Disegno di Legge per la riforma della salute, ma intanto si allontana la fine del commissariamento in Calabria

di ERNESTO MANCINI – Il Governo, su proposta del Ministro alla Salute Schillaci, ha presentato in Parlamento un disegno di legge recante nuove disposizioni in materia sanitaria. In tale disegno di legge assume particolare rilievo la nuova disciplina della responsabilità civile e penale dei professionisti sanitari (medici, infermieri, farmacisti ed altri operatori del settore) in caso di malpractice.

In particolare, viene introdotto il principio per cui il medico – ci riferiamo per brevità a questo professionista ma le regole sono comuni anche agli altri professionisti sanitari –risponde della sua condotta limitatamente ai casi in cui ha agito con colpa grave e cioè non per qualsiasi livello di colpa (es.: colpa lieve) ma solo quando la negligenza, l’imprudenza, l’imperizia, o l’inosservanza di normative (leggi, regolamenti, ordini e discipline)  sono inescusabili e perciò qualificano la colpa come colpa grave.

È probabile che il disegno di legge governativo venga approvato stante la corrispondente maggioranza parlamentare.

Responsabilità penale: la disciplina vigente e quella prossima

In effetti nella vigente disciplina penale della colpa medica di cui all’art. 590 sexies del codice penale introdotto dalla legge Gelli Bianco del 2017, non si distingue esplicitamente tra colpa lieve e colpa grave. Tuttavia, il medico risponde per lesioni od omicidio colposo nei casi di negligenza ed imprudenza mentre per l’imperizia non è responsabile se ha comunque applicato le pertinenti linee guida per il caso concreto ovvero, in mancanza di linee guida, abbia attuato le buone pratiche cliniche assistenziali. 

Con il nuovo disegno di legge, non si distinguono più i diversi tipi di colpa: se il medico rispetta le linee guida, sarà responsabile solo per colpa grave mentre andrà assolto per quella non grave (art. 590 sexies).

Al riguardo il nuovo legislatore introduce anche l’articolo 590 septies stabilendo che per l’accertamento della colpa e la sua graduazione il Giudice penale dovrà tenere conto «anche della complessità della patologia, della scarsità delle risorse umane e materiali disponibili, delle eventuali carenze organizzative (quando la scarsità e le carenze non sono evitabili da parte dell’esercente l’attività sanitaria) della mancanza, limitatezza o contraddittorietà delle conoscenze scientifiche sulla patologia o sulla terapia, della concreta disponibilità di terapie adeguate,  dello specifico ruolo svolto in caso di cooperazione multidisciplinare,  della presenza di situazioni di urgenza o emergenza».

Occorre precisare che l’elenco in questione ha natura meramente esemplificativa e non esaustiva, come desumibile dall’impiego dell’avverbio “anche”. Pertanto, il giudice, nell’accertare la sussistenza della colpa e la relativa gravità, potrà prendere in considerazione ulteriori circostanze specifiche riferite al caso concreto.

Responsabilità Civile: la disciplina vigente e quella prossima

Anche nella disciplina vigente della responsabilità civile prevista dalla legge Gelli Bianco del 2017 non viene fatto riferimento alla colpa grave ai fini della sussistenza o meno della responsabilità medica. Lo fa invece, sia pure implicitamente, il nuovo legislatore quando stabilisce che ai fini dell’accertamento e della graduazione della colpa il giudice civile deve tener conto di tutte le situazioni in cui si è svolta l’attività medica (nuovo comma 3 bis dell’art, 7 della legge Gelli Bianco).

Al riguardo, dopo avere richiamato l’art. 2236 del codice civile (di cui si dirà subito) il legislatore riproduce esattamente le stesse circostanze indicate nella norma penale sopra ricordate: complessità della patologia, mancanza o contraddittorietà delle conoscenze scientifiche, ecc. ecc.). Anche il Giudice civile dovrà perciò tenere conto di tali circostanze ai fini dell’accertamento e della graduazione della colpa.

Osservazioni sulla nuova disciplina

Il fondamento della colpa grave nell’ordinamento giuridico

È opportuno evidenziare che tutte le indicazioni introdotte dal nuovo legislatore risultano già racchiuse nel citato art. 2236 del codice civile del 1942, applicabile a qualsiasi prestatore d’opera professionale. Tale norma, con straordinaria ed efficace sintesi, stabilisce infatti che «se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d’opera non risponde dei danni se non in caso di dolo o colpa grave».

L’istituto in parola, peraltro, affonda le proprie radici già nel diritto romano (in particolare medici, architetti, costruttori e altri artifices) ove la limitazione della responsabilità alla culpa lata del prestatore d’opera nel caso di prestazioni particolarmente complesse era già positivamente affermata.

La colpa grave, intesa come specifico livello di colpevolezza, è dunque richiamata espressamente sia dalla nuova disciplina penale sia da quella civile col riferimento all’art. 2236 c.c..

Per completezza, va precisato che il nuovo legislatore non interviene sulla responsabilità amministrativa – che, beninteso, riguarda anche i medici nei confronti dell’ente datore di lavoro – poiché la limitazione alla colpa grave è già da tempo prevista dall’art. 1 della legge n. 20/1994 (c.d. legge Prodi).

L’applicazione della legge più favorevole

L’art 2 comma 4 del codice penale prevede che se vi è successione di leggi nel tempo si applica quella più favorevole al reo. Ne discende, con tutta evidenza, che la norma di maggiore favore prevista dall’attuale disegno di legge inciderà sui procedimenti in corso non appena entrerà in vigore (favor rei). Non inciderà invece sui procedimenti già definiti.

La responsabilità della struttura sanitaria

Non può ritenersi condivisibile la previsione – inizialmente contemplata nel disegno di legge – secondo cui, nell’ipotesi in cui il medico non sia chiamato a rispondere né in sede penale né in sede civile per colpa lieve, neppure la struttura sanitaria di appartenenza sarebbe considerata responsabile (proposta alternativa di integrazione dell’art. 7, comma 3-bis, della legge Gelli-Bianco).

Questa disposizione, inserita in una precedente versione del disegno di legge del Governo ma poi rimossa, va comunque esaminata perché gravemente errata e potrebbe essere reintrodotta durante l’esame parlamentare.

Va detto al riguardo che il danno per lesioni o morte, pur non potendo essere rimproverato penalmente o civilmente al medico alla luce delle nuove norme, può comunque sussistere. Di conseguenza, si deve ritenere che permanga la responsabilità civile della struttura ai fini dell’eventuale risarcimento del danno.

Infatti, l’esonero dalla responsabilità civile della struttura si porrebbe in evidente contrasto con l’art. 28 della Costituzione, che sancisce la responsabilità solidale dello Stato e degli enti pubblici per i danni cagionati dai propri dipendenti. Sarebbe anche in contrasto con l’art. 32 della medesima carta costituzionale, che tutela come diritto fondamentale dell’individuo la salute, il cui ristoro patrimoniale in caso di lesione costituisce forma indiretta di protezione. Insomma, verrebbe minata la stessa fiducia dei cittadini nel servizio sanitario pubblico.

Inoltre, ci sarebbe un contrasto con l’art. 2049 del codice civile secondo il quale «il datore di lavoro risponde delle condotte dannose dei propri dipendenti». La struttura sanitaria, pertanto, sia pubblica che privata deve comunque essere tenuta a risarcire il danno subìto dal paziente. Non va sottaciuta, al riguardo, la disparità di trattamento che si avrebbe con altri datori di lavoro non sanitari che continuerebbero a rispondere della responsabilità dei propri dipendenti qualunque sia il grado di colpa.

Quanto precede consente di affermare che l’esigenza di limitare gli oneri risarcitori, diretti o assicurativi, gravanti sulle strutture sanitarie pubbliche o private ai soli casi di colpa grave non può essere equiparata né posta in bilanciamento con il superiore diritto al risarcimento del danno, a prescindere dal grado della colpa.

Va, infine, notato, per concludere sul punto, che nello stesso comunicato n. 37 del Governo in data 4 settembre u.s. si legge «Viene confermata la responsabilità penale per colpa grave per chi esercita la professione sanitaria, ma non si lede in alcun modo il diritto dei cittadini al giusto risarcimento di danni subiti». E ciò chiarisce in modo definitivo e positivo qual è la volontà del legislatore.

Il rischio professionale e la medicina difensiva

Occorre valutare altri due aspetti tra di loro connessi.

Il primo riguarda la particolare esposizione dei medici e degli altri professionisti sanitari al rischio professionale. Essi «hanno in mano» la salute e, sovente, la vita stessa dei pazienti sicché la disciplina delle loro condotte deve essere rigorosa, come del resto vogliono i loro codici deontologici. È pur vero, d’altra parte, che sono frequenti denunce e contenziosi pur in mancanza di una reale fondatezza delle pretese punitive o risarcitorie. In taluni casi, si tratta di iniziative giudiziarie palesemente temerarie e speculative, che tuttavia provocano al medico – costretto a subirle ingiustamente – rilevanti disagi psicologici ed esistenziali.

Il secondo aspetto, non meno rilevante, concerne il fenomeno della cosiddetta medicina difensiva. Tale prassi, fortemente deleteria, può indurre il professionista a privilegiare scelte diagnostiche o terapeutiche dettate più dal timore di conseguenze legali che dall’evidenza scientifica. Ciò comporta che il paziente possa ricevere cure subottimali, che l’innovazione ed il progresso della medicina vengano rallentati, che si generino costi per esami e procedure non necessarie, che si incida in modo ingiustificato sia sulla finanza pubblica sia sulla capacità economica del singolo paziente quando il servizio pubblico non è tempestivo.

In tale contesto, il nuovo disegno di legge si colloca nel solco già tracciato dalla legge Gelli-Bianco del 2017, rafforzando ulteriormente la tutela dei professionisti sanitari mediante l’introduzione del parametro della cosiddetta colpa grave, quale soglia limite oltre la quale soltanto può ritenersi giustificata ogni pretesa punitiva.

Non si tratta, peraltro, di uno “scudo penale” – come impropriamente definito da alcuni organi di stampa – poiché l’affermazione della responsabilità penale, così come di quella civile e amministrativa, resta comunque dovuta per condotte oggettivamente inaccettabili e gravemente colpose. Non potrebbe essere diversamente.

L’imperizia rispetto alla negligenza ed all’imprudenza.

Suscita qualche perplessità la scelta operata dal nuovo legislatore di eliminare la norma della legge Gelli-Bianco che differenzia il trattamento dell’imperizia rispetto alla negligenza e all’imprudenza. In particolare, la legge Gelli-Bianco considera in astratto meno riprovevole l’imperizia (ad esempio l’errore tecnico) qualora siano state comunque osservate le linee guida o le buone pratiche clinico-assistenziali pertinenti al caso specifico, senza estendere analogo favore ai profili di negligenza e imprudenza. Si tratta di un aspetto che merita un approfondimento. È vero tuttavia  che il codice penale non prevede alcuna gerarchia tra queste forme di colpa generica, rimettendo opportunamente al giudice la valutazione, caso per caso, di quali elementi soggettivi assumano rilievo ai fini della decisione.

Conclusioni (provvisorie)

In attesa del testo definitivo che sarà approvato dal Parlamento – non prevedendosi, salvo eventuali integrazioni, modifiche sostanziali – si può esprimere un giudizio complessivamente positivo sul disegno di legge, a condizione che resti intatto il diritto del cittadino al risarcimento che la struttura sanitaria è comunque tenuta a garantire in caso di accertata “malpractice”, anche se derivante da colpa lieve. Peraltro, i danni, pur se conseguenti a colpa lieve, possono risultare di entità rilevante.

Il promesso legislatore ha sostanzialmente ed opportunamente codificato in un testo specifico per i professionisti sanitari princìpi già esistenti ab immemore nell’ordinamento come “le speciali difficoltà” cui l’attività sanitaria può andare incontro.

Ha, inoltre, scoraggiato la pretesa punitiva penale quando si tratti di colpa lieve in una professione particolarmente esposta a rischio senza con ciò intaccare l’azione civile del cittadino contro la struttura per il dovuto risarcimento del danno subìto anche se da colpa lieve.

Ha comunque salvaguardato la pretesa punitiva penale e risarcitoria civile quando si tratta di condotte assolutamente imperdonabili ed ingiustificate.

Probabilmente analoghe codificazioni andrebbero fatte anche per altre professioni esposte a rilevanti rischi di responsabilità. Meglio ancora sarebbe una disciplina quadro per tutte le professioni con successive norme di dettaglio per le specificità di ognuna ferme restando le tutele del cittadino danneggiato. Ma questo è un problema non semplice poiché inevitabilmente le priorità vengono dettate dalla forza contrattuale e dalla pressione di ciascuna categoria professionale. Nell’attesa ci si deve affidare alla iuris prudentia.  Il legislatore, i sindacati ed i competenti ordini professionali dovrebbero comunque cominciare a pensarci. (em)

E PER MOTIVI “TECNICI”SLITTA  LA FINE DEL COMMISSARIAMENTO

La motivazione ufficiale parla di “motivi tecnici” addotti dal ministra della Salute Orazio Schillaci a proposito della fine del commissariamento della Sanità in Calabria, data per imminente dal Presidente Occhiuto.

È ingiustificabile qualsiasi proposta di rinvio, la Calabria ha bisogno di poter avere una sanità in regola, con un suo assessore e procedure certe sia per  le prestazioni che per le assunzioni e l’organizzazione generale degli intervesti destinati a cura e prevenzione dei calabresi.

La misura è colma: che farà adesso Occhiuto?

Il ministro della Salute Schillaci a Catanzaro
Memorandum delle cose che servono alla Calabria

di GIACINTO NANCI – Le diamo il benvenuto a Catanzaro sig. Ministro della Salute on. Schillaci, la ringraziamo della visita e cogliamo l’occasione di porgerle alcune domande sulla sanità calabrese. Il governatore Occhiuto è stato riconfermato Commissario ad Acta per il piano di rientro sanitario cui è sottoposta la Calabria dal dicembre 2009. Un incarico (che già detiene da oltre tre anni) per riportare la sanità calabrese alla “normalita”. Ricordiamo a tutti noi che la Calabria è sottoposta al piano di rientro sanitario dal dicembre 2009 e, per questo, ha la sua sanità commissariata dal 2011. Inoltre, dal 2019 la Calabria ha commissariate tutte e 5 le sue Asp e i tre ospedali regionali. Ed è per questo che sorge spontanea una domanda: «perché questa ulteriore rinomina a commissario del governatore Occhiuto che governa la Calabria dal 2022, sia come governatore che come commissario alla sanità, dovrebbe portare la sanità calabrese alla “normalita”, se né Lui negli ultimi tre anni né gli altri otto commissari che lo hanno preceduto dal 2011 ci sono riusciti? La prova del fallimento, non solo di Occhiuto, ma di tutti gli altri commissari (e questo deve far pensare perché ad esempio il ponte caduto a Genova è stato ricostruito dal commissario in un anno) è data dal fatto che l’ultimo dato che misura le spese dei calabresi costretti alle cure mediche fuori regione è arrivato alla stratosferica cifra di 308 milioni di euro, e che il numero dei calabresi che evita di curarsi per motivi economici è di quasi il doppio della media italiana. Non le sembra, sig. Ministro Schillaci, che è normale che i calabresi si sentono ancora una volta presi in giro? Come lo si sentono anche per la norma che il suo Governo ha messo nella legge finanziaria 2025 sulla riduzione dell’Irpef, che porterà nelle tasche degli italiani circa 300 euro in più. Ma lo sa, sig. Ministro, che i lavoratori calabresi, con un imponibile lordo di circa 20.000 euro, pagano in più di Irpef ben 428 euro in più rispetto agli altri lavoratori italiani già dal lontano dicembre 2009, a causa dell’imposizione del piano di rientro sanitario, e che un imprenditore calabrese, con un imponibile lordo di un milione di euro, sempre per lo stesso motivo, paga in più ben 10.700 euro? E, poi, noi calabresi paghiamo in più le accise sulla benzina (il tutto per oltre cento milioni all’anno), abbiamo il blocco del turn over in sanità e abbiamo avuti chiusi ben 18 ospedali. Credo che ci sia, quindi, un giusto motivo per sentirsi ancora una volta presi in giro. Noi, quindi, ci permettiamo di suggerire cosa sarebbe giusto fare per i malati calabresi. Prima di tutto, segnalarle il fatto che il piano di rientro sanitario è stata una ingiustizia in quanto, dati dei Centri Pubblici Territoriali (facenti parte del Sistan – Sistema Statistico Nazionale) dicono che la Calabria ha speso dal 2000 al 2018 in media 1612 euro/anno pro capite contro i 2217 della Lombardia, quindi se la Calabria avesse speso pro capite quanto la Lombardia (mai andata in piano di rientro) avrebbe potuto spendere, in quegli anni, oltre 20 miliardi in più per i suoi malati. Sorge, allora, spontanea una domanda come mai alla Calabria, che è stata la terzultima regione per spesa sanitaria pro capite fin dall’anno 2000, è stato imposto il piano di rientro sanitario?

Sig. Ministro, alla Calabria è stato imposto il piano di rientro perché ha da sempre ricevuto, rispetto alle altre regioni, meno fondi pro capite per la sua sanità. Avrebbe, invece, dovuto riceverne molto di più rispetto alle altre regioni perché, tra i suoi abitanti, ha molti malati cronici in più rispetto alle altre regioni. Di questo, sig. Ministro, dovrebbe esserne a conoscenza perché nel suo Ministero c’è il Dca n. 103 del 30 settembre 2015, firmato dall’allora commissario ad acta ing. Scura che, alla pagina 33 dell’allegato n. 1 dello stesso, il commissario scriveva «si segnala la presenza in Calabria di almeno il 10% di malati cronici in più del resto d’Italia». Essendo il decreto fornito di dettagliate tabelle, è stato facile calcolare allora in 287.000 i malati cronici presenti in più in Calabria rispetto al resto d’Italia. Da notare che l’ing. Scura non ha potuto mandare direttamente il Cda al Suo Ministero, ma lo ha dovuto mandare prima al Ministero dell’Economia, che deve valutare “preventivamente” i decreti della Calabria in piano di rientro perché devono essere “votati” più all’economia e al risparmio che non alla salute dei calabresi (della serie tutti non possono non sapere). Quindi, la Calabria è stata ingiustamente sottoposta al piano di rientro perché i pochissimi fondi che ha da sempre ricevuto non potevano bastare per curare i molti malati cronici in più ed ha sforato la spesa sanitaria, nonostante, lo ripetiamo, che la sua è la spesa sanitaria pro capite più bassa delle altre regioni. Ma, per salvare i malati calabresi dai viaggi della speranza e dal fatto che sono in numero altissimo, quelli che evitano di curarsi per motivi economici una cosa si potrebbe fare sig. Ministro Schillaci: applicare in toto il comma 34 dell’art.1 della legge 662 del 1996. Sì, sig. Ministro, applicare semplicemente una “vecchia” legge dello Stato Italiano che prevede il riparto dei fondi sanitari alle regioni in base alla “Epidemiologia”, che vuol dire maggiori fondi dove ci sono più malati cronici come in Calabria. Purtroppo è sempre avvenuto il contrario: pochissimi fondi alla Calabria dove ci sono stati e ci sono, maggiormente adesso, più malati cronici che non nelle altre regioni italiane. Grazie sig. Ministro della sua venuta a Catanzaro, adesso aspettiamo, come malati calabresi, l’applicazione della legge dello Stato che ci potrebbe salvare oltre ovviamente alla immediata chiusura del piano di rientro che tanti danni ha fatto ai malati calabresi e anche a tutta la sua economia. 

(Medico di Famiglia

in pensione ed ex ricercatore Health Search)

OCCHIUTO, SANITÀ IRRISOLTA IN REGIONE
OPPOSIZIONE FIACCA E NUOVI GATTOPARDI

di SANTO GIOFFRÈ  – Al punto nefasto in cui è stata buttata la Calabria, dove il tragicomico è il tratto dominante dell’andazzo, è da pidocchiosi tacere. Partiamo da Occhiuto e dalla sua maggioranza che da 6 anni governa la Calabria. L’ultimo trionfo attraverso cui il Governatore è giunto in quel posto, più che merito suo, è stato per l’inconsistenza di chi diceva di essere, sempre, altro diviso in tre: un coacervo di niente, allegrotti partenopei in weekend nel blu mare calabro, dispersi nel deserto. Una passeggiata per Occhiuto che, da subito, individua nella sanità il facile strumento del buon e redditizio governo del consenso. Chiede e ottiene poteri assoluti, in quel campo, da Draghi, il peggiore governante di tutti perché cinico e bancario. Solo che Occhiuto, quando va a mescere dentro il ritenuto ricco carniere della Sanità calabra, non solo perde il cucchiaio ma ci rimette, pure, il braccio. In Calabria, l’assistenza sanitaria, come servizio da fornire alla gran parte dei Calabresi, non esiste più (Rapporto Gimbe, The Lancet, tele Meloni…).

Nella fornitura dei servizi ai cittadini, però! In altri compartimenti dello stesso settore, il grasso cola ancora. Eccome se cola! Tanto che viene istituita l’Azienda Zero, per regimentare e governate questo grasso, mentre l’osso rimane alle Asp e, contemporaneamente, per accompagnare al meglio le azioni del governo, l’idea e la messa in orbita di un apparato mediatico di diffusione della notizia tale da far apparire i tramonti come radiose Aurore, così care a Eos dalle mani colorate. Tenendo conto che non ci sono più medici, in Calabria, e che non ce ne saranno mai più, a causa dei disastri causati dal Piano di Rientro, mai voluto risolvere, unico caso in Italia, perché risolverlo avrebbe comportato la fine dei ventennali, tranquilli saccheggi di danaro pubblico, stimo io, di ben 3 miliari dal 2000 fin ora, da parte di un protetto sistema criminale che delle dinamiche di quel Piano ne gestisce e controlla le fasi ed ne esercita il dominio assoluto, qualche conto incomincia a non tornare.

D’altronde, fin dal 2009, il Governo, con complicità in loco, ci tratta non come persone, ma alla stregua di numeri. Occhiuto, allora, inizia una serie di manovre di contenimento. La prima, intuendo l’imminente collasso del sistema, che lo esporrebbe a gravi rischi, visto il ruolo preteso e ottenuto, fa arrivare ben 343 medici dalla Repubblica Comunista di Cuba, validissimi Professionisti, lui anti-comunista da sempre, da usare come tampone nelle postazioni più sensibili: PS, emergenza/urgenza a tempo determinato e, cioè, fino alla fine del suo mandato, calmierando, così e momentaneamente, le cose. La seconda cosa, dicevo, è l’Azienda Zero; la terza, la messa in opera di una poderosa campagna, da parte delle Asp, di transazioni, principalmente con BFF, con finalità di pagare i debiti della sanità, senza, però, fare una ricostruzione rigorosa della storia delle fatture, col rischio che il debito, attraverso titoli di riconoscimento del credito, conservati in casseforti o in tasche sicure, possa ripresentarsi negli anni che verranno.

In questa operazione, è stato aiutato dal Governo con una strana legge di contabilità unica in Europa. Dire che su queste cose c’è un’inchiesta della Procura di Milano, in atto, non m’interessa proprio, perché io parlo di politica. Forse, visto il suo prestigio, al suo governo, invece delle favole, avrebbe potuto suggerire, conoscendo lo stato dell’arte e dell’abisso in cui sono precipitati i parametri vitali della Regione, di fare 2+2. Dopo aver dato ben 15 miliardi per un’opera devastante e inutile, il Ponte sullo Stretto, di ritornarci altrettanti miliardi, a noi sottratti tra ruberie e trasferimenti di risorse al Nord per curarci, al fine di poter reperire medici, invogliandoli a venire in Calabria. Parlo, per capirci, delle materie non LEP, quelle che il Nord userà per abbuffarsi di servizi e oltre, con i nostri soldi e che Occhiuto, da vice-presidente di FI, gli ha concesso, mentre ai calabri vendeva la storiella dell’essere il tosto, feroce oppositore di ciò che lui stesso ha concesso al Nord, votando, con cognizione e volontà, la legge sull’Autonomia Differenziata.

Ma non solo… Ad ogni disastro sanitario che accade in Calabria, la potente macchina mediatica, con abilità che va riconosciuta, racconta altro: di aeroporti pieni (e ferrovie abbandonate), di strade favolose, di spettacoli strepitosi di fine anno, di fiere roboanti dove l’agricoltura calabrese, si e no, compete, quasi con i ranchero texani per, poi, ritrovarla in pieno medioevo, di rigassificatori e bombe ecologiche a iosa, di finanziamenti per ogni dove, soprattutto ai consoni, di una Film Commission che tutto fa, meno che promuovere la filmografia paesaggistica calabra, come da statuto.

Solo che, però, la narrazione, di colpo, si è rotta: la gente incomincia a morire per mancanza di medici, posti letto, divisioni ospedaliere, autoambulanze, strade. Certo, bisogna pur dire che gran parte delle responsabilità sono dell’altra parte, la cosiddetta opposizione consiliare, partitica, sociale, che tace sempre, oltre qualche folkloristico, raro sussurro e grida e che ha sempre accompagnato l’agire di Occhiuto, dentro un silenzio ecclesiale.

Addirittura, arrivando a proporre leggi da lui, o dalla sua maggioranza, suggerite. Certo, qualcuno, come l’ottimo Antonio Lo Schiavo, ha cercato, in solitudine, di non essere inutile, portando avanti battaglie che tutti dovevano ed avevano l’obbligo di fare. Ora, all’avvicinarsi del formaggio, rivedo movimenti delle solite facce e faccendieri, piccoli Gattopardi, che pensano che non importa, tanto, perdere è bello. L’importante è che ci siano sempre loro ad auto-garantirsi per continuare a tradire il proprio mandato. Io, a costo di rimanere solo, con mizzicu, non starò zitto e sapete cosa vuol dire il mio non silenzio, per la miseria. (sg)

MANCA LA GIUSTA SANITÀ NEL BASSO JONIO
COSENTINO: LE ISTITUZIONI INTERVENGANO

di ANTONIO LOIACONONell’entroterra del Basso Jonio cosentino, l’anima e il corpo dei cittadini sono affidati a due strutture fondamentali: da un lato, il personale “ecclesiastico” che si prende cura della comunità e che non manca mai nelle proprie “sedi”; dall’altro, “i medici di famiglia” (queste chimere!) che dovrebbe garantire la necessaria assistenza medica in caso di necessità: figure in via di estinzione nei piccoli centri jonici, con conseguenze drammatiche per i residenti.

A Terravecchia, Scala Coeli, Mandatoriccio, Campana, Bocchigliero ed in tante altre piccole realtà, la carenza di medici di famiglia non è soltanto un problema di accesso alle cure primarie, ma influisce pesantemente anche sul sistema di emergenza. I pronto soccorso delle strutture ospedaliere, già oberati dalla mancanza di personale e risorse, diventano la prima e spesso unica opzione per molti cittadini, costretti a rivolgersi a essi anche per problemi che potrebbero essere gestiti in modo più appropriato da un medico di famiglia. Questo sovraccarico contribuisce a congestionare ulteriormente le strutture ospedaliere, mettendo a repentaglio la qualità delle cure per tutti i pazienti.

Una delle sfide più pressanti per i cittadini di questa area è la difficoltà nel trovare un medico di famiglia. L’accesso a una figura medica di riferimento dovrebbe essere un diritto fondamentale, ma per molti abitanti dei comuni dell’entroterra diventa un’impresa ardua. Trovare un medico disponibile a visitare e prescrivere cure diventa un vero e proprio calvario, costringendo le persone a rivolgersi al proprio medico, attraverso le “chat sanitarie”: “Che farmaco devo prendere, dottò? Mi mandate la ricetta? “. Queste risorse digitali non possono e non devono sostituire l’attenzione e la competenza di un medico “in carne ed ossa”! Spesso, i pazienti, sono lasciati senza risposte adeguate alle loro necessità mediche che dovrebbero, invece, essere risolte “de visu”.

Anche le postazioni di guardia medica, seppur cruciali per garantire assistenza notturna, non sono esenti da problemi. La loro presenza non è uniforme tra i comuni dell’entroterra, lasciando molte aree prive di un punto di riferimento per le emergenze notturne. Anche quando sono presenti, queste postazioni possono essere sottodimensionate o mal equipaggiate, rendendo difficile garantire un servizio adeguato a chi ne ha bisogno.

In definitiva, la situazione sanitaria nell’entroterra del Basso Jonio cosentino è critica e richiede interventi urgenti da parte delle autorità competenti. È necessario investire nelle risorse umane e strutturali per garantire un accesso equo e adeguato alle cure mediche di base, così da evitare che i cittadini debbano continuare a lottare per ottenere assistenza sanitaria essenziale. 

Una possibile soluzione potrebbe essere l’implementazione di iniziative volte a incentivare i medici e gli operatori sanitari a stabilirsi in queste aree, magari offrendo incentivi o agevolazioni fiscali. È importante rendere queste zone più attrattive per i professionisti della salute, in modo che possano offrire cure adeguate e continuative alla popolazione locale.

Le istituzioni locali e regionali devono collaborare attivamente con le comunità e i professionisti della salute per identificare soluzioni su misura ed affrontare le sfide specifiche di queste aree. È necessario un approccio olistico che tenga conto delle esigenze specifiche della popolazione locale e che promuova la partecipazione attiva dei cittadini nella pianificazione e nell’implementazione di nuove strategie sanitarie: è importante sensibilizzare l’opinione pubblica e promuovere una maggiore consapevolezza riguardo alle sfide e alle necessità del sistema sanitario in queste aree. 

Questa situazione non solo è fonte di frustrazione per i residenti, ma rappresenta anche un rischio per la salute pubblica. La difficoltà nel ricevere cure mediche tempestive e adeguate potrebbe portare a gravi conseguenze per i pazienti, compromettendo la qualità della vita e l’efficacia del sistema sanitario locale.

È evidente che sia necessario un intervento urgente per migliorare l’accesso ai servizi sanitari in questi comuni dell’entroterra. La mancanza di medici di famiglia e di risorse nelle strutture sanitarie locali rappresenta una sfida che richiede l’attenzione delle autorità competenti e un impegno concreto per garantire a tutti i cittadini un accesso equo e tempestivo alle cure mediche di base.

Affrontare questa emergenza sanitaria, richiederà un impegno congiunto da parte delle autorità locali, regionali e nazionali, così come una stretta collaborazione tra istituzioni sanitarie, associazioni professionali e comunità locali. Un approccio integrato e cooperativo consentirà di superare queste sfide: è tempo di agire con determinazione per porre fine a questa storia annosa e dannosa e assicurare un futuro più sicuro e salutare per le nostre comunità. (al)

 

SANITÀ CALABRIA, IL CAMBIO DI ROTTA
PORTA LA FIRMA DELLA PETROPULACOS

di ETTORE JORIO  – Ricordo due eventi che mi fecero capire, ridendo a crepapelle, lo strumentale disinteresse verso l’avversario in senso lato, canzonandolo, ritenuto non degno di considerazione. Uno, ricorrendo ad accorgimenti dialettici ricchi di simpatia e, l’altro, della migliore satira politica.

Il primo fu in una commedia di Gilberto Govi ove il grande maestro della commedia ligure, dovendo dare pochissima importanza alle cose dette da uno dei suoi interlocutori, rivolgendosi agli altri, diceva (più o meno) “cusch’è una musca” (chiedo venia della certo errata scrittura della lingua genovese). Parificando così il contenuto dell’ascolto al ronzio di una mosca.

Il secondo era invece rintracciabile su L’Unità da Mauro Melloni, meglio conosciuto con lo pseudonimo di Fortebraccio, lo stesso che descrisse Mario Tanassi come dotato di una «fronte inutilmente spaziosa». Il quale sotto intendendo anche in questo caso l’inutilità politica del personaggio scrisse, nell’approssimarsi di una importante riunione a Palazzo Chigi, «Si aprì la portiera dell’auto. Non scese nessuno. Era Antonio Cariglia», un segretario nazionale del partito socialdemocratico che in pochi invero ricordano.

Due mondi diversi, due modi altrettanto differenti per sminuire. Un vezzo che in politica è molto frequente, per sottrarre le capacità altrui: boys will be boys (so’ ragazzi!), dedicato sarcasticamente a chi non predilige cose intelligenti, prioritariamente i saperi che fanno la differenza tra le regole e la convenienza politica.

Ciò avviene solitamente per due motivi: 1) per non dare peso alle cose importanti ritenute impunemente “stupidaggini” perché impegnative, pur di acquisire un immediato e spesso immeritato guadagno politico; 2) per sminuire tutto ciò che è davvero utile a costruire “un mondo nuovo” ma con fatica e impegno. Tutto ciò allo scopo di rimanere in piedi senza sudore e spesso senza meriti, ma soprattutto con il lavoro degli altri. Vittima di questo è la Nazione, che paga l’assurdo che governa, nonostante i frequenti riferimenti ad essa con una errata sinonimia a Paese. Da qui, il PNRR che c’è ma non si vede!

Una politica dalla peggiore espressione

Eh già, perché la politica (tutta) ha assunto brutti vizi, tra uno sparo ad una gamba durante una festa tra “amici” e i domiciliari imposti ad un cognato di un ministro: privilegia la promessa sui risultati; predilige il rumore al prodotto; vende l’oggi vergognoso, esaltandolo cinicamente, piuttosto che realizzare il domani accettabile.

Una brutta cosa, questa, una volta di moda solo nei Paesi sudamericani, ove i leader senza ideologia ovvero distorta privilegiavano ostentare gradi militari a chilogrammi, auto conferiti, trascurando la cultura governativa solidaristica. Ciò avveniva nonostante la esemplare semplicità delle grandi istanze rivoluzionarie del Che, eroe non solo di quelle parti ma del mondo intero.

A ben vedere quello esposto oggi è un quadretto desolante, ove in primo piano c’è una politica dai toni spesso deliranti e autopromozionali, con sullo sfondo, di frequente neppure inquadrata dall’obiettivo, la burocrazia più servile. Quella di solito arrivata all’apice spesso in forza di maliziosi progetti ovvero di storie che sanno di ben oltre l’infecondo. Ebbene di questi mali (gravissimi) è contaminata la società politica nazionale, così come ben descritto nel libro di un anonimo Io sono il potere. Confessioni di un Capo gabinetto.

Tutto questo è funzionale alla concretizzazione di “matrimoni impropri” tra ceto politico e dirigenza, nonostante ben distinti legislativamente nell’esercizio dei rispettivi compiti: indirizzo, programmazione e controllo su gli atti, il primo; adozione degli atti, gestione ed esecuzione, la seconda.

La debolezza della cultura di governo del Mezzogiorno e la sanità in Calabria

Il peggio di tutto si è registrato nelle regioni più deboli, rimaste tali perché vittima di un siffatto orrendo compromesso, con ricadute pesanti sulla esigibilità dei diritti essenziali.

In Calabria tanto, ove tuttavia pare che qualcosa stia cambiando, con una sanità che impone opzioni sensate e scelte virtuose, dopo tante fatte malissimo. È cessata, ci si augura ultimamente, la stagione della esaltazione dei gringos dalle competenze inesistenti, peraltro già compromessi e facili da compromettere in senso lato.

Sembra che sia iniziata una correzione di quella rotta che impedì ai bravi di rimanere ivi a lottare per l’interesse collettivo. È capitato, pensando alla sanità che non c’è ma che sarebbe dovuta esserci, con Francesco Bevere, messo in condizione di scappare altrove per una infima guerra assunta contro di lui da un decisore che nemmeno in Uganda. Una decisione dissennata che buttò a mare una scelta oculata della compianta Iole Santelli, che fece di tutto per convincerlo a venire a lavorare nella Calabria impossibile.

Con la sanità non si gioca, fare scelte sbagliate nell’affidamento dei ruoli fondamentali significa portare le persone a vivere in un girone dell’inferno, così come avvenuto da sempre. Specie quando si suppone di copiare ivi persino gli errori organizzativi delle altre Regioni, del tipo l’istituzione di Azienda zero, non solo inutile ma dannosa per l’autonomia delle aziende della salute, delle quali tante lasciate in mani inadeguate.

La tutela dell’interesse pubblico attraverso la qualità e non l’appartenenza

I bravi manager vanno ricercati con il lanternino, diffidando dai “mi manda Picone” troppo frequenti nel sistema della salute, tormentato dal pressapochismo di Agenas e dai Tavoli romani che vivono di “disattenzioni” strumentali,  favorevoli a taluni, e di cronici dispetti destinati ad altri.

Allorquando capita di convincere i fuoriclasse a venire in Calabria occorre fare dedicare loro tutti i giorni la banda del consenso e non mettere i bastoni tra le ruote, così come avvenuto con il bravo Bevere. Soprattutto non svuotando il Dipartimento delle professionalità migliori, senza capirne un perché intelligente.

La paura, meglio il sospetto, è che la stessa cosa (se non peggio!) stia avvenendo nei riguardi di Licia Petropulacos, estranea la centrodestra, che tutti noi calabresi dovremmo ringraziare. Scelta da Roberto Occhiuto, esclusivamente per i grandi meriti dimostrati in Emilia-Romagna, ha accettato di combattere, di svolgere il ruolo della “resistenza partigiana” contro il cinico invasore stabilmente insediato da decenni nella sanità regionale.

Quella sanità, condotta da oltre vent’anni all’insegna del malaffare e delle connivenze, la cui contabilità è lasciata da sempre in mani persino di inconsapevoli delle differenze che ci siano tra il criterio di cassa e quello della competenza (così come di recente sottolineato, nel concreto, dalla Corte dei conti nella procedura aperta con l’AO Mater Domini), cui la dirigente greco-emiliana romagnola potrà dare tanto, anche in termini di acculturamento della burocrazia sulla disciplina sul bilancio.

A chi preferisce non pensare al male che produce da decenni ai calabresi, sarebbe da consigliare la lettura di un manuale di civiltà politico-dirigenziale, di recente citato in un articolo dal pensiero politico sempreverde di Agazio Loiero, il suo titolo è La conoscenza e i suoi nemici, l’autore è Tom Nichols, edito dalla Luiss nel 2017, nella traduzione arguta della brava cosentina Chiara Veltri. In particolare, per imparare una strada più giusta, la conclusione nella parte in cui si afferma che “Gli esperti sono terribili”, ovviamente perché sanno di cosa parlano!

Insomma, occorre un immediato rimedio a quanto avviene a discapito della povera gente che non sa neppure cosa siano i Lea, perché messi all’angolo del ring ove i diritti finiscono da decenni al tappeto con il peggiore dei kappaò. (ej)

SANITÀ, PROPOSTA ANCORA UNA PROROGA
PER IL COMMISSARIAMENTO DI OCCHIUTO

L’ipotesi di una ulteriore proroga del commissariamento della sanità in Calabria, affidato al Presidente Roberto Occhiuto proposta con un emendamento dal sen. Claudio Lotito potrebbe diventare un autogol, per restare in ambito di calcio (visto che Lotito è il patron della Lazio). Per una serie di ragioni: da un lato – apparentemente – si potrebbe interpretare come un consenso al lavoro fin qui svolto (e quindi è necessaria una proroga), dall’altro può significare che la politica si arrende all’ineluttabilità di una sanità “commissariata” sine die in Calabria. E se così fosse, non sarebbe una buona notizia per i calabresi che hanno diritto – dopo anni di illusioni e imperdonabili trascuranze – a una sanità degna di quasto nome. Pur avendo fior di professionisti nel campo medico-ospedaliero e di specialisti sparsi tra università e centri privati, la salute dei calabresi non gode di “buona salute” perché una volta mancano gli strumenti (o sono obsoleti e non sono mai entrati in funzione), un’altra volta mancano i farmaci, le attrezzature, i dispositivi, etc. Così non può continuare, anche se – per la verità – l’impegno del Presidente è lodevole quanto gravoso.

Nei giorni scorsi, la consigliera regionale Amalia Bruni (ricercatrice ed ex direttrice dell’Istituto di Neurogenetica di Lamezia Terme) ha ricordato le sue tante sollecitazioni (già durante la campagna elettorale di due anni fa) perché del debito sanitario calabrese se ne facesse carico l’Esecutivo («serve un patto forte con il Governo. Il commissariamento ha prodotto danni. Sul debito prodotto dai commissari non possono rispondere i calabresi, se ne deve occupare il Governo», e lo ha ribadito:  «Bisognava quantizzare il debito e d’accordo col governo nazionale stabilire la parte da pagare che spettava ai calabresi, mentre il resto accumulato in quetsi anni di gestione commissariale sarabbe stato a carico dello Stato».

Adesso, i consiglieri dem di Palazzo Campanella stigmatizzano ancor di più la situazione in una nota abbastanza “feroce”: « Mentre il ministro Schillaci osannava in Cittadella il nuovo corso della sanità calabrese capace di poter conquistare a breve l’uscita dal commissariamento, il presidente della Lazio e senatore di Forza Italia Claudio Lotito depositava un emendamento con l’approvazione del quale si arriverebbe alla proroga di un altro anno del decreto Calabria. E seppure anche Lotito ha sottolineato presunti progressi fatti nella gestione della sanità calabrese, di fatto si prosegue con una legge emergenziale ad hoc che significa esattamente il contrario dell’uscita dal commissariamento e la necessità per la Calabria di essere ancora sotto la supervisione del governo centrale. In buona sostanza Roberto Occhiuto, che pure ha ottenuto i poteri di Commissario ad acta per il piano di rientro dal debito sanitario, che erano mancati ai suoi predecessori, ha fin qui fallito. Per la maggioranza di centrodestra, evidentemente, permane ancora l’incapacità della Regione Calabria e del commissario Occhiuto di legiferare in materia».

Secondo i consiglieri del gruppo regionale dem, «Le notizie apprese a mezzo stampa evidenziano come il senatore Lotito, incaricato dalla Calabria e dal collega di partito Occhiuto, arriva in soccorso con un emendamento che per l’intero 2024 prevede la proroga delle leggi speciali ed emergenziali per la Calabria. E seppure potrebbe esserci anche qualche risvolto positivo da questa proroga, è chiaro che nessun progresso è stato fatto fin qui e che ci troviamo davanti alla situazione di sempre: bocciatura per la sanità calabrese, perché la proroga del decreto riconsegna ad Occhiuto poteri speciali allungando i tempi del commissariamento perché fin qui, è evidente, il governatore non è stato in grado di rispettare il cronoprogramma per fare uscire la Calabria dalla gestione commissariale«.

Detto in altri termini – spiegano ancora i consiglieri dem – «è Occhiuto che non ha fatto “i compiti a casa” e per tramite di Lotito fa chiedere al governo un altro anno di decreto Calabria.  Nell’emendamento si legge che la situazione dei Lea non è gestibile dalla Calabria, che l’erogazione dei servizi minimi è in alto mare e che, soprattutto, le Aziende sanitarie ed Aziende ospedaliere possono continuare ad essere governate da commissari senza dover attingere dalle graduatorie per direttori generali. Se non è una bocciatura politica e generale della gestione della sanità calabrese questa, davvero non sapremmo come altro interpretare l’emendamento Lotito. E vi è pure di più: l’ammissione di un gravissimo errore per quanto riguarda l’impignorabilità per Asp e Aziende ospedaliere sommerse dai debiti. Pesantemente ripresi anche dall’Unione europea – conclude la nota del gruppo del Pd – governo centrale e regionale altro non hanno potuto fare che correggere ed eliminare l’impignorabilità “fraudolenta” fin qui mantenuta in vita per le  Asp. A conti fatti l’emendamento Lotito, utilizzando termini calcistici a lui cari, è un “gol a porta vuota” per l’allungamento sine die del commissariamento della sanità calabrese».

Dal canto suo, il Presidente Occhiuto sbandiera come un grande successo il maxi bando di concorso per la selezione di 263 medici da destinare all’area dell’emergenza di urgenza intra ed extra ospedaliera in tutte le aziende sanitarie e ospedaliere della Calabria: per la prima volta in Calabria – a quanto pare – ci sono più domande che posti a disposizione (i concorsi prima andavano quasi deserti). In effetti, sono pervenute 443 domande, a dimostrazione della forte attrattività del bando e della capacità del territorio – dice Occhiuto – e della sanità calabrese di richiamare l’attenzione di tanti giovani medici, abituati oggi a percorsi lavorativi troppo incerti, e pertanto alla ricerca di contratti stabili.

Secondo il Presidnete Occhiuto, il successo del concorso – uno die più grandi del Paese – è anche merito della chiarezza del percorso del bando», le cui prove indizieranno tra una ventina di giorni.  Sono disponibili 53 posti per anestesisti (90 le domande pervenute), 1 posto in neuro radiologia (12 domande pervenute), 9 in cardiologia (77 domande pervenute), 39 in ortopedia (24 domande), 16 in neurologia pe ril trattamento degli ictus (41), 145 per medicina d’urgenza (189). (rrm)

LA SANITÀ MALATA: I TAGLI DEL GOVERNO
PENALIZZANO ANCORA DI PIÙ I CALABRESI

di MIMMO NUNNARISe nasci in provincia di Treviso la speranza di vita è 84,1 anni, se nasci in provincia di Crotone devi accontentarti di 80,8 anni, e poco cambia nelle altre province calabresi, o a Messina ed Enna, in Sicilia, dove la speranza è vivere qualche mese in più rispetto ai calabresi, per arrivare a 81 anni tondi. E’ chiaro che sono statistiche tanto poi, in ogni angolo del mondo, c’è chi arriva a cent’anni con tutti i denti sani e c’è chi muore giovane, pure negli Stati o nelle città metropoli dove ci sono presidi sanitari all’avanguardia e in grado di fare diagnosi precise, garantendo le migliori terapie possibili, per curarsi.

Questa è la vita e vivere, o morire, non dipende certo da noi. Ma dietro quei circa quattro anni di vita persi tra Treviso e Crotone, tra il Nord e il Sud, c’è la questione grave è intollerabile della disuguaglianza nella sanità, che non è come l’Alta velocità ferroviaria, o l’Autostrada, o l’economia, perché nella sanità la differenza è tra la vita o la morte, piuttosto che nell’arrivare prima o dopo viaggiando su una ferrovia moderna, che anche quello è comunque un divario intollerabile.

A incidere sull’aspettativa di vita, e non poco, è  il servizio sanitario nettamente più carente a Sud, dove, pure, l’alimentazione e il clima giocano a favore della longevità, che poi è invece minacciata dalla disuguaglianza. Il tema sanità in questi giorni è sotto la lente d’ingrandimento della politica, o almeno di quel che resta di questa lente, dato che ormai si guarda di più a cose futili, perdendo tempo prezioso in conflitti e litigi. Il Governo – chiaramente in affanno – taglia i fondi per la Sanità, quando invece ci sarebbe bisogno di maggiori risorse, quantomeno per poter raggiungere gli stessi livelli d’investimento dei maggiori paesi europei, e per aumentare gli stipendi di medici e infermieri, che ormai scappano verso il privato o all’estero.

Quel galantuomo del presidente della Repubblica Sergio Mattarella che le cose le percepisce come farebbe un buon padre di famiglia ha avvertito: «Il servizio sanitario del nostro Paese è un patrimonio prezioso da difendere e adeguare». Cioè, altro che tagli. C’è da difendere un servizio che è assolutamente insostituibile e prezioso, per la salute pubblica e quella di ognuno di noi. Fondato nel 1978, con ministro della Sanità Tina Anselmi (prima donna ad essere nominata ministro in Italia) è diventato in pochi anni uno dei migliori sistemi al mondo,  in grado di assicurare un eccellente livello di assistenza sanitaria per tutti, ricchi e poveri. Ma questo servizio, in questi ultimi anni, ha subito un lento ma continuo declino, a cui non è estraneo il passaggio di molte competenze dallo Stato alle Regioni, che in alcuni casi lo hanno massacrato. Ora i tempi sono quelli che sono e la situazione è quella che è.

Il Governo, che ancora ha molte competenze in materia di sanità e soprattutto il compito di vigilare, non sembra all’altezza della situazione, che è grave, soprattutto nella Regioni del Sud, Calabria in primo piano: regione dove spese inutili e corruzione hanno compiuto danni irreversibili. Ma quali che siano le responsabilità, sullo scempio della Sanità e sui colpevoli, che non è che è emerso molto in verità, neppure dalle poche, timide, inchieste giudiziarie che ci sono state, c’è poco da scherzare, o continuare a sottacere sulla qualità e sui livelli essenziali di assistenza che sono un diritto dei cittadini, e sono quelli che provocano la differenza insopportabile sull’aspettativa di vita differenziata tra Nord e Sud.

Qualcuno ha fatto una battuta, dicendo che percorrendo l’autostrada da Nord a Sud, tracciata dagli ultimi dati Istat sulla sanità pubblica, si vede che anche sul tema della salute ci sono ritardi e si viaggia a due o più velocità. E se il premio Nobel 2015 per l’economia Angus Deaton, dice da sempre che la disuguaglianza nella sanità è la più intollerabile e avverte: «La vita di molte persone messe ai margini sta cadendo a pezzi, dobbiamo agire», l’Oms (l’Organizzazione mondiale per la Sanità) fa sapere: «Le disuguaglianze uccidono, su larga scala» e sarebbe un crimine non agire, per eliminare le disuguaglianze.

Ergo, in regioni come la Calabria che si trova agli ultimi posti della graduatoria in quanto a qualità e offerta chi ha il dovere di fare e non fa, commette un crimine. L’impressione è che non ci sia consapevolezza sul grave possibile disastro che è alle porte, e mentre si lavora (in Calabria) sulle macerie del recente passato, si stenta a comprendere che serve un intervento rivoluzionario capace di sottrarre intanto la Sanità al sistema corruttivo e alle burocrazie parassitarie. Servono interventi agili e rapidi, serve attenzione e gratitudine a medici e personale sanitario, ma soprattutto serve controllo rigoroso nella regione delle doppie fatturazioni e dei bilanci scritti su pizzini di carta, come nelle vecchie botteghe di alimentari di un tempo.

Forse il presidente della Giunta regionale Roberto Occhiuto ce la sta mettendo tutta, forse l’opposizione in Consiglio regionale qualche idea ce l’ha, di sicuro associazione volontarie, come Comunità competente presieduta da Rubens  Curia, stanno offrendo contributi fondamentali, sarebbe il caso dunque che si facesse fronte comune perché il sogno di una sanità uguale, efficace, efficiente, possa diventare realtà. Sarebbe il primo passo verso il cambiamento, nella regione che sembra abbia un destino pessimo, irreversibile, al quale però non ci si può, e non ci si deve, rassegnare. (mnu)

SOS INFERMIERI: ANCHE LORO SCAPPANO
DALLA CALABRIA PER CONDIZIONI MIGLIORI

di ANTONIETTA MARIA STRATI – Sos infermieri. In Calabria, ma come in tutta Italia, non c’è solo una grave mancanza di medici. Mancano, anche, gli infermieri.

Quella dell’infermiere, infatti, è una figura fondamentale che, purtroppo, spesso viene messa in secondo piano, non valorizzando davvero l’importante e fondamentale lavoro che svolge all’interno delle strutture ospedaliere.

Infatti, come fuggono i medici dall’Italia, lo fanno anche gli infermieri. Come riportato nel mese di agosto da LaCNews, ci sono circa 500 professionisti che, negli ultimi tre mesi, hanno chiesto di essere trasferiti  Arabia Saudita, Emirati Arabi e Qatar. Tra questi, ci sono tanti medici e infermieri calabresi che cercano un futuro migliore, attrattati, come la maggior parte, dagli stipendi d’oro e dai benefit previsti.

I Paesi del Golfo – sembrerà assurdo – hanno una grave carenza di medici. Come spiegato da Foad Aodi, presidente Amsi e componente della Commissione Salute globale della Federazione degli Ordini dei medici e degli odontoiatri, «hanno pochi laureati in medicina perché i ragazzi preferiscono optare per facoltà economiche o tecnologiche. Il 90% dei laureati dei paesi del Golfo Persico arriva dalla Palestina, Egitto, Siria, Giordania e Marocco. Ma non bastano».

Sembra di leggere della Calabria, ma in realtà si tratta di un Paese avanzato, che offre stipendi e una vita dignitosa.

Un fenomeno, quello della fuga dei medici, che per Aodi non va trascurato: «Da una parte incrementa la fuga all’estero dei professionisti della sanità italiani alla ricerca di valorizzazione, salari alti, serenità, esperienze all’estero sia professionale che di vita (la media della permanenza è di 4 anni). Contestualmente peggiora la situazione della carenza dei professionisti della sanità in Italia, in particolare la sanità pubblica (visto che la maggioranza dei professionisti disponibili sono nel pubblico e dalla Lombardia, Veneto, Lazio, Emilia-Romagna, Piemonte, Sardegna e Sicilia e Calabria)».

Stefano Sisinni, responsabile  regionale del sindacato di categoria Nursing Up, sempre nel mese di agosto denunciava le condizioni i lavoro ormai insostenibili degli operatori sanitari della provincia di Cosenza.

Intervistato sempre dalla giornalista Mariassunta Veneziano di LaCNews, Sisinni parlava di una situazione drammatica, della mancanza di confronto col presidente della Regione e commissario ad acta, Roberto Occhiuto.

A lui sono stati chiesti e sollecitati incontri, ma nulla da fare.

«Il contratto nazionale – ha spiegato – prevede un’indennità per chi lavora nell’area dell’emergenza-urgenza: si tratta di una quota minima, 40 euro. Da marzo era stata prevista la possibilità di incrementarla demandando la cosa alle Regioni, alle quali sono state destinate delle risorse: per la Calabria 1. 153. 000 euro».

«Il 7 marzo scorso ho mandato una pec – ha detto ancora – chiedendo la convocazione di un tavolo per discutere di queste indennità, ma non ho avuto risposta. A maggio ho sollecitato, anche stavolta niente. Bastava chiamare a raccolta i sindacati e vedere come distribuire queste risorse. Dai nostri pronto soccorso stanno scappando tutti, per una volta che c’era un incentivo non è stato neanche preso in considerazione, l’attenzione è nulla. Ho chiesto anche un incontro a Occhiuto per parlare della situazione sanitaria calabrese in generale: era il 3 luglio, ancora sto aspettando una risposta».

Anche Sisinni parla della fuga degli infermieri, che «già decennio stanno scappando dal pubblico e vanno all’estero. Noi in Italia formiano quelli più preparati d’Europa, sono ricercatissimi, così altri Paesi – come Germania, Regno Unito e Svizzera – mettono sul piatto offerte molto più appetibili delle nostre. Il problema è generalizzato: o si mettono più risorse o il sistema salta».

«Lo abbiamo già visto con la fuga dei medici – ha detto ancora – con gli infermieri sta succedendo la stessa cosa. Dal pubblico scappano tutti e il privato, dal canto suo, logicamente ne approfitta, offrendo condizioni lavorative ed economiche migliori: gli infermieri vanno lì perché guadagnano di più e rischiano di meno, dato che non lavorano sull’emergenza».

Una situazione insostenibile, tanto da spingere il sindacato Nursing Up a suggerire al Governo quelle manovre affinché infermieri, ostetriche e altri professionisti del settore vengano valorizzati in maniera adeguata.

«Siamo decisamente stanchi di applausi e di elogi, se poi, seppur stremati dalla fatica, su quel podio di fatto, noi non ci saliamo mai, perché ci chiedono di accontentarci di una medaglia di legno che non ha alcun valore», ha detto Antonio De Palma, presidente nazionale del Nursing Up.

«Il Ministro della Salute Schillaci pensa bene, di chiedere al Governo lo stanziamento di 4 miliardi per ricreare attrattiva nella sanità italiana – ha ricordato – mentre siamo all’acme del calo degli iscritti ai test di infermieristica (storicamente non abbiamo mai toccato e superato il -10% di calo per infermieristica, mentre ostetricia è arrivata al -20%)), con una professione con sempre meno appeal agli occhi della collettività».

«Come se non bastasse – ha aggiunto – le nostre eccellenze fuggono all’estero in paesi come gli Emirati Arabi che offrono anche stipendi base di 5mila euro, oltre tutto esentasse, con assicurazioni sanitarie e addirittura alloggi pagati. E ancora i nostri operatori sanitari si dimettono volontariamente dalla sanità pubblica o decidono, nella migliore della ipotesi, di tornare a lavorare, laddove è possibile, fuggendo dalle città del Nord, in quei paesi di origine del Sud dove, poco più di 1400 euro al mese, sono sufficienti a sopravvivere ma non certo ad andare avanti dignitosamente».

«Lo stesso Schillaci annuncia l’accordo imminente per portare in Italia infermieri indiani e coprire così la falla strutturale di 65-80mila unità di professionisti (quando ne servirebbero almeno 100mila per avvicinarsi agli standard minimi degli altri paesi europei)», ha detto ancora De Palma, aggiungendo che «qui quattro domande sorgono legittime: chi garantisce ai cittadini, da parte dei colleghi indiani, con tutto il rispetto, la qualità delle attività sanitarie frutto del medesimo percorso di studi o almeno vicino a quello dei nostri professionisti, oltre che il dover fare i conti con il deficit linguistico di difficilmente parlano in italiano?».

«Quale reale considerazione politica, sulla professione e sulla professionalità infermieristica esiste in Italia?», ha chiesto De Palma, domandandosi se «ha provato, per caso, il Ministro Schillaci, a proporre , per coprire la carenza di alcuni specialisti medici, la medesima soluzione ideata per gli infermieri, con professionisti indiani ad esempio? Ha immaginato quale sarebbe la reazione delle istanze rappresentative del mondo medico?».

«Non accada, come in passato – ha tuonato – come tra le nebbie di un triste film già visto e rivisto, che agli infermieri arrivino le briciole di quelle risorse che la nostra politica destina alla sanità».

«Insomma, plauso per tutti i tipi di miglioramento possibili – ha detto – a qualunque professionista destinati, ma sarebbe tempo di arginare “antichi e pericolosi” squilibri economici e disparità nel mondo delle professioni sanitarie, come quelli tra dirigenza medica e tutti gli altri professionisti, considerati da troppo tempo fanalino di coda. Giovi solo ricordare che, in pieno periodo Covid, i primi hanno chiesto e ottenuto un cospicuo aumento della loro indennità di esclusività pari al  27%, cosa di non poco conto».

Da qui, infine, le proposte al ministro Schillaci, che chiedono un aumento del valore orario della paga base degli infermieri e professionisti sanitari ex legge 43/2006 e sua detassazione; aumento del valore orario del lavoro straordinario dei professionisti dell’assistenza, e sua detassazione; aumento dell’indennità di specificità infermieristica, partendo almeno dal raddoppio di quella esistente, e sua estensione alle ostetriche.

Individuazione di un congedo ordinario di professionalità, finalizzato all’indispensabile ristoro psico fisico di infermieri ed ostetriche. Si tratta di un periodo aggiuntivo di assenza dal servizio per quelle professionalità su cui ricadono elevate responsabilità assistenziali; riconoscimento di una indennità mensile ai giovani che intraprendono percorsi universitari caratterizzati da attività di studio e tirocinio in ambito assistenziale.

Un punto di inizio che, sicuramente, potranno contribuire a fermare questa emorragia di professionisti – quali sono i medici, gli infermieri, le ostriche e tutti coloro che fanno parte di questo settore – che fuggono per cercare una vita migliore. (ams)

LA CALABRIA L’ETERNA COMMISSARIATA
TRA I LEA INSUFFICIENTI E MENO DIRITTI

di GIACINTO NANCIIl Governo ha reso noti nei giorni scorsi i dati del monitoraggio dei Lea (Livelli Essenziali di Assistenza). I Lea sono calcolati con degli indicatori di qualità dell’assistenza sanitaria nelle varie regioni e si quantificano con un punteggio. Ebbene la Calabria è la sola regione (insieme alla Valle D’Aosta che però lo è per la prima volta) che continua ad essere insufficiente in tutte e tre le macroaree Lea (Distrettuale, Prevenzione e Ospedaliera) con un punteggio inferiore a 60, quello della sufficienza.

Ebbene come è possibile non chiedersi, da parte dei politici, degli amministratori, dei sindacati medici, del ministro della salute, come mai, dopo 14 anni di commissariamento e di piano di rientro sanitario cui è sottoposta la Calabria, la condizione della sanità calabrese è ancora così disastrosa?

Tra l’altro la Calabria ha com Dmissariate da ormai 4 anni tutte e 5 le sue Aziende Sanitarie e i tre maggiori ospedali regionali. Il commissariamento per definizione è un intervento EI LIV efficienza e di breve durata per cui o gli innumerevoli commissari mandati in Calabria sono stati tutti degli incompetenti (e non ci pare il caso) oppure c’è qualche altro motivo per il quale dopo 14 anni di pluricommissariamento siamo ancora con tutti i Lea sempre insufficienti che tradotto in soldoni vuol dire che in Calabria l’aspettativa di vita in questi ultimi anni, per la prima volta nella sua storia, invece di aumentare e diminuita e un bambino che nasce oggi in Calabria vivrà sicuramente meno dei suoi genitori.

È questa è una cosa molto grave che dovrebbe indurre tutti i citati interlocutori a farsi la giusta domanda. La cosa ancora più grave è che tutti gli interlocutori sopra citati conoscono il motivo per cui i Lea sono e saranno insufficienti. Il motivo è che la Calabria è la regione che ha il suo sistema sanitario gravemente sotto finanziato fin dal 1996 anno di introduzione del nuovo sistema di riparto dei fondi sanitari alle regioni. Anzi è stato proprio l’effetto di questo sotto finanziamento che ha messo in ginocchio la sanità calabrese tanto che nel dicembre 2009 a causa di un suo presunto deficit sanitario (leggi conseguenza del grave sottofinanziamento) alla Calabria è stato imposto il piano di rientro sanitario e il commissariamento, che invece di risolvere il problema, stante il perdurare del sottofinanziamento, lo ha aggravato per come possiamo constatare in questi giorni.

Tutti gli interlocutori lo sanno perché la Conferenza Stato-Regioni già nel 2017 ha parzialissimamente (per come dichiarato dall’allora suo presidente Bonaccini) modificato il criterio di riparto dei fondi sanitari alle regioni introducendo il concetto della “deprivazione”. Ebbene a causa di questa parzialissima modifica alla Calabria sono arrivati nel 2017 ben 29 milioni in più rispetto al 2016 e a tutto il Sud (le cui regioni sono, anche se molto di meno, nelle stesse condizioni della Calabria) ben 408 milioni in più. Per capire di quali cifre si tratta bisognerebbe moltiplicare per 4 le quelle appena citate e dal 1996 ad oggi.

Ma a rendere ancora più grave la situazione della sanità calabrese è il fatto che la Calabria è la regione che riceve meno fondi pro capite per la sua sanità pur essendo quella con il più alto numero di malati cronici, e quindi di fondi ne dovrebbe ricevere di più delle altre regioni e non di meno. E anche di questo tutti sono a conoscenza perché il tutto è certificato dal Dca N. 103 del lontano 30/09/2015 in cui l’allora commissario Scura nell’allegato n. 1 alla pagina 33 scriveva che in Calabria ci sono almeno il 10% di malati cronici più che non nel resto d’Italia.

Il decreto per come prevede il piano di rientro prima di essere pubblicato è stato vidimato prima dal Ministero dell’Economia e poi da quello della Salute, ecco perché tutti sanno che la Calabria è la regione che riceve meno fondi pur avendo molti più malati cronici. La modifica fatta ai criteri di riparto dei fondi fatta nel 2017 non è stata ne ripetuta ne ampliata, ma oggi c’è una nuova opportunità perché il governatore della Campania, che ha la situazione sanitaria più simile a quella della Calabria, nell’estate del 2022 ha fatto ricorso al Tar proprio per impugnare il criteri di riparto dei fondi sanitari alle regioni fatte dalla Conferenza Stato-Regioni.

La novità è che il governo e la Conferenza Stato-Regioni hanno concordato di modificare per il 2023 i criteri del riparto dei fondi sanitari alle regioni, e lo hanno fatto ancor prima della sentenza del Tar sapendo che il ricorso è giusto e verrà accettato. Il nuovo accordo di modifica del riparto dei fondi sanitari è simile a quello fatto nel 2017, quello della deprivazione, che ricordiamo è stato “parzialissimo” con pochi benefici economici per la Calabria e il Sud.

Per cui questa è l’occasione di superare anche questo accordo e di battersi, specialmente da parte dell’attuale commissario alla sanità regionale nonché governatore della Calabria Occhiuto, perché finalmente ci sia un riparto basato sui veri bisogni delle popolazioni nelle varie regioni. Per fare questo è indispensabile chiedere che la Conferenza Stato-Regioni finanzi le sanità regionali in base alla numerosità delle malattie croniche presenti nella varie regioni. Oggi sappiamo quanti malati cronici ci sono nelle varie regioni, sappiamo quanto costa curare ogni anno le singole malattie croniche e quindi è possibile e necessario dare i fondi alle regioni in base alla presenza delle varie malattie.

Altrimenti i Lea in Calabria la sufficienza non la raggiungeranno mai e cosa ancora più grave i calabresi continueranno a morire prima, a parità di malattia specialmente tumorale, che non nel resto d’Italia e aumenterà ancora la spesa dei calabresi per le cure fuori regione, nei centri di eccellenza del Nord, che è arrivata alla iperbolica cifra di 300 milioni annui senza contare il disagio di chi deve emigrare per curarsi fuori regione. Il governatore Occhiuto dovrebbe dimettersi da commissario chiedere la chiusura del piano di rientro e che la sanità calabrese venga finanziata in base alla numerosità dei malati cronici presenti in Calabria. (gn)

[Giacinto Nanci è medico dell’Associazione Medici di Famiglia a Catanzaro]

SANITÀ, LA CALABRIA FANALINO DI CODA
MENTRE I NOSTRI OSPEDALI ARRANCANO

di FRANCESCO CANGEMI – Sanità calabrese ancora da bollino rosso. Stavolta i dati negativi degli ospedali calabresi arrivano dall’Agenas, l’Agenzia nazionale sanitaria per i servizi sanitari regionali.

Per la prima volta l’Agenas ha valutato, nell’ambito delle Aziende ospedaliere, la capacità di conseguire obiettivi assistenziali – esiti delle cure e accessibilità ai servizi – coerentemente con le risorse disponibili siano esse di tipo finanziario, professionale e tecnologiche. Successivamente la valutazione interesserà anche le Aziende sanitarie territoriali. In estrema sintesi meno di un‘Azienda ospedaliera su 5 conquista, nel 2021, alti livelli di performance (17%), più della metà si attesta su un livello medio (60%), mentre più di una su 5 non supera l’asticella degli obiettivi da raggiungere (23%).

La metodologia dell’analisi di Agenas vede l’individuazione di cinque aree di performance e la suddivisione delle 53 Aziende ospedaliere in due tipologie: Aziende ospedaliere universitarie (30) e Aziende ospedaliere (23). Inoltre, per entrambe le categorie, è stata prevista una differenziazione secondo il numero di posti letto disponibili, ovvero maggiore/minore di 700 posti letto.

Le cinque aree di performance riguardano: l’accessibilità; la governance dei processi organizzativi; la sostenibilità economico-patrimoniale; il personale; gli investimenti. L’analisi – che riguarda il triennio 2019, 2020 e 2021 – è disponibile sia per gli stakeholder del settore, sia per i cittadini che potranno così accedere ai dati attraverso il portale Agenas della performance.

Nello specifico il rapporto, come detto, analizza le singole Aziende ospedaliere italiane e, quindi, anche quelle calabresi.

L’Azienda ospedaliera Pugliese-Ciaccio di Catanzaro raggiunge un risultato “medio-alto” per ciò che concerne la sostenibilità economica e il personale, “medio” in merito alla governance dell’organizzazione. Mentre le voci Accessibilità e Investimenti segnano bassi livelli performativi.

Alla voce Accessibilità sono calcolati i tempi d’attesa in Pronto soccorso e i relativi abbandoni da parte degli utenti oltre ai tempi d’attesa per la protesi all’anca e il tumore alla mammella. In questa categoria il Pugliese-Ciaccio segna un tasso di crescita media dal saldo negativo: -9,48%, una variazione nel periodo 2021-2019 del -18,06% e una variazione 2021-220 del 3,64%.

L’azienda ospedaliero-universitaria Mater domini di Catanzaro, segna livelli medio-alti per ciò che concerne la governance dei processi organizzativi mentre tutti gli altri indicatori segnano un livello medio-basso. L’accessibilità anche per il Mater domini è il tasto più dolente: il tasso medio di crescita è infatti pari al -18,95%.

Il presidio ospedaliero Annunziata di Cosenza raggiunge un livello medio-alto solo per quanto riguarda il personale. Di livello medio risulta invece la sostenibilità economica. Tutti gli altri indicatori segnano livelli medio bassi o bassi.

Accessibilità e investimenti rappresentano le voci più critiche anche per l’ospedale Bianchi-Melacrino-Morelli di Reggio Calabria che raggiunge livelli tra il medio e l’alto solo per ciò che concerne il personale e la sostenibilità economica. (fc)