SVIMEZ: INSODDISFACENTE UTILIZZO DELLE
RISORSE DEI FONDI DI COESIONE PER IL SUD

di ANTONIETTA MARIA STRATI – Quale futuro per i territori – soprattutto per la Calabria – se l’attuale programmazione dei fondi europei per la coesione ha portato a risultati insoddisfacenti? Se lo sono chiesto Luca Bianchi, direttore della Svimez e Ferdinando Ferrara, consigliere della Presidenza del Consiglio dei ministri, attraverso la pubblicazione de “I Quaderni Svimez”.

Un documento in cui viene scritto, nero su bianco, su come l’attuale programmazione, basata su obiettivi tematici generali, non risponde adeguatamente alle specifiche necessità dei territori. In parole povere, questo tipo di azione si è rivelata essere inadeguata per gli obiettivi di crescita o di riduzione dei divari, portando solo a risultati limitati.

«Questo approccio, gestito attraverso una governance multilivello – si legge – tende ad ridurre l’efficacia delle politiche di coesione so- prattutto nei contesti caratterizzati da una bassa capacità di spesa e/o qualità delle Istituzioni».

«Ne è prova – si legge – il fatto che l’Italia pur collocandosi al secondo posto in termini di risorse ricevute, non abbia riportato risultati eclatanti in termini di coesione. L’analisi della Programmazione 2014-2020, fatta nello studio Svimez, evidenzia un’allocazione distorsiva delle risorse, con una sproporzionata concentrazione su agevolazioni per le imprese a scapito di infrastrutture essenziali. Le conseguenze sono chiare: una riduzione di investimenti fondamentali in settori strategici come ambiente, ICT, mobilità e servizi sociali».

L’analisi ha nevidenziato come l’Italia si caratterizzi per una riallocazione delle risorse tra le diverse aree molto più pronunciata rispetto al resto dell’Europa. L’aspetto più critico è che si tratta di una ricollocazione distorsiva, in quanto in contrasto con gli obiettivi di sviluppo e riduzione dei divari regionali.

Al termine della programmazione, difatti, le risorse destinate a favore delle imprese superano i 9,2 miliardi di euro, che ne fanno, con il 31,7%, l’area con la maggiore quota di risorse, nonostante le agevolazioni non rappresentino lo strumento principale per attivare duraturi percorsi di crescita. Rispetto all’inizio della programmazione tali risorse sono aumentate del 68%, a fronte del 18% del resto d’Europa. Si tratta sicuramente di un dato preoccupante, soprattutto perché associato a scelte programmato- rie che hanno sacrificato risorse per la realizzazione di infrastrutture per lo sviluppo economico e sociale.

Al termine della Programmazione, le aree tematiche in cui erano presenti interventi infrastrutturali funzionali allo sviluppo e all’equità (aree ICT, green, mobilità e sociale) subiscono difatti una riduzione, rispetto all’allocazione iniziale, di circa 6 miliardi di euro.

Le cause, nel caso italiano, dell’inefficace composizione finale della Programmazione 2014-2020 vanno ricercate nella limitata capacità amministrativa e di spesa, nei comportamenti distorsivi legati alla possibilità di spostare risorse dei programmi europei sui così detti programmi complementari, nonché nell’eccessiva flessibilità delle riprogrammazioni legate alle emergenze pandemiche ed energetiche.

In particolare, a causa dell’insoddisfacente capacità amministrativa e qualità delle Istituzioni, con il susseguirsi degli anni e l’aumentare dei problemi di attuazione e di raggiungimento dei target di spesa, tende sempre più ad affievolirsi la rilevanza degli obiettivi strategici e di policy definiti all’inizio del periodo di programmazione.

Eppure, «la grande innovazione rappresentata dal dispositivo per la ripresa e la resilienza e le future sfide che l’Unione europea dovrà affrontare per competere e prosperare nei nuovi scenari economici e politici rendono quantomai urgente un ripensamento sul ruolo e sulle modalità di funzionamento delle politiche di coesione», scrivono Bianchi e Ferrara, evidenziando come «per affrontare le criticità del ciclo di Programmazione 2021-2027, è fondamentale un potenziamento della capacità amministrativa e un coordinamento più incisivo».

«Tuttavia – viene detto – è necessario andare oltre le misure attuali, abbracciando un nuovo paradigma basato sull’approccio performance-based del metodo Pnrr subordinando l’erogazione delle rate al raggiungimento di obiettivi mirati».

«Se ben congegnato – hanno spiegato – l’approccio performance based del metodo Pnrr rappresenta non solo una evoluzione del meccanismo di finanziamento delle politiche, ma anche strumento di policy vero e proprio. Infatti, definendo i risultati da conseguire e le condizioni da soddisfare affinché il finanziamento venga erogato, si incentivano specifici progetti o azioni in grado di influenzare in modo significativo e positivo il raggiungimento di quegli obiettivi».

Tale cambiamento di paradigma, permetterebbe quindi di allocare le risorse a disposizione in maniera più efficace rispetto agli schemi di finanziamento “tradizionali”. Questo si tradurrebbe in budget pubblici più efficaci, evitando che i finanziamenti fluiscano verso iniziative non perfettamente in linea con gli obiettivi.

L’Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno è convinta che questa sia «una proposta di riforma concretamente percorribile nell’attuale quadro dell’Unione Europea, in grado di condurre a un sostanziale miglioramento dell’efficacia di queste politiche: Implementando il metodo Pnrr, non sarà più possibile spostare risorse dei programmi europei sui cosiddetti “programmi complementari” o su progetti funzionali al solo raggiungimento dei target di spesa, garantendo così che i fondi siano destinati a progetti realmente in grado di ridurre i divari territoriali».

«Affinché questa proposta possa essere efficacemente integrata nel dibattito europeo – viene ribadito –, è essenziale che rispetti i principi delineati dalle Istituzioni Ue».

La Svimez propone, infatti, un «Accordo di partenariato che stabilisca obiettivi quantitativi chiari e milestone territoriali, assicurando che i finanziamenti siano legati a risultati concreti. Ma la governance macroeconomica europea non può essere esclusa da questo progetto di riforma: solo un approccio integrato e coerente può garantire che la politica di coesione non rimanga isolata, ma contribuisca attivamente alla riduzione dei divari e al progresso dell’Unione».

«Si tratterebbe, sicuramente – hanno evidenziato – di un approccio più rigido rispetto all’attuale, che ridurrebbe fortemente la discrezionalità nella scelta degli interventi da finanziare da parte delle amministrazioni che gestiscono i programmi e delle istituzioni da cui dipendono. Con questo approccio, difatti, per essere ammesso al finanziamento non basta più che un intervento sia coerente con un generico obiettivo di policy, ma è necessaria la sua funzionalità al raggiungimento di un preciso target quantitativo».

«Stabilire chiaramente risultati e condizioni per ottenere il finanziamento, assicura pertanto che i fondi siano destinati adinterventi direttamente funzionali agli obiettivi di policy stabiliti», hanno detto ancora Bianchi e Ferrara, aggiungendo come «resta inteso che gli obiettivi di riduzione dei divari territoriali, della perequazione infrastrutturale, di assicurare servizi omogenei e di qualità, di accompagnare le regioni meno sviluppate nel percorso della doppia transizione sono perseguibili solo attraverso un approccio complementare con le altre politiche europee e vanno supportate, contrariamente a quanto avvenuto nel recente passato, con coerenti interventi delle politiche nazionali».

«Andrebbe pertanto posto in Europa, con più coraggio – hanno concluso – il tema del coordinamento tra la coesione e la governance macroeconomica europea complessiva, perché la politica di coesione non può essere lasciata “sola” a perseguire la riduzione dei divari che le politiche ordinarie spesso contribuiscono ad amplificare». i(rrm)

BENVENUTI AL NORD: LAVORO, IL GOVERNO
PREMIA E INCENTIVA CHI SE NE VA DAL SUD

di SANTO STRATI – Benvenuti al Nord! L’ultima genialata del Governo Meloni, all’interno della Finanziaria, è un fringe benefit (un’incentivazione, diciamo meglio) per i nuovi assunti nel 2025 che trasferiranno, per lavorare, la propria residenza “oltre il raggio di 100 km da quella di origine”.

Detto in soldoni, è un premio a chi emigra (riguarda tutti, senza limiti di età, se il reddito non supera i 35mila euro), ovvero un invito bello netto a lasciare il Sud. Ma come? Si sono spesi fiumi d’inchiostro per scrivere e parlare di “fuga di cervelli” e questo Governo anziché incrementare le opportunità di occupazione nel Mezzogiorno, contribuisce (da 100 “incredibile” bonus (da 1000 a 5000 euro) servirà a convincere anche i più riluttanti a fare le valigie e andare al Nord (dove sennò?).

Questo Governo – nonostante le belle parole, le promesse e le migliori intenzioni – non ama il Sud, non ama il Mezzogiorno, pur continuando a essere tutto il Sud un serbatoio formidabile di voti.

Non ama il Mezzogiorno perché con la politica di tagli alle risorse è evidente che va a colpire le regioni più svantaggiate e più esposte alla crisi economica che mangia il valore di acquisto dei salari scarsi e inadeguati che caratterizzano l’occupazione meridionale.

Tutta la finanziaria – lacrime e sangue, checché ne dica il buon Giorgetti – non fa che esasperare il divario esistente tra le opportunità di crescita (sempre di meno) per tutto il Mezzogiorno e la “ripresina” al Nord. E la postilla ingegnata per iincentivare a fare le valigie non è che l’ultima beffa ai nostri giovani laureati che continuano a emigrare, portandosi spesso, a seguire, i familiari, unica chance per sopravvivere e pensare di poter costruire una famiglia: chi terrebbe i bambini? I genitori o i nonni che vengono dal Sud, ovvio. Già i costi degli affitti sono improponibili, figurarsi poi se si deve pagare una baby sitter…

Ai nostri giovani – l’ho scritto, ahimè, molte volte – abbiamo rubato il futuro e la nuova classe politica e dirigente (stendiamo qui un velo pietoso) sta concludendo l’opera.

Negli ultimi vent’anni sono andati via dal Sud oltre un milione di residenti (1.100.000 per l’esattezza, ci dice la Svimez). Ed è facile immaginare l’età di chi è andato via (uno su due – secondo la Svimez è laureato). Il motivo della fuga dei cervelli è fin troppo evidente: le famiglie calabresi – tanto per puntualizzare meglio il problema – spendono per la formazione e l’istruzione universitaria dei propri ragazzi in Atenei nella Regione che ormai si avviano a sfiorare molto frequentemente l’eccellenza.

I dati ci dicono che in Calabria ci sono magnifiche Università che preparano adeguatamente i nostri laureati, ma poi vengono a mancare le opportunità di occupazione, di formazione e crescita professionale. Così, i furbastri industriali del Nord (ma anche del resto del mondo) si prendono “a gratis” i laureati che faranno la fortuna delle proprie aziende.

Non a caso, parlando nelle scuole calabresi, con i ragazzi delle ultime classi, a proposito dell’evidente sconforto sul futuro, ho toccato con mano una incontrovertibile logica: “vado a studiare fuori, così prim’ancora della laurea trovo opportunità di lavoro. Perché dovrei studiare in Calabria se poi me ne devo andare a Milano, a Torino, o in qualsiasi altro posto dove valorizzano i giovani e curano il loro perfezionamento nella formazione?”.

Non fa una piega, ma – evidentemente – in Regione dove pure si stanno attuando nuove politiche sul lavoro, non si pensa di creare opportunità di impiego favorendo aziende che creano occupazione. E i bandi che già sono attivi, sono il trionfo della burocrazia più ottusa, visto che non tengono in minima considerazione la qualità dell’idea da realizzare  (il cosiddetto autoimpiego) nè guardano alle prospettive della crescita futura. Tanto per restare in tema, ci sono centinaia di progetti di giovani aspiranti imprenditori (quasi tutti con laurea e tanto entusiasmo) che vengono bocciati perché mancano le cosiddette “garanzie” finanziarie. Quelle che dovrebbero coprire questo vuoto non piacciono alle banche e il giro – dopo mesi di esasperante attesa – finisce in un nulla di fatto.

Andrebbero valutati prima di tutti gli effetti occupazionali di un’idea di impresa (nel caso dei progetti) oppure prevedere premialità importanti per le aziende che assumono.

Il segretario generale della Cisl, Luigi Sbarra, calabrese di Pazzano, aveva lanciato qualche tempo fa un principio basilare per il rilancio dell’economia del Sud: la decontribuzione per le aziende, ovvero l’abbattimento degli oneri sociali per chi favorisce e crea occupazione. La manovra di Governo addirittura conferma il taglio della decontribuzione al Sud (già in vigore dallo scorso giugno).

Per quale ragione un’azienda dovrebbe incrementare l’occupazione (e magari attuare percorsi formativi di specializzazione) se non viene motivata adeguatamente?

C’è evidentemente un corto circuito tra paese legale e paese reale: i nostri governanti vivono probabilmente un’altra dimensione e – pur capendo che non ci sono i soldi (che si potrebbero recuperare da una seria lotta all’evasione) – non si rendono conto di quanto sia diventato arduo affrontare la giornata per qualsiasi famiglia del ceto medio. Ecco, la finanziaria – che non piace a nessuno, non soltanto ai calabresi – ha cancellato il ceto medio, distribuendo elemosine a professionisti (17 euro di aumento ai medici, 7 agli infermieri) e mortificando ulteriormente i poveri (nel senso vero della parola) titolari di pensioni sociali minime: un bell’aumento di 10 centesimi (ripeto 10 centesimi) al giorno  e torna l’allegria…

Ci sarà lotta, sicuro, in Parlamento ma è l’impianto generale della manovra che non funziona. Da un lato il nuovo presidente di Confindustria Emanuele Orsini, la scorsa settimana a Cosenza, rilancia sul ruolo del Mezzogiorno per il traino dell’economia, dall’altra il Governo si inventa gli incentivi all’emigrazione dei cervelli (ormai gli operai e la manodopera non emigrano più).

Eppure ci sarebbe una strada praticabile per ridare il sorriso ai ragazzi calabresi (ma anche a tutti quelli che vivono al Sud) incentivando le aziende del Nord (escluse ovviamente quelle manifatturiere che hanno bisogno della presenza fisica del lavoratore) ad attuare programmi di south smartworking: i giovani lavorerebbero da casa (e non è vero che il lavoro da remoto è poco produttivo, tutt’altro), continuando a vivere in famiglia e mantenendo gli affetti, avrebbero un’occupazione stabile e posizioni che possono crescere.

Qualcuno ha detto che al Sud i giovani stanno al mare e in remoto lavorano poco: un’eresia che puzza di razzismo. Lo stesso che ancora incontrano – per fortuna sempre di meno – i nostri ragazzi che tentano la fortuna al Nord, sfidando pregiudizi e preconcetti e mostrando, in breve tempo, talento e capacità che farebbero la fortuna della nostra Calabria. (s)

MEZZOGIORNO E SVILUPPO: L’ESECUTIVO
DEVE RIPARTIRE DALLE INFRASTRUTTURE

di ERCOLE INCALZA – Inizia una fase non facile per il Governo, una fase che, al tempo stesso, è davvero critica anche per le forze di opposizione. Infatti l’attuale Governo ha cercato di attuare una serie di scelte mirate a superare la serie di errori commessi durante la passata Legislatura.

Vorrei ricordare, solo per evitare che la nostra memoria storica corta annulli la incidenza negativa sull’assetto socio economico del Paese, alcuni errori fondamentali commessi dai Governi Conte 1, Conte 2 e Draghi e alcune azioni effettuate nei primi due anni dall’attuale Governo che hanno ridotto, almeno nel comparto delle infrastrutture, la dimensione del danno stesso.

Il Pnrr si avviava ormai ad essere un misurabile fallimento; con la operazione avviata dal Ministro Fitto di rivisitazione di alcune scelte e di approccio organico sia alle opere inserite nel Pnrr che di quelle allocate nel Fondo di Coesione e Sviluppo e nel Repower, si è riusciti ad evitare un vero fallimento irreversibile dell’intero Pnrr e, al tempo stesso a rivedere integralmente le metodologie utilizzate nell’utilizzo dei Fondi comunitari

Le Zone Economiche Speciali (Zes) erano otto, erano state avviate con Decreto Legge n.91 del 2017, con una copertura davvero ridicola di circa 600 milioni di euro e, dopo sei anni, si era riusciti ad attivare, in termini di spesa reale, un importo inferiore ai 50 milioni di euro. La cosa davvero assurda era la limitata copertura finanziaria e l’assenza di un processo organico nell’intero territorio meridionale.

I Commissari nominati per dare attuazione ad un simile impianto programmatico avevano svolto un lavoro encomiabile ma, ripeto, il limite delle risorse e l’approccio frantumato in otto distinti ambiti territoriali e non all’intero assetto del Mezzogiorno, avevano, praticamente, compromesso la intera iniziativa. Il Governo attuale ha istituito una Zes Unica, cioè finalizzata all’intero Mezzogiorno, ed ha reso disponibile una quantità di risorse pari a 3.270 milioni di euro

Molti dimenticano che durante il Governo Conte 2 c’era stato un lungo seminario a cui avevano partecipato quasi tutti i Ministri del Governo ed una serie di economisti e di alti manager del mondo produttivo del Paese. Il seminario era stato coordinato da Vittorio Colao dirigente d’azienda (aveva guidato Vodafone e Rcs Media Group, prima di passare a Verizon) ed il lavoro che aveva portato al seminario era stato commissionato nell’aprile de 2020 dal Governo Conte 2. In realtà Colao doveva guidare “la task force della cosiddetta “Fase 2” per la ricostruzione economica del Paese”.

Il seminario in realtà definì le scelte essenziali per il rilancio del Paese e nel comparto delle infrastrutture strategiche fu indicato anche il collegamento stabile sullo Stretto di Messina. Dopo tale evento, sia con il Governo Conte 2 che poi con il Governo Draghi, fu istituita una apposita Commissione che esaminò le possibili proposte tecniche per la realizzazione del ponte sullo Stretto. Tutti questi approfondimenti avvenivano mentre contestualmente rimanevano bloccate le riserve sollevate dal General Contractor Eurolink che aveva vinto la gara internazionale per la realizzazione dell’opera e che, su decisone del Governo del 2011, si era deciso di bloccare.

In realtà fino all’insediamento dell’attuale Governo, preciso pur convinti di affrontare e risolvere il tema della continuità territoriale da parte degli attuali oppositori (cioè Patito Democratico e Movimento 5 Stelle) tutto era rimasto praticamente fermo alla logica dell’approfondimento. L’attuale Governo ha deciso, sin dalla Legge di Stabilità del 2023, di riattivare l’intero impianto progettuale e realizzativo dell’opera ottenendo contestualmente con un Decreto Legge del 2023 il ritiro delle riserve (stimate in oltre 700 milioni di euro) da parte del General Contractor Eurolink

L’approccio dei Governi della passata Legislatura all’aggiornamento delle Reti Ten – T non possiamo definirlo positivo; si è solo cercato di seguire gli indirizzi della Unione Europea non rivestendo, come in passato, un ruolo chiave nella stesura di un impianto strategico che coinvolgesse l’intero impianto comunitario; ricordo che in passato il nostro Paese era riuscito ad ottenere l’inserimento del Paese su 4 dei 9 Corridoi strategici che rappresentano la griglia infrastrutturale della intera Unione Europea. Il Governo attuale, prima della conclusione della fase di aggiornamento delle Reti Ten – T è riuscito ad ottenere il prolungamento del Corridoio Baltico – Adriatico fino alla Regione Puglia (prima si fermava a Ravenna), la conferma della realizzazione del Ponte sullo Stretto di Messina ed una implementazione del budget del programma delle Reti Ten – T

Il Governo attuale, dopo dieci anni di stasi nella realizzazione di opere essenziali è riuscito a far partire, solo a titolo di esempio, opere come gli assi ferroviari ad alta velocità – alta capacità Salerno – Reggio Calabria, Palermo – Catania e Catania – Messina e l’asse stradale 106 Jonica nel Mezzogiorno del Paese o come gli interventi ferroviari del nodo di Firenze, del Terzo Valico dei Giovi e della Linea metropolitana C di Roma.

In questi due anni, invece, la opposizione ha svolto solo un ruolo di routine, cercando sempre di attaccare il Governo su argomentazioni banali ma mai riuscendo ad incrinare, almeno per il comparto delle infrastrutture, le scelte compiute in questi due anni.

Per cui siamo ormai, come dicevo prima, all’avvio di una fase che trova il suo inizio proprio con la stesura della NADEF e del Disegno Legge di Stabilità; tali strumenti, infatti, in un certo senso, disegnano il quadro strategico dei prossimi ultimi tre anni della attuale Legislatura e con tali provvedimenti prende corpo un non facile rapporto tra maggioranza ed opposizione. In realtà da un lato l’attuale Governo deve cercare in tutti i modi di mantenere, nei prossimi tre anni, una capacità programmatica e strategica almeno analoga a quella vissuta in questo primo biennio, mentre, dall’altro, la opposizione non credo possa continuare a fare una politica banale priva di linee antitetiche o di impianti strategici alternativi, perché tutto rimarrebbe sempre un comportamento inconcludente e difficilmente vincente alla scadenza della Legislatura.

Sembra strano ma tutto questo non facile ed articolato confronto – scontro dipende proprio dalle attività che il Governo e le opposizioni svolgeranno in questi giorni in cui prenderà corpo sia la Nota di Aggiornamento al Documento di Economia e Finanza (Nadef) sia il Disegno di Legge di Stabilità. (ei)

PRETENDERE I LIVELLI UNIFORMI, NON I LEP
SOLO COSÌ IL SUD AVRÀ GLI STESSI DIRITTI

di PIETRO MASSIMO BUSETTACi sono due modi per soddisfare le esigenze esistenti in un dato momento in un determinato territorio. Uno è fare in modo di recuperare le risorse per soddisfare i bisogni esistenti. Ma non è l’unico. Il secondo è quello di abbassare il livello dei bisogni.  

Per chiarire nel primo caso sono necessarie tante risorse e bisogna darsi da fare per recuperarle.   E questo sistema non è perseguibile in Italia, considerate le problematiche dell’enorme debito pubblico esistente, con il quale, peraltro, si è infrastrutturato solo una parte del territorio e visto che i tassi di crescita del reddito sono contenuti. 

Bisognava trovarne uno per il quale non servono i 100 miliardi di cui si è parlato, per andare avanti con l’autonomia differenziata, che é stata vincolata per le materie “lepizzate” alla esistenza dei livelli essenziali. 

Ed eccolo servito. Gli esempi illuminanti sono quelli in cui si sta specializzando il Governo. Si tratta invece di puntare in una famiglia a far laureare i figli, di accontentarsi di farli diplomare.   Non è anche il diploma un livello essenziale? Le esigenze finanziarie, in questo secondo caso, diminuiscono. 

É quello che ha capito il ministro Giorgetti, Calderoli, Luca Zaia e tutta la Lega di Salvini. E che sta trovando realizzazione in due episodi recenti. 

Il primo quello che riguarda l’andamento dei lavori per la individuazione dei livelli essenziali delle prestazioni. Lo si é  fatto introducendo un concetto semplice quello del costo della vita, che non considera però la mancanza di servizi essenziali che gravano sul bilancio delle famiglie meridionali. Un altro elemento che  può aiutare é quello dell’età media, visto che al Sud si vive di meno, o della non necessità del tempo pieno a scuola.

Se al Sud tale costo è più basso tutto sarà più facile, perché se per vivere serve meno anche le risorse che può destinare il bilancio nazionale possono essere inferiori. Si ritorna al gioco solito delle tre carte, nelle quali quella vincente sparisce sempre. 

L’algoritmo che si preparerà per calcolare i Lep sarà complicatissimo, ma arriverà  a produrre dei numeri che dovranno convincere i meridionali, con l’anello al naso, che la spesa è già sufficientemente equilibrata all’interno del nostro Paese. Ci saranno i media indirizzati che aiuteranno a far accettare tale approccio, come è accaduto per anni.

Magari come con l’autonomia differenziata, di notte e di fretta, dopo un totale silenzio sui lavori in itinere, non trapelerà nulla sulle procedure e sui calcoli che adotterà  la Commissione tecnica fabbisogni standard e uscirà la soluzione addomesticata. 

Improvvisamente verranno fuori dei numeri, certificati magari da alcuni Centri di ricerca prestigiosi, praticamente impossibili da ricostruire e che evidenzieranno che alla luce di tali calcoli i 60 miliardi di differenza di spesa pro-capite annuali tra Centro Nord e Sud, in realtà alla luce del costo della vita, di alcune poste che non vanno allocate,  diranno magari che le cose vanno bene così e che quindi é corretto che Veneto o  Lombardia si tengano il residuo fiscale, perché là servono  più risorse per finanziare i servizi che non in Sicilia  o Calabria. E che quella è la locomotiva che va salvaguardata perché trascina tutti. Non è quello che è avvenuto con la sanità?            

La Commissione che ha  il compito di fissare i criteri in base ai quali calcolare i costi dei Lep potrà utilizzare metodi per cui, senza ulteriori costi per il bilancio, tutto potrà rimanere come prima. 

La Presidente della Commissione tecnica sui fabbisogni standard, ex consulente del presidente Zaia, Elena D’Orlando, della quale sono state chieste le dimissioni per un evidente conflitto di interesse, non avrà difficoltà a far ritenere corretti calcoli penalizzanti per il Sud. Anche perché non ci sarà un giudice a Berlino imparziale. 

Il secondo metodo  di cui si parlava è quello che il Ministro Giorgetti, che ha dimostrato in altre occasioni la sua capacità di trovare il modo per far uscire il coniglio dal cappello, ha adoperato nella  legge di bilancio, cioè trovare un escamotage per cui i diritti vengano sottodimensionati. 

In uno degli allegati al piano strutturale di bilancio si chiarisce il meccanismo. Il diritto all’asilo nido, infatti, non sarà più del 33% a livello regionale, ma scenderà al 15%, sulla base di una media nazionale, ovviamente influenzata dall’inesistenza di asili nido al Sud, contraddicendo quanto previsto dalla legge di bilancio 2022, che fissava proprio al 33% su base locale la disponibilità di posti con l’obiettivo di rimuovere gli squilibri territoriali nell’erogazione del servizio, in maniera tale che i Lep relativi  saranno certamente più facilmente raggiungibili. Il sottostante pensiero a giustificazione è che tanto le donne meridionali non hanno lavoro e quindi possono accudire i propri figli e che oltretutto  quando ci sono non vengono utilizzati. Al Sud gli asili nido non servono.  

D’altra parte se bisogna far quadrare il bilancio e tagliare le spese,  il modo più semplice di farlo è quello di penalizzare il vaso di coccio che tanto non si lamenta e in ogni caso non fa danno. 

Per questo bisogna assolutamente alzare il livello delle richieste e passare a pretendere  non i  livelli essenziali ma i Lup, i livelli uniformi. Non si capisce infatti perché il meridionale si debba accontentare dell’essenziale e non deve avere gli stessi diritti del cittadino del Nord. Paga forse una percentuale inferiore di imposte rispetto al reddito che produce? O è un figlio di un dio minore? Lo è certamente ma si può statuire tutto ciò in documenti ufficiali?   

Ovviamente le considerazioni di sparuti intellettuali meridionali, a cui recentemente si è aggiunta con non molta convinzione la Cgil ma anche l’opposizione, resteranno parole al vento perché quella che si configura ormai in modo chiaro è che il Sud è una colonia interna, buona per fornire giovani formati, energia come batteria del Paese, malati per le strutture sanitarie del Nord e giovani studenti per le università settentrionali. 

Per i diritti al lavoro, alla sanità, alla buona formazione c’è sempre un domani, meglio se lontano. (pmb)

[Courtesy Il Quotidiano del Sud – L’Altravoce dell’Italia]

 

EOLICO E FOTOVOLTAICO, ENERGIA PULITA
MA ARRECANO DANNI ALLE AREE AGRICOLE

di GIOVANNI MACCARRONEMolti cittadini non si stanno rendendo conto di quanto sta succedendo al nostro territorio. Sempre più società di energia solare ed eolica si stanno espandendo sui terreni agricoli della Calabria. Come già segnalato in un precedente articolo, nel novembre 2023 risultavano già attivi nella nostra regione 440 impianti eolici – il 70% si trova nelle province di Crotone e Catanzaro e sono pure in aumento le richieste di concessioni (attualmente 157 sono in corso di valutazione). Invece, come rilevato dal Rapporto sul consumo di suolo 2023 dell’Ispra (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale), nel 2021/2022 a livello nazionale risultano consumati dall’installazione di nuovi impianti fotovoltaici a terra circa 243 ettari di suolo. Per la Calabria non risultano dati certi, ma non c’è dubbio che anche nella nostra regione una parte cospicua di terreno agricolo venga consumato da fotovoltaico installato a terra. 

Con la conseguenza che negli ultimi anni si sta assistendo allo sgombero di terreni agricoli per far sempre più posto a impianti di produzione di energia elettrica da “fonti rinnovabili di energia o assimilate”.

Risulta ormai evidente (sia a livello europeo che a livello italiano) che il ricorso a tali fonti energetiche costituisca uno degli strumenti più efficaci per l’affrancamento dalle fonti energetiche fossili ‒ auspicabile anche in chiave di sicurezza degli approvvigionamenti ‒ e per il raggiungimento degli obiettivi di riduzione delle emissioni di gas serra (sul punto si vedano i primi 5 considerando della Direttiva 2009/28/CE sulla promozione dell’uso dell’energia da fonti rinnovabili).

Così come appare del tutto evidente che soprattutto a livello europeo, oltre ad una riduzione delle emissioni di gas serra, si voglia tendere verso un miglioramento dell’efficienza energetica con una quota di soddisfacimento del consumo energetico da fonti rinnovabili pari almeno al 27 % (cfr. la Comunicazione della Commissione Com (2014) 0015 – Quadro per il clima e l’energia 2030), 

Tuttavia, a fronte di queste valide considerazioni, c’è chi, come me, evidentemente insoddisfatto, tenta di sottolineare gli effetti negativi di un possibile ulteriore aumento dell’installazione sui terreni agricoli di impianti fotovoltaici con moduli collocati a terra

È ormai acclarato, infatti, che il fotovoltaico a terra produca impermeabilizzazione del suolo e impoverimento del terreno e della biodiversità

Da qui l’idea, fatta propria dal legislatore, di impedire che quanto sopra possa concretamente realizzarsi. A questo proposito giova ricordare che con il decreto legge 15.05.2024 n. 63 (DL Agricoltura), convertito, con modificazioni, dalla Legge del 12 luglio 2024 n. 101, (contenente disposizioni urgenti per le imprese agricole, della pesca e dell’acquacoltura, nonché per le imprese di interesse strategico nazionale) è stato previsto all’art. 5, comma 1, che “All’articolo 20 del decreto legislativo 8 novembre 2021, n. 199, dopo il comma 1 è aggiunto  il  seguente:  «1-bis.  L’installazione degli impianti fotovoltaici con  moduli  collocati  a  terra  di  cui all’articolo 6-bis, lettera b), del decreto legislativo 3 marzo 2011, n. 28, in zone classificate agricole dai piani  urbanistici  vigenti, è consentita esclusivamente nelle  aree  di  cui  alle  lettere  a), limitatamente   agli   interventi    per    modifica,    rifacimento, potenziamento  o  integrale   ricostruzione   degli   impianti  già installati, a condizione  che  non  comportino  incremento  dell’area occupata, c), c-bis), c-bis.1), e c-ter) n. 2) e n. 3) del  comma 8 “.

Ne consegue che, a decorrere dal 14 luglio 2024 (data di entrata in vigore della legge), non è più possibile installare i pannelli solari sui terreni agricoli. Anche se, è bene evidenziarlo, nella bozza del Dl l’art. 6 modificava l’articolo 20 del decreto legislativo 8 novembre 2021, n. 199 aggiungendo le seguenti parole: “Le zone classificate agricole dai vigenti piani urbanistici sono aree non idonee all’installazione degli impianti fotovoltaici con moduli collocati a terra di cui all’articolo 6-bis, lettera b) del decreto legislativo 3 marzo 2011, n. 28. I procedimenti di autorizzazione in corso alla data di entrata in vigore del presente decreto sono conclusi ai sensi della normativa previgente”.

Invece, successivamente, è stata introdotta la possibilità di derogare al divieto di installazione di pannelli solari su terreni agricoli, Secondo quanto prevede l’art. 5, comma 1, secondo periodo, della legge 101/2024 “il divieto in questione non si applica nel caso di progetti che prevedano impianti fotovoltaici con moduli collocati a terra finalizzati alla costituzione di una comunità energetica rinnovabile ai sensi dell’articolo 31 del decreto nonché in caso di progetti attuativi delle altre misure di investimento del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (Pnrr), approvato con decisione del Consiglio Ecofin del 13 luglio 2021, come modificato con decisione del Consiglio Eco Fin dell’8 dicembre 2023, e del Piano nazionale per gli investimenti complementari al Pnrr (Pnc) di cui all’articolo 1 del decreto-legge 6 maggio 2021, n. 59, converti to, con modificazioni, dalla legge 1° luglio 2021, n. 101, ovvero di progetti necessari per il conseguimento degli obiettivi del Pnrr”.

Quindi, se in un primo momento il decreto legge in questione vietava in maniera assoluta l’installazione di impianti fotovoltaici su terreni agricoli, in sede di conversione si è deciso di essere meno severi concedendo la possibilità di superare il citato divieto in limitate ipotesi.

Non è questa la sede per dar conto dell’ampio dibattito scaturito, soprattutto in seno alle associazioni ambientaliste nazionali, sul senso da dare a quest’ultima soluzione, anche perché, per quel che ci riguarda, dal 14 luglio 2024 in molti casi è impedito l’utilizzo del terreno agricolo per realizzare impianti fotovoltaici. E’ questo rimane un grande successo. Sta di fatto, però, che se da una parte il legislatore è intervenuto in qualche modo su tale tipo di impianto, dall’altra parte, invece, è impressionante la mappa delle concessioni di impianti industriali per la produzione di energia mediante lo sfruttamento del vento (centrali eoliche) rilasciate sul nostro territorio.

Lo abbiamo già visto sopra. Da moltissimi anni sono stati attuati in Calabria (in particolare nelle province di Crotone e Catanzaro) progetti di invasione di pale eoliche, a terra e tra qualche tempo anche in mare. 

Nessuno ne parla. Al contrario, c’è un assordante silenzio su quanto sta accadendo da noi. Ampie zone stanno ormai perdendo le loro caratteristiche naturalistiche, agricole, storico-culturali, la stessa identità, ad opera dell’accaparramento dei terreni per l’installazione di centrali eoliche da parte di società energetiche.

Sappiamo tutti che da diverso tempo vengono stipulati atti aventi ad oggetto locazioni ultra novennali di terreni agricoli e diritti di superficie su parti di terreni anch’essi agricoli allo scopo di avere la disponibilità dei terreni sui quali realizzare impianti eolici. E sappiamo pure che la costruzione di un parco eolico può avvenire non solo su un terreno detenuto a titolo di proprietà ma anche su un terreno detenuto per effetto di un contratto di locazione, oppure su un terreno sul quale sia stato costituito un diritto reale di godimento (come il diritto di superficie). 

Per quanto di interesse in questa sede risulta, però, che l’installazione di un impianto eolico costituisce a tutti gli effetti un buon investimento per tutti coloro che possiedono un terreno ma non desiderano o non vogliono coltivarlo; i rendimenti per ettaro ottenibili, infatti, sono molto elevati.

Siffatta ragione sta spingendo i possessori (a qualsiasi titolo) di terreni soprattutto agricoli ad investire nell’eolico, o meglio a cedere i propri terreni in cambio di un guadagno facile, dimenticando tuttavia che il paesaggio, i beni ambientali e culturali e la biodiversità non hanno prezzo e rappresentano un patrimonio inestimabile la cui preservazione deve essere una priorità imprescindibile.

Ricordiamo a tutte queste persone che i parchi eolici presentano problemi enormi in vari ambiti. In particolare, i parchi in questione richiedono l’installazione di infrastrutture su ampie aree di terreno sottratto all’agricoltura, agli allevamenti di bestiame e a praterie a pascolo. Decine e decine di migliaia di ettari di terreni agricoli, pascoli, boschi spazzati via, paesaggi storici degradati, aziende agricole sfrattate, questo sta diventando il panorama in larghe parti del territorio calabrese (così come nei territori della Puglia, della Tuscia, della Sicilia e della Sardegna)

Si ricordi a tal proposito che, oltre al posizionamento degli aerogeneratori, la realizzazione di parchi eolici può comportare anche opere civili quali strade d’accesso, fondazioni, piazzole per il montaggio, scavo e ricopertura linee, opere accessorie sottostazione elettrica, regimentazione idraulica, sistemazione morfologica, opere queste che potrebbero risultare incompatibili, o quanto meno gravare sulla destinazione d’uso del territorio circostante.

Non c’è dubbio, tra l’altro, che spesso i progetti per la realizzazione di questi impianti possono richiedere l’abbattimento di alberi e la raschiatura di erbe e, in molti casi, le turbine di tali impianti (alti come un palazzo di 18 piani) possono uccidere uccelli e pipistrelli (come è stato bene evidenziato “l’impatto con gli uccelli può avvenire o direttamente, per scontro con le turbine e o indirettamente per perdita dell’habitat in conseguenza della fase di cantiere, con disturbi della nidificazione e cambi di rotte migratorie”).

Altrettanto importante è l’aspetto legato all’inquinamento acustico (riferito ovviamente al rumore generato dalle pale eoliche). A questo proposito giova ricordare che il d.lgs. 42/2017, colmando quella che con tutta evidenza appariva ormai come una vera e propria lacuna, ha inserito (art.18) gli impianti eolici tra le «sorgenti sonore fisse» di cui all’art.2, comma 1, lett.c, della legge 447/1995, affidando a successivi decreti ministeriali – peraltro ad oggi non ancora emanati, malgrado il termine per l’adozione scadesse il 16 ottobre 2017 – la disciplina dell’inquinamento acustico (art.14) come pure la fissazione di criteri per la misurazione del rumore emesso dagli impianti e per il contenimento del relativo inquinamento (art.19).

È innegabile, quindi, che il rumore generato dalle pale che girano sia di forte impatto sulle popolazioni locali ed è per questo che viene esclusa la possibilità di collocare un aerogeneratore a una distanza inferiore a 400 m da ogni abitazione (qualcuno dice che anche l’effetto Flickering, ovvero l’ombra intermittente generata dalla rotazione della pala sul suolo considerando la variazione della posizione e angolazione del sole, può dare fastidio ai residenti).

Ma anche a prescindere da quanto finora detto, quello che comunque si dovrebbe tenere presente è che gli impianti per la produzione di energia mediante lo sfruttamento del vento sono pur sempre “impianti industriali”. Pertanto, le turbine eoliche, specialmente quelle di grandi dimensioni, possono avere un impatto visivo notevole sul paesaggio. Torri alte fino a 180 metri e pale lunghe fino a 100 metri possono essere visibili a grande distanza, alterando la percezione visiva di aree naturali o rurali, in particolare in zone considerate incontaminate o di particolare valore naturalistico e paesaggistico.

Insomma, siamo messi proprio bene: tra consumo di suolo, rumore, impatto paesaggistico e sulla biodiversità il nostro territorio è ridotto proprio male.

Eppure le grandi associazioni ambientaliste nazionali parlano dell’eolico come passaggio cruciale per il futuro del nostro territorio e anche per le politiche energetiche nazionali (in tal senso anche Tar Calabria n. 32/2011).

Anch’io dico sì alle fonti rinnovabili ma allo stesso tempo dico no alla speculazione energetica. Va bene la riduzione dei consumi, il fotovoltaico sui tetti degli edifici pubblici e delle zone industriali e la costituzione di comunità energetiche, ma detto questo non possiamo proprio accettare che detti impianti possano essere ubicati anche in zone classificate agricole dai vigenti piani urbanistici, In merito, corre l’obbligo di tenere conto delle norme in tema di sostegno nel settore agricolo (valorizzazione delle tradizioni agroalimentari locali, tutela della biodiversità, del patrimonio culturale e del paesaggio rurale).

È vero, dal punto di vista economico, che gli impianti eolici rendono di più della produzione agricola. Lo sappiamo benissimo. Ma in nome di quanto detto sopra non affittate il vostro terreno, con rendimenti che in un dato momento superano sicuramente quelli dell’attività agricola, dato che successivamente il terreno verrà restituito in condizioni non sane e con gli effetti devastanti che abbiamo descritto e a cui ciascun proprietario avrà purtroppo e suo malgrado sicuramente contribuito.

Tra l’altro bisogna ricordare che è possibile produrre energia elettrica senza dover necessariamente deturpare l’ambiente e il paesaggio. Si pensi all’energia elettrica prodotta dalle centrali idroelettriche. In Calabria ne abbiamo tante: la più famosa è quella di Timpagrande (situata nel comune di Cotronei) realizzata nel 1927 dalla S.M.E. (Società Meridionale di Elettricità), ma esistono anche quelle di Albi (CZ), Magisano (CZ), Orichella (San Giovanni in Fiore – CS), Calusia Nuova (Caccuri – KR). Si pensi anche all‘energia che sfrutta il calore naturale proveniente dall’interno della Terra (energia geotermica) e all’energia prodotto attraverso la decomposizione di materia organica, come rifiuti alimentari o letame animale, che rilasciano metano (Gas Naturale Rinnovabile – GNR)

Insomma, per la produzione di energia elettrica dobbiamo necessariamente pensare a queste ulteriori fonti rinnovabili e, soprattutto, alle potenzialità dei nostri territori rispetto ad alcune di esse. Così facendo si eviterà certamente di ricoprire il nostro territorio di mega costruzioni installate per lo più su terreni agricoli. 

Si noti, poi, che, paradossalmente, la Calabria non necessita in alcun modo di tutto questo fabbisogno energetico neppure adeguatamente verificato. Da noi, a bene vedere, la popolazione è poco più di 1.834.518 abitanti. Pertanto, se davvero si dovesse continuare a realizzare tutto quel quantitativo di installazioni indicato all’inizio, l’eventuale energia prodotta da queste mega costruzioni verrà utilizzata solo in pochissima parte del territorio calabrese. L’energia verrà portata in Italia, per soddisfare i bisogni del resto d’Italia, mentre la Calabria sarà una delle regioni che pagherà il prezzo sull’impatto ambientale e paesaggistico.

La Calabria è una terra meravigliosa, unica in Italia, ma di recente è risultata la seconda regione dell’Unione Europea (dopo la Guyana francese) per quote di persone a rischio povertà o esclusione sociale (dati Eurostat). Anche per questo è stata invasa e violentata da sempre. In futuro, quindi, evitiamo, che la Calabria possa essere assaltata da impianti eolici on-shore (sulla terraferma) e off-shore (a mare) per la produzione di energia elettrica. 

Difendiamo la bellezza della nostra terra, proteggiamo il nostro territorio, così come sta facendo da diverso tempo il popolo sardo.

Speriamo bene. (gm)

«NON È MALTEMPO, MA CRISI CLIMATICA»
LA CALABRIA TRA EMERGENZA E URGENZA

di ANTONIETTA MARIA STRATILa Calabria, adesso, deve fare i conti con gli ingenti danni provocati dall’ondata di maltempo che ha mostrato, per l’ennesima volta, la sua fragilità e l’inadeguatezza delle sue infrastrutture.

L’ennesimo episodio che ha messo a nudo, nuovamente, l’insufficienza e la mancanza di risorse e strumenti capaci far fronte a un’emergenza che rende evidente la necessità e l’urgenza di attivarsi per mettere in sicurezza il territorio attraverso una politica incentrata sulla prevenzione e il miglioramento delle opere già esistenti, oltre che a tutela dell’ambiente stesso e dei cittadini.

Già il sindaco di San Pietro a Maida, Domenico Giampà, nella giornata di lunedì aveva annunciato la richiesta di stato di calamità, seguita, poi, da quella del sindaco di Lamezia, Paolo Mascaro. Il Comune, infatti, nella giornata di ieri ha dichiarato lo stato di calamità naturale e chiesto, nella delibera, alla Regione di proclamare lo stato di emergenza regionale indicando tra i comuni interessati il territorio di Lamezia Terme «al fine – è scritto in una nota dell’amministrazione comunale guidata da Paolo Mascaro – di mettere in atto i relativi provvedimenti ivi incluso un immediato intervento di carattere logistico e finanziario indispensabile per assicurare il ripristino dello status quo ante ed il ristoro dei danni subiti in tutto il territorio comunale; è stato altresì richiesto al Dipartimento di Protezione Civile della Regione Calabria l’accesso al fondo di cui all’art. 16 L. R. n 9/2023».

Anche il Partito Democratico della Calabria, nella seduta del Consiglio regionale di ieri, ha presentato un odg per chiedere al governo regionale di attivarsi per riconoscimento lo stato di emergenza e/o calamità naturale.

Per i dem, infatti, «è fondamentale avviare una pianificazione lungimirante che tenga conto della vulnerabilità del nostro territorio e della crescente incidenza dei cambiamenti climatici. È il momento di agire e di investire nel presente: lo chiede il territorio calabrese, che ha bisogno di concretezza e responsabilità, affinché si possano finalmente tradurre le parole in azioni tangibili».

La Prociv, ha riferito il dirigente generale del Dipartimento di Protezione Civile Calabria Domenico Costarella, «sta lavorando ininterrottamente dall’inizio dei gravi avvenimenti climatici che hanno investito gran parte della Calabria nel corso del fine settimana, in stretto coordinamento con tutte le istituzioni, i Vigili del Fuoco e le associazioni di volontariato, per intervenire sulle emergenze e agire sul recupero delle condizioni di normalità».

«Sono state attivate, infatti – ha spiegato ancora – le organizzazioni di volontariato dotate di moduli idrogeologici che sono intervenute sotto il coordinamento dei Vigili del Fuoco in particolare nella città di Lamezia Terme e nella sua zona industriale, dove inoltre sono state effettuate alcune evacuazioni. Grazie al supporto del Consorzio di Bonifica regionale e di Calabria Verde sono stati realizzati interventi con mezzi pesanti per facilitare il deflusso delle acque».

«Nel Comune di San Pietro a Maida la Protezione Civile – ha proseguito – con propri mezzi e con quelli di Calabria Verde, ha lavorato per ripristinare la viabilità e ha effettuato alcune evacuazioni a titolo precauzionale, operando anche con moduli idrogeologici».

«Sempre a causa delle intense precipitazioni piovose delle scorse ore – ha detto ancora – è stato fornito dal Dipartimento e da alcune associazioni di volontariato, attività di supporto nella gestione e superamento dell’emergenza al Comune di Montebello Jonico, e di carattere tecnico al Comune di Bovalino».

«Già dalla mattinata di oggi (ieri ndr), tecnici del Dipartimento regionale – ha continuato Costarella –si sono recati sui territori maggiormente colpiti per una prima valutazione dei danni, anche ai fini della predisposizione della richiesta di riconoscimento dello stato di emergenza».

«La Regione, inoltre, in sinergia con Arpacal, fin dalle prime ore dalla voragine che si è verificata sulla Ss 280 dei Due Mari – ha concluso – è al lavoro per realizzare un’analisi sulle situazioni tecniche che hanno determinato tale evento».

«I gravi eventi atmosferici che hanno colpito la Calabria negli ultimi giorni  hanno rilevato i consiglieri – mettono in luce, ancora una volta, le fragilità strutturali del nostro territorio. I comuni di Maida e San Pietro a Maida – alle cui comunità rivolgiamo la nostra vicinanza e solidarietà – sono attualmente isolati a causa dell’esondazione di un torrente, che ha provocato il crollo del ponte stradale sulla SS280. In questa stessa arteria, una voragine ha inghiottito un’autovettura, fortunatamente senza vittime, ma la situazione è drammatica: case e attività commerciali sono state allagate e la circolazione è fortemente compromessa».

«Questa emergenza non è solo il risultato di un temporale: rappresenta gli effetti tangibili della crisi climatica – hanno proseguito – la quale sta generando eventi meteorologici sempre più intensi e frequenti. Le valutazioni basate su dinamiche stagionali tradizionali non sono più adeguate ad affrontare una realtà in continua evoluzione».

«È ora di mettere in campo un piano straordinario per la manutenzione delle infrastrutture esistenti – hanno concluso – piuttosto che disperdere risorse in opere che non affrontano i problemi immediati dei cittadini calabresi. La sicurezza delle nostre strade, la tutela delle nostre abitazioni e la salvaguardia della vita dei nostri concittadini devono essere al centro dell’agenda politica».

Il segretario generale della Cgil, Angelo Sposato, ha suggerito l’idea di utilizzare i fondi del Ponte sullo Stretto (15 mld ndr), per mettere in sicurezza il territorio.

«La voragine nella strada statale 280 a Lamezia, che ha inghiottito un’autovettura è la metafora della condizione delle nostre infrastrutture e della necessità di avviare al più presto un grande piano per la sicurezza del territorio dal rischio idrogeologico, sismico, dall’erosione costiera, dal rischio incendi», ha detto Sposato, evidenziando come «un territorio in abbandono, non mantenuto e con un forte consumo di suolo rappresenta un pericolo, per questo servono investimenti in risorse umane e tecnologiche per un grande piano di messa in sicurezza».

«La voragine di Lamezia, in una delle strade più frequentate della Calabria, che poteva diventare tragedia, sia da monito e un allarme per non perdere più tempo. La Calabria, i territori, allo stato attuale, non sono nelle condizioni di affrontare emergenze alluvionali ed idrogeologiche se non si attiva da subito un grande piano per la messa in sicurezza del territorio», ha concluso, lanciando la provocazione: utilizzare quei fondi «sprecati sul Ponte per cose essenziali, per mettere in sicurezza la vita dei cittadini, la nostra rete infrastrutturale ed ambientale».

Pure la Uil Calabria, tramite il suo segretario, Mariaelena Senese, ha chiesto «con forza all’Amministrazione Regionale di assumersi le proprie responsabilità, mettendo in atto misure strutturali e urgenti per la messa in sicurezza del territorio. Non è più possibile accettare una gestione emergenziale che, oltre a mettere a rischio la vita dei cittadini, paralizza l’economia locale e compromette la vivibilità di intere comunità».

«Ribadiamo l’importanza – ha sottolineato Senese – di investimenti adeguati per prevenire i rischi idrogeologici, il monitoraggio costante delle aree più vulnerabili e l’adozione di un piano di manutenzione che garantisca la sicurezza delle infrastrutture viarie e delle opere di contenimento delle acque. Il nostro territorio, già fragile e vulnerabile, non può essere lasciato solo davanti all’avanzare di eventi atmosferici sempre più estremi e frequenti».

Michele Sapia, segretario generale di Fai Cisl Calabria, invece, suggerisce di investire sulla prevenzione e sul lavoro ambientale per superare la cultura dell’emergenza.

Ma non solo: «La soluzione più adeguata, per arginare le continue emergenze in un territorio come la Calabria che, come rileva l’Ispra, ha il primato di essere la regione italiana più esposta ai fenomeni alluvionali, è quella di ingenti investimenti in prevenzione», ha detto Sapia, aggiungendo come «occorre una pianificazione trentennale che consideri la vulnerabilità del territorio calabrese, la sua particolare conformazione, segnata da ripidi pendii e migliaia di corsi d’acqua, che con le piogge possono rapidamente ingrossarsi, ma anche contrastare la cementificazione selvaggia, evitando di costruire in aree a rischio».

«Fondamentale sarà, inoltre – ha aggiunto – un piano di riforestazione in quelle aree danneggiate, la manutenzione e il controllo dei corsi d’acqua, migliorare le infrastrutture ambientali esistenti e costruirne di nuove progettate per resistere a questi eventi atmosferici estremi, per garantire la sicurezza di popolazioni e attività produttive».

«Ma tali propositi – ha proseguito – rischiano di restare soltanto sulla carta, se non sarà valorizzato in Calabria il lavoro nei comparti del sistema ambientale e agricolo, con i lavoratori che dovranno essere i veri protagonisti di queste politiche di prevenzione e tutela del territorio calabrese, al centro di quella necessaria transizione ambientale e sostenibile, che dovrà garantire prima di tutto sicurezza e presidio umano, recupero di intere aree abbandonate, sviluppo e miglioramento delle opere infrastrutturali, nel solco di quanto fatto a partire dalla metà degli anni Cinquanta dagli operai forestali e addetti alla bonifica: interventi di sistemazione idraulica, consolidamento di terreni franosi, rimboschimento, realizzazione di infrastrutture civili con conseguente miglioramento della qualità della vita delle popolazioni, tutti interventi che hanno generato sicurezza, servizi e opportunità».

«Il dissesto idrogeologico in Calabria – ha detto ancora – rappresenta una delle principali sfide ambientali e sociali e come tale va affrontata, attivando sinergie che favoriscano il dialogo tra i soggetti interessati, con l’ausilio di università e centri di ricerca, sostenendo l’importante lavoro di chi opera per la messa in sicurezza del territorio e favorendo un indispensabile ricambio generazionale per immettere nuove energie, nuovi profili professionali e competenze, tecnologie e intelligenza artificiale al servizio dell’uomo e delle comunità».

«Solo insieme – ha concluso – in un’ottica partecipata e in una visione lungo periodo sarà possibile interrompere la “cultura dell’emergenza”, consapevoli che le risorse per la prevenzione e il lavoro agro-ambientale rappresentano investimenti per un futuro del territorio più sicuro, meno vulnerabile a fenomeni di erosione, frane e alluvioni, più green e sostenibile, aperto ad occasioni di sviluppo, specie per le future generazioni».

I danni, purtroppo, si registrano anche nell’agricoltura: Coldiretti Calabria, in un primo report, ha rilevato come sono centinaia e centinaia  gli ettari invasi dall’acqua e dal fango con danni alle produzioni . oliveti, agrumeti, serre,vivai, vigneti, ortaggi il tutto invaso dall’acqua, mezzi e attrezzature di produzione che galleggiavano e strade rurali franate.

L’Associazione, inoltre, con il presidente Franco Aceto, il direttore Cosentini, insieme al presidente zonale Notarianni, il direttore Bozzo e il segretario di zona Meringolo hanno istituito una unità di crisi per seguire l’evolversi della situazione che è destinata ad aggravarsi.

«È evidente – ha sottolineato Aceto– che quello che è accaduto, è una priorità nel contesto di una emergenza regionale e abbiamo già rappresentato alle Istituzioni la gravità della situazione per avviare le prime misure di sostegno. Ancora una volta gli agricoltori devono fare i conti non solo con un mercato in piena evoluzione ma con un clima che mette a  dura prova il coraggio e la speranza di ricominciare».

Legambiente Calabria e Circolo Lamezia: «non è maltempo, è crisi climatica»

È necessario attuare la corretta transizione ecologica e mettere in sicurezza i territori fragili, dicono da Legambiente.

«In Calabria i comuni di Maida e di San Pietro a Maida sono isolati per l’esondazione di un torrente – si legge nella nota – ed il crollo del ponte stradale che lo attraversava, sulla strada SS280, una delle principali arterie della nostra regione, si è aperta una vera e propria voragine che ha inghiottito un’autovettura. Ci sono forti disagi nella circolazione oltre a case ed immobili commerciali allagati».

Gli eventi calamitosi hanno inferto un duro colpo al comparto agricolo lametino e hanno compromesso in modo irreparabile le campagne di raccolta e le conseguenti perdite di prodotto. Nella zona di Lamezia, si riscontrano danni agli oliveti e agrumeti con i campi invasi letteralmente dall’acqua, il livello è salito sino alla chioma degli agrumi, gli oliveti invece benché preservati dalle chiome alte ritarderanno la raccolta delle olive a causa dei terreni impantanati che non consentono la raccolta meccanizzata, poiché è letteralmente impossibile pensare di addentrarsi con i mezzi. La qualità e la quantità dell’olio ne risentirà notevolmente.

Le chiome delle agrumi sono immerse nell’acqua limitando la raccolta laddove era iniziata e alterando notevolmente la qualità del prodotto e aumentando le perdite. Nel settore serricolo si registrano danni alle strutture e alle coltivazioni ortive con perdite anche del 100% nelle zone di maggiore ristagno acquoso.

Ad aggravare la situazione anche gli smottamenti che si sono registrati nelle zone poco al di sopra della piana lametina colpendo particolarmente i vicini comuni di Pianopoli, Maida, e Nocera Terinese, San Pietro a Maida,Curinga e in queste zone è molto praticato il terrazzamento delle coltivazioni tra cui vigneti, oliveti. Lo straripamento del fiume Amato nel comune di Maida ha isolato diverse aziende agricole, che nonostante l’ incessante pioggia hanno affiancato con i mezzi propri i soccorsi della Protezione Civile, del Consorzio di Bonifica e altro enti preposti nelle operazioni di ripristino della viabilità.

«Si parla di maltempo, ma siamo di fronte agli effetti della crisi climatica che stanno diventando sempre più accentuati e frequenti – ha sottolineato Legambiente – ed hanno subito un esponenziale incremento in intensità, evidente a tutti, che deve preoccuparci per la velocità di evoluzione. Dagli ultimi dati Arpacal, le piogge registrate nella stazione pluviometrica Catanzaro-Janò, dalla mezzanotte sino alle ore 17 del 19 ottobre, sono state di 102mm, una quantità di acqua pari a quella che si registra in tutto il mese di ottobre in media nella stessa area. Analizzando gli eventi climatici estremi che si sono verificati in Calabria, dal 2010 al 20 settembre 2024 si registrano 105 eventi su 2.214 totali in Italia. Tra questi, i principali riguardano 41 allagamenti da piogge intense, 28 danni da raffiche di vento e trombe d’aria, 13 danni alle infrastrutture, 9 frane da piogge intense e 18 vittime».

«I territori calabresi, come altre regioni a partire dall’Emilia Romagna, con i suoi tragici eventi alluvionali – continua la nota – stanno subendo stravolgimenti climatici che impongono di intervenire in fretta per mettere in sicurezza le persone, le attività agricole, commerciali e industriali, le scuole, gli ospedali, le infrastrutture. Soprattutto in Calabria dove spesso si è costruito troppo, male, in maniera abusiva e senza adeguati controlli per quanto riguarda le infrastrutture».

«L’obiettivo fissato dagli accordi di Parigi del 2015, di contenere l’aumento di temperatura del Pianeta al massimo 1,5, sembra già una chimera – hanno rilevato Legambiente e il Circolo di Lamezia –. I dati ci dicono che in Calabria, la scorsa estate, la temperatura è aumentata di oltre 2 gradi rispetto alla media e che quella del mare Mediterraneo ha superato i 30 gradi con la possibilità sempre più concreta di sviluppo dei Medicane, i cosiddetti uragani mediterranei».

«Si tratta di record destinati, purtroppo, ad essere superati – hanno detto –: per il futuro ci attende un’alternanza di ondate di calore ed eventi meteorici estremi. La siccità prolungata che ha colpito negli ultimi mesi gran parte della nostra regione con effetti gravi sul settore agricolo è l’altra faccia della medaglia delle precipitazioni atmosferiche alluvionali che stanno impattando sul fragile territorio calabrese. La realtà temuta che le istituzioni non vogliono vedere nella sua chiarezza, sta irrompendo con tutti i suoi effetti negativi trovando, nonostante annunci e dichiarazioni, quasi tutti impreparati agli impatti crescenti sul clima e sugli ecosistemi, sui luoghi e sulle popolazioni che vi risiedono».

«La realtà sta dimostrando che è indispensabile – hanno sottolineato – cambiare modello di sviluppo e realizzare, molto velocemente, la transizione ecologica per raggiungere, nella maniera più celere possibile, la neutralità climatica, azzerando l’emissione di gas climalteranti in atmosfera. Un obiettivo per il cui raggiungimento è essenziale il settore energetico nel quale è indispensabile uscire dalle inquinanti fonti fossili e costruire impianti di energia rinnovabile piccoli e grandi, lavorando, allo stesso tempo sulla riduzione dei consumi e sull’efficientamento energetico».

«In Calabria moltissimo deve essere ancora fatto – hanno proseguito – per la reale riduzione del rischio idrogeologico, ma servono interventi per mitigare gli effetti della crisi climatica ed adattare territori e città con appositi piani mettendo in atto competenze e tecnologie. Servono appositi programmi strutturali di finanziamento ed intervento per le aree urbane più a rischio – come Lamezia Terme – con interventi di messa in sicurezza e manutenzione che arrivino fino alla delocalizzazione degli edifici a rischio».

«In Italia, infatti – hanno detto – si continuano a correre rischi enormi, fino alla perdita di vite umane, perché le persone vivono in case e zone a rischio dove si continua anche a costruire. La situazione è molto pericolosa, basta pensare alla tombatura dei corsi d’acqua ed alle costruzioni realizzate in zone a rischio idrogeologico o in aree non consentite. Le soluzioni non possono prescindere dalle problematiche, alluvioni e siccità, con l’obiettivo di mitigare le emissioni climalteranti e favorire l’adattamento».

«In una prospettiva di adattamento al clima, ad esempio – hanno concluso – vanno vietati gli intubamenti dei corsi d’acqua e recuperati alla naturalità ovunque possibile fiumi e fossi, creando spazi per il naturale deflusso in sicurezza delle acque durante le piogge e la ricarica delle falde, occorre  favorire la permeabilità dei suoli ed il riutilizzo delle acque piovane e delle acque grigie, eliminare le isole di calore. È necessario ripensare le città ed i comuni rigenerandone il tessuto urbanistico, ad esempio con la creazione di tetti verdi, vasche e fontane per ridurre l’aumento delle temperature esterne oltre alla messa a dimora di alberi  in strade e piazze ed  alla realizzazione di boschi urbani». (ams)

BASTA VITTIME: È NECESSARIO UN PIANO DI
INTERVENTI PER LA STATALE 106 ESISTENTE

Sull’ammodernamento a quattro corsie con spartitraffico centrale il Governo Meloni ha stanziato 3,5 miliardi prevedendo di utilizzare queste risorse per la realizzazione della Catanzaro – Crotone e per la realizzazione della Sibari – Corigliano-Rossano.

Abbiamo, inoltre, chiarito che questi due progetti nella realtà non esistono. Infatti, esistono ben 6 progetti distinti e separati (lotti funzionali), sulla Crotone – Catanzaro e due progetti distinti e separati sulla Sibari – Corigliano-Rossano.

Sul tema dei finanziamenti, dalla nostra Organizzazione di Volontariato, nei mesi scorsi sono state chiarite alcune perplessità. In ordine alle risorse disponibili abbiamo precisato che secondo i pareri del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici l’importo complessivo dei due interventi previsti (Catanzaro – Crotone e Sibari – Corigliano-Rossano), sarebbero costati non meno di 4 miliardi di euro mentre noi abbiamo affermato che probabilmente il costo dei progetti definitivi esecutivi sarebbe arrivato tra i 4,5 ed i 5,5 miliardi di euro.

Per quanto riguarda, invece, i tempi di realizzazione abbiamo avuto modo di precisare che a nostro giudizio difficilmente sarebbero stati rispettati i cronoprogrammi che la stessa Anas Spa ha stabilito.

Interventi previsti nel Contratto di programma Mit-Anas (2021-2025)

Leggendo l’elenco degli interventi definiti nel Contratto di Programma Mit – Anas 2021 – 2025 abbiamo avuto il piacere di riscontrare che sono effettivamente riportati gli 8 progetti di ammodernamento della Statale 106 tra Sibari e Corigliano-Rossano e da Catanzaro a Crotone. Tuttavia questo è quello che è emerso: per il lotto 1 primo stralcio della Catanzaro – Crotone è previsto il costo di € 423.184.226; per il lotto 2 primo stralcio, € 346.457.337; per il lotto 1 secondo stralcio, € 589.932.872; per il lotto 2 secondo stralcio, € 411.642.049; per il lotto 3 secondo stralcio, € 409.020.125; per il lotto 4 secondo stralcio, € € 420.661.119. L’importo totale dell’intervento di ammodernamento della Catanzaro – Crotone è, quindi, stimato in € 2.600.847.728 + Iva.

Per quanto riguarda la Sibari – Corigliano-Rossano è emerso che: per il lotto 1 il costo previsto è pari a € 574.102.690 mentre per il lotto 2 è di € 432.778.767. Per un costo totale di 1.006.881.457 euro + Iva.

Pertanto entrambi gli interventi hanno un costo previsto di 3.607.729.185 + Iva, ovvero, 4,4 miliardi di euro a cui vanno aggiunti diversi costi accessori (espropri su tutti).

Sibari – Corigliano Rossano: Già sette mesi di ritardo sul cronoprogramma

L’altro elemento che merita di essere attenzionato è quello relativo all’Allegato 3 “Cronoprogrammi interventi prioritari tronco Sibari-Crotone-Catanzaro” pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale dello Stato il 12 marzo 2024. Leggendo le tabelle relative ai cronoprogrammi è facile intuire che se per il lotto 2 primo stralcio della Catanzaro – Crotone non sembrano esserci ad oggi dei ritardi, per tutti gli altri 5 lotti vi è solo un mese di ritardo poiché l’aggiudicazione secondo il cronoprogramma avrebbe dovuto maturarsi entro il 30 settembre 2024 mentre nella realtà avverrà entro il 31 ottobre 2024.

Sulla Sibari – Corigliano-Rossano, invece, l’Anas Spa ha maturato ad oggi già 7 mesi di ritardi: la gara, infatti, secondo il cronoprogramma sarebbe dovuta iniziare ad aprile 2024 e terminare a settembre 2024 ma, ancora oggi, non è iniziata per nessuno dei due lotti.

Realizzazione parziale dell’opera e ipotesi di revoca del finanziamento

L’Organizzazione di Volontariato “Basta Vittime Sulla Strada Statale 106” di fronte a quanto è emerso non nasconde le proprie perplessità. In ordine al finanziamento evidentemente insufficiente di 3,5 miliardi di euro riteniamo che il rischio è quello che il Ministro alle Infrastrutture Matteo Salvini insieme all’Anas Spa decidano di realizzare un solo lotto della Sibari – Corigliano-Rossano e solo alcuni lotti della Catanzaro – Crotone. Riteniamo che la parziale realizzazione dei lotti sia dannosa sotto il profilo della sicurezza stradale e auspichiamo che, sia la Catanzaro – Crotone che la Sibari – Corigliano-Rossano, possano essere realizzati, solo se nella loro interezza.

In ordine ai tempi, invece, ricordiamo quanto riportato nell’articolo 4, comma 2 “Modalità di erogazione e di revoca delle risorse” contenuto nel Decreto del Ministro delle Infrastrutture pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 12 ottobre 2023: “Nelle ipotesi di  mancato  rispetto  dei  termini  previsti  dai cronoprogrammi  procedurali  di  cui  all’Allegato  3  o  di   omessa alimentazione del sistema di monitoraggio, verificato sulla base  dei sistemi informativi del Dipartimento della Ragioneria generale  dello Stato, la Direzione generale per le strade e  le  autostrade,  l’alta sorveglianza  sulle  infrastrutture  stradali  e  la  vigilanza   sui contratti concessori autostradali del Ministero delle  infrastrutture e dei trasporti provvede alla revoca dei  finanziamenti  erogati”.

L’altro elemento sconfortante che emerge dalla lettura delle carte è legato ai tempi di realizzazione. Se abbiamo solo per il lotto 2 primo stralcio della Catanzaro – Crotone un inizio dei lavori fissato a gennaio 2026 ed un fine lavori previsto per febbraio 2029, per tutti gli altri 4 lotti della Catanzaro – Crotone abbiamo un inizio lavori fissato a dicembre 2025 ed un fine lavori previsto per dicembre 2037… Mentre la Sibari – Corigliano-Rossano ha un inizio lavori fissato per dicembre 2025 (ma ha già 7 mesi di ritardo), ed un fine lavori previsto per dicembre 2037…

L’Organizzazione di Volontariato “Basta Vittime Sulla Strada Statale 106” ritiene che occorre intervenire con urgenza sulla strada Statale 106 esistente, ovvero l’arteria stradale che i cittadini dovranno percorrere per i prossimi 15 anni almeno.

Servono un piano immediato di interventi di ordinaria e straordinaria manutenzione ed è necessario programmare e realizzare interventi di messa in sicurezza urgente che elevino gli standard di sicurezza di una Statale 106 che, mai come oggi, versa in condizioni vergognose e comatose.

Analogamente l’Organizzazione di Volontariato “Basta Vittime Sulla Strada Statale 106” anche qui non dimentica di suggerire alla classe politica dirigente calabrese di rimuovere immediatamente l’attuale dirigenza di Anas Spa in Calabria e di pretendere dalla Direzione Generale di Roma il dislocamento in Calabria dei loro migliori dirigenti. (Odv Basta Vittime sulla Statale 106)

IL MODELLO DI LICEO BIOMEDICO DI RC
È ORA REALTÀ DIFFUSA IN TUTTA L’ITALIA

di ANTONIETTA MARIA STRATI – Da sperimentazione a modello nazionale. È il brillante traguardo di “Biologia con curvatura biomedica”, il percorso di studi ideato nel 2011 da Giusi Princi, eurodeputata e già dirigente scolastico, e Pasquale Veneziano, presidente Ordine dei Medici di Reggio Calabria, che è stata estesa su scala nazionale e inserita tra le poche autorizzate dal Ministero dell’Istruzione e del Merito, guidato dal ministro Giuseppe Valditara.

Ora l’esempio calabrese è esteso su tutto il territorio nazionale e la sperimentazione è autorizzata dal Ministero già dall’anno scolastico 2024/2025.

L’iniziativa è stata presentata nel corso di una conferenza stampa che si è svolta nella sede dell’Ordine dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri di Reggio Calabria. Moderata dal giornalista Piero Gaeta, capo servizio Gazzetta del Sud, sono intervenuti anche Filippo Anelli, presidente della Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici e Chirurghi, in videocollegamento, e Francesca Torretta, referente nazionale per la componente docente. Insieme al dirigente della scuola capofila, Antonella Borrello, del Liceo Scientifico “Leonardo da Vinci” di Reggio Calabria, erano presenti tutti i dirigenti scolastici dei licei italiani e gli Ordini dei Medici coinvolti nella sperimentazione.

«È motivo di orgoglio che un’idea partita dalla nostra terra cammini, e si implementi giornalmente, attraverso le gambe di centinaia di scuole (300), migliaia e migliaia di studenti (41.000), tutti gli Ordini dei Medici d’Italia (104) – ha dichiarato Princi, componente cabina nazionale della sperimentazione –. Con Decreto numero 189 del 5 settembre 2024, a firma del Ministro Valditara, viene assunto a sperimentazione nazionale il percorso biomedico partito da Reggio Calabria, da me ideato nel lontano 2011 insieme a Pasquale Veneziano, presidente dell’Ordine dei Medici di Reggio Calabria, per contrastare, attraverso un servizio pubblico di potenziamento sanitario, il business delle scuole di preparazione ai test in medicina. La Calabria fa scuola all’Italia».

La sperimentazione nazionale coinvolge in totale quasi 41 mila studenti in circa 300 licei scientifici e classici, 104 Ordini provinciali dei Medici, 1.300 docenti e 5.000 medici.

Il decreto, quindi, considera i risultati raggiunti nel primo periodo di sperimentazione del percorso di orientamento-potenziamento ed evidenzia «l’efficacia scientifica del progetto – si legge nel documento ministeriale – quale metodo di orientamento per l’accesso alla facoltà di Medicina e Chirurgia».

«Il percorso biomedico – ha spiegato l’eurodeputata Princi – è in linea con la riforma nazionale che rivede le modalità di accesso ai corsi di laurea in medicina, includendo anche iniziative di orientamento durante gli ultimi anni di scuola secondaria. Il progetto nato in Calabria è stato, infatti, pensato proprio per offrire una formazione mirata agli studenti che intendono proseguire gli studi in campo biomedico».

«Sono felicissimo per questa giornata – ha detto Pasquale Veneziano, presidente dell’Ordine dei Medici della provincia di Reggio Calabria –. Ringrazio tutti gli artefici di questo progetto, in particolare l’onorevole Princi e il dottor Roberto Monaco, segretario generale FNOMCeO che ha dato un contributo essenziale».

«Dobbiamo anche ricordare un’altra persona, Roberto Stella – ha aggiunto – presidente dell’Ordine dei Medici di Varese, il primo medico italiano scomparso a seguito del Covid, che ha creduto in questo progetto presentandolo al comitato centrale rendendolo poi nazionale. Sono orgoglioso perché il progetto è partito da Reggio Calabria con una classe di trenta alunni e poi ha avuto tale successo».

«Sono sempre più orgoglioso – ha affermato Domenico Tromba, consigliere dell’Ordine, coordinatore della commissione Rapporti Scuola – Università e referente nazionale medico del Corso di Biologia con curvatura biomedica –. L’orgoglio non è quello personale di averci creduto fin dall’inizio ma piuttosto di vedere oggi la Calabria, e Reggio in particolare, considerate come modello dalle scuole di tutto il Paese. Il corso di biomedicina con D.M. numero 180 del 5 settembre 2024 viene autorizzato tra i pochi corsi sperimentali ministeriali e tale percorso spero sia la strada di nascita del liceo biomedico».

Per Roberto Monaco, segretario generale della Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici (FNOMCeO) e componente cabina di regia del percorso nazionale, si tratta di «un evento importante perché segna il riconoscimento all’Ordine dei Medici di Reggio Calabria, che è stato il primo a portare avanti questo progetto insieme all’onorevole Princi». (ams)

CITTÀ UNICA, L’INCOGNITA DEL CONSENSO
CONTROVERSIA SUL NUOVO CENTRALISMO

di ORLANDINO GRECO  – Il recente dibattito sulla fusione dei comuni in Calabria, in particolare il progetto che coinvolge Cosenza, Rende e Castrolibero, ha sollevato serie preoccupazioni sul rischio di un ritorno a forme di centralismo regionale. La regione, infatti, ha deciso di procedere con il progetto senza tenere in considerazione le opposizioni espresse dai consigli comunali e dai cittadini, “un’ingiuria istituzionale” che potrebbe costituire un pericoloso precedente nel panorama italiano.

Il ruolo delle Regioni nelle fusioni comunali

Le regioni italiane, ai sensi della normativa vigente, possono intervenire nella modifica dei confini comunali, sentendo le popolazioni interessate. Tale potere è stato finora esercitato nel rispetto delle autonomie locali e delle volontà espresse dai consigli comunali democraticamente eletti. Dal 1945 a oggi, non ci sono stati casi in Italia in cui una regione abbia estinto municipi senza che vi fosse il consenso formale da parte dei singoli consigli comunali coinvolti nella fusione.

Le recenti fusioni avvenute in Calabria, Corigliano Rossano e Casali del Manco, sebbene con una serie di forzature normative, sono nate nel rispetto formale della legge e della volontà dei Consigli comunali. L’imposizione di una maldestra fusione come quella che riguarda i comuni dell’area urbana cosentina, rappresenta un primo caso di intervento autoritario, con la Regione che decide senza l’impulso né la delibera delle amministrazioni locali.

La controversia calabrese: un nuovo centralismo?

Il caso della fusione tra Cosenza, Rende e Castrolibero ha attirato critiche da vari fronti. Secondo l’Associazione Nazionale per le Fusioni tra Comuni, l’approccio calabrese rappresenta un “pericoloso precedente” che potrebbe rendere le fusioni future ancora più complesse da realizzare. Questa fusione viene vista come un’operazione azzardata, portata avanti senza un confronto adeguato con i cittadini e le istituzioni locali.

Uno degli aspetti più controversi è stata la mancata approvazione di studi di fattibilità, che avrebbero dovuto analizzare le conseguenze economiche, finanziarie e urbanistiche della fusione. Inoltre, la Regione Calabria non ha fornito ai cittadini uno strumento partecipativo come il referendum, o perlomeno, non lo ha reso vincolante, come fatto da altre regioni. Questo ha portato alcuni a definire il referendum una “presa in giro”, con i cittadini privati del loro potere decisionale.

La necessità di un processo trasparente e partecipato

Le fusioni tra comuni, per quanto possano rappresentare una via per ottimizzare i servizi e migliorare le condizioni di vita dei cittadini, sono temi delicati che richiedono un approccio inclusivo e ponderato. Le regioni dovrebbero muoversi predisponendo un piano regionale delle fusioni e delle gestioni associate di funzioni e servizi in ragione delle peculiarità e delle esigenze dei territori per evitare che si renda discrezionale un atto così importante avviando sin da subito un dialogo costante e rispettoso con le istituzioni locali democraticamente elette.

È cruciale che, prima di avanzare una proposta di fusione, si studino attentamente le criticità del territorio e si elaborino piani strategici fondati su dati scientifici e obiettivi misurabili.

Nel caso della fusione tra Cosenza, Rende e Castrolibero, invece, si è assistito a un’azione unilaterale da parte della Regione Calabria, che ha proceduto senza coinvolgere le amministrazioni comunali e senza predisporre gli strumenti necessari per garantire una partecipazione consapevole dei cittadini. Questo atteggiamento autoritario non solo mette in discussione la legittimità del processo di fusione, ma solleva anche interrogativi sul rispetto dei principi democratici.

Un appello al buon senso

Di fronte a una situazione così critica, è necessario che la Regione Calabria interrompa l’iter di fusione e avvii un vero confronto con tutte le parti coinvolte eliminando la norma che ha svuotato di significato il referendum, restituendo così ai cittadini la possibilità di esprimersi realmente sul proprio futuro anche attraverso un dettagliato e approfondito studio di fattibilità che esamini attentamente tutti gli aspetti legati alla fusione.

Conclusioni

Il progetto di fusione tra Cosenza, Rende e Castrolibero si configura come un banco di prova per la Calabria e per il futuro delle autonomie locali in Italia. La decisione della Regione di procedere senza consultare adeguatamente le comunità locali rappresenta un grave precedente, che potrebbe influenzare negativamente la realizzazione di altre fusioni nel Paese.

In un contesto così delicato, è fondamentale che prevalga il buon senso e che le istituzioni si impegnino a garantire trasparenza, dialogo e rispetto per la volontà dei cittadini. Solo attraverso un processo partecipato e condiviso sarà possibile realizzare fusioni che migliorino realmente la qualità della vita delle comunità coinvolte. (og)

[Orlandino Greco è sindaco di Castrolibero]

LA RIFORMA DEI PICCOLI COMUNI CALABRI
LA FUSIONE POTREBBE ESSERE UN’OPZIONE

di FRANCESCO AIELLO – Nell’incontro del 23 settembre scorso a Catanzaro sull’ordinamento degli enti locali, il Presidente della Regione Calabria, Roberto Occhiuto, ha sottolineato l’urgenza di riformare l’assetto istituzionale e amministrativo dei comuni calabresi, evidenziando come la frammentazione degli enti locali limiti l’efficacia nell’offerta dei servizi pubblici (“in Calabria troppi Sindaci, serve una riforma sui Comuni con pochi abitanti”).

La presenza del Ministro dell’Interno Matteo Piantedosi ha sottolineato ulteriormente l’importanza di affrontare queste problematiche, aprendo a discussioni su come promuovere il miglioramento della capacità amministrativa degli enti locali. Gli interventi di Occhiuto e del Ministro Piantedosi si inseriscono nell’ampio dibattito sull’efficacia e l’efficienza dei servizi pubblici offerti dai comuni.

Questi temi hanno ottenuto crescente attenzione tra i ricercatori e le istituzioni. Limitatamente al caso della Calabria, si è rilevato che ben 258 comuni, più del 60% del totale, sono classificabili come “sotto livello”, poiché registrano un’offerta di servizi e una spesa effettiva inferiori alle soglie standard. Questi comuni hanno una dimensione media di circa 39 km² e assorbono il 67% del territorio regionale. Inoltre, la popolazione media di questi comuni è inferiore a 5.000 residenti, il che significa che il 64% della popolazione calabrese vive in aree in cui gli enti locali spendono poco e offrono servizi al di sotto degli standard.

Pochissimi comuni calabresi mostrano un potenziale comportamento virtuoso, offrendo più servizi e spendendo meno dello standard. L’inefficienza sistemica nell’offerta di servizi riguarda tutti i territori della Calabria, sebbene sia relativamente più marcata nelle province di Reggio Calabria e Crotone.

All’interno di questo quadro generale, particolare attenzione meritano i comuni piccoli e di montagna, poiché affrontano difficoltà aggiuntive nella gestione delle risorse e nell’erogazione di servizi. La causa è l’impossibilità di sfruttare le economie di scala, che, insieme alle risorse umane e finanziarie insufficienti, incidono sul progressivo indebolimento del ruolo degli enti comunali.

È per tali ragioni che, per ottimizzare l’uso delle risorse e migliorare l’efficienza dei servizi, è essenziale promuovere fusioni tra comuni di ridotte dimensioni. Peraltro, l’analisi delle distanze tra i comuni calabresi indica che 131 coppie di comuni (232 unità amministrative!) sono distanti meno di 5 chilometri. Questa prossimità geografica offre un’opportunità unica per rivedere l’assetto amministrativo, facilitando la gestione dei servizi senza la necessità di investire in nuove infrastrutture di collegamento tra i centri urbani. In questo contesto, le fusioni potrebbero preservare le identità locali e le specificità culturali, contribuendo a costruire una governance più robusta. Un esempio emblematico è quello di Casali del Manco, un nuovo comune nato dalla fusione di cinque piccoli comuni vicini, che dimostra come, nel medio periodo, queste iniziative possano generare risultati positivi.

Sulla base di queste considerazioni, appare chiaro che non ci sono ragioni economiche che ostacolino le fusioni tra piccoli comuni. Infatti, la teoria economica e l’analisi dei dati suggeriscono che aggregare i comuni di dimensioni ridotte, creando nuovi enti con una popolazione di circa 12.000 abitanti, sarebbe molto vantaggioso.

Questa ristrutturazione è necessaria, poiché il territorio della Calabria non può più essere gestito da comuni con capacità amministrativa limitata. Tuttavia, gli ostacoli alle fusioni provengono spesso dalle popolazioni locali, che temono di perdere la propria identità, sebbene questo timore sia infondato, poiché si tratta solo di cambiare il modello organizzativo delle comunità. È, altresì, importante notare che le resistenze alle fusioni derivano anche da dinamiche politiche locali. L’esperienza dimostra che gli attori politici tendono di fatto a opporsi alle fusioni, temendo una perdita di potere dovuta alla riduzione delle cariche per sindaci e assessori.

In questo contesto, l’istituzione di un osservatorio permanente presso la Regione Calabria potrebbe offrire assistenza tecnica ai piccoli comuni, favorendo così la consapevolezza degli effetti potenziali delle fusioni. È, inoltre, fondamentale che la riforma degli enti locali sia facilitata dalla Regione Calabria con una chiara regolamentazione legislativa e con fondi regionali aggiuntivi rispetto a quelli nazionali, come già avviene in altre regioni italiane.

L’invito al Presidente Occhiuto è di fare proprie queste proposte, rendendo disponibili nel bilancio regionale risorse dedicate alle fusioni e promuovendo attivamente l’osservatorio permanente. Questi interventi sarebbero cruciali per garantire un’amministrazione efficace e reattiva alle esigenze delle comunità locali.

Riconsiderare gli assetti istituzionali è, quindi, cruciale. Il numero elevato di sindaci e comuni porta a una gestione inefficace delle risorse, evidenziando l’urgenza di ristrutturare il sistema di gestione e amministrazione del territorio.

In linea con le dichiarazioni di Occhiuto, è necessario affrontare la frammentazione amministrativa e migliorare la governance locale come passi necessari per adottare nuovi modelli organizzativi delle comunità e dei territori estremi della Calabria. Solo un impegno concertato e una visione a lungo termine possono contribuire a superare le attuali difficoltà dello spopolamento che impera in Calabria. (fa)

[Francesco Aiello è professore ordinario di Politica Economica all’Unical]