CALABRESI E CALABRIA DEI TANTI PERCHÉ
E LO SMISURATO SENSO DI APPARTENENZA

di ORLANDINO GRECO – «Il calabrese è educato e sempre disponile. Chi altro parte dalla propria Terra per realizzarsi altrove, ed è pronto ad una nuova vita portandosi dietro l’educazione sempre presente dei propri genitori?»

È stata questa una delle frasi che ho sentito  con più vigore durante un incontro con alcuni importanti imprenditori milanesi e romani. Una sorta di mantra sulla Calabria e su i suoi figli che partono per il mondo e si realizzano.

Le nostre individualità inserite in contesti diversi diventano un’epifania di competenza e professionalità, a prescindere dai settori nei quali sono inseriti.

In fondo, siamo pur sempre la Terra dove la storia ha fatto il suo cammino, sempre immersa negli splendori della Magna Grecia con la scuola pitagorica che è diventata un’istituzione in tutto il globo. La Terra di Telesio; di filosofi e grandi personaggi storici.

Ma siamo anche la Calabria dei tanti perché, suddivisa in tempi antichi in Ulteriore e Citeriore, una divisione non solo geografica ma anche di usi, costumi, linguaggio e tradizione. Una regione così grande che ha in sé, un caleidoscopio di ricchezze e tesoro inestimabile.

E, proprio grazie a questa sua estensione territoriale, la Calabria e i calabresi hanno difficoltà ad essere un tutt’uno solido perché troppo distanti da essere popolo, nonostante ci sia un calabrese a rappresentarci in ogni angolo del mondo. E lo fa in ragione della sua forza, del suo smisurato senso di appartenenza ad una Terra bella e misteriosa ma capace di creare un legame forte ed indissolubile con le proprie radici e la propria storia millenaria.

Il calabrese è educato, lavoratore instancabile e persona perbene che riesce ad essere un valore aggiunto ovunque vada, tra un legame  forte alla famiglia e un alto senso del dovere. Rispetto per l’amicizia e per l’ospite, comunità inclusiva ed accogliente, comunità di persone generose che molte volte peccano per un pernicioso individualismo.

È l’essenza del nostro dna che diventa patrimonio collettivo di un popolo ancora in divenire e sempre con le radici ben piantate sulla propria Terra: Mamma Calabria e i suoi figli educati e perbene.  (og)

SPOPOLAMENTO E INVERNO DEMOGRAFICO
LA CALABRIA STA PERDENDO LA SUA GENTE

di FRANCESCO AIELLO – Nel periodo compreso tra il 2010 e il 2020, il tasso annuo di crescita composto della popolazione italiana è stato pari a -0,59%. Questo significa che, nei 7.908 comuni analizzati, la popolazione residente è diminuita complessivamente del 5,9%, passando da 60,58 milioni nel 2010 a 59,23 milioni di abitanti nel 2020. Lo spopolamento ha continuato a manifestarsi anche negli anni successivi: al 1° gennaio 2024, la popolazione italiana si è ulteriormente ridotta a 58,99 milioni di residenti.

L’analisi delle statistiche comunali permette di esaminare le dinamiche demografiche per specifici gruppi di comuni, aggregando i dati per localizzazione, dimensione e zona altimetrica. Questo approccio consente di verificare regolarità empiriche sullo spopolamento, offrendo una descrizione più chiara di come il fenomeno possa essere più pronunciato in determinate categorie di comuni o aree geografiche. Per esempio, se da un lato osserviamo che nel periodo 2010-2020 lo spopolamento è diffuso in tutta Italia, le variazioni dei residenti sono diverse a seconda dell’area geografica considerata. Il Sud e le Isole risultano le aree più colpite, con un calo medio annuo dello 0,88%, seguite dal Centro (-0,67%) e dal Nord (-0,42%). Nei dieci anni considerati, la popolazione residente nei comuni del Sud è diminuita complessivamente dell”8,8%, quella del Centro del 6.7% e quella del Nord del 4,2%.

Differenze molto marcate si osservano anche quando i comuni si raggruppano in due categorie, a seconda se ricadono o meno in un’area interna. In media, si ottiene che i comuni di aree interne registrano una riduzione demografica più elevata dei residenti (-0,85% all’anno) rispetto allo spopolamento delle aree urbane (-0,24% all’anno). Analoghe differenze dei valori medi nazionali si ottengono aggregando i comuni per zona altimetrica. In tale ambito, le zone montane registrano una contrazione della popolazione dello 0,83% annuo, mentre nelle zone collinari il calo è dello 0,63%. Per i comuni localizzati in pianura lo spopolamento esiste sì, ma è più contenuto, con una riduzione demografica dello 0,26% annuo. Un ultimo elemento che è utile considerare è la dimensione dei comuni. I comuni più piccoli sono quelli che soffrono maggiormente il fenomeno, registrando un tasso di spopolamento dell’1,35% annuo nel caso dei 998 nano comuni italiani (13% del totale), ossia quelli con una popolazione inferiore nel 2020 a 500 abitanti. In questi comuni, la popolazione è complessivamente diminuita del 13,5%. Man mano che cresce la dimensione dei comuni, il tasso di decrescita si attenua; i comuni con oltre 10.000 abitanti, infatti, presentano tassi di diminuzione molto più contenuti.

Questi dati mostrano chiaramente che il declino demografico è, in media, più accentuato nelle aree interne, montane e nei piccoli comuni, rispetto a quelli urbani, pianeggianti e di maggiori dimensioni. Tuttavia, nonostante questa analisi evidenzi importanti tendenze generali, non permette di distinguere le dinamiche demografiche tra diverse tipologie di comuni, come quelle delle aree interne del Sud rispetto al Centro-Nord. Classificazioni più granulari dei comuni consentirebbero di ottenere informazioni utile per verificare, per esempio, se i piccoli comuni delle aree interne del Sud si spopolano più rapidamente rispetto ai piccoli comuni del Centro-Nord. Oppure se le aree interne del Nord presentano andamenti diversi da quelle del Sud al variare della popolazione comunale. La figura 2 riporta alcuni risultati che aiutano a comprendere meglio la “geografia” dello spopolamento dei comuni italiani.  La figura mostra il tasso annuo di crescita composto della popolazione nei comuni italiani tra il 2010 e il 2020, suddiviso per area geografica (Centro, Nord, Sud-Isole), dimensione (classi di popolazione residente) e classificazione Snai (Poli e Comuni Cintura rispetto alle Aree Interne).

Emerge, chiaramente, che sia la collocazione geografica sia la dimensione dei comuni influenzano il fenomeno dello spopolamento. Tuttavia, l’effetto dimensione sembra prevalere. Infatti, in tutti i contesti geografici e territoriali, i comuni più piccoli subiscono le perdite demografiche più consistenti, con tassi di declino che superano l’1% annuo. È un fenomeno che è più accentuato nel Mezzogiorno d’Italia rispetto al resto del paese. Al contrario, i comuni più grandi (oltre 10.000 abitanti) registrano tassi di spopolamento molto più contenuti e, in alcuni casi, stabili, qualsiasi sia l’aggregazione territoriale che si considera. Le Aree Interne mostrano una maggiore vulnerabilità, con i piccoli comuni che soffrono le perdite più significative, mentre i poli urbani e i comuni cintura tendono a subire un calo più moderato (Figura 2). Tuttavia, anche all’interno delle Aree Interne, la dimensione del comune resta un fattore determinante: i piccoli centri sono i più colpiti, mentre i comuni più grandi riescono a mitigare gli effetti dello spopolamento.

L’analisi esplorativa dei dati sulla popolazione comunale evidenzia come la dimensione dei comuni sia un elemento cruciale per rappresentare meglio la distribuzione dello spopolamento. I maggiori tassi di riduzione della popolazione si registrano, infatti, nei comuni più piccoli, indipendentemente dalla loro posizione geografica, mentre quelli di maggiori dimensioni mostrano una maggiore resilienza. Una prima implicazione di questa analisi è la necessità di ripensare la tradizionale suddivisione tra aree interne e non interne come criterio per spiegare la distribuzione dello spopolamento in Italia.

L’approccio dicotomico “aree interne-aree non interne” potrebbe non essere del tutto adeguato per comprendere la complessità del fenomeno. Piuttosto, sembra che la dimensione del comune svolga un ruolo importante nel determinare la vulnerabilità allo spopolamento. Di conseguenza, la seconda implicazione è che l’attenzione dovrebbe essere rivolta ai vincoli e ai costi gestionali ed organizzativi che emergono nell’offerta di servizi pubblici nei piccoli comuni. Questi vincoli di inefficienza derivano proprio dalla loro ridotta dimensione e possono essere affrontati attraverso una riforma della governance territoriale, ridefinendo gli assetti istituzionali dei piccoli comuni. Indipendentemente se ricadono in aree interne. (fa)

[Francesco Aiello è professore ordinario di Politica Economica all’Unical]

(Courtesy OpenCalabria)

IL PREMIO PER LA CULTURA MEDITERRANEA
DA COSENZA UN MODELLO PER LA CALABRIA

di SANTO STRATI – Le cerimonie di premiazione sono abitualmente una soporifera passerella di volti, persone e personaggi con la consegna di riconoscimenti da parte di vecchi premiati a nuovi premiati. Ma non è detto che debba essere sempre così: la serata del Premio Mediterraneo, al Teatro Rendano di Cosenza, promosso e organizzato dalla Fondazione Carical, ha mostrato esattamente il contrario.

Ovvero, come trasformare una cerimonia di consegna di premi in una performance-spettacolo che ha prodotto una delle più belle pagine di Cultura in Calabria. Merito del Presidente della Fondazione, il reggino Giovanni Pensabene, e il Presidente del Premio Mario Bozzo, che hanno ideato insieme con il bravissimo regista Stefano Bellu un evento-show con innesti di libri, musica, balletto, teatro. Il risultato è stato un due ore e mezzo di avvincente intrattenimento (il teatro Rendano era pieno, nessuno è andato via prima dei saluti finali) che dovrebbe essere preso a modello da tutti gli organismi (privati o pubblici) che si avventurano a consegnare riconoscimenti e premi di varia natura. Intendiamoci, non è l’eccezione che conferma la regola (qualcosa del genere si è vista a Taurianova col Premio CalabriAmerica ideato oltre trent’anni fa da Mimmo Morogallo), ma sarebbe ingeneroso non riconoscere alla Fondazione Carical (e ai suoi attentissimi collaboratori – Valeria Giordano e Rosa Cardillo, solo per citare qualche nome) un mix di genialità con l’obiettivo dichiarato di “fare cultura” utilizzando gli elementi tipici dello spettacolo.

L’occasione di venerdì scorso era particolare: il Premio per la Cultura Mediterranea ha compiuto 18 anni, come se fosse diventato “adulto”, ma in realtà è stata solo una finzione scenica giacché, dalla prima edizione, questo Premio ha mostrato una grande maturità e, soprattutto, una visione anticipatrice e per questo largamente ammirevole di cosa rappresenti il Mediterraneo per la Calabria e l’Italia. La posizione strategica della nostra regione, al centro del Mare Nostrum implica un’idea di coinvolgimento e di coordinamento di tutti i Paesi che vi si affacciano, in un pout-pourri culturale che i giovani, correttamente, definiscono mainstream. Ovvero, di primo piano. Che offre e richiede un’attenzione singolare e non di maniera.

Dunque, uno spettacolo per sottolineare la valenza e il significato di un Premio che la Fondazione Carical vuole utilizzare per sostenere e promuovere una “cultura del Mediterraneo” che solo organismi indipendenti possono agevolmente portare avanti per costruire un’idea di condivisione, di interscambio culturale, di arricchimento reciproco tra gli attori protagonisti di ogni edizione: autori, poeti, personalità del mondo della cultura e della società civile. Ci vuole tanta organizzazione e tanta pazienza (un bravo e un grazie alla giuria internazionale) per scegliere le terzine finaliste, ma serve anche tanto “coraggio” e convinzione per coinvolgere centinaia di studenti a selezionare e scegliere un’opera di narrativa di un autore giovane da premiare.

Non è vero che i  giovani non amano leggere, al 90 per cento sono distratti dai social, dai videogiochi, dalle videochat e trascurano, colpevolmente, la lettura: tocca alle generazioni più anziane, soprattutto quelle cresciute a pane e libri e al massimo la tv dei ragazzi, accendere una passione che se parte non si ferma più. Sono questi gli obiettivi che, meritoriamente, la Fondazione Carical porta avanti da 18 anni e i risultati sono oltremodo soddisfacenti, soprattutto per una regione che conta un altissimo livello di disoccupazione giovanile: ragazzi acculturati (laureati e senza occupazione) che vanno seguiti e ulteriormente incentivati a fare della loro formazione un obiettivo vitale.

Certo, di fronte a una magnifica serata-spettacolo dove la Cultura (con la C maiuscola) ha fatto da protagonista viene da piangere pensando alle tante meste cerimonie di premiazione che nel corso dell’anno si susseguono a ritmi inimmaginabili. Tutto si riduce a una photo-opportunity con i premiati e la passerella dei politici di turno e tutto scorre via senza lasciare traccia. Al contrario, il Premio per la Cultura Mediterranea lascia una traccia importante e significativa: le ola delle centinaia di ragazzi venuti da ogni parte della Calabria a sostenere i propri giurati-delegati rappresentano l’urlo di gioia di chi sa già di poter scommettere sul proprio futuro, puntando alla cultura.

E qui, nasce, inevitabile una proposta di sapore utopico: perché le maggiori associazioni culturali della Calabria (la Fondazione Carical, il Rhegium Julii, il Premio Nosside, la Fondazione Corrado Alvaro, etc, giusto per fare nomi e cognomi) non creano una sorta di federazione della cultura per fare finalmente rete? Se ne sente davvero bisogno. Un sodalizio di idee che travalichi le miserie campanilistiche e le tifoserie del più vieto localismo.

Sarebbe magnifico immaginare tutti insieme a un tavolo teste pensanti (think thank) che abbiano un solo obiettivo: dare alle nuove generazioni strumenti di cultura e avviare processi formativi che preparino la classe dirigente di domani. Ragazzi in gamba ce n’è in quantità industriale: cercano segnali, indicazioni, idee, percorsi da seguire.

Pur nella rigorosa distinzione della memoria storica di ciascuna associazione, nuove iniziative in comune sarebbero una mano santa per l’industria culturale della regione. L’unica che offre una solida speranza di crescita e sviluppo e non  inquina in alcun modo. Nel solco della tradizione millenaria magnogreca ma anche delle culture delle tante dominazioni che hanno tentato – senza  successo – di distruggere questo territorio. I saraceni, gli spagnoli, i borboni tanti altri invasori non ci sono riusciti: il timore è che riescano nell’intento i molti incapaci che sono convinti di saper governare. E solo la cultura li può fermare. (s)

L’ASSORDANTE SILENZIO DELLE ISTITUZIONI
PER IL SISTEMA BIBLIOTECARIO VIBONESE

di MARIA LUISA MAZZITELLI, BEATRICE MIRABELLO E KATIA ROSI Sono trascorsi poco più di 30 giorni da quando, lunedì 2 settembre, noi, l’unica dipendente e le volontarie che, per due anni, hanno retto gratuitamente e senza alcuna risorsa le sorti del Sistema Bibliotecario Vibonese, ci ritrovavamo davanti ai cancelli di Palazzo Santa Chiara… Per non riaprire. 

Non una protesta, ma piuttosto una scelta obbligata. Obbligata e sofferta, imposta dalle condizioni in cui per troppo tempo l’Ente ha versato, vessato dai debiti e dalle inchieste giudiziarie, certo, ma anche dall’indifferenza di molti decisori politici: nessuna risorsa, nessuna prospettiva né possibilità di dar vita ad una progettualità, il rischio di restare al buio da un giorno all’altro per una delle biblioteche più importanti della Calabria è davvero troppo.

Eppure negli ultimi due anni molto è stato fatto per cercare di rimettere ordine e di scongiurare il peggio: con sacrificio e abnegazione, i Presidenti susseguitisi in questo difficile arco temporale (Corrado L’Andolina fino a dicembre 2022, e Fabio Signoretta da febbraio 2023) hanno lavorato insieme ai sindaci appartenenti al Sistema per far approvare i bilanci rimasti in sospeso (l’approvazione è di fatto avvenuta nel mese di febbraio di quest’anno) e per tracciare un quadro dettagliato – per come richiesto dalla Regione Calabria – della situazione debitoria e creditoria dell’Ente; contestualmente, seppur tra mille difficoltà, si è tentato di portare avanti (in forma necessariamente ridotta, a causa della totale assenza di risorse e di personale) le attività, i servizi e gli eventi che, in oltre 30 anni di storia, hanno reso il Polo culturale di Vibo Valentia un punto di riferimento per la Calabria e non solo. 

Ma stando ad oggi, probabilmente tutto questo non è bastato. Dal 2 settembre in moltissimi stanno dimostrando con forza, e attraverso mezzi diversi, il proprio sconcerto, il dispiacere, la preoccupazione per il destino del Sistema Bibliotecario Vibonese: solidarietà e vicinanza è giunta dalle maggiori istituzioni bibliotecarie calabresi, attonite davanti all’immobilismo istituzionale nei confronti dei problemi che riguardano la cultura. 

Numerose le associazioni, come L’Osservatorio civico – Città attiva, che hanno lanciato il proprio appello per scongiurare la chiusura dell’Ente, consapevoli del fatto che sarà “l’incolpevole Comunità” a subire «i drammatici effetti dell’ennesima sottrazione di un servizio» (così Francesca Guzzo, referente dell’Osservatorio); e poi i Dirigenti scolastici di Vibo e provincia, che non vogliono arrendersi alla triste realtà che anche le istituzioni scolastiche possano rimanere orfane di un servizio fondamentale, di crescita ed arricchimento per bambini, ragazzi, docenti.

Accorato ed incisivo il grido d’allarme della Sezione Calabria dell’Associazione Italiana Biblioteche (AIB) che, nella persona del suo Presidente, Raffaele Tarantino, ha scelto di sottolineare in una lettera aperta datata 3 settembre 2024 (ed inviata anche al Prefetto di Vibo Valentia e al Presidente della Regione Calabria) come il SBV sia «un bene di tutti, in quanto alimenta le sorgenti della vita, della convivenza civile, della conoscenza e del dialogo», e ha invitato «le istituzioni competenti a sedersi intorno a un tavolo, anche col supporto dell’AIB, per trovare una soluzione che salvi il SBV». 

Ma sono anche e soprattutto i liberi cittadini di Vibo e provincia a sentirsi traditi da una politica che sembra essere cieca davanti a tanto scempio… Cittadini di ogni età, provenienza, estrazione sociale, privati in un attimo non solo di un luogo di incontro e crescita, ma di un baluardo di democrazia e legalità, un presidio fondamentale in una terra nella quale poco si ha e ancora meno si rischia di ottenere. Insomma, tutti sembrano riconoscere il valore del Sistema Bibliotecario Vibonese e preoccuparsi del suo destino. Un po’ meno le istituzioni, che in questo mese, laddove si sono mosse, lo hanno fatto a rilento e forse senza troppa convinzione.

Insomma, in una regione in cui si lotta ogni giorno per scongiurare la “fuga di cervelli” e lo spopolamento, nella quale si usa per fare propaganda la creazione di nuovi posti di lavoro (spesso fantasma), si può davvero accettare che venga scritta la parola fine sulla storia dell’ennesimo Ente riconosciuto come valido, utile a tutti, funzionante ed attivo, e che se messo a regime potrebbe tra l’altro offrire opportunità di lavoro in moltissimi ambiti a tanti giovani che vorrebbero restare in Calabria? 

Ma soprattutto viene da domandarsi: ogni Ente che si trova oggi in una situazione di dissesto finanziario ha come proprio unico destino naturale la chiusura? E poi, quanti Comuni, aziende, enti pubblici travolti da inchieste giudiziarie sono stati costretti, ad oggi, ad interrompere le proprie attività? È giusto, non si può cancellare tutto con un colpo di spugna: le situazioni passate devono essere sanate, i debiti onorati, e la giustizia deve fare il proprio corso, ma il SBV non è solo il suo passato, e può meritare di avere un futuro nuovo.  (

EDILIZIA SCOLASTICA IN CALABRIA ANCORA
C’È TROPPO DA FARE TRA DIVARI E RITARDI

di ANTONIETTA MARIA STRATI – In Calabria a poco a poco si stanno rendendo più sicure e moderne le scuole. Si tratta certamente di un importante risultato, ma questo non è abbastanza per poter dire che nella regione le Scuole stanno bene, perché non è così. A certificare lo stato di salute degli edifici in Calabria e in tutta Italia, la 14esima edizione del report Ecosistema Scuola di Legambiente, in cui sono emersi dati molto interessati.

Ad esempio, Vibo Valentia è tra le città che hanno realizzato maggiori interventi di adeguamento sismico, mentre Cosenza è tra quelle che hanno realizzato i maggiori interventi di messa in sicurezza dei solai nelle proprie scuole negli ultimi 5 anni, oltre ad avere – assieme a Crotone – il maggior numero di scuole servite da pedibus. La città bruzia, inoltre, brilla per il maggior numero di scuole raggiungibili in bicicletta grazie alle piste ciclabili. Catanzaro, invece, viene “rimandata” per non aver fornito dati gli impianti di energia rinnovabile nelle scuole, mentre Vibo, se da una parte è stata virtuosa contro i terremoti, dall’altra viene “bocciata” per non avere impianti di energia. Il capoluogo e Crotone rientrano, anche, tra le scuole che non hanno fornito dati sul monitoraggio amianto. Sempre Vibo, è tra le città che spendono di pi ù nel servizio di pre e post scuola. Reggio Calabria, invece, non compare in nessuna classifica.

Dati importanti, considerando che i dati sulle certificazioni ci restituiscono una situazione a livello nazionale poco rassicurante, visto che ancora oggi solo 1 edificio su 2 dispone del certificato di agibilità (49,3%) e di collaudo statico (47,5%). Nello specifico, il 68,8% degli edifici del Nord dispongono del certificato di agibilità, mentre solo il 22,6% di quelli del Sud e il 33,9% delle Isole.

Nel Report, infatti, sono raccolti i dati del 2023 di 100 Comuni capoluogo su 113  e che riguardano 7.024 edifici scolastici di loro competenza, tra scuole dell’infanzia, primarie e secondarie di primo grado, frequentati da una popolazione di oltre un milione e 300mila studenti, offre un’analisi dettagliata sullo stato di salute delle scuole confrontandola con i servizi essenziali di prestazione, i cosiddetti Lep previsti dall’autonomia differenziata, e che per le scuole riguardano edilizia scolastica, digitalizzazione e servizi mensa, denunciandone ritardi ed emergenze da affrontare anche per quel che riguarda trasporti, palestre e sostenibilità energetica, tre servizi non contemplati dai Lep riguardanti l’istruzione.

«Con l’autonomia differenziata – ha commentato Claudia Cappelletti, responsabile nazionale scuola di Legambiente – si rischia di aumentare i divari tra le scuole del nord e sud. Di questo passo senza un investimento sui Lep, rischiano le aree più fragili del Paese, come il sud e le aree interne, non solo di non recuperare i ritardi sull’edilizia scolastica ma anche di restare indietro sui servizi scolastici. Se si vuole lavorare su una didattica inclusiva e innovativa l’organizzazione e la progettazione degli spazi è rilevante, bisogna che ci siano laboratori, palestre, mense, nuovi ambienti di apprendimento».

«Ma anche le condizioni di lavoro sono fondamentali – ha aggiunto – gruppi classe più piccoli, un isolamento termico che consenta di stare in classe senza disagi, scelte di sostenibilità che migliorino lo stato generale degli edifici. Tutto questo potrebbe essere realizzato se la messa a terra dell’autonomia differenziata aprisse una stagione con al centro un grande piano di rigenerazione partecipata delle scuole per connettere bisogni e azioni».

«Per ridurre il gap con il resto d’Italia – si legge nel rapporto – ma soprattutto per mettere in sicurezza le scuole, si rende, quindi, urgente dedicare maggiori fondi al Sud e Isole ma, soprattutto, aiutare le amministrazioni a realizzare gli interventi necessari per la messa a norma degli edifici scolastici di loro competenza.

«È giunto il tempo – ha detto Mariateresa Imparato, presidente di Legambiente Campania – di “alzare l’asticella della qualità”, con obiettivi e prestazioni da raggiungere che garantiscano davvero la sostenibilità ambientale e la salubrità degli edifici, la qualità indoor, il benessere e la salute. La vera sfida consiste nel promuovere nei fatti un grande cantiere di innovazione, dove convogliare idee e risorse per progettare e realizzare scuole innovative, sostenibili, più sicure e inclusive».

Infatti, nella Penisola una scuola su tre ha bisogno di interventi di manutenzione urgenti, un dato che nel Sud e nelle Isole sale al 50%, 1 scuola su 2. Un’emergenza ormai cronica, che non migliora, nonostante nel 2023 a livello nazionale siano stati stanziati maggiori fondi per la manutenzione straordinaria (media per singolo edificio), 42milax euro, rispetto a quelli medi degli ultimi 5 anni, 36mila euro. Senza contare che persiste un forte gap tra quanto viene stanziato e quanto le amministrazioni riescono effettivamente a spendere: nel 2023 considerata la media a edificio scolastico su 42.022 euro stanziati ne sono stati spesi 23.821 euro. Preoccupano, anche, i ritardi su digitalizzazione, trasporti, servizi per lo sport ed efficientamento energetico e in questo quadro l’autonomia differenziata rischia di non aiutare la scuola.

Ma non solo: a pesare sullo stato di salute  degli edifici scolastici sono anche i ritardi che si registrano sul fronte della sicurezza – solo il 50% delle scuole ha tutte le garanzie (ossia i certificati di sicurezza) – ma anche sul fronte servizi come, ad esempio, sull’innovazione digitale con poco più di 1 scuola su 2 che dispone di reti cablate e Wi-Fi.Le mense restano un servizio di qualità ma ancora non presente in tutte le aree del Paese. Il dato medio di 76,7% di edifici con mensa a livello nazionale, al Nord e al Centro sale rispettivamente al 92,2% e all’80,9%, mentre nel Sud e nelle Isole si ferma rispettivamente al 54,3% e al 41,2%. Preoccupa la poca attenzione alla sostenibilità, nel 64,9% delle mense vengono impiegate stoviglie monouso. Sul fronte trasporti solo il 19,7% delle scuole dispone di un servizio di mobilità collettiva come lo scuolabus; sui servizi per lo sport un impianto su quattro necessita di manutenzione urgente.

Le palestre aperte oltre l’orario scolastico sono oltre il 70% nei capoluoghi di provincia del Centro-Nord, per ridursi al 30,3% nelle Isole al Sud e ridimensionarsi a poco più del 40% nelle città del Sud delle Isole. Relativamente all’energia, solo il 20,9% degli edifici scolastici utilizza fonti di energia rinnovabile, con un picco al Nord (24,3%) e un minimo nelle Isole (14,1%), solo il 16,4% delle scuole ha visto realizzati interventi di efficientamento negli ultimi 5 anni e di tutti gli edifici scolastici, solo il 6,7 % si trova in classe A.  Per Legambiente è una grave mancanza che i Lep relativi all’istruzione non considerino tre servizi come trasporto scolastico, palestre e sostenibilità energetica. Si tratta di servizi indispensabili per garantire il diritto allo studio, l’accessibilità a strutture sportive pubbliche e ambienti qualitativamente vivibili anche da un punto di vista climatico.

Nel rapporto, poi, viene rilevato come «persiste, nella Penisola, il divario tra Nord e Sud anche in termini di capacità progettuale, di reperimento dei fondi e di finalizzazione della spesa. In particolare, per quel che riguarda i fondi nazionali per l’edilizia scolastica per interventi di diversa tipologia, nel 2023 nel Nord e nel Sud la media dei fondi nazionali ricevuti per edificio scolastico è stata di circa 1,4milioni di euro, nel Centro il dato scende a poco più di 600mila, per arrivare a meno di 300mila euro a edificio nelle Isole. Fondi esigui, quest’ultimi, per la messa in sicurezza e l’efficientamento degli edifici scolastici. Differenti anche i tempi di durata dei cantieri, se in alcune regioni del Nord possono essere di 8-10 mesi dallo stanziamento della risorsa all’opera ultimata, in diverse regioni del Sud possono invece arrivare a 24 mesi. Sul fronte nuova edilizia scolastica, negli ultimi 5 anni stando ai dati inviati dalle amministrazioni, nella Penisola sono solo 41 le scuole nuove costruite».

Alla luce dei dati emersi dal Report, Legambiente ha presentato dieci proposte che hanno come filo rosso un grande piano di rigenerazione partecipata delle scuole a partire da una manutenzione, gestione, organizzazione e qualità della scuola migliore. Primo intervento importante da mettere in campo, attivare da parte degli Enti Locali processi di amministrazione condivisa sulla base di patti educativi di Comunità. A seguire tra gli interventi prioritari per Legambiente occorre ampliare la funzione dell’anagrafe scolastica rendendo trasparenti le informazioni sullo stato di avanzamento degli interventi per l’edilizia scolastica e relativi finanziamenti, creare una struttura di governance per facilitare accesso e gestione dei fondi per l’edilizia scolastica da parte degli Enti Locali e garantire il funzionamento dell’Osservatorio per l’edilizia scolastico. (ams)

IL PAZIENZE “CALABRIA” SI PUÒ CURARE:
RIPARTIRE EQUAMENTE FONDI SANITARI

di GIACINTO NANCI – I danni ai malati calabresi vengono, oltre che dalle infiltrazioni mafiose, prima di tutto dal cronico ultraventennale sottofinanziamento della sanità calabrese. Infatti la Calabria è la regione che da sempre è nelle ultime posizioni per i finanziamenti pro capite (oltre 100 milioni annui di euro in meno rispetto alla regione più finanziata) per la sua sanità in base alla legge 386 del 18 luglio 1996. Da qui l’accumulo di un deficit sanitario di un miliardo e mezzo per cui nel 2009 la decisione da parte del Governo di imporre alla Calabria il piano di rientro sanitario e nel 2011 il commissariamento.

Le infiltrazioni mafiose nella sanità hanno solo peggiorato la qualità della sanità calabrese, sottraendo ulteriori fondi dedicati ai malati calabresi. Ma, ad aggravare pesantemente la situazione della sanità calabrese e a bocciare definitivamente l’attuale criterio di riparto dei fondi sanitari alle regioni, è il fatto che in Calabria ci sono molti più malati cronici che non nelle altre regioni e da ciò ne consegue che la Calabria avrebbe dovuto in passato e dovrebbe ricevere in futuro molti più fondi delle altre regioni e non meno fondi.

A certificare la presenza di molte malattie croniche che necessitano quindi di maggiore spesa sanitaria in Calabria è stato perfino il commissario Scura, firmando il decreto 103 nel lontano 15 settembre 2015. Decreto che, con le sue specifiche tabelle, quantificava in 287.000 malati cronici in più tra i circa due milioni di abitanti calabresi, rispetto ad altri due milioni di altri italiani. Come se ciò non bastasse, vi è che per le spese sanitarie dei calabresi fuori regione ormai spendiamo fino a 300 milioni di euro, che sono fondi sottratti agli investimenti della sanità in Calabria.

Ancora vi è il fatto che il piano di rientro, oltre a far danno ai malati calabresi, peggiora anche l’economia della Calabria perché, proprio perché siamo in piano di rientro, da 15 anni a questa parte noi calabresi paghiamo più tasse (Irap, Irpef, accise sui carburanti e per un periodo anche maggiori ticket sanitari) degli altri italiani. A conferma di quanto fin qui scritto, vi è il fatto che nel 2016 la Conferenza Stato Regioni ha fatto una parzialissima (per come affermato dal suo presidente on. Bonaccini) modifica ai criteri di riparto dei fondi sanitari alle regioni, considerando la presenza delle malattie nelle varie regioni. Ebbene, in seguito a questa “parzialissima modifica” nel 2017, la Calabria ha ricevuto ben 29 milioni di euro in più del 2016 e tutto il Sud ben 408 milioni in più. Ovviamente la modifica non è stata ne ampliata ne riproposta.

Un’altra conferma è il fatto che nel 2022 la regione Campania (l’unica che riceve meno fondi pro capite anche rispetto alla Calabria, ha fatto ricorso al Tar proprio contro i criteri distorti del riparto dei fondi sanitari alle regioni. Significativo è il fatto che, dopo questo ricorso al Tar, il Governo ha modificato i criteri di riparto dei fondi sanitari alle regioni, introducendo il criterio della “deprivazione” per dare più fondi (pochissimi) alle regioni del Sud. Allora cosa fare per salvare la sanità calabrese? Oltre ad aumentare la lotta alla mafia, che non è comunque la causa principale del disastro della sanità calabrese, bisogna chiudere con il piano di rientro perché esso stesso è dannoso per la sanità calabrese, e modificare i criteri del riparto ai fondi sanitari alle regioni basandolo sulla presenza delle malattie.

Oggi sappiamo quanto costa curare una malattia cronica, sappiamo quante malattie croniche ci sono nelle varie regioni e, quindi, non sarebbe difficile finanziare le sanità regionali in base ai reali bisogni delle popolazioni. La chiusura del piano di rientro, tra l’altro giudicato parzialmente anticostituzionale da una sentenza della Corte Costituzionale nel 2021, dovrebbe essere una cosa ovvia considerando il fatto che, dopo 15 anni di piano di rientro, la regione Calabria è maglia nera nell’applicazione dei Lea (Livelli Essenziali di Assistenziali) e lo è anche nonostante dal 2019 siano anche commissariate anche tutte le Asp calabresi, e i tre maggiori ospedali regionali. I commissari non sono stati utili neanche per la lotta alla infiltrazione mafiosa, visto la che la Asp di Vibo Valentia ha avuto forse più di 4 commissari negli ultimi anni.

È chiaro cosa fare per un giusto finanziamento delle sanità regionali, ossia il riparto in base alla presenza delle malattie. Si punti su questo. (gn)

[Giacinto Nanci è medico di famiglia in pensione dell’Associazione Mediass]

LA CALABRIA È LA REGIONE CON MAGGIORI
DISUGUAGLIANZE TRA I PAESI DELLA UE

di ANTONIETTA MARIA STRATI – Qual è la regione con le maggiori disuguaglianze nell’Unione Europea? Risposta scontata: la Calabria, purtroppo. Secondo i dati di Eurostat, diffusi dalla Cgil, i numeri segnano il risultato più drammatico, in cui emerge non solo una bassa condizione di crescita, ma anche una forte disparità retributiva tra il capitale e il reddito.

Il 20% dei cittadini calabresi ricchi accresce il suo benessere, mentre il 20% povero diventa ancora più indigente non potendo disporre dei basilari mezzi di sussistenza su beni e servizi essenziali.

L’Istituto economico europeo, infatti, certifica la divaricazione della forbice sociale a vantaggio degli strati più ricchi e ne accentua lo stato di povertà, in valore e condizione, assoluta. Tutto ciò mentre la nostra regione sconta una crisi demografica, uno spopolamento delle aree interne ed una emigrazione giovanile senza precedenti che verrà acuita dall’autonomia differenziata.

Per la Cgil Calabria «c’è un tema ineludibile per il Governo nazionale e regionale: quello salariale, del lavoro, degli investimenti che sfuggono dall’orbita di ogni provvedimento emanato dall’esecutivo».

Un fenomeno che, per quanto paradossale, vista la quantità e la finalità di risorse europee, ordinarie e straordinarie, di cui la Calabria oggi dispone, il sindacato ha sempre cercato di evidenziare negli ambiti istituzionali della programmazione europea, richiamando un approccio di indirizzo e di merito basato sulla qualità della spesa in termini di impatto e congruità dei risultati».

Oltre la metà della spesa comunitaria viene assegnata con bonus, incentivi e crediti d’imposta che solo marginalmente determina una premialità negli investimenti su politiche distributive e reddituali, con un basso coefficiente occupazionale. Per quanto evidenti, i fattori dì criticità nella spesa comunitaria vengono spesso concepiti nella necessità di intervento sugli aspetti quantitativi, anziché affrontarli nella complessità delle loro dinamiche distributive per meglio agire processi contestuali di sviluppo e di crescita sia economica che sociale.

In altre parole, «non c’è solo un problema nella capacità di investire i fondi per ridurre i divari territoriali con le altre aree del Paese – ha rilevato il sindacato – ma, di farlo, attraverso mirate politiche sociali ed occupazionali per garantire un generale benessere di tutte le classi sociali che nei territori risiedono. L’indagine dell’Eurostat, sostanzialmente, ci suggerisce di considerare i divari regionali per poter meglio affrontare quelli nazionali».

Sul tema del lavoro, «il contratto è un buon punto di partenza, ma è necessario potenziarne l’azione nei confronti delle lavoratrici e dei lavoratori», ha detto Mariaelena Senese, segretaria generale della Uil Calabria, intervenendo ai lavori del convegno sui 30 anni dell’Ebac a Reggio Calabria, annunciando di aver chiesto «n incontro per migliorare le prestazioni dell’ente bilaterale a favore dei lavoratori e prevedere un sistema di premialità per le aziende di settore, predisposizione di un fondo di incentivo all’occupazione finalizzato ad evitare la fuga dai giovani dalla Calabria, intervenendo anche con progetti mirati nelle scuole prevedendo il supporto dell’Inail regionale. Inail che è sempre stata al fianco della bilateralità attraverso dei progetti mirati che partono proprio dal mondo della scuola».

Ma non sono solo i sindacati a essere impegnati sul tema del lavoro: Anche la Regione Calabria sta facendo la sua parte. È stato approvato, infatti, su proposta dell’assessore regionale al Lavoro, Giovanni Calabrese, il nuovo schema di Accordo per la realizzazione dell’investimento 1.1 “Piano potenziamento Centri per l’impiego” del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), Missione M5, Componente C1.

L’accordo sarà sottoscritto dalla Regione Calabria – Dipartimento Lavoro, dall’Unità di missione per l’attuazione degli interventi del Pnrr e dalla Direzione generale presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali.

L’intervento è finalizzato al potenziamento dei Centri per l’impiego, allo scopo di consentire un’efficace erogazione dei servizi per l’impiego e la formazione e, nell’ambito del medesimo, sono previste attività legate al potenziamento dei Cpi tramite il rafforzamento delle competenze del personale e il potenziamento infrastrutturale. L’importo del finanziamento per la Regione Calabria è di 10.593.900,48 euro.

Insomma, c’è grande consapevolezza che nella regione ci sia un grave problema occupazionale a cui, poco a poco, si sta cercando di trovare una soluzione per impedire non solo lo spopolamento dei borghi, ma anche la partenza dei cervelli che, con le loro capacità, potrebbero contribuire a risollevare questa terra dalle grandi potenzialità.

Sicuramente c’è più bisogno di sinergia tra istituzioni, sindacati, Enti e associazioni di categoria per mettere nero su bianco un piano capace di colmare uno dei più gravi e atavici divari della Calabria. I continui report che i sindacati o gli Enti producono, devono indurre la Regione a fare una riflessione seria sul tema e cercare una quadra anche col Governo per mettere a punto una strategia con azioni mirate a rendere la regione un modello virtuoso capace di attrarre, non di indurre a scappare.

L’IDEA DELLA PROVINCIA “MAGNA GRAECIA”
SODDISFA LE ESIGENZE DELL’ARCO JONICO

di DOMENICO MAZZA – Il dibattito relativo alla istituzione di una nuova Provincia, a fianco la latitanza di prospettiva politica nel lungo periodo, sta mostrando tutte le sue fragilità. Inquieta realizzare la vaghezza del flebile processo culturale con cui la locale classe dirigente tenta di approcciarsi alla materia amministrativa. Vieppiù, duole constatare l’assenza di contenuti significativi che alimentano una preoccupante incompetenza politica connotante l’area dell’Arco Jonico.

Ormai, giornalmente, si legge di Amministratori che esprimono il loro apprezzamento ad un’idea (Sibaritide-Pollino), pur tuttavia senza entrare nel merito e, soprattutto, limitandosi ad esprimere concetti di natura elementare. Se proprio dovessimo cercare un punto di contatto nelle esternazioni dei Sindaci, al netto delle posizioni di alcuni Amministratori, dovremmo registrare il loro sistematico glissare sulla vicenda del Capoluogo. Un collage di interventi, quindi, dai quali traspaiono aspettative che dimostrano quanto le loro posizioni siano anni luce lontane dalla realtà effettuale, decretata dalle modifiche apportate al Testo Unico degli Enti Locali. Non si spiega altrimenti la moltitudine di inesattezze riportate da certa stampa, ormai sempre più sponsor di un’idea piuttosto che strumento di divulgazione dei dispacci.

Tutti contro la Delrio, ma muti sull’aziendalizzazione statale della Seconda Repubblica

Si fanno allusioni al superamento della Legge Delrio, quasi come se il problema della creazione di nuovi ambiti fosse circoscritto esclusivamente alla su richiamata norma. Nessun riferimento ai vari Governi (destra e sinistra) della Seconda Repubblica che, con la loro graduale azione d’aziendalizzazione statale, hanno vincolato gli Enti a un dissennato attaccamento ai numeri, acuendo il devastante criterio del centralismo. Piuttosto che Amministratori appassionati alle vicende delle proprie Comunità e al contesto d’ambito in cui inquadrate, sembra di assistere ad un drappello di maggiordomi, con l’ausilio di qualche direttore di sala, allineati a concetti convenzionali e mai innovativi.

Sappiamo che, nelle intenzioni governative, esiste la volontà di superare l’attuale sistema di creazione e gestione degli ambiti provinciali. Tuttavia, si disconosce — non saprei se per ignoranza o per malafede — che il Governo non ha manifestato interesse alcuno verso la costituzione di nuovi contesti provinciali. Men che meno, verso ambiti che non abbiano neppure i requisiti minimi per potere reggere ad un carico di rinnovata responsabilità amministrativa.

Si preferisce, pertanto, affiliarsi ad un’idea priva dei requisiti normativi, caricando di aspettative inesistenti la possibile elevazione a Provincia dell’area jonica, mentre si tace sull’unica proposta che, ancor prima di essere materia amministrativa, avrebbe i requisiti tutti per rappresentare una rivoluzione politica in Calabria.

Magna Graecia: unico vero concept in grado di offrire una prospettiva di crescita e sviluppo

Solo l’idea Magna Graecia sarebbe in grado di sconvolgere le cristallizzate geometrie del potere regionale. Tutti gli altri improbabili abbinamenti territoriali, inquadrati nella sola Provincia di Cosenza, risulterebbero tentativi di scorporo gestazionale il cui unico risultato sarebbe un aborto amministrativo.

Da alcuni anni, il Gruppo JoniaMagnaGraecia promuove l’idea di una Provincia dell’Arco Jonico con doppio Capoluogo (Corigliano-Rossano e Crotone) capace di rappresentare oltre 400mila abitanti, entrando con pari dignità politica nel contesto regionale. Questa proposta avrebbe il potenziale per riequilibrare le forze territoriali calabresi, ponendo un argine al dominio dei tre Capoluoghi storici (CZ, CS, RC). È dimostrato, non solo in Calabria, quanto le Province di piccole dimensioni non abbiano rappresentato alcuna miglioria per i territori rappresentati. Eppure, nonostante la forza di un concept che avrebbe un impatto significativo sulla redistribuzione delle risorse in riva allo Jonio, si spara la proposta Sibaritide-Pollino. Senza spiegare, altresì, cosa, la richiamata proposta, contenga in termini di Comuni, di dimensione demografica e, soprattutto, quale sarebbe (o sarebbero) il Capoluogo che dovrebbe gestirla. Tra l’altro, l’idea Magna Graecia non prevederebbe la creazione di Enti aggiuntivi, inciampando nei dinieghi governativi; solo la ridefinizione dei perimetri amministrativi attuali con l’obiettivo di ridisegnare ambiti ottimali e omogenei. A tal riguardo, si preferisce definire l’idea Magna Graecia, dall’alto dei suoi potenziali 400mila abitanti, ingestibile, ma si tace sul fatto che oggi lo Jonio sia inquadrato in un contesto ben più grande (Cosenza), sintesi malriuscita di ambiti mai amalgamati su affini interessi.

Questo tipo di argomentazioni mostra chiaramente quanto sia debole il livello di discussione politica.

Infine, il processo culturale che attraversa l’Arco Jonico riflette una politica incapace di evolversi, arroccata su posizioni miopi e inabile a cogliere le opportunità che potrebbero portare a un reale sviluppo del territorio. Finché non ci sarà una vera e propria volontà di affrontare le tematiche territoriali, con serietà e competenza, le proposte saranno solo parole vuote, specchi di una politica senza contenuti e senza futuro. (dm)

[Domenico Mazza è del Comitato Magna Graecia]

IN CALABRIA L’EDILIZIA SCOLASTICA
È UN DISASTRO: AGIBILI SOLO 540 ISTITUTI

di MARIASSUNTA VENEZIANO – Una fotografia poco rassicurante dello stato dell’edilizia scolastica in Italia. È quella offerta dal XXII Rapporto sulla sicurezza a scuola di Cittadinanzattiva, presentato questa mattina a Roma.

Il report fa il punto della situazione nelle varie regioni, presentando anche una preoccupante rassegna dei crolli avvenuti nell’ultimo anno – sono in tutto 69 – e fornendo un aggiornamento degli interventi previsti dal Pnrr.

Il primo dato che balza all’occhio scorrendo il rapporto di Cittadinanzattiva è quello relativo all’età degli edifici: il 47% del totale nazionale è stato costruito prima del 1976. Parliamo di 18.889 scuole e di queste quelle messe peggio sono al Sud, dove il 18% è classificato come vetusto mentre solo il 13% risulta progettato secondo le norme antisismiche.ù

Agibilità e prevenzione incendi

E poi c’è il capitolo certificazioni. Quasi il 60% degli edifici non è in possesso dell’agibilità mentre sulla prevenzione incendi è scoperto quasi il 58%.

In Calabria, su 2.163 edifici scolastici solo 540 possiedono la certificazione di agibilità (24,37%), a fronte di 1.609 (74,39%) che invece ne sono sprovvisti e 4 che ne possiedono una solo parziale. Per i restanti 10 il dato non è noto.

Non va meglio sul fronte della prevenzione incendi: 414 scuole hanno la certificazione (19,14%) contro le 1.516 (70,09%) che invece ne sono sprovviste. Una ha una certificazione parziale e per 232 non è noto il dato.

«La mancanza di certificazioni su un gran numero di immobili scolastici è dovuta a molteplici cause – si legge nel report –. Primo tra tutti la vetustà degli edifici, la cui età media si aggira sui 53 anni; la quasi totale assenza di finanziamenti da parte dello Stato per 20 anni dopo il passaggio del patrimonio edilizio ai Comuni, alle Province e, poi anche alle Città Metropolitane, ripresa in modo consistente solo a partire dal 2015; la scarsità di interventi, da parte degli enti locali proprietari, di manutenzione straordinaria e ordinaria, dovuta in molti casi alla mancanza di fondi o ai limiti imposti dal patto di stabilità quando c’erano ma, più in generale alla sotto percezione del grave stato in cui versano gli edifici scolastici e alla scarsa considerazione riservata da gran parte dei rappresentanti dello Stato, delle Regioni e degli Enti Locali all’edilizia scolastica in particolare ed all’istruzione e al sistema scolastico più in generale, nidi compresi».

Impianti di riscaldamento e ventilazione

Su 3.346 sedi scolastiche calabresi riportate nel documento di Cittadinanzattivala presenza di impianto di riscaldamento è riscontrata nel 70,5% (2.362). I condizionatori sono presenti solo nel 6,6% degli edifici (222).

«Riguardo ai sistemi di condizionamento e ventilazione, nonostante le promesse fatte durante e immediatamente dopo il Covid – scrive Cittadinanzattiva –, la percentuale nazionale della loro presenza nelle scuole è davvero irrisoria: ne sono dotate solo 3.967 sedi, pari al 6% del totale. Tra le regioni più virtuose spiccano le Marche (26,4%) (grazie a una precisa e lungimirante scelta da parte della Regione di investire in questa tipologia di impianti), seguite, a notevole distanza, da Sardegna (15,7%), Veneto (9,7%), Emilia Romagna (7,8%), Valle d’Aosta (7,7%), Calabria e Liguria (6,6%), Lombardia (6,4%)».

Mentre sul fronte del solare termico la percentuale in Calabria scende al 2,3%, pari a 77 edifici.

«La presenza di impianti solari termici – sottolinea il report – risulta essere ancora meno significativa: solo 1.266 sedi scolastiche, pari al 2%, ne sono dotate. Tra gli interventi previsti dal Pnrr, la riqualificazione energetica riguarderà sicuramente le 166 nuove scuole e probabilmente una parte delle 2.100 da riqualificare; poca cosa, però, se confrontate con l’intero patrimonio di edilizia scolastica esistente».

A fronte di questi dati, Cittadinanzattiva riflette sulle proposte avanzate di recente di revisione del calendario scolastico: «Le proposte emerse da più parti, tra giugno e agosto di quest’anno, di anticipare gli esami di maturità da una parte e di posticipare l’avvio dell’anno scolastico ad ottobre, se, da una parte manifestano un disagio oggettivo legato alle elevate temperature dall’altra, però, impongono interventi non estemporanei ma cambiamenti complessi e profondi: primo fra tutti quello di rivedere, così come avviene nel resto d’Europa, il calendario scolastico per adattarlo alle mutate condizioni sia climatiche che familiari e lavorative che non consentono la gestione di un periodo di vacanza concentrato in un solo lungo periodo. La frammentazione delle vacanze potrebbe, inoltre, mantenere una continuità nell’apprendimento per prevenire il fenomeno del “learning loss”, cioè la perdita delle competenze acquisite durante l’anno scolastico». (mv)

[Courtesy LaCNews24]

IL MERIDIONE BATTERIA DELL’EUROPA: UN
AFFARE PER IL PAESE MA DANNEGGIA IL SUD

di PIETRO MASSIMO BUSETTAIl Mezzogiorno batteria dell’Europa. Sembra una conquista: finalmente con la chiusura dei rifornimenti da parte della Federazione Russa il Mezzogiorno diventa centrale. E allora impianti eolici, solari, passaggio di reti elettriche di collegamento con il Nord Africa, attraversamento di reti di collegamento dalla Sicilia alle Alpi, arrivo di navi gasiere per trasformare l’energia  liquida con rigassificatori posizionati sulle coste.  

Qualcuno si è reso conto però per prima che l’affare non è per le realtà che sono interessate a diventare la cosiddetta Batteria e invece che  si tratta di un secondo sfruttamento, dopo quello avvenuto con il posizionamento delle tante raffinerie e delle fabbriche di industria pesante che hanno rovinato la costa di Gela, Milazzo, Augusta, Taranto, Bagnoli e la salute delle popolazioni residenti nelle aree. 

E infatti la Sardegna ha già sospeso le autorizzazioni per impianti solari e eolici che oltre a sottrarre suolo alle culture di eccellenza, che possono localizzarsi in Sardegna, modificano lo skyline dei territori, peggiorandolo notevolmente. 

Altre regioni come la Sicilia esultano per la mole di investimenti fatti dalle aziende che si occupano di tali impianti, dimenticando che è un’operazione da apporre nel conto economico tutta dalla parte del dare. 

Il rigassificatore che si vuole costruire a Porto Empedocle, a pochi chilometri dalla Valle del Templi e dalla casa di Pirandello in realtà porterebbe a regime un numero di posti di lavoro inferiore a quelli di un solo grande albergo, anche se lavoro di livello elevato, ma di contro costituirebbe una grossa servitù per il porto che invece potrebbe essere molto meglio utilizzato per accogliere le grandi navi crociere e costituire l’Hub per il collegamento lento e veloce con le isole Pelagie, Pantelleria, ma anche il Nord della Tunisia. 

 Tale premessa non ha il significato di affermare che il territorio meridionale non può essere utilizzato per produrre energia pulita per tutto il Paese, che ne potrebbe avere sempre più esigenza, in attesa probabilmente di ritornare all’energia nucleare, ribaltando una decisione autolesionista che ha portato il costo dell’energia per le nostre imprese tra quello più alto dei paesi occidentali, costituendo una penalizzazione notevole per le nostre esportazioni, che hanno molta più difficoltà a competere. 

Se tutto questo avviene in un’ottica programmata di attenzione al territorio, considerato che la vocazione turistica delle aree ha bisogno anche di preservare e proteggere un ambiente fragile, come peraltro stanno facendo in Toscana, dove le valli e le colline, caratterizzate dai cipressi che “a Bolgheri alti e stretti van da San Guido in duplice filar” di carducciana memoria, diventano elemento  costitutivo e protetto del paesaggio può essere un fatto positivo. 

Se oggi con l’handicap del caro energia abbiamo superato anche il Giappone nella dimensione economica delle esportazioni, pensate a cosa riusciremo a fare se avessimo anche una energia a basso costo. Infatti i brillanti risultati del farmaceutico a Napoli e dell’alimentare nel Meridione portano il Paese a 373 miliardi esportati nei primi sette mesi del 2024, quarti al mondo prima di Giappone (368), Corea del Nord (361), Francia (352), Canada (302) e Gran Bretagna (266).   

Ma se il futuro è quello di essere fornitori di energia per il Paese e per l’Europa e contemporaneamente salassati da una perdita di capitale umano, spesso giovane, che ci porta a un costo per le casse regionali di una perdita di 20 miliardi l’anno, allora il Mezzogiorno deve dire, come ha fatto la Presidente della regione Sardegna, Alessandra Todde, “noi non ci stiamo”.  

E non dovremmo gioire alla notizia che Il ministero dell’Ambiente e della Sicurezza energetica (Mase) ha autorizzato l’infrastruttura elettrica Bolano-Annunziata, un collegamento elettrico sottomarino in corrente alternata a 380 kV di Terna, che unirà la Sicilia e la Calabria. Perché la realizzazione dell’opera non diventa strategica per la rete siciliana ma  per l’intero sistema elettrico nazionale. E che la società, che ha come primo socio Cdp reti (29,851%), abbia previsto un investimento di 128 milioni di euro non ci deve fare esultare. L’infrastruttura – fa sapere la società – incrementerà fino a 2.000 MW la capacità di interconnessione tra la Sicilia e il Continente a beneficio dello sviluppo e dell’integrazione delle fonti rinnovabili previsto nel Sud Italia.  Bella notizia per il Paese solo costo per la Sicilia.

 O notizie come quella riportata “Prende sempre più corpo il ponte energetico che unirà Europa e Africa, passando per la Sicilia, attraverso l’elettrodotto «Elmed». E proprio ieri è stato compiuto un ulteriore passo in avanti, con il protocollo d’intesa siglato a Palermo tra il presidente della Regione, Renato Schifani, e Giuseppina Di Foggia, amministratore delegato e direttore generale di Terna, che realizzerà l’opera con Steg, gestore della rete elettrica tunisina”, non devono essere salutate con tanto entusiasmo.      

Mentre i ristori promessi sanno di mancette che serviranno per la successiva festa del paese che potrà servire al sindaco di turno per aumentare il suo consenso. 

«Inoltre la Regione siciliana e Terna hanno condiviso per la nuova infrastruttura, cofinanziata dalla Commissione Europea tramite il programma Connecting Europe Facility, un accordo per l’attuazione di opere di riqualificazione territoriale ambientale. Nello specifico, Terna erogherà un contributo di un milione di euro per opere di compensazione ambientale che la Regione integrerà con altri 4 milioni provenienti dal Fondo di sviluppo e coesione. In totale 5 milioni di euro che saranno utilizzati per l’anastilosi, ovvero la ricomposizione parziale mediante l’utilizzo dei pezzi originali, delle imponenti colonne Sud del tempio G nel Parco archeologico di Selinunte. In più saranno erogati ulteriori contributi ai due Comuni interessati: 600 mila euro a Castelvetrano, e 2 milioni a Partanna». 

Siamo a miserie contrabbandate come regali importanti, a specchietti che vengono venduti come brillanti, per i poveri meridionali ancora con l’anello al naso. 

Nulla di impianti di aziende manifatturiere importanti da  localizzare in territori dove lavora una persona su quattro invece che una su due, che si stanno spopolando perché i giovani vanno già a studiare nelle università settentrionali, sicuri che in questo modo troveranno un lavoro.

Niente di tutto questo. Soltanto specchietti contrabbandati per brillanti. E la politica locale, spinta dagli interessi nazionali, fa il controcanto, contrabbandando il prezzo che paga per un vantaggio che riceve. (pmb)

[Courtesy Il Quotidiano del Sud – L’Altravoce dell’Italia]