AUTONOMIA, 10 DOMANDE E 10 RISPOSTE
IN ATTESA DELL’ESITO DELLA CONSULTA

di ERNESTO MANCINIIl prossimo 20 gennaio la Corte Costituzionale deve decidere in via definitiva se ammettere o meno il referendum per l’abrogazione della legge Calderoli sull’autonomia regionale differenziata. La decisione, in senso favorevole allo svolgimento del referendum, appare molto probabile ma non scontata.

È infatti accaduto che la legge Calderoli sia stata molto rimaneggiata dalla precedente sentenza della stessa Corte del 14 novembre scorso che aveva dichiarato incostituzionali parti essenziali di tale normativa cancellandole dall’ordinamento giuridico oppure imponendo, come vedremo di qui a poco, interpretazioni ed applicazioni costituzionalmente orientate.

Ed è perciò che il quesito referendario originario formulato con la raccolta delle firme l’estate scorsa (“volete voi abrogare la legge n. 86 del 26 giugno 24 sull’autonomia regionale differenziata?”) è stato riformulato a cura dell’Ufficio per il Referendum della Corte di Cassazione sentito il Comitato promotore, nel seguente modo: (“volete voi abrogare la legge n. 86 del 26 giugno 24 sull’autonomia regionale differenziata come risultante dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 192/94? – Abrogazione totale) 

D’altra parte, la Corte Costituzionale non può non prendere atto che con le firme raccolte l’estate scorsa a cura del Comitato promotore del referendum (ben 1.300.000 firme) si chiedeva l’integrale abrogazione e non quella parziale. 

In vista dell’imminente decisione del Giudice Costituzionale conviene riepilogare qui di seguito come stanno ad oggi le cose. Seguiremo il metodo F.A.Q. – Frequently Asked Questions – cioè domande e risposte frequenti per una rapida conoscenza degli aspetti principali della fattispecie in esame.

 

1) Perché la legge Calderoli sull’autonomia regionale differenziata è stata definita “legge spezza Italia”?

La legge Calderoli è stata definita “legge spezza Italia” perché si propone di trasferire alle Regioni in modo differenziato, e segnatamente alle regioni più ricche, poteri che spettano allo Stato, con ciò minando l’unitarietà e la indivisibilità della Repubblica. Questo giudizio è pressoché unanime da parte di costituzionalisti, economisti, esperti di regionalismo e di finanza pubblica. Anche importanti istituzioni, centri di studio ed associazioni si sono espressi nettamente contro; tra questi: Banca d’Italia, Confindustria, Ufficio Parlamentare di Bilancio, Svimez, Anci, Acli, Anpi, Conferenza Episcopale, Sindacati maggiormente rappresentativi, e così molti altri.

2) Qual è il ruolo svolto dalla Corte Costituzionale nei confronti di tale legge?

La Corte Costituzionale è un organo di vertice dello Stato a cui spetta giudicare se una legge sia illegittima o meno e cioè se essa contrasti o meno con i princìpi della Costituzione. Va ricordato che la Costituzione è la legge fondamentale della Repubblica cioè una legge sovraordinata a tutte le altre sicché nessuna legge ordinaria può contrastare con essa. Quando vi è contrasto, come avviene con la legge Calderoli, la Corte Costituzionale ne dichiara la illegittimità e la cancella in tutto od in parte dall’ordinamento. 

3) Su quali premesse la Corte Costituzionale fonda il proprio giudizio di illegittimità sulla legge Calderoli?

Nella premessa della motivazione la Corte afferma che qualsiasi legge che riguardi il regionalismo italiano non può derogare ai princìpi fondamentali di unitarietà ed indivisibilità della Repubblica nonché di solidarietà ed uguaglianza dei cittadini. Si tratta di princìpi molto chiari così come vengono codificati dagli articoli 2, 3 e 5 della Costituzione. Già di per sé questa affermazione della Corte impedisce di poter differenziare i poteri delle Regioni quando tale differenziazione, come nel caso della legge Calderoli, comporta frammentazione e competizione anziché unità e cooperazione.

4) Qual è la principale censura che la Corte Costituzionale muove alla legge Calderoli sull’autonomia differenziata? 

La Corte dichiara illegittima la legge Calderoli perché consente di trasferire alla competenza esclusiva di alcune regioni più “materie”, cioè poteri pubblici sia legislativi che amministrativi. Si tratta di materie fondamentali dell’agire pubblico quali, per esempio, la pubblica istruzione, la sanità, la tutela dell’ambiente, i trasporti, l’energia ecc. ecc. (in tutto 23). Per tali materie lo Stato non avrebbe più avuto, stante la devoluzione esclusiva a singole regioni, una posizione di sovra ordinazione rispetto ad esse. Lo Stato, in altri termini, sarebbe stato estromesso da ogni competenza, perfino quella di indirizzo e di controllo dell’operato regionale.

5)  Qual è la differenza tra il regionalismo originario e quello voluto dalla legge Calderoli? 

Il regionalismo italiano fu voluto dai Padri e dalle Madri Costituenti fin dal 1948, e poi attuato negli anni ’70 come sistema che valorizzasse le autonomie territoriali e la partecipazione dei cittadini alle istituzioni a loro più vicine. La legge Calderoli, però, tradisce la volontà originaria dei Costituenti perché spinge il regionalismo al punto di dargli consistenza di separatismo e, comunque, di differenziazione esasperata ed egoistica in ragione della maggiore ricchezza di alcune regioni rispetto ad altre. La conseguenza è il disordine istituzionale, la frammentazione ed il caos nel funzionamento di tutte le attività legislative e di pubblica amministrazione e ciò a danno dei cittadini, delle imprese e di qualsiasi altra componente sociale. 

6) È vero che la legge Calderoli, come sostengono i suoi fautori, non fa altro che applicare il nuovo titolo V della Costituzione così come introdotto nel 2001?

Non è vero. La legge Calderoli tradisce anche il nuovo Titolo V della Costituzione introdotto nel 2001. Tale normativa, infatti, pur prevedendo la possibilità di attribuire più autonomia, giammai consente, neppure implicitamente, la possibilità di trasferire intere materie alle regioni svuotando lo Stato delle competenze originarie attribuitegli. E su ciò la Corte Costituzionale è stata molto chiara impedendo, come si è detto, che alle regioni fossero trasferite disinvoltamente ed in via esclusiva le materie e cioè i poteri legislativi ed ammnistrativi dello Stato.

7) Il Giudice delle Leggi esclude la devoluzione delle “materie legislative ed amministrative” ma ammette la possibilità del trasferimento di alcune “funzioni”. Cosa significa?

Intanto significa che i poteri dello Stato rimangono inalterati poiché su tutte le materie che il Titolo V già prevede col sistema della concorrenza (rectius: cooperazione) Stato/Regione (istruzione, sanità, ambiente, trasporti, ecc.) rimane allo Stato il potere di legiferare sui principi fondamentali da cui le Regioni non possono discostarsi. Per esempio: la scuola resta statale e non può diventare regionale, il Servizio Sanitario rimane Nazionale e continuerà ad articolarsi nelle regioni da un punto di vista organizzativo, come già avviene per effetto della Riforma Sanitaria del 1978 (legge n.833/78).

Inoltre, per la devoluzione di singole  funzioni la Corte stabilisce che per specifiche esigenze possono trasferirsi singole funzioni  (non materie) ma ciò deve essere adeguatamente giustificato, deve essere preceduto da adeguata istruttoria , deve riguardare specifiche esigenze del territorio, deve  essere fatto ex parte populi e non ex parte principis; in altri termini non deve essere un mero trasferimento di potere dallo Stato a singole Regioni solo per accrescere il potere di queste a danno di quello ovvero a danno delle altre regioni e, più in generale,  a danno della Repubblica considerata come soggetto unitario. Per esempio, la “funzione assistenza ospedaliera” che fa parte della “materia sanità” è comune a tutte le regioni e non specifica di alcune per cui non può configurarsi alcuna differenziazione di poteri di una regione rispetto ad un’altra. 

8) In che cosa consistono i princìpi del bene comune e della sussidiarietà richiamati dalla Corte?

Il principio del c.d. “bene comune” comporta che non si dovrà avere riguardo solo all’interesse della singola regione bensì all’interesse pubblico che è interesse comune a tutti. Afferma al riguardo la Corte che la differenziazione non deve essere un fattore di disgregazione dell’unità nazionale e della coesione sociale, ma uno strumento al servizio del bene comune della società e della tutela dei diritti degli individui e delle formazioni sociali.

Ma non basta. La Corte insegna altresì che tutte le scelte devono applicare anche il c.d. “principio di sussidiarietà”. Si tratta del principio per cui una funzione pubblica può essere collocata verso il basso o verso l’alto (Comuni, Regione, Stato e addirittura Unione Europea) allorché si stabilisca che il modo più adeguato per svolgere tale funzione appartenga all’uno od all’altro di questi livelli secondo un principio di corretta distribuzione delle competenze per una maggiore efficacia delle politiche di riferimento. In materia di tutela ambientale, per esempio, è di tutta evidenza che interventi efficaci devono farsi a livello sovranazionale non essendo più sufficiente, secondo il principio di sussidiarietà, il livello nazionale. L’Unione Europea si avvarrà, nei limiti della propria competenza, dello Stato e questo delle Regioni per l’organizzazione dei servizi di tutela ambientale come già avviene da tempo.

9) Quali altre censure di illegittimità ha dichiarato la Corte riguardo alle Legge Calderoli.

È presto detto: a) è illegittimo che la decisione sostanziale sull’autonomia differenziata venga lasciata al Governo emarginando il ruolo invece essenziale del Parlamento. Tutta la procedura va in conseguenza rivista; b) è illegittimo che sia un decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri e non un atto legislativo a determinare i livelli essenziali delle prestazioni. È attraverso tali livelli che si potranno misurare le differenze territoriali e determinare i relativi finanziamenti per cui è assolutamente necessaria una legge del Parlamento quale massimo organo decisionale della Repubblica; c) è ugualmente illegittimo che sia un decreto interministeriale e non un atto legislativo a stabilire quali siano i proventi delle imposte da mantenere alla singola regione riducendo pertanto la quota che va allo Stato per ogni esigenza nazionale della finanza pubblica; d) è inoltre illegittimo che le Regioni siano semplicemente facoltizzate e non obbligate a concorrere agli obbiettivi della finanza pubblica con conseguente indebolimento dei vincoli di solidarietà ed unità della Repubblica.

Vi sono altre norme della legge che la Corte non ha dichiarato incostituzionali ma, beninteso, alla condizione tassativa che vengano interpretate in modo “costituzionalmente orientato” senza il quale ogni atto successivo diventa illegale. Le condizioni, per ogni aspetto, sono: a) che l’iniziativa legislativa per ogni eventuale differenziazione non venga riservata unicamente al Governo; b) che la legge di differenziazione non è legge di mera approvazione dell’intesa Governo/Regioni (“prendere o lasciare”) ma implica il potere di emendamento (modifica, integrazione, rigetto) da parte delle Camere. c) quando si tratta di materie cosiddette “non Lep”, che cioè non riguardano livelli essenziali delle prestazioni, le relative funzioni sono trasferibili purché non si tratti di prestazioni concernenti diritti civili e sociali. Anche in questi casi si dovranno prima attendere la determinazione ed i finanziamenti dei Lep e non devolvere sbrigativamente come voleva fare il Governo. d) le risorse destinate alle funzioni trasferite non dovranno essere determinate sulla base della spesa storica ma con riferimento a costi e fabbisogni standard e criteri di efficienza. Se, per esempio nella tale regione del  Nord vengono garantite risorse per dieci asili nido ogni 100mila abitanti e nel tal altra regione del Sud risorse per tre asili nido ogni 100 mila abitanti, i finanziamenti dovranno essere conseguenti per garantire parità di livello delle prestazioni. La spesa storica, invece, non fa altro che cristallizzare le differenze.

10) Quali sono le conclusioni che si possono trarre dopo la sentenza della Corte Costituzionale? Ed il referendum abrogativo è ancora necessario?

Tutti gli osservatori qualificati sono concordi nel dire che la legge Calderoli n.86 del 26 giugno 24 è stata “demolita” o “svuotata” dalla Corte Costituzionale con la sentenza n 192 del 14.11.24. Addirittura, la suprema Corte di Cassazione (che è ben di più di un osservatore) parla di “massiccia demolizione” nell’ordinanza del 12 dicembre 24 (pag.32) con la quale ha dichiarato l’ammissibilità del referendum abrogativo e, come si è visto,  ha riformulato il quesito referendario. Sono infatti rimaste in piedi alcune parti della legge, invero non essenziali, che tuttavia non possono ostacolare la volontà referendaria di abrogare tutta la legge sia pure con i rifacimenti sostanziali operati dal Giudice Costituzionale. 

Va detto che da un punto di vista di legalità costituzionale i Comitati contro l’autonomia differenziata hanno già vinto la loro battaglia. Ora, con il referendum, la lotta si sposta sul piano politico affinché nessuno, con artifizi e raggiri messi in atto da governi e ministri compiacenti, insista ancora su questa partita che, così come era stata impostata, aveva creato, a dire di eminenti costituzionalisti, una legge “eversiva”, “indebitamente appropriativa” ed “incostituzionale nell’anima”.

Ecco, le cose stanno nei termini coma sopra esposti. Non rimane che attendere il giudizio definitivo della Corte Costituzionale sull’ammissibilità del referendum per l’abrogazione totale anche di ciò che rimane della legge Calderoli. (em)

 

AUTONOMIA, REFERENDUM QUASI INUTILE
PRESTO LA DECISIONE SULL’AMMISSIBILITÀ

di ERNESTO MANCINI –Ed ora cosa succede dopo che la Corte Costituzionale con sentenza n. 192 del 14 novembre 2024 ha dichiarato illegittime e perciò cancellato molte norme della legge Calderoli sull’autonomia regionale differenziata?

La stragrande maggioranza dei costituzionalisti parlano di avvenuta demolizione della legge nelle sue norme più significative al punto che ora si discute se ancora sia ammissibile svolgere il referendum per la sua abrogazione totale posto che la legge, nel suo impianto originario e nei suoi princìpi ispiratori, non esiste più. Sul punto si può osservare quanto segue.

1) L’iter per i giudizi di legittimità e ammissibilità del referendum.

Saranno la Corte di Cassazione e la Corte Costituzionale a decidere sul referendum, sia pure con due distinti ruoli: alla prima spetta un giudizio di legittimità, alla seconda un giudizio di ammissibilità. Vediamo in che senso.

1.1) Corte di Cassazione: giudizio di legittimità

Secondo l’art. 32 della legge n. 352 del 25.7.1970 che detta la disciplina dei referendum, la Corte di Cassazione, dopo avere accertato con propria ordinanza che le firme per la richiesta di referendum sono regolari per numero e conformità e dopo avere stabilito, sentiti i promotori, la denominazione del referendum da riprodurre nelle schede di votazione, trasmette il tutto alla Corte Costituzionale per il giudizio di ammissibilità.  Infatti, una richiesta di referendum potrebbe essere legittima sotto il profilo degli adempimenti di legge (regolarità di almeno 500 mila firme, presentazione entro i termini di legge della richiesta, ecc.) ma la sua ammissibilità, cioè il fatto che il referendum possa svolgersi, è affidata alla Corte Costituzionale.

L’ordinanza della Cassazione sulla legittimità del referendum dovrà essere trasmessa al Presidente della Corte Costituzionale entro il prossimo 15 dicembre c.a. e cioè nei prossimi giorni. Non vi sono dubbi che ciò avverrà.

1.2) Corte Costituzionale: giudizio di ammissibilità

Il Presidente della Corte Costituzionale, ricevuta l’ordinanza della Corte di Cassazione, fissa entro il 20 gennaio l’udienza per la deliberazione sulla ammissibilità nominando, tra i giudici costituzionali, un relatore. La sentenza che ammette o rigetta l’ammissibilità del referendum deve essere pubblicata entro il 10 febbraio successivo e deve essere formalmente trasmessa al Presidente della Repubblica, ai Presidenti delle due Camere, al Presidente del Consiglio dei Ministri ed all’Ufficio Centrale della Cassazione per il referendum. Si tratta di termini massimi sicché il procedimento può concludersi anche prima.

1.3) indizione del referendum con decreto Presidente della Repubblica previa deliberazione del Consiglio dei Ministri

Ricevuta la sentenza di ammissibilità pronunciata dalla Corte Costituzionale il Presidente della Repubblica indice il referendum sulla base di una deliberazione ad hoc adottata dal Consiglio dei Ministri. Da notare che la data del referendum deve essere fissata in una domenica compresa tra il 15 aprile ed il 15 giugno.

2) Le insidie per l’abrogazione totale della legge Calderoli

2.1) Il quorum per la validità del referendum abrogativo

Come è noto il quorum per la validità del referendum è costituito dalla metà più uno degli italiani aventi diritto al voto cioè iscritti formalmente nelle liste elettorali. Al riguardo va notato:

– che tale numero al momento può quantificarsi in 25.607.175 cioè la meta più uno di 51.214.348 (tali erano gli aventi diritto al voto alle recenti elezioni europee del 9 giugno 24 -vedi su Eligendo – Ministero Interno);

–  che alle recenti elezioni europee hanno votato solo il 48,31 % degli aventi diritto al voto e cioè 24.741.651 (ancora su Eligendo – Min. Interno);

– che ulteriori difficoltà per il quorum sono rappresentate dal fatto che si vota nel solo giorno di domenica mentre alle recenti elezioni europee si è votato dalle 14 alle 22 del sabato e alla domenica;

– che tra gli aventi diritto al voto per il referendum sono compresi anche gli italiani residenti all’estero (Aire) come specifica il Ministero dell’Interno sul proprio sito istituzionale. Al 1° gennaio 2023: erano iscritti all’AIRE circa 5.933.418 italiani;

– che il referendum possa essere considerato come uno scontro Nord-Sud anziché una battaglia per l’unità d’Italia contro ogni frammentazione;

È dunque di tutta evidenza che la battaglia dei referendari per il quorum sarà durissima atteso il diffuso astensionismo dalle urne degli italiani. Peraltro, all’astensionismo ormai consolidato si aggiungerà sicuramente l’astensionismo indotto dai partiti di governo che spingono per l’autonomia differenziata (Lega soprattutto ma anche gli altri, almeno esteriormente, stante il noto pactum sceleris sulle riforme programmate: autonomia differenziata, premierato, separazione carriere magistrati).

E tutto ciò sarà ancora più difficile se si dovesse votare in una domenica di giugno poichè moltissimi cittadini fissano per giugno le loro vacanze stanti i prezzi di soggiorno minori rispetto a luglio ed agosto. Il Comitato Referendario dovrà perciò rivendicare dal Governo una data giusta e non pregiudizievole.

Gioca invece a favore del quorum la circostanza che si voterà anche per altri referendum abrogativi di norme ingiuste (tra gli altri il referendum sulla cittadinanza, i quattro referendum Cgil sul lavoro – reintegro, licenziamenti, lavoro a termine, precarietà negli appalti).

2.2) sul giudizio di ammissibilità

Come si è detto il giudizio sull’ammissibilità del referendum è affidato alla Corte Costituzionale e ciò dà tutte le garanzie ai promotori per una decisione giusta ed equilibrata.

Il problema che la Corte dovrà risolvere è se possa svolgersi un referendum abrogativo su una legge che nel frattempo è stata, nelle parti più importanti, dichiarata illegittima e pertanto, nelle stesse parti, non più in vigore dal giorno successivo alla pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale.

Beninteso non si tratta solo di caducazione di norme per illegittimità costituzionale ma anche di correzione di norme che in alcuni casi è ancora più penetrante.  Infatti, stante il dictum della Corte, è già subentrato nell’ordinamento ed è perciò perfettamente vigente il principio per cui non possono trasferirsi alle regioni intere materie ma solo singole funzioni in relazione a specifiche esigenze, peraltro debitamente motivate e giustificate da una situazione peculiare della Regione e perciò da una situazione non comune alle altre. Con il contestuale obbligo che si applichi il principio di sussidiarietà che impone di svolgere la funzione al livello più adeguato. Tale livello, come ha insegnato la Corte, non è necessariamente quello regionale ma può essere quello statale e perfino europeo secondo il principio di efficienza, vincolanti direttive europee, ecc.ecc. Il tutto sulla base del “bene comune” e non certo del mero trasferimento di poteri per fini competitivi ed egoistici contrari ai princìpi costituzionali di cui agli artt. 3,5 e 7 Costituzione: solidarietà, uguaglianza, unità ed indivisibilità della Repubblica.

Sulla base del tassativo criterio così indicato dalla Corte non si vede come, ad esempio, nella sanità pubblica possano attribuirsi funzioni in via esclusiva (assistenza ospedaliera, medicina di base, specialistica, igiene pubblica, sistema di accreditamento sanità privata, ecc. ecc.) che non hanno la caratteristica di unicità e peculiarità delle singole regioni richiedenti bensì sono comuni a tutte. Per il trasferimento di istruzione, commercio estero, professioni, ambiente, energia, trasporti ed altro, la Corte ha già detto che di ulteriore devoluzione non se ne parla nemmeno (sia pure in modo più elegante rispetto a questo mio dire). Tutto ciò a tacer di molto altro che qui, per brevità non riportiamo avendone già trattato in recenti scritti (vedi su www.dirittoepersona.it ).

Ora va detto che sul tema dell’ammissibilità sembra prevalere da parte della dottrina costituzionale la tesi per cui, rimanendo comunque formalmente in piedi la legge sia pure assai rimaneggiata, il referendum è ammissibile. Sul punto si vedano i recentissimi interventi dei costituzionalisti De Minico, De Fiores, Iannello, Villone al Convegno sul Referendum (Napoli – 5 dicembre u.s. Istituto Studi Filosofici con registrazione audio-video di Radio Radicale https://www.radioradicale.it/scheda/745705/lammissibilita-del-referendum-sullautonomia-differenziata-dopo-i-rilievi-della-).

Per altra dottrina costituzionalista ugualmente autorevole (Ceccanti) ““sembrerebbe impossibile negare che siano cambiati i “principi ispiratori” e “i contenuti normativi essenziali” che sono le due condizioni che la Corte costituzionale nella sentenza 68/1978 riteneva necessari per considerare quesiti referendari superati, esauriti e quindi non più proponibili al voto degli elettori””.

Sarà il Giudice delle Leggi a decidere con sentenza non impugnabile.

2.3 Sulla inammissibilità del referendum per altre possibili cause

Si potrebbe mettere nel conto che nelle more della indizione del referendum il Governo approvi un decreto-legge (Calderoli bis) che modifichi ed integri ciò che è rimasto della legge n.86/2024 rendendola perciò superata e quindi non più soggetta a referendum. Ci sono precedenti al riguardo: referendum sulla procreazione assistita (2005); referendum sulla legge elettorale (2009): referendum sulle concessioni per l’estrazione di idrocarburi in mare (2016).

Nel caso dell’autonomia differenziata l’improvvido legislatore non potrebbe derogare ai princìpi sanciti dalla Consulta (come quello che nega la trasferibilità della materia e limita le funzioni a pochi e rarissimi casi) salvo a creare un conflitto istituzionale gravissimo che gli si ritorcerebbe contro. Queste eventuali nuove norme, sarebbero infatti clamorosamente in contrasto con la sentenza del novembre scorso e tornerebbero alla cognizione della Corte Costituzionale previo ricorso delle regioni interessate per un’ulteriore dichiarazione di illegittimità.

Dalla parte opposta i promotori referendari, nella difficile prospettiva di raggiungere il quorum (oltre 25 milioni di elettori) stante il diffuso e radicato astensionismo, potrebbero rinunciare al referendum avendo già ampiamente conseguito una netta vittoria sotto il profilo giuridico stante l’abbattimento della  legge nelle sue parti essenziali. Sul punto la dottrina è divisa: c’è chi ritiene che la rinuncia non sia possibile e chi all’opposto la ritiene possibile purché avvenga prima della indizione. Va da sé che il referendum con esito abrogativo più che una vittoria legale ormai già conseguita nella sede suprema della Corte Costituzionale, rappresenterebbe una vittoria politica affinché nessuno più ci provi a fare leggi così obbrobriose, palesemente incostituzionali e comunque spaccaitalia.

E ad una vittoria politica, dopo anni di bocconi amari per l’insipienza e l’incoscienza dei Governi Gentiloni e Conti che hanno sottoscritto le prime intese Stato/Regione, la prepotenza di Calderoli & co. dell’attuale maggioranza che se ne sono infischiati delle censure mosse dalla gran parte degli attori istituzionali, culturali, accademici e perfino ecclesiastici, è troppo importante per rinunciarvi(em)

 

Loizzo (Lega): Dopo referendum serve pacificazione sociale

La deputata della Lega, Simona Loizzo, ha evidenziato come «l’idea della grande area urbana di Cosenza rimane valida e aperta a soluzioni legislative di vario livello ma dopo il referendum c’è bisogno di una pacificazione sociale».

«Mi pare che anche il Pd ritenga valida l’idea – ha detto Loizzo – che, in ogni caso, va rimodulata con la partecipazione dei sindaci, delle associazioni, e di tutti gli attori sociali. Penso che intorno alla ricchezza dell’Unical si debba pensare seriamente all’area sud, iniziando da quel centro storico che è un patrimonio di cultura che appartiene non solo a Cosenza».

«In questo senso dobbiamo favorire iniziative – ha concluso – che partano dal concetto che gli investimenti debbano essere funzionali a tutti i comuni contermini. Il referendum era una competizione e nelle competizioni ci si divide-conclude Loizzo- ma subito dopo si lavora insieme nell’interesse esclusivo del territorio, a prescindere dai colori politici». (rp)

Antoniozzi (Fdi): Dopo referendum lavorare tutti per area urbana Cosenza

Il deputato di Fdi, Alfredo Antoniozzi, ha evidenziato come «sia comunque necessario che le forze politiche, insieme ai comuni e alle forze sociali, lavorino per sostenere le realtà locali e l’area urbana».

«Non entro nelle competenze regionali – ha aggiunto – ma credo sia indispensabile che i parlamentari sostengano l’area urbana, a partire dai centri storici. È necessario lavorare per valorizzare le bellezze storiche, per effettuare interventi sociali, per inserire l’area che gira intorno al capoluogo in progetti di sviluppo».

«I bisogni dell’area urbana – ha proseguito Antoniozzi – sono diversi e vanno inseriti in un contesto che garantisca sviluppo e futuro. Bisogna aiutare ulteriormente la città capoluogo ad uscire dal dissesto, sostenere tutti gli altri comuni anche quelli nell’area sud e delle serre».

«L’area urbana di Cosenza è ricca di tradizioni culturali e sociali di rilevanza – ha concluso Antoniozzi – che non possono essere disperse». (rp)

L’OPINIONE / Bruno Tucci: La gente che va a votare in percentuali irrisorie

di BRUNO TUCCI – Ormai è una prassi consolidata in tutto il Paese, purtroppo. La gente che va a votare ha percentuali irrisorie. Così accade da tempo in Italia, così è accaduto di recente in Calabria quando la gente ha dovuto esprimersi su “La città unica” che riguardava Cosenza e il suo hinterland.

Ci sono i soliti sapientoni che hanno letto i risultati e si sono espressi contro coloro che non si recano alle urne. Sono ritornelli riti e ritriti a cui noi calabresi abbiamo fatto il callo. Stavolta i pessimisti, non hanno potuto criticare a lungo, perchè il fenomeno interessa ogni angolo del nostro Paese, da Nord a Sud. Ragione per cui il borbottio ha avuto la durata di qualche ora, poi è finito nel nulla..

Comunque, la statistica di quest’ultimo voto è  a dir poco sconvolgente: ha votato poco più del 25 per cento della popolazione con il primato di Cosenza che non è andata al di là di un venti per cento. Se l’Italia non vota noi non dobbiamo essere contenti di un risultato così povero.
D’accordo, abbiamo violato un principio sacrosanto della nostra Costituzione. Però, qualche giustificazione è doverosa. Il progetto presentato agli elettori non aveva i crismi della originalità. Anzi, percorreva strade ormai note che non  ingannano più la gente. Chi deve esprimersi non si fa più prendere per i fondelli: legge e ragiona. Per cui molti si sono convinti che quanto proposto dalla regione era insufficiente anche se dagli organi responsabili si diceva un gran bene della “città unica”.
Adesso che è stato risposto con un chiarissimo no, quegli stessi studiosi ed esperti dovranno correre ai ripari perché “il progetto era privo di una qualsiasi visione del futuro”: In parole semplici, non c’era nulla di nuovo e lo studio non risolveva i problemi di oggi.
Allora, da ora in poi, sarà bene prima di indire un referendum che inviti la gente a rimanersene a casa, di avere una cura più attenta del piano o del programma che dir si voglia di modo che chi dovrà esprimersi con un voto lo farà volentieri senza rispondere con un no secco. (bt)

L’OPINIONE / Filippo Veltri: Vince anche il “no” del sentimento

di FILIPPO VELTRIDomenica sera sotto il diluvio di cifre e commenti su Tv e social per il referendum sulla fusione delle tre città, finito come è ormai noto mi è tornato in mente un vecchio racconto di tanti e tanti anni fa che mi fece una sera, ad una Festa meridionale dell’ Unità, il grande dirigente del PCI Pio La Torre. Dopo pochi mesi La Torre sarebbe stato assassinato dalla mafia a Palermo.

In un palermitano accentuato più del solito La Torre mi indicò un tavolo dove stavano cenando, separati, alcuni ‘’illustri’’ ospiti esterni al Pci e con un lampo e un gesto imperioso della mano destra mi disse: «Filippo… Filippo… non ti fidare mai di questi presunti intellettuali che ti scavalcano a sinistra a parole e con paroloni! Sono i primi pronti a raccattare le briciole sotto il tavolo dei potenti! Sotto il Tavolo! Manco sopra».

Queste parole di Pio La Torre – che passava per essere uno della destra del PCI – mi tornano spesso nei ragionamenti vari che si fanno attorno, e sopra appunto, la politica e mi sono riaffiorati l’altra sera al pensiero di quanto avvenuto in questo mese di campagna elettorale per dire sì o no alla fusione, clamorosamente bocciata dagli elettori. I pochi elettori in verità, soprattutto a Cosenza, ma anche questa è una sconfitta per chi pensava a ben altro.

Quelle parole di Pio La Torre mi servono per aggiungere un paio di notarelle sull’allegra compagnia di giro che si è accodata alla decisione del Consiglio Regionale della Calabria di tentare una così improvvida manovra alle spalle di tre città. 

Professorini e presunti tali, professoroni ordinari nelle università, intellettualini di mezza tacca di provincia, politici di vecchio stampo e accademici sonnolenti, autonominati pensatori-portavoce- addirittura opinion leader dell’invincibile armata (somigliava tanto a quella del povero Achille Occhetto sbaragliato come è noto alla fine da Silvio Berlusconi), aspiranti incarichi/prebende nel codazzo alla corte dei Re oggi in auge (per domani sono peraltro già pronti a un nuovo eventuale salto della quaglia) sono, infatti, accorsi per qualche briciola sotto il tavolo (a Cosenza diciamo in dialetto ‘pi nu piatto i pipi’), inventandosi dotte disquisizioni, arditi argomenti, persino accuse infamanti contro chi tentava solo di fare ragionare e pensare. Qualche buontempone è arrivato a definirci dei borbonici!

 I social e le Tv in questi 30 giorni sono stati invasi, tutti i partiti – da Fratelli d’ Italia a Sinistra Italiana passando per i sindacati (roba mai vista questa unità) – hanno martellato ma poi la gente ha capito e non è andata a votare (a Cosenza) o ha dato il suo No ad un progetto che era pasticciato e inutile. Ma è proprio a Cosenza che è emerso un ultimo dato, da non sottovalutare affatto, che mi sta molto a cuore, espressosi sia nel non voto che nel No: quello cioè di uno spirito di appartenenza che non è conservazione ma voglia di contare.

Di dire una cosa in fondo semplice semplice: una città non è fatta solo di strade e palazzi ma di quello che ci sta sotto e prima, di chi l’ha messa in piedi, delle pietre che parlano, degli angoli che narrano un passato che è storia e per essere cancellato ha bisogno di essere dunque quantomeno condiviso. A Cosenza come a Rende e a Castrolibero. 

Lo abbiamo scritto il primo giorno e oggi lo ribadiamo: non è nostalgia (peraltro sentimento nobilissimo) ma umile voglia di contare, di non stare sotto i tavoli del racconto di La Torre ma almeno al tavolo con pari dignità.

Chi non ha pensato a questo ha dimostrato di non sapere che la politica è anche sentimento, o almeno dovrebbe essere, e chi a questo sentimento ha dato una sponda (a Cosenza una ventina di persone in tutto) alla fine ha vinto ed è una lezione che vale anche per il futuro. O almeno dovrebbe valere, se non si vuole andare incontro a nuove spiacevoli sorprese.

Il professore Renzo Rosso, ordinario di ingegneria idraulica alla Statale di Milano, ieri ci ha ricordato come in Liguria, ad esempio, ci sono due Albissola, di sotto e di sopra. Due comuni rigorosamente governati da sponde politiche diverse che talora si invertono. Ma lì in Liguria sanno come fare le cose! (fv)

  

L’OPINIONE / Franco Bartucci: Occhiuto è lo sconfitto di questo referendum

di FRANCO BARTUCCI – «Roberto Occhiuto, presidente della Giunta Regionale della Calabria è lo sconfitto di questo referendum. A dirlo è stato Mimmo Bevacqua, capogruppo PD in Consiglio regionale. Concordo perfettamente con questa dichiarazione e aggiungo altri nomi, Simona Loizzo, con la quale per prima mi sono confrontato nel 2019 nello scongiurare di mandare avanti la proposta di fusione dei tre comuni e di guardare invece all’idea progettuale della “Grande Cosenza”, elaborata nel 1971 dai padri fondatori dell’Università della Calabria ed in particolare del Comitato Tecnico Amministrativo, presieduto dal Rettore Beniamino Andreatta.

Una “Grande Cosenza” che includeva il Comune di Montalto Uffugo per effetto che il progetto dell’Università della Calabria si estendeva da Rende (Statale 107) a Montalto Uffugo (incrocio ferroviario di Settimo) e che il disegno regionale della fusione lo escludeva.

Tra gli sconfitti inserisco anche sindacalisti e figure politiche, compreso gli amici del Partito Democratico, ai quali ho esteso lo stesso invito nell’arco degli ultimi tre anni da a quando questa questione è venuta a galla ricevendo come risposta: «A Montalto ci penseremo dopo».

Chissà quando e come! Sappiamo per esperienza come le vie della politica sono complicate e lunghe.

Sull’idea della “Grande Cosenza” e dell’insediamento come dello sviluppo dell’Università in un’area urbana unica e vasta, il Rettore Beniamino Andreatta amava a quel tempo del suo mandato confrontarsi con la classe politica, sindacale ed istituzionale del posto come della regione a cominciare dal presidente Antonio Guarasci. Amava confrontarsi in incontri pubblici che avvenivano nell’aula circolare dell’edificio polifunzionale, come nel salone di rappresentanza del Comune di Cosenza ed anche nella sala del Consiglio provinciale di Cosenza.

Ad organizzare tali incontri fummo chiamati: il dott. Antonio Onofrio, io e Aldo Orrico, con la raccomandazione di chiamare a raccolta per quanto riguarda il settore politico solo i rappresentanti di quei partiti appartenenti all’area costituzionale. Ciò significava l’esclusione dei sostenitori ed appartenenti al Movimento Sociale Italiano. Da Democristiano e cattolico non aveva fiducia e stima di quel partito.

Passano gli anni, oltre cinquant’anni, e i discendenti di quel soggetto politico arrivano a governare la Regione Calabria, cosicché non so come tirano fuori un progetto e un disegno di legge che cozza e mira a bloccare l’idea progettuale della “Grande Cosenza” con al centro l’Università della Calabria scaturita dall’intelligenza e dalla passione politica di un uomo venuto in Calabria dal Nord Italia, con amore e rispetto nei confronti degli uomini e donne del nostro territorio, per insegnarci a vivere e credere nelle nostre possibilità di creare sviluppo e crescita economica, sociale e culturale, valorizzando e credendo soprattutto nei giovani, speranza del futuro.

Uno di quei giovani laureatosi all’Università della Calabria e divenuto Presidente della Giunta Regionale non ha dato ascolto alla lettera aperta pubblica apparsa su questo giornale in data 7 agosto 2024, con la quale rivolgevamo una preghiera, per salvaguardare l’ integrità territoriale destinata all’UniCal e al pensiero di Andreatta, di rinviare quel disegno di legge al consiglio regionale per la scrittura di un nuovo testo di legge, impostato in concordia con le parti e con il coordinamento degli esperti dell’UniCal, in modo da evitare danni consistenti a livello di immagine, per come è avvento con il referendum che in molti ritengono illegittimo, che ha dato l’esito che tutti sappiamo. Con questo mio contributo do un consiglio chiaro di impegno e lavoro agli amici del PD di riprendere nel cassetto il progetto della “Grande Cosenza” che ci ha lasciato in eredità Beniamino Andreatta, primo Rettore dell’UniCal e tra l’altro padre fondatore del Partito Democratico.

Non abbiamo bisogno di nulla se non metterci al lavoro da subito e concretizzare al più presto la ripresa dei lavori. Sulla Collina di Contrada Vermicelli ci sono da diciassette anni immobili due cubi che attendono di scendere a valle per raggiungere i binari ferroviari di Settimo e collegarsi con l’alta velocità che da Sibari vola verso Bolzano. (fb)

L’OPINIONE / Domenico Mazza: Vince l’astensione mentre dilaga l’apatia politica

di DOMENICO MAZZA – In ambito pubblico, l’apatia politica è una mancanza di interesse verso la πόλις (Città). Ciò detto, include: il disinteresse degli elettori e dei mezzi d’informazione negli eventi politici, le difficoltà di comunicazione delle proposte da parte dei partiti e dei gruppi di pressione, la disaffezione alla partecipazione democratica e ai sistemi di voto.

Non trovo altre parole che possano descrivere il disastroso metodo con cui la politica bruzia ha condotto la campagna referendaria sulla sintesi dei Comuni e l’altrettanta sciagurata risposta che è fuoriuscita dalle urne. Si badi bene, l’accezione “sciagurata” non è da riferire all’esito del referendum. Piuttosto, alla più completa apatia con cui gli aventi diritto al voto hanno licenziato l’argomento della fusione amministrativa. Personalmente, se l’esito positivo o negativo del referendum avesse visto la partecipazione di una distinta percentuale delle Popolazioni, avrei avuto ben poco da eccepire. Tuttavia, quando l’astensionismo da una condizione di deroga diventa norma, si conferma la presenza di malesseri profondi e conclamati: indifferenza, rassegnazione e scelta di non scegliere.

Affluenza alle urne: un quadro desolante che pesa sulla politica  

Poco meno di 95mila aventi diritto e a votare si sono recati in appena 25mila. Nonostante la percentuale di affluenza abbia fatto registrare picchi più significativi a Castrolibero e Rende, il dato complessivo dei votanti resta comunque distante dal rendere significativa la competizione. Ad intestarsi la vittoria di un anonimo referendum, quindi, restano i sostenitori del “No” che incassano il dato della dilagante astensione come fosse un plebiscito a loro favore.

Una lettura controversa quanto inesatta, figlia di un’interpretazione che distorce il concetto più nobile della democrazia partecipativa. Nonostante settimane di dibattiti e iniziative, invero, né le forze di maggioranza del centrodestra regionale, né una parte della sinistra sono riuscite a spingere le popolazioni a recarsi ai seggi. Un fallimento collettivo che evidenzia il distacco crescente tra politica e cittadini. Vieppiù, che conclama l’incapacità delle Classi Dirigenti a trasmettere un messaggio di crescita e sviluppo insito al progetto stesso di fusione amministrativa. Inoltre, il disinteresse mostrato dalla collettività verso il processo di sintesi indica come il concept progettuale necessiti di una revisione profonda; non solo nelle sue motivazioni, ma, soprattutto, nel modo in cui viene comunicato e percepito dai Cittadini.

Nessun vincitore, solo uno sconfitto: il popolo dell’area urbana

Probabilmente nella scelta di non scegliere il popolo cosentino ha voluto bocciare un Establishment che non ha saputo declinare le potenzialità racchiuse nel progetto di fusione. La Grande Cosenza, d’altronde, non poteva essere liquidata con l’effimero tentativo di costruire una semplicistica sommatoria demografica. Le titubanze della Politica che non ha saputo descrivere i vantaggi della nuova conformazione amministrativa, si sono tradotte in paura, immobilismo e apatia nelle Popolazioni.

Tuttavia, va considerato un altro fattore: se la partecipazione democratica si verifica a mo’ di random nelle varie tornate amministrative e langue nelle espressioni referendarie, evidentemente, una visione inquinata dei sistemi di consultazione elettorale esiste ed è concreta. Durante le campagne elettorali di indicazione locale apparati, correnti e interessi la fanno da padrone.

I quesiti referendari, al contrario, vengono avvertiti come distanti dalle esigenze particolari e dai personalismi e, pertanto, ritenuti poco interessanti e per nulla motivanti. La descritta percezione, purtroppo, è frutto di una visione miope e malata del corpo elettorale. Esternare il proprio parere su un’idea è, con ogni probabilità, ben più importante di quanto non sia esprimere la propria preferenza a un Amministratore. Il Cittadino che rinuncia al suo diritto-dovere di partecipazione elettorale non può considerarsi parte di una Comunità. Piuttosto, è un individuo che tenta di solcare i mari a bordo di una nave, ma senza l’ausilio di un timone.

E adesso? 

Considerare tramontata l’idea di una fusione dei Comuni vallivi contermini a Cosenza sarebbe un grave errore. Probabilmente, il progetto va ripensato, arricchito e esportato oltre i confini dei tre Comuni chiamati alle urne domenica scorsa. Bisognerà partire dalle scuole e dalle piazze. Sarà necessario trasmettere alle Popolazioni, senza titubanze, che Il progetto di fusione a Cosenza — in funzione di una razionalizzazione del numero dei Comuni e nell’ambito di una prospettiva di riassetto amministrativo della Calabria — può diventare volano di svolta, ma solo se accompagnato da una nuova governance del territorio regionale. L’azione descritta, infatti, risulterebbe in perfetta sintonia con la principale politica di investimento dell’Europa: la coesione territoriale.

La stessa che mette al centro il territorio sostenendone la crescita economica, la creazione di posti di lavoro, la competitività delle imprese, lo sviluppo sostenibile e la protezione dell’ambiente. I suoi vantaggi, dunque, sarebbero direttamente proporzionali all’autorevolezza politica inverata dalle aggregazioni territoriali.

Soprattutto, però, sarà necessario che le espressioni politiche del centralismo cosentino imparino a declinare un nuovo paradigma per l’agognata sintesi della Città unica: rinnovate narrazioni che abbandonino scampoli di pennacchi motivati da inutili dualismi con l’Arco Jonico.

Serviranno, invero, nuove relazioni programmatiche e non astruse teorie volte a infondere paure su improbabili traslazioni geografiche del Capoluogo e amenità simili. Così come, sulle sponde joniche, sarà necessario evitare squallide e disdicevoli politiche di salamelecchi, prostrate agli ordini di una casta cosenzacentrica che non affascina più neppure gli abitanti della val di Crati. (dm)

[Domenico Mazza è del Comitato Magna Graecia]

Orrico (M5S): Da referendum è venuta fuori una comunità divisa

«I (pochi) cittadini dell’area urbana che sono andati a votare al referendum per la città unica Cosenza-Rende-Castrolibero si sono espressi per il no», ha commentato la deputata del M5S, Anna Laura Orrico, a seguito dell’esito del referendum per la Città Unica, a cui i cittadini hanno detto «no ad un progetto imposto dall’alto, privo di ogni ascolto delle tre comunità e delle rispettive assise cittadine: figurarsi che a Rende c’è ancora il commissariamento».

«Un progetto di città unica che –  ha proseguito Orrico – come avevo più volte denunciato, è sempre stato carente di visione politica su cosa e come sarebbe dovuta essere la città unica. Frettoloso, dal sapore elettorale, costruito male. Vince l’astensionismo, tre su quattro hanno disertato le urne, che restituisce l’incapacità dei promotori di stimolare la partecipazione dei cittadini i quali, dal canto loro, hanno percepito il percorso come un dialogo fra gruppi di interesse, poco interessati però agli affanni quotidiani delle famiglie dell’area urbana a meno che non siano famiglie politiche. Ecco a voi la città divisa».

«Siamo curiosi di capire se – ha concluso l’esponente pentastellata –  almeno questa volta verrà rispettata la decisione emersa (sappiamo bene che qualcuno del centrodestra è abituato a sovvertire gli esiti elettorali, vedi le ultime politiche) oppure se i padroni del vapore, di tutti i colori politici, capiranno come processi del genere richiedono ascolto e rispetto, a partire dal basso. Sappiano, in caso contrario, che dall’altra parte, insieme alle persone comuni, ci saremo anche noi. Ci siamo abituati». (rp)

 

REFERENDUM, È FLOP DI PARTECIPAZIONE
VINCE IL NO, PERÒ IL PROGETTO RIMANE

di MASSIMO CLAUSI – Il dato del referendum sulla fusione di Cosenza, Rende e Castrolibero alla fine è stato clamoroso. 10652 votanti a Rende, 10655 votanti a Cosenza e 3657 votanti a Castrolibero hanno detto ampiamente no al progetto incardinato dal centrodestra regionale. I numeri finali dicono che a Cosenza e si sono stati il ​​69,48% e no il 29,45. A Rende i “si” il 18,12% e i no l’81,43; a Castrolibero i “si” il 25,57 ei no il 73,81% In totale, quindi, il no ha vinto con il 56,81 (13166 voti) contro il 42,45 (9838 voti).

E davvero in pochi alla vigilia erano disposti a scommettere su un’affermazione così netta del no, anche perché il percorso verso la fusione dei tre comuni è davvero ineludibile. Quello che non ha convinto è stato evidentemente il progetto, ammesso ce ne fosse uno.

Un brutto colpo per l’attuale amministrazione regionale che si è fatta promotrice della proposta, nonostante il presidente della giunta, Roberto Occhiuto, abbia preferito rimanere sott’acqua. Non così il fratello, il senatore Mario, che ha cavalcato moltissimo le ragioni del sì con post e dichiarazioni quasi quotidiane.

A salvare il centrodestra regionale dalla clamorosa sconfitta è stato l’atteggiamento dell’opposizione che ha votato in linea con la maggioranza sulla proposta di legge di fusione con l’eccezione di Laghi e Tavernise che si sono astenuti e il no del consigliere del Misto, Antonio Lo Schiavo, in splendida solitudine. Quanto basta per far dire a Sandro Principe di essere dispiaciuto per l’atteggiamento del centrosinistra che avrebbe potuto fare una battaglia caratterizzante contro la destra sul punto.

Il problema di fondo è stata la partecipazione, fiacca anzi fiacchissima che non si può spiegare solo con il progressivo astensionismo che attanaglia la politica. Se questa, infatti, è dato dalla scarsa capacità dei partiti di interpretare le istanze della gente, in un meccanismo di partecipazione diretta come il referendum l’assioma non può reggere.