadono in questa condizione circa 4,6 milioni di lavoratori, pari al 21% del totale. Tale condizione al Sud interessa il 31,2% dei lavoratori, pari in numero assoluto a oltre 1,8 milioni. Rispetto al 2023, il recupero occupazionale non sembra aver alleviato il fenomeno del lavoro povero che risulta: in leggero peggioramento al Sud; stabile nel Nord-Ovest (16,6%; al 2024 1,1 milioni di lavoratori poveri);  in deciso peggioramento nel Nord-Est (dal 14 al 15,6% del 2024; quasi 800 mila); in miglioramento significativo solo nel Centro (dal 20,5 al 19,4% del 2024; circa 900 mila).

«I dati che presentiamo – ha detto Adriano Giannola, presidente della Svimez – non sono pura statistica, dietro ai numeri c’è un’idea, fondata sui vantaggi comparativi dell’Italia e del Mezzogiorno, sui quali la Svimez suggerisce ai decisori alcune indicazioni programmatiche».

«Investire sulla logistica, sfruttando le opportunità delle aree doganali intercluse, e favorire le Autostrade del Mare – ha detto Giannola –; Implementare la transizione energetica, cogliendo le chance che ha il Sud sulle rinnovabili e sulla geotermia, piuttosto che puntare sul nuovo nucleare per il quale serviranno almeno 10 anni; Scommettere sulla rigenerazione urbana, che è anche parte del discorso sulla mitigazione del rischio, vista come strategia per evitare lo spopolamento delle zone interne, da collegare alle aree metropolitane attraverso un’adeguata rete infrastrutturale». (ams)