CHIAMATELO “DIVARIO DI CITTADINANZA”
È IMPIETOSO IL CONFRONTO TRA GLI ASILI

si  MASSIMO MASTRUZZO – Puntualmente, nemmeno fosse l’influenza invernale, ogni anno si ripresenta la querelle sui divari scolastici Nord-Sud, questa volta ad alimentare il dibattito sono Giorgio Gori, ex sindaco di Bergamo e attuale parlamentare europeo, e il virologo Roberto Burioni. Gli argomenti però sono, stancamente, sempre gli stessi:

Nel Sud-Italia gli studenti ricevono voti più alti; i docenti bravi del Sud emigrano al Nord; gli studenti del Sud sono più indietro rispetto a quelli del Nord.

Quante volte ancora dovremo ascoltare questa inutile nenia prima di porre una riflessione costruttiva e quindi provare ad agire di conseguenza: visto che gli argomenti sono sempre gli stessi, e si riferiscono sempre agli stessi territori, il difetto è nella “Struttura” o sistema che dir di voglia, o nei ragazzi che vivendo in quei territori subiscono la struttura che il sistema Italia gli offre?

Qualcuno ha provato ad affrontare l’argomento

Si intitola “Divario di cittadinanza”, pubblicato nel luglio del 2020, ed è un diario di viaggio condotto per osservare la vita del Sud Italia. Scritto per Rubbettino da Luca Bianchi, direttore dello Svimez e Antonio Fraschilla, giornalista di Repubblica, il libro mette in evidenza come le disparità tra Nord e Sud non solo non sono mai state appianate, anzi i numerosi programmi di intervento hanno finito per spostarsi sempre più dal livello del benessere economico a quello dei servizi offerti dallo Stato, in barba a quanto affermato dalla Costituzione sull’uguaglianza dei cittadini italiani.

Gli autori dedicano al tema della scuola alcune delle pagine più dense del volume, ed in generale sottolineano come tutti i servizi offerti, o meglio non garantiti ai cittadini del Sud fin dalla più giovane età, minano di fatto la loro formazione e il futuro.

“La scuola – denunciano gli autori – non sembra più in grado di colmare pienamente le lacune di chi proviene da situazioni più svantaggiate”.

Nel libro sono presenti alcuni dati che evidenziano la drammaticità della situazione: «Basta guardare i numeri dei servizi per l’infanzia per i bambini da 0 a 2 anni, dove è lampante la forbice tra il 5% del Mezzogiorno e il 17-18% del Centro-Nord, che incide significativamente sul tasso di occupazione femminile. E che dire del tempo pieno nelle scuole primarie, dove vi sono ancora oggi livelli, in alcune regioni meridionali, variabili tra meno del 10% di studenti cui viene offerta una frequenza a tempo pieno in Sicilia e oltre il 45%, perfino superiore al 50%, in media in alcune regioni del Centro-Nord? Questi dati, se messi a confronto, portano a una conclusione sconcertante: la differenza dell’orario settimanale fra Nord e Sud, moltiplicata per tutti e cinque gli anni scolastici, mette in evidenza come gli alunni delle regioni centrali e settentrionali studino di fatto un anno in più rispetto a quelli meridionali».

Italiani a cui il loro Paese nega l’asilo nido

Appurato quindi quanto denunciato nel libro “Divario di cittadinanza”, si scopre che ci sono italiani a cui il loro Paese nega l’asilo nido, nega la materna, di conseguenza anche scuola primaria (elementare) e la secondaria di primo grado (scuola media), la relativa mensa scolastica, nega il tempo pieno.

In dati reali questo negare diritti vuol dire sottrarre concretamente diverse ore di scuola ogni settimana che alla fine del ciclo scolastico obbligatorio, che si conclude con la fine della secondaria di secondo grado (le superiori), si traduce in oltre un anno in meno di diritto allo studio, per di più in scuole vecchie, fatiscenti o pericolose, con problemi di sicurezza e manutenzione, rispetto alle scuole del Nord che tendono ad essere più moderne, ben attrezzate e sicure, spesso con infrastrutture adeguate ai nuovi modelli didattici;

Stessi studenti italiani che concorrono alla formazione del proprio futuro con a disposizione strumenti diversi per raggiungerlo, senza che mai i censori da salotto si sforzino ad affrontano davvero il problema della disomogeneità dell’offerta formativa e infrastrutturale.

Differenze significative tra le diverse aree o istituzioni, che rendono l’accesso all’istruzione e ai servizi educativi non equo e uniforme. In altre parole, non tutti gli studenti hanno le stesse opportunità di apprendimento o le stesse strutture a disposizione.

[Massimo Mastruzzo è  del direttivo nazionale MET  – Movimento Equità Territoriale]

IL GIORNO DEI REFERENDUM SUL LAVORO: PERCHÉ È IMPORTANTE ANDARE A VOTARE

di ANTONIETTA MARIA STRATI  – Al di là del risultato pressoché scontato per mancanza di quorum (salvo un capovolgimento sconvolgente delle previsioni, sarebbe opportuno prendere spunto da questa tornata elettorale per guardare avanti.

Per dare un senso alla politica che si allontana sempre più dal territorio, dalla gente, ma soprattutto dai giovani. Sono i giovani che guardano con malcelata disattenzione la politica o, invece, è la politica che continua a disinteressarsi delle nuove generazioni, mancando di fornire loro percorsi formativi e modelli ideali da propugnare e seguire? Non è un quesito da referendum, ma una domanda che i nostri politici dovrebbero attentamente valutare e costringersi a dare una risposta concreta. Non c’è dubbio che, escludendo per un momento i cinque quesiti sottoposti oggi e domani al giudizio degli italiani, questo referendum ha un significato profondamente politico.

Non serve a ripristinare (in questo caso giustamente) situazioni a favore di chi lavora cancellate, bensì a indicare quanto pesa il fallimento di una opposizione pressoché inesistente e quanto il governo, nonostante tutto, abbia qualche temibile scricchiolìo. È un referendum politico, senza ombra di dubbio, ma può essere l’occasione perché Governo e opposizione si mettano insieme a un tavolo di riforme che diano nuovo vigore all’azione politica e facciano ricredere i detrattori e i sempre più avviliti cittadini che disertano le urne.

È evidente che, se in 30 anni e dopo 29 referendum solo alcuni sono riusciti a raggiungere il quorum, va modificata la percentuale di partecipazione richiesta per non invalidare lo scrutinio, ovvero la maggioranza più uno dei votanti. Un numero quasi impossibile da raggiungere – per un referendum – quando alle ultime elezioni (vedi in Calabria) si è arrivati a malapena sopra il 40%. Il referendum è uno strumento di democrazia perfetto che la Costituzione ci ha regalato, ma i tempi sono cambiati e la partecipazione al voto – per varie motivazioni – si è drasticamente ridotta. Quindi, è necessario riformare la sua formulazione per essere più aderenti alla realtà attuale. La chiamata diretta all’esercizio democratico mediante il referendum, era, nelle intenzioni dei padri costituenti, un modo di cointeressare e coinvolgere i cittadini su temi di grande interesse pubblico.

Nel tempo, invece – escludendo il caso dei referendum sul divorzio e l’aborto – sono stati convocati referendum su abrogazioni di modesto interesse (nel nostro Paese è ammesso solo il referendum abrogativo), salvo lo scivolone costituzionale che ha travolto Renzi e il suo Governo qualche anno fa. Ma non va solo modificata la parte relativa al quorum di partecipazione richiesto per rendere valido un referendum, bensì gli italiani chiedono a gran voce la riforma delle riforme, quella elettorale. Dal Mattarellum al Rosatellum, al Porcellum di Calderoli, è evidente che l’attuale legge elettorale non può continuare a esistere, privando i cittadini del diritto di scelta dei candidati, ma affidando loro una semplice ratifica di scelte operate dalle segreterie dei partiti.

Una nuova legge elettorale, sempre promessa da ogni nuovo Parlamento e annunciata in pompa magna dalle intenzioni di ogni nuovo Governo appena insediatosi, in realtà la politica probabilmente non la vuole, perché ogni parte pensa a come “fregare” gli avversari utilizzando al meglio (ovvero al peggio) le attuali disposizioni sul voto. La crescente disaffezione alle urne ha molte origini: di certo, in primo luogo, lo scoramento del cittadino verso chi governa o di chi fa le leggi, ovvero il mancato riconoscimento – per sfiducia, spesso motivata – nei confronti della politica stessa, ma ci sono anche ragioni molto più semplici che favoriscono l’assenteismo. Prendete la Calabria, per esempio: sull’oltre milione e 800mila di iscritti a votare c’è un buon 25 per cento che non risiede nella regione, vuoi per motivi di lavoro vuoi per motivi di studio. Questo 25% andrebbe in qualche modo considerato quando si conta l’affluenza alle urne perché non può essere considerato un assenteismo volontario, frutto di dissenso o espressione di un rigetto della politica, bensì è la plastica rappresentazione di una realtà che fa i conti con i soldi in tasca.

Il viaggio per tornare a votare – nonostante le agevolazioni previste – ha un costo che, alle attuali condizioni economiche, diventa spesso proibitivo per molti, soprattutto per gli studenti, già in brache di tela per gli affitti nelle città universitarie. E allora perché non ricorrere al voto elettronico? Ben due proposte di legge (una partita dalla meritoria azione dei giovani calabresi del Collettivo Peppe Valarioti nel 2021) sono miseramente naufragate.

La richiesta del voto ai fuorisede era il punto di partenza per aprire alla possibilità di introdurre il “voto a distanza” sul modello di quello delle circoscrizioni estere. Già, perché c’è anche l’assurdo che il voto per corrispondenza vale esclusivamente per l’Estero ma non è – allo stato – attuabile in Italia. Anche questa dovrebbe far parte della riforma elettorale, quella che deve permettere ai cittadini di tornare con convinzione alle urne per scegliere i propri rappresentanti e quella che deve consentire (gli strumenti elettronici a garanzia antibroglio ci sono) il voto anche a chi si trova momentaneamente lontano dalla propria circoscrizione elettorale.

Manca – lasciatecelo dire – la volontà politica di riformare la legge elettorale. Ma, almeno, sia consentito il voto a distanza. Intanto andiamo tutti a votare e contiamoci, per contare. (ams)

INFRAZIONI UE: LA CALABRIA CONDANNATA
A PAGARE PER L’ACQUA CHE NON ARRIVA

di BRUNO GUALTIERIChe in Calabria ci sia un’emergenza idrica non è una novità. Che questa emergenza si aggravi ogni anno, neppure. Ma ciò che colpisce — e indigna — è ancora la lentezza con cui si traducono in opere concrete gli investimenti già stanziati, pur in presenza di una situazione arcinota e ben documentata.

Lo avevo già segnalato in articoli precedenti, come “Quando la politica corre e la burocrazia frena“, dove denunciavo l’incapacità della macchina amministrativa di tenere il passo con la volontà politica. O ancora in “Verso un futuro sostenibile o un altro decennio di attese?“, dove richiamavo l’urgenza di uscire da logiche emergenziali e attuare una vera riforma gestionale del sistema idrico regionale. Le stesse criticità sono state approfondite in “Calabria e depurazione: una battaglia da vincere, oggi“, dove la frammentazione delle competenze e la paralisi decisionale venivano collegate direttamente al perpetuarsi delle infrazioni comunitarie.

Questa denuncia oggi trova ulteriore riscontro nel documento n. 6 – aprile 2025 del Servizio Studi della Camera dei deputati, che fornisce un’analisi dettagliata del cosiddetto water service divide, ovvero del profondo squilibrio tra Nord e Sud nella gestione delle risorse idriche. In molte aree del Mezzogiorno si registrano perdite idriche superiori al 50%, reti colabrodo risalenti in gran parte a oltre trent’anni fa, e una capacità di investimento largamente insufficiente, aggravata dalla prevalenza di gestioni “in economia” scarsamente efficaci. Il Sud investe in media meno della metà del Nord per abitante, con punte minime di appena 11 euro pro capite. A questo si sommano frequenti irregolarità nell’erogazione, ampia sfiducia nell’acqua del rubinetto e una struttura frammentata del servizio che ostacola ogni tentativo di riforma. Un quadro che riflette non solo un problema infrastrutturale, ma un vero e proprio ritardo sistemico nella garanzia di un diritto essenziale.

In Calabria, a queste criticità si aggiunge una disfunzione specifica: la governance del Servizio Idrico Integrato è stata riorganizzata nel 2022 con l’istituzione di ARRICAL come Autorità unica, mentre Sorical S.p.A. è gestore unico. Tuttavia, come già osservato nella mia recente analisi sui quotidiani, il Dipartimento regionale Ambiente e Territorio continua ad agire come se detenesse ancora competenze gestionali. Questo atteggiamento genera un cortocircuito amministrativo che impedisce la stipula delle convenzioni necessarie tra ARRICAL e gli enti locali, in alternativa a Sorical — ancora in fase di riorganizzazione interna come società in house. E senza queste convenzioni, Sorical non può esercitare nemmeno il ruolo di supervisione tecnica previsto dalla normativa, né attuare concretamente alcuni degli interventi programmati.

Il Piano d’Ambito approvato da ARRICAL il 16 settembre 2024 contiene un articolato programma di interventi per la modernizzazione del sistema idrico integrato, coerente con le direttive europee e il principio del full cost recovery previsto dal Codice dell’Ambiente. Ma finché gli enti locali non vengono messi nelle condizioni operative di attuare tali interventi, e finché il Dipartimento continua a occupare spazi che non gli competono più, gli investimenti restano bloccati.

Non si comprende — o forse si comprende fin troppo bene — perché il Dipartimento continui a ostacolare il passaggio delle competenze necessarie per attuare interventi già finanziati. Forse perché troppo legato a quelli previsti dalla delibera Cipess n. 79/2021, che si sovrappongono ad altri più datati, generando un doppio stallo: opere non realizzate, fondi inutilizzati e nuove sanzioni europee che gravano sui cittadini.

Oppure perché alcuni dei progetti inclusi in graduatoria grazie a quella deliberazione non trovano spazio nel Piano d’Ambito, che assegna le priorità seguendo criteri oggettivi come il carico generato. E se si andasse più a fondo, non si escluderebbe che alcuni interventi “fuorilegge” siano già stati progettati da soggetti in stretto rapporto con lo stesso Dipartimento. O forse, più semplicemente, si attende il momento giusto per rimescolare le carte e riportare in gioco, per vie traverse, ciò che era stato escluso dalle regole europee.

In questo scenario, resta sconcertante un altro aspetto troppo spesso taciuto: l’omesso avvio delle azioni necessarie a risolvere le infrazioni europee. Il dossier della Camera evidenzia come le non conformità degli agglomerati per la depurazione delle acque reflue si registrino in prevalenza nelle aree meridionali. A livello nazionale, nel 2022, ben 6,6 milioni di residenti non erano allacciati alla rete fognaria comunale. È possibile che nessuno si accorga che per uscire da una procedura d’infrazione — come quella in corso sulla depurazione — sono necessari almeno due anni di conformità dimostrabile?

E che, nei casi più semplici, dove l’infrazione riguarda solo reti e collettori fognari, basterebbero sei mesi per ottenere l’archiviazione, purché si attivino subito i cantieri e si dimostri l’effettiva esecuzione degli interventi? Eppure, non si muove nulla. Né una comunicazione formale all’Unione Europea, né una azione attuativa concreta.

Nel frattempo, i cittadini calabresi pagano il prezzo più alto: servizi inadeguati, carenza d’acqua, frequenti interruzioni, sfiducia nell’acqua di rubinetto, mari inquinati, divieti di balneazione, danni al turismo e alla salute pubblica. Non è solo una questione ambientale, ma di sviluppo, di credibilità istituzionale, di civiltà.

Ma non perdiamo la speranza! Perché si sa: al peggio non c’è mai fine — e noi calabresi, con il cornetto rosso sempre in tasca e lo spirito saldo, continuiamo a incrociare le dita. Prima o poi, al Dipartimento Ambiente e Territorio si accorgeranno che manca ancora un tassello: la nomina del Dirigente del Ciclo Integrato delle Acque. E magari, con un pizzico di fortuna (o di coerenza), sceglieranno qualcuno che conosce davvero la materia. O forse no. Forse toccherà a chi ha già mostrato il meglio di sé distribuendo collaudi a pioggia agli amici degli amici, o a chi si è prodigato per sabotare, con zelo invidiabile, la redazione del Piano d’Ambito. Oppure, perché no, a chi ha orchestrato con puntiglio gli interventi della famigerata delibera Cipess n. 79/2021, la cui eredità, ancora oggi, genera più ostacoli che soluzioni.

Insomma, una nomina strategica, come si dice. Da essa dipende se continueremo a salutare i nostri figli alla stazione, valigia alla mano, destinazione Nord — come abbiamo fatto per decenni — o se finalmente potremo sperare in un futuro qui, nella nostra terra. Ma se anche stavolta dovesse prevalere l’usato sicuro dell’inconcludenza o, peggio ancora, del clientelismo, ci resterà solo un ultimo treno. Quello che parte senza ritorno.

Perché, diciamocelo con un sorriso amaro: in Calabria il futuro esiste. È solo che si ostina a restare virtuale. O mitologico. Come la chimera.

Il quadro, dunque, è chiaro. Tocca ora ai decisori politici e amministrativi cambiare passo, con atti concreti e immediati: avviare i cantieri, sbloccare le convenzioni, semplificare le procedure e garantire trasparenza. Solo così si potrà restituire fiducia ai cittadini e voltare pagina. Il Servizio Studi della Camera lo riassume in termini netti: “l’effettiva attuazione della riforma del SII è ostacolata da una governance ancora segmentata e dalla mancata chiarezza nei ruoli istituzionali, con particolare criticità nelle Regioni del Sud” (pag. 58 del dossier, citando il PNIISSI e il Pnrr come tentativi di indirizzare risorse al Sud). L’Arera (Autorità di Regolazione per Energia Reti e Ambiente) stessa, pur rilevando un miglioramento medio nazionale degli indicatori di qualità tecnica del servizio idrico tra il 2016 e il 2023, sottolinea che a ciò “non corrisponde una riduzione significativa delle ampie differenziazioni territoriali nei livelli di qualità dei servizi (water service divide)”.

Serve un cambio di passo immediato. Serve responsabilità istituzionale, chiarezza nei ruoli, coraggio decisionale. Serve che ciascun attore faccia la propria parte, con trasparenza e rigore. Solo così la Calabria potrà recuperare il tempo perduto e guardare avanti. Dobbiamo liberare la gestione dell’acqua dalla palude burocratica e dagli interessi particolari.

Perché l’acqua è un bene vitale. Ma in Calabria, finché la politica correrà e la burocrazia continuerà a frenare o, peggio, a remare contro, resterà solo una promessa che non disseta nessuno. (bg)

[Bruno Gualtieri già Commissario Straordinario dell’Autorità Rifiuti e Risorse Idriche della Calabria (ARRICAL)]

NEI BORGHI DEL SUD E DELLA CALABRIA
LO SPOPOLAMENTO È «IRREVERSIBILE»

Centinaia di borghi e paesi delle aree interne italiane, in particolare del Mezzogiorno, sono destinati a scomparire. Lo dice esplicitamente il Piano strategico nazionale per le aree interne (Psnai), firmato dal ministro per le Politiche di coesione, Tommaso Foti. Il fenomeno dello spopolamento viene descritto come ormai inarrestabile in molte zone e, per la prima volta, viene previsto un “accompagnamento” nel declino.

«La popolazione può crescere solo in alcune grandi città e in specifiche località particolarmente attrattive», si legge nel documento. Dove ciò non è possibile, l’obiettivo è «l’accompagnamento in un percorso di spopolamento irreversibile».

Un passo indietro rispetto agli intendimenti sempre manifestati dalla destra, che ha sempre proclamato di voler difendere l’identità dei territori, i piccoli comuni, i borghi storici. Foti, invece, chiarisce che per alcuni non c’è nulla da fare.

Aree interne senza prospettiva: la resa del piano Foti

È l’Obiettivo 4 quello più drammatico. In questo segmento di analisi il piano ministeriale prende atto di una realtà già compromessa: «Un numero non trascurabile di aree interne si trova già con una struttura demografica compromessa oltre che con basse prospettive di sviluppo economico e deboli condizioni di attrattività», si legge ancora.

Per queste aree, prosegue il testo, «non possono porsi obiettivi di inversione di tendenza ma non possono nemmeno essere abbandonate a sé stesse» e «hanno bisogno di un piano mirato che le possa assistere in un percorso di cronicizzato declino e invecchiamento in modo da renderlo socialmente dignitosoper chi ancora vi abita».

Il Mezzogiorno paga il prezzo più alto

Il problema riguarda tutto il Paese ma colpisce soprattutto il Sud. Le aree interne del Mezzogiorno, già fragili, risultano le più colpite da emigrazione, crisi dei servizi e mancanza di opportunità. Le conseguenze si ripercuotono ovviamente anche sulla Calabria, dove la rinascita dei borghi è una parola d’ordine da anni (forse decenni) ma, davanti alla cruda realtà dei dati, dovrà tramontare, per lo meno nei piccoli comuni in condizioni più disperate.

«Al Sud quattro comuni su cinque perdono 35mila abitanti», ha detto lo stesso Foti in un’audizione parlamentare, confermando di fatto la geografia dello squilibrio demografico.

Alcuni borghi verranno “salvati”, ma secondo una logica selettiva: solo quelli con concrete possibilità di rilancio riceveranno risorse, con investimenti mirati su trasporti, sanità e servizi essenziali.

Il Pd all’attacco: «Condannati alla resa»

Dall’altro lato della barricata ci sono le opposizioni. E soprattutto il Pd che, negli ultimi anni, ha puntato molte iniziative proprio sulle aree interne. «Il governo getta la spugna e condanna questi territori alla resa. Ringraziamo il ministro Foti per averci dato ragione», ha dichiarato a Domani il deputato del Partito Democratico Marco Sarracino.

Il Pd prepara una proposta di legge per contrastare lo spopolamentoe intende avviare un tour nelle aree a rischio, per rilanciare la questione politica del riequilibrio territoriale.

Tanti fondi, ma strategia al ribasso

Nel documento, che conta 164 pagine, il governo annuncia anche una revisione della governance: sarà istituita una nuova cabina di regia con funzioni di coordinamento e supporto tecnico, sotto la supervisione del Dipartimento guidato da Foti.

Ma la linea di fondo appare rinunciataria. Una scelta sorprendente se si considera la dotazione disponibile: ai 600 milioni previsti dal Pnrr per le aree interne, si sommano altri 400 milioni provenienti da fondi europei già stanziati.

Risorse ampie, dunque, ma le linee guida del Governo vanno verso una gestione che rinuncia a invertire la rotta in ampie porzioni del territorio nazionale. Per molte aree interne, il declino sarà semplicemente “accompagnato”. È un fenomeno «irreversibile». (ppp)

[Courtesy LaCNews24]

IL REFERENDUM PER LA CITTADINANZA
E L’IMPERDONABILE SCELTA DI CONTE

di ERNESTO MANCINIIl leader dei Cinque Stelle, Giuseppe Conte, non si è schierato a favore del referendum che riporterebbe da dieci a cinque anni il tempo necessario per chiedere la cittadinanza da parte degli stranieri regolarmente residenti in Italia.

Egli ha motivato tale scelta affermando pubblicamente che i 5 Stelle hanno presentato in Parlamento apposito disegno di legge organica sulla cittadinanza (ius scholae) per cui è opportuno procedere con tale legge anziché con lo strumento del referendum. 

Conte ha pure affermato che lascia comunque liberi gli iscritti al Movimento di votare secondo coscienza rimanendo perciò liberi da direttive di partito. Egli voterà “sì” al referendum ma gli iscritti potranno regolarsi come meglio credono.

La posizione di Conte non può essere condivisa

In primo luogo, va notato che di proposte di legge giacenti in Parlamento sulla cittadinanza (ivi compreso lo ius scholae presentato non solo dai 5 Stelle ma anche dal PD ed altre componenti della sinistra che in più sostengono a ragione anche lo ius soli eventualmente temperato con lo ius scholae) ce ne sono almeno una decina e nessuna di queste ha possibilità concrete di arrivare in porto in questa legislatura. La maggioranza parlamentare di destra, infatti, è blindata contro ogni legge che riconosca maggiori diritti per i migranti quand’anche siano nati qui o qui siano residenti regolarmente da parecchi anni. Non si tratta perciò di clandestini od irregolari ma di persone (donne, uomini, ragazze e ragazzi, in moltissimi casi addirittura nati in Italia) che lavorano e studiano in questo nostro Paese e che alcuni hanno giustamente definito “nuovi italiani” (Treccani, Vocabolario dei neologismi; Censis progetto di ricerca sui “nuovi italiani”).

In secondo luogo, la riduzione dei tempi di cittadinanza tramite referendum non ostacola in alcun modo i disegni di legge depositati in Parlamento, anzi ne rafforzerebbe le ragioni qualora una forte partecipazione popolare riuscisse a spingere verso la stessa direzione. Al contrario, tali disegni di legge sarebbero ancor più ostacolati ove il quorum non si raggiungesse consentendo alla destra di cantare vittoria ed affermando gratuitamente che gli italiani non hanno voluto alcuna norma di favore per gli immigrati. Sembra già di sentirla questa prossima litania.

In terzo luogo, va ricordato che alle recenti elezioni europee del 6 giugno 2024 votarono 24.621.499 di italiani su 46.552.399 aventi diritto al voto. Meno della metà, insomma, e cioè il 49,6%. Va però chiarito che nei 24 milioni dell’anno scorso ci sono solo 11,6 milioni di votanti che appartengono a partiti favorevoli a ridurre il tempo per la cittadinanza mentre il quorum rimane a circa 24 milioni. Se poi da questi 11,6 mln si detraggono in tutto od in parte, dato il forfait di Conte, i 2,3 mln dei Cinque Stelle delle europee 2024, il quorum dei 24 mln,  già lontano, diventa lontanissimo perché i contrari alla riduzione dei termini per la cittadinanza non hanno alcun interesse a partecipare al voto così impedendo il quorum. In questa situazione è evidente che la partita del referendum si gioca tutta sul quorum per cui il disimpegno “come partito” dei 5S è scelta imperdonabile.

Solo per completezza va detto che la tornata referendaria è stata privata del referendum per l’abrogazione totale della legge Calderoli sull’autonomia differenziata; tale referendum, come è noto, è stato inopinatamente non ammesso dalla Corte Costituzionale. C’è da credere, al riguardo, che quella consultazione sarebbe stata molto trainante per le altre. Si è dunque assai lontani dal quorum anche per circostanze sopraggiunte e Conte, come se non bastasse, ci ha messo anche del suo.

C’è dunque da sperare in un’alta affluenza alle urne: alle politiche del settembre 2022 l’affluenza fu del 63,91 % con 29,4 mln di votanti ampiamente superiore ai 24 mln ora richiesti.  C’è però da tener conto, anche in questo caso, che oltre metà di questa cifra appartiene ai partiti di destra che oggi incentivano con messaggi ufficiali a non recarsi alle urne proprio per evitare il quorum. Perciò, come si disse una volta, “tutti al mare !!”. È significativo, al riguardo, che il Governo abbia scelto una domenica di giugno nonostante il referendum potesse essere fissato, a termini dell’art. 34 della legge n. 352/1970, tra il 15 aprile ed il 15 giugno). È anche significativo che la Meloni abbia dichiarato che si recherà alle urne ma senza ritirare le schede referendarie; di mezzo ci sono anche i secondi turni per le elezioni comunali di alcune città e quelle schede saranno invece utilizzate senza che vadano conteggiate per il quorum referendario. 

Da quanto precede risulta evidente che l’unica concreta possibilità di successo del referendum sulla cittadinanza è quella di una massiccia partecipazione da parte dei cittadini che nelle scorse votazioni non andarono a votare. In tal modo si colma il gap di voti mancanti a causa della non partecipazione degli elettori appartenenti ai partiti governativi che si oppongono al referendum. Questo vale anche per i referendum sul lavoro e su ciò i segretari dei sindacati e dei partiti referendari hanno più volte rivolto un appello al voto nei pochi talk televisivi che fino ad oggi hanno affrontato l’argomento.

Un’ultima annotazione sulla libertà di coscienza indicata da Conte. La riduzione per legge da dieci a cinque anni per gli immigrati non è una questione di coscienza bensì di puro diritto ed ancor più di diritto umanitario. Dice l’art. 15 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948: “Ogni individuo ha diritto a una cittadinanza. Nessuno può essere arbitrariamente privato della sua cittadinanza né del diritto di mutarla.” Sulla stessa linea vedi Convenzione Europea sulla Nazionalità (Strasburgo, 1997), Convenzione sui diritti del fanciullo (New York, 1989), Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici (1966), Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale (1965), Convenzione sulla condizione dei rifugiati (Ginevra, 1951).

Non è dunque una tema che può essere lasciato all’etica o alla morale personale perché è vincolato ai principi universali dei diritti dell’uomo che lo Stato “deve” applicare. Che uno Stato preveda discrezionalmente condizioni temporali di accesso è cosa possibile ed anche legittima ma che queste condizioni si spingano oltre il ragionevole (dieci anni più gli ulteriori due-quattro anni per la procedura burocratica di riconoscimento e altri requisiti quali, reddito personale o familiare, lavoro, ecc.) è cosa che va ridimensionata con ogni mezzo. Il referendum è un mezzo che va in questa direzione nell’attesa di una legge organica che, per ora, non accenna minimamente ad arrivare.

Se poi si insiste sulla coscienza e perciò sulla morale va ricordato quanto disse duemila anni fa un maestro di virtù umane: “…perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi.” (Vangelo secondo Matteo 25,35-36). Speriamo che anche molti elettori democratici di destra non abbiano paura e se ne ricordino. 

Quel Maestro oggi andrebbe a votare segnando il “sì” sulla scheda. Non c’è dubbio. (em)

 

IN CALABRIA IL DIRITTO ALLA SALUTE È LA
VERA EMERGENZA: CURARSI QUI È UN LUSSO

di FRANCESCO VILOTTA – C’è un dolore che non fa rumore. Non sanguina. Non grida. Non marcia. Non occupa le prime pagine, né i talk-show. È il dolore opaco, quotidiano, lento, di chi si sveglia ogni mattina con una diagnosi in tasca e una lista d’attesa in mano. È la malattia che diventa condizione sociale. È la salute che si arrende alla burocrazia, al mercato, alla solitudine.

L’Italia è diventata il Paese che rinuncia a guarire. Quattro milioni e mezzo di persone. Non sono numeri, sono vite. Madri che aspettano un esame che non arriverà mai. Anziani che smettono di curarsi perché l’autobus non passa più. Uomini e donne che hanno imparato a sopportare la malattia come si sopporta il caldo d’agosto: in silenzio, col sudore che scende e il fiato che stringe. Rinunciano. Rinunciano a vivere bene, che poi è il modo più silenzioso di cominciare a morire.

Nel 2024, il 7,6% della popolazione ha detto no alle cure, e nel 2025 la situazione sembra addirittura peggiorare. Non per scelta, ma per necessità. Perché non c’erano soldi, perché non c’era tempo, perché non c’era nessuno a rispondere al telefono del CUP. È un’Italia che sta male e si sente in colpa anche per questo. Che ha imparato a dire “tornerò quando peggiora”. Un’Italia che ha dimenticato il diritto alla salute e si è adattata all’elemosina del possibile.

Lo ha raccontato con dolore e lucidità qualche tempo fa anche Francesca Mannocchi, giornalista e malata di sclerosi multipla. «Le liste d’attesa», ha scritto, «non sono numeri. Sono sentenze». E ogni giorno in più in attesa è un giorno in meno di vita, un giorno in più di paura. Ma c’è un disegno. Non è un complotto, è una strategia.

Un disegno cominciato in sordina decenni fa, e che oggi si fa sempre più evidente: demolire la sanità pubblica per favorire quella privata. Ridurre le risorse, allungare le attese, scoraggiare le cure, per costringere sempre più persone a rivolgersi a cliniche, studi privati, assicurazioni. È un’economia della malattia, dove chi soffre è mercato, e la salute è un prodotto da acquistare. E chi non può, si arrangi.

E i dati lo confermano: nel 2022, la speranza di vita alla nascita nel Mezzogiorno era di 81,7 anni, circa un anno e mezzo in meno rispetto al Nord-Est. Le province con l’aspettativa di vita più bassa? Napoli e Siracusa. Quelle più alte? Treviso, Trento, Bolzano. Come se nascere a sud significasse, biologicamente, vivere meno. Un destino scritto nella carta d’identità.

Nel 2021, le risorse pro capite per la sanità erano in media oltre 800 euro più alte in Friuli-Venezia Giulia rispetto alla Calabria. Campania, Basilicata, Puglia e Sicilia seguono a ruota. E non per caso: fino al 2023, i fondi per la sanità venivano distribuiti in base alla dimensione e all’età della popolazione. Apparentemente logico. In realtà, un paradosso crudele: dove si vive meno, si riceve meno. È come dire a chi muore prima che non vale abbastanza.

A peggiorare tutto, c’è l’autonomia differenziata: un modello che permette alle Regioni più forti di gestire settori strategici come la formazione medica, le politiche tariffarie, i fondi sanitari integrativi. In un Paese già spaccato, diventa la pietra tombale dell’uguaglianza. Oggi, cinque Regioni del Sud su otto risultano inadempienti nei Livelli Essenziali di Assistenza (Lea). E la forbice si allarga. In silenzio.

Il risultato? La migrazione sanitaria. Nel 2022, il 44% dei pazienti che si sono spostati per curarsi proveniva dal Sud. Non sono viaggi della speranza: sono fughe. Fughe dal vuoto, dall’inefficienza, dall’abbandono. È la cartina geografica della disuguaglianza, dove la salute si misura in chilometri, e i chilometri si pagano con la fatica e con la pelle.

La sanità pubblica viene logorata come si logora una parete: un taglio di bilancio alla volta, un reparto che chiude, un pronto soccorso che scoppia. Intanto, il privato cresce. Le assicurazioni sanitarie – un tempo rare, oggi quasi indispensabili – aumentano i profitti e la presa sulla vita delle persone. Oggi, senza una polizza, curarsi bene è diventato un lusso.

È questo il nuovo volto della disuguaglianza: non si misura più soltanto con il reddito, ma con la possibilità di accedere a una terapia. Si è poveri anche quando si è malati e non si ha voce. Un esame urgente può costare quanto una mensilità. Una visita specialistica, se pagata privatamente, arriva prima di un referto del pronto soccorso. E mentre si aspetta, si peggiora. Lo Stato risparmia oggi e paga domani. Ma domani, forse, non ci sarà.

In Sardegna, in Calabria, in Abruzzo, si rinuncia a curarsi più che altrove. Non per superstizione, ma per geografia. Perché il diritto alla salute, in Italia, è un fatto di coordinate. In centro città, resistono le strutture. In periferia, si aspetta. In provincia, si rinuncia. Lo Stato – quello che dovrebbe esserci per tutti – lascia indietro proprio i più deboli.

Rinunciare alle cure significa molto più che trascurare il proprio corpo. Significa perdere fiducia. In sé stessi, negli altri, nelle istituzioni. Significa accettare che il dolore non è più una malattia, ma una condizione di classe. Le malattie diventano destino. Il diabete è un fardello dei poveri. L’ipertensione è il marchio di chi lavora troppo e dorme poco. Le patologie cardiovascolari si concentrano tra chi mangia male, vive male, si cura peggio. Il dolore si eredita, come una casa vecchia o un debito. È l’ereditarietà sociale del male.

E non finisce lì. Perché quando un genitore non si cura, chi lo assiste paga il prezzo emotivo ed economico della rinuncia. I caregiver, li chiamano. Sono figli, figlie, compagn   i, sorelle. Sono la stampella dello Stato. Quelli che rinunciano a lavorare per accompagnare un padre a fare una visita a 300 chilometri. Quelli che si indebitano per un farmaco, per una terapia, per una speranza. La salute non è solo una questione sanitaria. È politica. È civile. È culturale. Una nazione che consente – anzi, organizza – la rinuncia alla cura, è una nazione che ha deciso di smettere di essere comunità.

Ci siamo abituati a parlare di “emergenza sanitaria” solo quando arriva una pandemia. Ma l’emergenza vera è questa: il diritto alla salute è diventato un privilegio da meritarsi, un lusso da pagare, un caso fortunato. E allora mi domando: dov’è l’ indignazione? Dov’è la coscienza politica di fronte a questa ingiustizia strutturale? Dov’è il grido della sinistra, che nacque proprio per garantire il diritto alla vita, alla salute, alla dignità di chi non aveva voce? Dov’è la destra, che dice di difendere il popolo ma poi lo abbandona nelle sale d’attesa?

Non ci sarà futuro – né economico, né umano – se non si ricomincia da qui. Dalla salute come bene comune. Dalla sanità pubblica come investimento, non come spesa. Dall’idea che guarire non debba dipendere da quanto puoi spendere, da quanto puoi aspettare, da quanto sei fortunato. Guarire un Paese non è una metafora. È un dovere. E chi governa, chi amministra, chi scrive, chi racconta – deve scegliere da che parte stare: con chi rinuncia o con chi pretende. Con chi subisce o con chi lotta. Perché in fondo è questo che ci resta da fare: non rinunciare più a pretendere di essere curati. Di essere ascoltati. Di essere umani. (fv)

[Courtesy LaCNews24]

MERCATO DEL LAVORO: LA GRANDE CRISI
IN CALABRIA TRA FRAGILITÀ E DIVERGENZE

di FRANCESCO AIELLO Osservare le dinamiche del mercato del lavoro è come comprendere l’evoluzione di un sistema economico. Analizzare la forza lavoro, chi trova occupazione e chi ne resta escluso significa cogliere aspetti cruciali della crescita economica, della coesione sociale e delle aspettative individuali. Nel caso della Calabria, questo esercizio assume un valore ancora più rilevante. Qui, più che altrove, le dinamiche occupazionali hanno riflesso – e in parte alimentato – una stagnazione di lungo periodo. Tra il 1995 e il 2024, mentre l’Italia ha vissuto fasi alterne, con segnali di crescita e di adattamento, i dati della Calabria raccontano una storia di distacco strutturale rispetto al resto del Paese, che non si è colmato nemmeno nelle fasi espansive.

Sebbene molti dei contenuti illustrati in questa nota possano risultare familiari, soprattutto a chi studia o insegna materie economiche, l’osservazione di un periodo esteso consente di cogliere con maggiore chiarezza la direzione delle trasformazioni avvenute. Il confronto trentennale tra Calabria, Mezzogiorno, Centro-Nord e Italia aiuta a leggere in profondità le traiettorie divergenti che hanno caratterizzato il mercato del lavoro regionale.

Tre sono le domande guida: la Calabria ha recuperato o perso terreno? Ha seguito un’evoluzione simile o divergente rispetto al resto del Paese? E soprattutto: cosa ci dicono questi dati sulla possibilità, oggi, di immaginare uno sviluppo diverso?

La dinamica della popolazione in età lavorativa (15-64 anni)

Nel trentennio 1995–2024, la Calabria ha sperimentato una progressiva contrazione della popolazione in età lavorativa (15–64 anni), passando da oltre 1,296 milioni di individui nel 1995 a circa 1,163 milioni nel 2024. Si tratta di una perdita netta di circa 133.000 persone, pari a un calo di oltre il 10%, il più marcato tra tutte le macroaree italiane. Se confrontata con il resto del paese, in Calabria queste dinamiche sono particolarmente severe. Nel 2024 la popolazione in età lavorativa è diminuita del 4,2% in Italia, dell’1,6% nel Centro-Nord, ma dell’8,8% nel Mezzogiorno.

La Calabria, con il suo -10,3%, si conferma come una delle regioni in cui la fragilità demografica si è espressa in modo più netto. Questo dato riflette una duplice fragilità: la prima è legata a dinamiche demografiche (progressivo invecchiamento della popolazione e il calo delle nascite), mentre la seconda è associata ai saldi migratori negativi, in particolare di giovani e adulti in età da lavoro. Questa combinazione ha ridotto non solo il numero di potenziali partecipanti al mercato del lavoro, ma anche la qualità complessiva della forza lavoro, svuotando la regione di competenze e capitale umano.

La popolazione in età lavorativa comprende i residenti attivi, ossia la forza lavoro (occupati e disoccupati in cerca di lavoro), e gli inattivi, cioè coloro che non lavorano né cercano attivamente un impiego. Nel 2024, la forza lavoro calabrese ammonta a 601.755 persone, mentre gli inattivi tra i 15 e i 64 anni sono 561.170.

In altri termini, nel 2024 circa il 48% della popolazione calabrese in età da lavoro risulta inattiva. Si tratta di una quota molto elevata per un contesto regionale inserito in un’economia avanzata, e che riflette una vulnerabilità del modello economico. Il fenomeno, però, non è nuovo né transitorio. Già nel 1995, la forza lavoro regionale era pari a 656.905 unità, mentre gli inattivi erano 639.138. Su una popolazione complessiva in età lavorativa di circa 1.296.000 persone, quasi il 49,3% risultava inattivo. Si tratta di valori medi che caratterizzano l’intero periodo osservato, anche se non sono mancati momenti di parziale riequilibrio: tra il 1997 e il 2002 si registra una crescita della forza lavoro e una riduzione degli inattivi, mentre dal 2003 in poi le due dinamiche si invertono. Il divario si amplia negli anni successivi, fino a culminare con la crisi del 2008, quando il numero degli inattivi supera stabilmente quello della forza lavoro.

La persistenza di questa dinamica nel corso di trent’anni indica un problema radicato e sistemico, che limita la capacità della Calabria di generare crescita economica, alimenta la dipendenza da trasferimenti pubblici e ostacola la sostenibilità delle finanze pubbliche locali e nazionali. La presenza di centinaia di migliaia di persone in età attiva ma completamente disimpegnate dalla partecipazione economica, rappresenta uno dei principali vincoli allo sviluppo della regione. Per comprendere meglio l’effettiva mobilitazione del capitale umano disponibile, è utile analizzare l’andamento della partecipazione al mercato del lavoro, ovvero il grado di attivazione della popolazione in età lavorativa.

Tendenze del tasso di attività (1995–2024)

L’indicatore che meglio sintetizza la “vitalità” del mercato del lavoro è il tasso di attività. Il tasso di attività della Calabria – ovvero il rapporto tra forza lavoro e popolazione in età 15–64 anni – si è mantenuto su livelli cronicamente inferiori rispetto alla media nazionale, senza alcun segnale di convergenza. Nel 1995 il dato regionale era pari al 50,7%, mentre a livello italiano si registrava un tasso attorno al 59%. Ventinove anni dopo, nel 2024, il tasso di attività in Calabra è rimasto pressoché immobile, oscillando intorno al 51,7%, a fronte di un aumento tendenziale del dato nazionale che ha superato il 66% nei migliori anni pre-pandemici, per poi stabilizzarsi su valori comunque più elevati.

L’andamento del tasso calabrese evidenzia una stabilità su livelli bassi, con variazioni cicliche contenute e senza rimbalzi significativi neanche nelle fasi espansive del ciclo economico nazionale. A differenza di altre regioni meridionali che hanno conosciuto una moderata crescita della partecipazione dal 2015 in poi, la Calabria ha mantenuto un andamento piatto, con il tasso di attività che raramente ha superato il 53% (massimo toccato nel 1999). La situazione è progressivamente deteriorata nel decennio successivo alla crisi del 2008, con un calo più marcato della forza lavoro a partire dal 2017: tra il 2010 e il 2024, la forza lavoro è calata in valore assoluto, passando da 620.000 a circa 602.000 persone, anche per effetto della riduzione della popolazione residente in età lavorativa.

È evidente il dualismo dell’economia del Paese: l’area centro-settentrionale registra una dinamica crescente del tasso di attività, che nel 2024 si attesta al 72%, e il Mezzogiorno d’Italia, al contrario, mostra timidi segnali di crescita in ristrette fasi temporali, ma che nel complesso registra un ampliamento significativo del divario con resto del paese: nel 1995 la differenza del tasso di attività tra le due  macro-regioni era di 9.6 punti percentuali, passati addirittura a 15.9 nel 2024).

Il confronto con il Centro-Nord – l’area più dinamica dell’economia italiana – conferma il ritardo strutturale della Calabria: nel 2024 il divario nel tasso di attività è di ben 21 punti percentuali. Va, inoltre, sottolineato che la Calabria presenta un tasso di attività inferiore anche rispetto alla media delle altre regioni meridionali.

Questi dati rivelano una debolezza strutturale profonda: in Calabria, una quota consistenze della popolazione in età lavorativa si è progressivamente allontanata dal mercato del lavoro. Si tratta di un fenomeno radicato, che riflette disillusione, scarsità di opportunità e disallineamento tra offerta e domanda di competenze.

Nel confronto con il Centro-Nord, la distanza appare ancora più netta: mentre in quell’area la partecipazione al mercato del lavoro è aumentata, in Calabria la struttura si è cristallizzata in un modello a bassa partecipazione. È una situazione che indebolisce gravemente il potenziale di crescita della regione.

Per approfondire l’andamento della partecipazione, conviene ora esaminare come si è composta nel tempo la forza lavoro, osservando il peso relativo di occupati e disoccupati. Iniziando dal dato complessivo sulla forza lavoro, possiamo osservare le principali tendenze di lungo periodo che hanno caratterizzato la partecipazione economica in Calabria.

Andamento della forza lavoro nel periodo 1995-2024

La forza lavoro in Calabria ha seguito un trend decrescente. Nel 1995, le persone in età 15–64 anni attive nel mercato del lavoro erano circa 657 mila, scese a 602 mila nel 2024. Un calo strutturale dell’offerta di lavoro, già delineato nei paragrafi precedenti, conferma l’erosione della base attiva su cui si regge il sistema economico regionale. Dopo una temporanea espansione nei primi anni 2000, la forza lavoro ha intrapreso un percorso di regolare declino, che riflette la debolezza endemica del sistema economico regionale, incapace di generare opportunità tali da trattenere o attrarre risorse umane.

Nel confronto con le altre aree del Paese, la traiettoria calabrese appare ancora più anomala. Dal 1995 al 2024 la forza lavoro in Italia è cresciuta complessivamente di circa il 10%, con una dinamica più marcata nel Centro-Nord (+13%), più contenuta nel Mezzogiorno (+3%) e nettamente negativa in Calabria (–8%).

Anche nei momenti di ripresa a livello nazionale, la regione evidenzia segnali di debolezza. A partire dal 2004, anno in cui la Calabria registra il suo massimo storico nella partecipazione al mercato del lavoro (circa 700 mila attivi), inizia una fase discendente che si intensifica dopo il 2008. Con una dinamica divergente sia rispetto al Nord che alle medie meridionali, in Calabria il trend si inverte strutturalmente. Ne risultano una perdita secca di capitale umano e una riduzione della base attiva su cui fondare la crescita.

Questi dati indicano che la regione non solo crea meno occupazione, ma coinvolge sempre meno persone nei processi economici e produttivi. Si tratta di un segnale allarmante, perché la riduzione della forza lavoro non è solo effetto dell’invecchiamento demografico o delle dinamiche migratorie, ma è soprattutto il sintomo di un disallineamento profondo tra offerta e domanda di lavoro.

Una tendenza così marcata alla riduzione della partecipazione rischia di trasformarsi in un circolo vizioso, alimentando la stagnazione e impoverendo ulteriormente il tessuto socioeconomico regionale. In un contesto in cui l’offerta di lavoro si contrae, è rilevante analizzare i dati degli occupati. È proprio sul fronte dell’occupazione che si colgono con maggiore evidenza gli effetti della debolezza strutturale del mercato del lavoro calabrese.

Dinamiche dell’occupazione

L’andamento del numero di occupati evidenzia la persistenza di una traiettoria instabile, segnata da fragili progressi e brusche battute d’arresto.

Nel 1995 gli occupati in età 15–64 anni erano 558 mila; nel 2024 sono 521 mila: una riduzione netta di 37 mila unità (–6,6%) che, al netto delle fluttuazioni intermedie, fotografa un’economia incapace di generare occupazione in modo duraturo. Il primo decennio mostra un leggero incremento: dopo un avvio debole nella seconda metà degli anni ’90, si registra una fase espansiva tra il 2000 e il 2004, con un picco di circa 604 mila occupati nel 2004, massimo storico della serie. Questa crescita si rivela effimera: già nel 2005 inizia una fase di declino che, con la crisi finanziaria globale del 2008 e le politiche di austerità successive, determina un progressivo peggioramento. Tra il 2008 e il 2014 la Calabria perde circa 73 mila occupati, passando da 573 mila a 500 mila, con un crollo che riflette i limiti persistenti del contesto produttivo. Nel periodo 2015–2019 si osserva un recupero modesto ma costante, con un incremento di circa 25 mila occupati in cinque anni. Questa fase viene però interrotta dalla pandemia, che nel solo 2020 fa perdere oltre 22 mila posti di lavoro. A partire dal 2021 si assiste a un nuovo parziale recupero, che riporta il numero di occupati sopra le 520 mila unità nel 2024, ma senza superare i livelli del 2019. Nel complesso, nel 2024 il mercato del lavoro calabrese si presenta ancora su livelli inferiori a quelli raggiunti vent’anni prima.

Il dato più rilevante, tuttavia, è la tendenza di lungo periodo: in trent’anni la Calabria ha perso occupazione in valore assoluto, in un contesto nazionale e meridionale che, pur tra molte difficoltà, ha visto una lieve crescita. Dal 1995 al 2024, gli occupati sono aumentati del +18% nel Centro-Nord, del +4% nel Mezzogiorno, mentre in Calabria si è registrato un calo del 7% (Figura 6). Si tratta di una doppia divergenza: verso il Nord, che ha beneficiato di una crescita più stabile, e verso lo stesso Mezzogiorno, che nell’ultimo decennio ha mostrato una maggiore capacità di tenuta. La traiettoria calabrese evidenzia una condizione di progressiva marginalizzazione, in cui le crisi hanno effetti duraturi e una ripresa più lenta, debole e selettiva. Per completare il quadro, esaminiamo ora le dinamiche della disoccupazione, che è l’indicatore di sintesi del disallineamento tra offerta e domanda di lavoro.

Trent’anni di disoccupazione in Calabria: livelli e confronti

Nel trentennio 1995–2024, la disoccupazione in Calabria si è attestata su livelli persistentemente elevati, segnando uno dei tratti più distintivi e problematici dell’economia regionale. Calcolato come rapporto tra disoccupati e forza lavoro, il tasso di disoccupazione mostra tre fasi ben distinte.

Nella prima fase (1995–2007), il tasso cresce inizialmente fino a un picco del 22,2% nel 1999, per poi avviare una lenta discesa fino al 10,8% nel 2007 (Figura 7). L’andamento riflette un contesto economico in lenta ripresa, con un leggero miglioramento della domanda di lavoro, ma anche con dinamiche di scoraggiamento che iniziano a ridurre la forza lavoro. Nella seconda fase (2008–2014), in corrispondenza della crisi economico-finanziaria globale e della successiva recessione europea, la disoccupazione in Calabria aumenta in modo considerevole, passando dal 12,1% nel 2008 al 24,2% nel 2014, valore massimo della serie. Nel 2014 su 100 persone attive sul mercato del lavoro, ben 24 erano prive di una collocazione lavorativa. Questo picco coincide con una drastica perdita di occupati e con l’incapacità del sistema produttivo regionale di assorbire la forza lavoro in eccesso. La terza fase (2015–2024) mostra una riduzione graduale del tasso di disoccupazione: si passa dal 23,2% del 2015 al 13,3% del 2024.

È necessario verificare da cosa siano determinate le variazioni del tasso di disoccupazione, ossia se sono attribuibili alla contrazione della forza lavoro o a creazione di nuova occupazione. I dati in valore assoluto aiutano a interpretare meglio l’evoluzione del fenomeno.

La riduzione del tasso di disoccupazione riflette più un ritiro dal mercato che una ripresa occupazionale (Figura 4). I disoccupati erano poco meno di 100.000 nel 1995, raggiungono un picco di oltre 135.000 nel 2014, e calano a circa 80.000 nel 2024. Tuttavia, questo calo della disoccupazione non riflette un’espansione occupazionale: tra il 2014 e il 2024, infatti, gli occupati aumentano di appena 11.000 unità, mentre la forza lavoro si riduce di oltre 40.000. In altri termini, una parte della popolazione attiva ha cessato di cercare lavoro, determinando una flessione del tasso di disoccupazione solo apparente. Il calo del tasso di disoccupazione, quindi, non è segno di un miglioramento strutturale, ma il risultato combinato di debole dinamica occupazionale e ritiro dal mercato del lavoro, un fenomeno che impoverisce ulteriormente il tessuto produttivo e limita le prospettive di crescita regionale.

Il confronto con il resto del Paese conferma l’anomalia del mercato del lavoro calabrese. Nel 1995, la disoccupazione in Calabria era al 15%, contro l’11% dell’Italia e l’8% del Centro-Nord. Il divario si è mantenuto stabile nei decenni successivi, ampliandosi nei momenti di crisi: nel 2014, la Calabria ha toccato il 24,2%, mentre il tasso italiano era fermo al 13% e quello del Centro-Nord al 10%. Anche il confronto più recente restituisce una dinamica divergente: nel 2024, la disoccupazione in Calabria è ancora al 13,3%, contro l’8% della media nazionale, il 4% del Centro-Nord e il 12% del Mezzogiorno. La distanza dal Nord è oggi di quasi 10 punti, segno di una persistente fragilità strutturale. Come già osservato per la forza lavoro e l’occupazione, anche in questo ambito, la regione si conferma tra le più vulnerabili del Sud.

Sintesi finale: una lettura combinata degli indicatori

L’analisi congiunta dei principali indicatori del mercato del lavoro calabrese nel trentennio 1995–2024 restituisce un quadro di persistente fragilità strutturale. Nel 2024, la Calabria presenta un tasso di attività del 51,7% e un tasso di occupazione del 43,7%, valori che segnalano una scarsa inclusione della popolazione in età lavorativa nel circuito produttivo. Ciò implica che quasi la metà degli adulti tra i 15 e i 64 anni è inattiva, mentre tra chi è attivo, i disoccupati sono il 13,3%. Nel confronto nazionale, le distanze sono ampie e crescenti: nel Centro-Nord, il tasso di attività raggiunge il 73,1% e quello di occupazione il 69,1%, con un’incidenza dell’inattività decisamente inferiore. Questo divario non è solo quantitativo, ma qualitativo, e riflette una diversa capacità dei territori di attrarre, valorizzare e trattenere risorse umane. Particolarmente significativo è il dato relativo alla disoccupazione: il calo del tasso osservato tra il 2014 e il 2024 (dal 24,2% al 13,3%) è in larga parte dovuto alla contrazione della forza lavoro, più che alla creazione di nuovi posti di lavoro. In dieci anni, a fronte di appena 11.000 occupati in più, la forza lavoro si è ridotta di oltre 40.000 unità. È probabile, quindi, che parte dei disoccupati abbia abbandonato il mercato, determinando una riduzione del tasso senza che corrisponda un miglioramento delle condizioni economiche.

In estrema sintesi, la dinamica occupazionale calabrese segnala una fragilità strutturale del mercato del lavoro, incapace di assorbire la forza lavoro disponibile e soggetto a continui fenomeni di scoraggiamento degli “occupabili”. Il confronto con le altre aree del Paese conferma che non si tratta di una crisi ciclica, ma di una divergenza strutturale. In assenza di politiche mirate a rafforzare la base produttiva, creare nuove opportunità occupazionali, ridurre l’inattività e migliorare la qualità della domanda di lavoro, la Calabria rischia di consolidare ulteriormente il proprio ritardo. È necessario promuovere un cambiamento strutturale che favorisca lo sviluppo di settori ad elevata produttività, capaci di competere sui mercati globali delle merci e dei servizi. Solo una trasformazione profonda del modello di sviluppo potrà evitare che in Calabria si consolidi uno squilibrio territoriale persistente, con effetti cumulativi su crescita, coesione e sostenibilità sociale. (fa)

INFRASTRUTTURE AL PALO, SPESA FERMA
IN SETTE ANNI UTILIZZATI SOLTANTO 21 MLD

di ERCOLE INCALZA –  Stiamo assistendo ad un momento carico di difficoltà programmatiche, di incertezze decisionali, di rischiosi cambiamenti delle possibili evoluzioni dell’intero sistema economico mondiale. In situazioni del genere diventa essenziale e determinante, almeno per quanto concerne la infrastrutturazione organica del Paese, il ricorso a due distinti atti procedurali:

Un attento e capillare esame dello stato di attuazione dei piani di rilevanza nazionale e comunitaria. Un quadro di ipotesi sulle possibili evoluzioni o involuzioni del sistema economico nazionale, comunitario ed internazionale.

In merito al primo punto non possiamo assolutamente sottovalutare il dato relativo alla grave incapacità della spesa che ha caratterizzato tre strumenti chiave come il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (Pnrr), il Piano Nazionale Complementare (PNC) al PNnrr, ed il Fondo di Sviluppo e Coesione.

In merito ai primi due Piani sappiamo già che dei circa 220 miliardi messi a disposizione nel 2021 saremo in grado di spenderne al massimo, entro il mese di giugno del 2026, al massimo 90 miliardi di euro; mentre dei 75 miliardi dei Fonsi di Sviluppo e Coesione 2021 – 2027, dopo quasi 5 anni dall’avvio ne abbiamo spesi solo 3,4 miliardi di euro e alla fine, cioè nel 2028, raggiungeremo una soglia di spesa non superiore ai 25 miliardi di euro. Fra un anno, al massimo due, avremo una disponibilità di risorse pari a circa 185 miliardi di euro (130 da Pnrr e PNC e 50 da FSC).

Un volano di risorse che non sarà facile mantenere e questo per due motivi perché nel caso del Pnrr e del PNCC si tratterà non più di quote a fondo perduto ma saranno sicuramente risorse trasformate in prestito con un tasso non più bassissimo come quello attuale e per quanto concerne il Fondo di Sviluppo e Coesione (FSC) il 50% è supportato da risorse dello Stato.

Sono impegni di spesa da parte dello Stato che, come più volte ribadito dal Ministro dell’Economia e delle Finanze Giorgetti, non trovano più adeguate garanzie di coperture nelle prossime Leggi di Stabilità; in più occasioni infatti il Ministro Giorgetti ha ricordato che “sarà già un grande problema mantenere gli impegni finanziari per completare le opere inserite nei Contratti di Programma delle Ferrovie dello Stato e dell’Anas, sarà un grande problema trovare le risorse necessarie per mantenere gli impegni mirati all’attuazione delle opere di messa in sicurezza del territorio e di rivisitazione organica della offerta idrica. Siamo, quindi, di fronte ad una non facile emergenza caratterizzata da due elementi: una grave incapacità della spesa, una limitata disponibilità di risorse.

Questi due elementi trovano contemporaneamente delle condizioni al contorno non facili: più teatri bellici: quello Ucraino, quello Israeliano, quello Libanese, quello Yemenita, quelli della vasta area africana; una nuova compagine sia governativa che parlamentare della Unione Europea, una compagine che si sta rivelando giorno dopo giorno soggetta a momenti di crisi; un cambiamento repentino e in parte non previsto del comportamento della politica atlantica, in particolare del comportamento del nuovo Presidente degli Stati Uniti Donald Trump; un rischioso evolversi dell’assetto delle movimentazioni all’interno del bacino del Mediterraneo; un cambiamento creato da azioni in atto portate avanti dall’India e dalla Turchia.

Ed allora nasce spontanea, come prima azione, una lettura critica dei possibili scenari e contestualmente una immediata azione finalizzata al coinvolgimento di capitali privati. È quasi obbligato, almeno per un arco temporale di dieci anni, non “regalare” l’utilizzo di reti autostradali senza un contestuale riscossione dei pedaggi.

Cioè almeno alcuni assi autostradali come la Roma – Fiumicino, come la Salerno – Reggio Calabria, come la nuova Pontina, ecc. vanno pedaggiati. Sicuramente è una scelta impopolare, sicuramente saranno presi adeguati accorgimenti normativi per evitare che i residenti lungo tali assi siano penalizzati in modo rilevante e per questo sarà opportuno estendere su tutte le tratte autostradali quanto previsto per Legge sull’asse autostradale tirrenico.

Analogo approccio andrà seguito per le iniziative assunte, per la movimentazione delle merci, con il “Marebonus” e con il “Ferrobonus” o con tutti gli impegni assunti per il supporto per il processo di digitalizzazione dei vari HUB portuali ed interportuali.

Di fronte a questa non facile analisi dell’attuale momento storico forse diventa urgente avviare la stessa esperienza avviata nel maggio del 2001 attraverso la quale si pervenne dopo sei mesi alla stesura della Legge 443/2001 (Legge Obiettivo).

In quei sei mesi il Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti coinvolse i Dicasteri competenti e tutte le Regioni insieme alle Grandi Aziende (Ferrovie dello Stato e Anas) ed alla Confindustria ed il 21 dicembre del 2001 fu possibile varare una Legge al cui interno conteneva dettagliatamente le opere strategiche necessarie per infrastrutturare in mordo organico il Paese. Ricordo che la Legge conteneva un quadro dettagliato delle esigenze finanziarie e che tali esigenze furono affrontate con la Legge 166 del 2002 e sempre nel 2002 fu anche varato un apposito Decreto Legislativo in cui si assicurata l’attuazione del Programma delle Infrastrutture Strategiche attraverso l’organismo della Struttura Tecnica di Missione.

Fino al 2014 questo impianto programmatico e gestionale ha funzionato, poi, con l’arrivo in particolare dei Governi Conte 1 e Conte 2, tutto, dico tutto, si è praticamente bloccato e questo blocco è evidente in due soli dati: Dal 2002 al 2014 (in 12 anni) sono stati spesi 232 miliardi di euro nel comparto delle opere infrastrutturali; dal 2015 al 2022 la spesa non ha superato i 21 miliardi di euro.

Ed allora forse sarebbe opportuno riutilizzare una esperienza che ha funzionato e che ha prodotto risultati. (ei)

LA CALABRIA, UNA TERRA DALLE PROFONDE
CONTRADDIZIONI CHE VUOLE RIPARTIRE

di BRUNO GUALTIERII numeri parlano chiaro: 59 reati di disastro ambientale dal 2015 al 2024 (primo posto in Italia), 221 siti contaminati senza nemmeno un iter di bonifica completato, solo 13,9 milioni di euro ottenuti dal PNRR su 500 milioni disponibili per i “siti orfani”. Un danno ambientale e sociale che supera i 2 miliardi di euro. Un’emergenza silenziosa ma devastante.

In Calabria si confrontano due realtà molto diverse: da una parte c’è chi guarda al futuro con competenza e visione chiara, dall’altra chi rallenta il progresso tra inerzie amministrative, interessi poco trasparenti e lungaggini burocratiche. È come avere due rematori sulla stessa barca che vanno in direzioni opposte: uno spinge verso il futuro, l’altro frena. Questa contraddizione la viviamo ogni giorno, soprattutto quando si parla di ambiente e delle speranze dei cittadini nel cambiamento.

Un triste primato che grida vendetta

I dati presentati dal forum “La verità è nella terra” di Legambiente e Libera sono allarmanti: dal 2015 al 2024 la Calabria si è classificata prima in Italia per reati di disastro ambientale, con 59 casi accertati. Una classifica che nessuno vorrebbe guidare, fatta di discariche abusive, scarichi industriali non autorizzati e traffico illegale di rifiuti pericolosi che danneggiano il territorio e mettono a rischio la salute.

Ma c’è un dato ancora più preoccupante: dei 221 siti contaminati che la Regione ha in carico per le bonifiche, nessuno ha ancora completato l’intero iter di risanamento. Decine di ettari rimangono così inutilizzabili, spesso in aree che potrebbero tornare produttive.

«Il collegamento tra siti contaminati e rischi sanitari è scientificamente documentato», afferma il prof. Alessandro Marinelli, esperto in medicina ambientale dell’Università Magna Græcia di Catanzaro. «Senza bonifiche efficaci, ogni giorno perso è un rischio in più per la salute dei cittadini».

Una paralisi burocratica che, da anni, trasforma gli uffici da strumenti di tutela in ostacoli al risanamento del territorio.

Il paradosso dell’agricoltura sostenibile

Mentre si promuovono l’agricoltura biologica e i prodotti a chilometro zero — grazie all’impegno dell’Assessore Gallo — si dimentica una scomoda verità: molti terreni calabresi sono ancora contaminati da metalli pesanti, idrocarburi e POP (composti organici persistenti) che non dovrebbero mai finire nel suolo.

Il Piano regionale delle Bonifiche si basa ancora su un elenco di siti inquinati fermo al 1999 e su un decreto ministeriale ormai superato. È come cercare di navigare con una mappa vecchia di 25 anni, ignorando strumenti moderni come i Sistemi Informativi Geografici (GIS) e le analisi di rischio aggiornate.

Manca un censimento aggiornato dei terreni contaminati, una lista di priorità basata sui reali rischi sanitari, e una guida regionale solida e competente che coordini e controlli gli interventi.

Le conseguenze sono gravi. Come ha dimostrato uno studio congiunto tra Regione e Istituto Superiore di Sanità, i siti contaminati costituiscono “un importante fattore di rischio per la salute umana“. Emblematico il caso del SIN di Crotone: sono stati rilevati “significativi eccessi di mortalità e ricoveri ospedalieri per numerose patologie“, con costi sanitari diretti di oltre 50 milioni di euro negli ultimi dieci anni.

La grande occasione perduta: quando 500 milioni evaporano

Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) aveva messo a disposizione 500 milioni di euro per bonificare i cosiddetti “siti orfani” — luoghi contaminati per i quali non si riesce più a identificare un responsabile, spesso perché le aziende coinvolte sono fallite o scomparse.

Una grande occasione per la Calabria. Eppure, la regione ha ottenuto solo 13,9 milioni di euro, distribuiti tra sei Comuni (Amantea, Crotone, Lamezia Terme, Montalto Uffugo, Reggio Calabria e Vibo Valentia) per bonificare vecchie discariche comunali.

Il confronto con la Campania (60 milioni) e la Sicilia (55 milioni) è impietoso. Manca un censimento aggiornato, manca una regia regionale capace di pianificare progetti competitivi per attrarre risorse nazionali ed europee.

Il caso Marrella: quando il silenzio costa più delle parole

Grave è l’esclusione dai finanziamenti della discarica “Marrella” a Gioia Tauro, eredità dell’ex Commissario per l’emergenza rifiuti e ora sotto la responsabilità regionale. L’inquinamento di suolo e falde continua da anni, ma il Dipartimento Ambiente resta immobile.

Il Testo Unico Ambientale (D.Lgs. 152/2006) è chiaro: se il Comune non interviene, la Regione deve subentrare. Eppure, dopo oltre dieci anni dalla chiusura del sito, la gestione post-operativa non è nemmeno iniziata.

Un silenzio che pesa come un macigno. E la domanda è inevitabile: chi pagherà il conto di questa inazione? Le istituzioni coinvolte possono ancora permettersi questo immobilismo?

L’arte di scaricare i costi: quando l’inerzia finisce in bolletta

Il timore è concreto: che a pagare siano, come sempre, i cittadini. Magari in modo silenzioso ma costante, con aumenti nelle bollette dei servizi ambientali, e con ARRICAL costretta — suo malgrado — ad assorbire anche i costi delle negligenze altrui.

Alla fine, si rischia di finanziare l’inerzia, camuffando gravi omissioni con formule rassicuranti come “adeguamento tariffario” o “riequilibrio strutturale“. Il risultato, però, non cambia: si tratta pur sempre di costi ingiustificati, generati da decisioni non prese e responsabilità mai assunte, che finirebbero per gravare sulle spalle dei cittadini.

Se questo è il nuovo modello di governance ambientale, allora lo slogan potrebbe essere: “Il futuro è sostenibile… purché lo paghino gli altri”.

Una politica che prova a cambiare: quando la volontà incontra il muro

Negli ultimi anni, sotto la guida del Presidente Occhiuto, la Regione ha mostrato concrete capacità d’azione: dalla sanità commissariata che migliora, alla nascita di ARRICAL per il sistema idrico e quello dei rifiuti, dai trasporti al turismo, fino agli investimenti nella depurazione.

Dove la politica regionale ha potuto agire direttamente, senza essere ostacolata dalla burocrazia, i risultati sono arrivati. Tuttavia, persiste un divario significativo tra gli obiettivi politici e l’efficienza degli uffici, soprattutto nel settore ambientale, dove mancano figure tecniche specializzate.

Eppure, le azioni necessarie non sono complesse: basterebbe che il Dipartimento competente tornasse a occuparsi della sua vera missione — la Programmazione e Pianificazione Strategica secondo criteri di ingegneria ambientale — competenza esclusiva delle Regioni.

Già il D.Lgs. 112/1998 ha affidato alle Regioni queste funzioni. Ignorarle oggi non è solo una dimenticanza, ma una violazione normativa, che rischia di generare inefficienza amministrativa e possibili sanzioni europee.

La verità comincia dalla terra: quando le mafie giocano in casa

La Calabria è oggi uno dei principali fronti della lotta alle ecomafie. L’operazione “Mala Pigna” della DDA di Reggio Calabria ha svelato un vasto traffico illecito di rifiuti, con legami tra imprese corrotte, amministrazioni compiacenti e criminalità organizzata.

Non è un’eccezione. Altre inchieste hanno scoperto discariche abusive e traffici tossici tra le regioni del Sud. Una realtà radicata, che si combatte solo con una Pubblica Amministrazione forte, trasparente e capace di agire rapidamente.

Una scelta di civiltà, non solo tecnica: o si bonifica davvero, o si smetta di vendere illusioni.

La Calabria ha risorse straordinarie: paesaggi, competenze, passione civile. Serve solo il coraggio di crederci e agire, investendo in formazione tecnica e tecnologie innovative per le bonifiche.

È una scelta: vogliamo una Calabria pulita e abitabile secondo i canoni della Green Economy europea, o vogliamo continuare a perdere tempo tra carte e ritardi, mentre il territorio muore?

L’ambiente è vita. Il resto sono solo chiacchiere da convegno.

La verità comincia dalla terra. E la terra, prima di tornare a generare bellezza e opportunità, va liberata dai veleni con metodi scientificamente provati ed economicamente sostenibili. (bg)

[Bruno Gualtieri è già Commissario Straordinario dell’Autorità Rifiuti e Risorse Idriche della Calabria (ARRICAL)]

PONTE, SALVINI A REGGIO
PER IL TOUR ANTIMAFIA: «MI FIDO DELLA CALABRIA»

di CLAUDIO LABATECredo nella Calabria, credo nei giovani calabresi, negli ingegneri, nelle imprese, negli artigiani, e il Ponte sarà un acceleratore di sviluppo per tutto quello che i calabresi aspettano da 50 anni».

Il ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini si sente rinfrancato e «rafforzato» dalle riunioni che hanno scandito le tappe del “tour antimafia” pensato per dare un segnale forte, di cooperazione e legalità, in vista dei lavori per il Ponte sullo Stretto. Una nota di Palazzo, d’altra parte, informa che nel corso della riunione «estremamente positiva», sono emerse «tante idee e la totale sintonia» tra il ministro Salvini e i presenti, tra cui il Prefetto Clara Vaccaro, il Procuratore Giuseppe Lombardo, i sindaci di Reggio Calabria Giuseppe Falcomatà e di Villa San Giovanni Giusi Caminiti.

«Grazie al ponte – ha detto il ministro dialogando con la stampa – l’alta velocità arriverà a Reggio Calabria, è in fase di progettazione la 106, su cui abbiamo messo 3 miliardi, e quindi sapere che lasceremo in eredità a chi verrà più di centomila posti di lavoro e le aziende del territorio coinvolte è qualcosa che mi rende orgoglioso».

In particolare, la nota del Mit, ha sottolineato che «c’è piena condivisione» sul tema dei controlli anti criminalità, su cui Salvini ha poi ribadito che «ovviamente occorrerà tutti vigilare su infiltrazioni, appetiti, ‘ndrangheta, mafia… è chiaro che non è una questione calabrese, quelli che dicono non fare il ponte perché sei in Calabria e in Sicilia e quindi ci sono la mafia e la ‘ndrangheta insultano. Non è stata la stragrande maggioranza dei calabresi e dei siciliani, però oggi col procuratore, con l’Università, coi sindacati, con Confindustria, coi carabinieri, con tutti abbiamo messo a terra il massimo dell’attenzione possibile. La lotta alla mafia la crei se dai opportunità di lavoro e speranza per i ragazzi del territorio».

Indipendentemente dai tempi del Cipess, per Salvini è importante ribadire che «l’obiettivo è che l’estate 2025 sia l’estate dell’avvio dei cantieri, il che vuol dire bonifiche, indagini geotermiche, espropri, con abbondanti indennizzi ovviamente per tutte le persone coinvolte, e quindi conto di rivederci a progetto approvato, a ingegneri e operai al lavoro, perché creare lavoro per me è la cosa fondamentale».

L’occasione è stata quindi propizia anche per tornare sullo scontro con il Quirinale, i cui sviluppi Salvini affida al lavoro che sta portando avanti il collega Ministro dell’Interno. «Noi vogliamo essere ancora più cattivi, severi e trasparenti rispetto a quello che la normativa oggi prevede. Vogliamo che siano coinvolte le massime professionalità per non lasciar da solo i prefetti di Reggio Calabria e Messina a combattere. Loro sono eccezionali però, ripeto, è una terra dove bisogna verificare che neanche un euro finisca nelle tasche sbagliate». E a chi gli domanda se quella norma che era stata proposta ritornerà, il Ministro risponde «stiamo lavorando perché lo spirito che sostiene le prefetture, l’antimafia, le forze dell’ordine, possa avere ulteriori uomini e professionalità. Il nostro obiettivo – ha ribadito – è di prevenire qualsiasi malintenzionato». Salvini poi aggiunge anche di essere molto contento dell’approvazione del decreto sicurezza che dà più poteri e tutele legali alle forze dell’ordine, «e scelgo uno dei tanti episodi che permette lo sgombero immediato delle case occupate abusivamente da chi non ha titolo di farlo oltre che prevedere una stretta sulle truffe agli anziani. Quindi sono molto soddisfatto di quel testo».

Insomma, il vice premier garantisce sull’alto livello di guardia mantenuto da tutti coloro che ruotano attorno alla mega opera confermando che già la Procura e la Prefettura sul tema degli espropri stanno facendo ricognizioni su nomi e cognomi, indirizzi e proprietà. «Poi, ripeto, quando coinvolgi centomila lavoratori, migliaia di imprese in tutta Italia, è chiaro che devi essere assolutamente attento 24 ore su 24, però io mi fido, io mi fido della Calabria e mi fido della Sicilia».

Naturalmente il Ministro ha chiaro il fatto che parteciperanno aziende di tutta Italia ma sul tema ribadisce: «A me interessa soprattutto che le aziende, gli artigiani, professionisti calabresi e siciliani siano protagonisti».

E protagonisti della giornata sono anche coloro che il Ponte non lo vogliono. Sin da ieri un tam tam di messaggi social e privati chiamava alla mobilitazione, ma ad accogliere il Ministro in piazza non erano proprio in tanti. Di certo rumorosi con slogan, bandiere, fischietti e trombette.

«Io rispetto – ha detto ancora il ministro – su 7 milioni di persone, anche le 50 persone che sono fuori a insultarmi. Ognuno è libero di protestare, di non volere ponti, autostrade, ferrovie porti e aeroporti, siamo in democrazia».

Il caso Cutro

C’è anche il tempo per rispondere alle domande dei cronisti su Cutro, il processo e il dietrofront di Occhiuto. «Sono sicuro che donne e uomini alla Guardia Costiera ogni giorno h24 fanno il massimo per salvare vite, e nessuno mai mi convincerà che un uomo o una donna in divisa non fa il massimo mettendo a rischio la sua vita per salvare altre vite». E a chi gli fa notare che un sindacato della Guardia Costiera sostiene che avrebbe chiamato Occhiuto per fargli ritirare la richiesta di parte civile, lui fa spallucce e serafico afferma di non sentire il presidente della Regione da parecchio tempo. (cl)

[CourtesyLaCNews24]