Con l’Accademia Calabra si è parlato delle criticità del sistema giustizia

Si è parlato delle criticità del sistema giustizia, nel corso del confronto organizzato dall’Accademia Calabra e svoltosi al Circolo Antico Tiro a Volo di Roma e a cui ha preso parte il Sottosegretario alla Giustizia, Andrea Ostellari.

Un sistema giustizia che «non funziona e che incute molte perplessità nei cittadini, che cominciano a non credere che i Magistrati siano al di sopra delle parti. Una palese mancanza di fiducia che non può essere superata da ulteriori e fredde regole, ma che, invece, deve essere seriamente affrontata con una riflessione interna e con un confronto sereno e costruttivo», ha spiegato Giacomo Saccomanno, presidente dell’Accademia Calabra che, aprendo i lavori, ha sintetizzato le ragioni della Tavola rotonda e la necessità di un dialogo sereno tra i protagonisti interessati al funzionamento della giustizia.

Vi è stata, poi, l’introduzione del delegato della Camera Penale di Roma, Domenico Naccari, che ha delineato una serie di disfunzioni che partendo dalle indagini, ove il diritto di difesa spesso viene violato, per arrivare alla pena che non è, certamente, rieducativa. A confrontarsi illustri relatori ed esperti che hanno evidenziato una preoccupazione per quello che sta accadendo ed hanno precisato: Silvia Romeo, giudice presso il Tribunale di Roma, ha illustrato la necessità di rendere i processi più celeri ed eliminare i tempi morti, garantendo maggiore tutela all’imputato, Francesco Neri, Giudice e Presidente Sezione Penale della Corte di Appello di Roma, ha affrontato il tema delle esistenti garanzie, ma che, però, non sono sufficienti per un giusto processo, evidenziando che spesso le impugnazioni si chiudono con la dichiarazione di prescrizione, Cristiano Cupelli, professore Ordinario di Diritto Penale Università Tor Vergata di Roma, ha commentato le conseguenze del processo mediatico che spesso rende colpevole chi dopo anni ottiene, invece, una assoluzione piena, con tutte le gravi conseguenze che i cittadini subiscono.

Mario Esposito, professore ordinario di Diritto Costituzionale presso l’Università del Salento, ha, invece, delineato le incongruenze tra i diritti fondamentali e l’inadeguatezza dell’attuale processo; Cesare Mirabelli, Emerito Presidente della Corte Costituzionale, ha introdotto il tema della necessità di un cambiamento delle modalità di legiferare per evitare che si possano violare i diritti di difesa nel processo garantiti dalla Costituzione ribadendo che sui provvedimenti importanti si torni alla costituzione del collegio.

Ha concluso la Tavola Rotonda, il Sottosegretario Ostellari, che ha delineato le difficoltà dell’attuale processo e che con la riforma in corso non solo vi sarà la separazione delle carriere, ma si interverrà sulla maggiore presenza di ulteriori garanzie con la formazione anche di collegi giudicanti. Nel mentre, sull’espiazione della pena ha evidenziato la necessità di dare maggiore adeguatezza alla detenzione per una possibile ed effettiva rieducazione del detenuto, precisando che quelli che hanno potuto svolgere un’attività lavorativa per il 95% non sono tornati più a delinquere.

Saccomanno ha poi concluso ribadendo la necessità di una più ampia e serena partecipazione degli attori del processo al fine di individuare assieme quali siano le migliori soluzioni che, però, devono essere condivise e non possono, invece, creare barriere insormontabili. Una considerazione che ha trovato quasi tutti d’accordo è la necessità di ritornare, possibilmente, al vecchio Giudice Istruttore che garantiva maggiore partecipazione. Dall’incontro è anche emersa la necessità di una maggiore formazione per tutti i protagonisti del processo. Un dibattito che ha confermato che per poter portare avanti delle riforme importanti è indispensabile una condivisione e una collaborazione piena. (rrm)

Papa Francesco cita Gioacchino da Fiore nel “Messaggio per la giornata mondiale di preghiera per la cura del creato

«Mi piace ricordare quel grande visionario credente che fu Gioacchino da Fiore, l’abate calabrese “di spirito profetico dotato”, secondo Dante Alighieri: in un tempo di lotte sanguinose, di conflitti tra Papato e Impero, di Crociate, di eresie e di mondanizzazione della Chiesa, seppe indicare l’ideale di un nuovo spirito di convivenza tra gli uomini, improntata alla fraternità universale e alla pace cristiana, frutto di Vangelo vissuto». È il passaggio in cui Papa Francesco ha citato Gioacchino da Fiore, nel messaggio per la giornata mondiale di preghiera per la cura del creato”.

Riconoscenza è stata espressa dal presidente del Centro Internazionale di Studi GioachimitiRiccardo Succurro che ha più volte incontrato donandogli la “Concordia del Nuovo e dell’Antico Testamento ” ed Il Libro delle Figure.

In una lettera indirizzata a Riccardo Succurro, infatti, il Sommo Pontefice «assicura un ricordo nella preghiera per tutti i collaboratori del Centro Internazionale di Studi Gioachimiti affinché possano vedere coronati di frutti positivi gli sforzi dispiegati in favore della diffusione del pensiero di Gioacchino da Fiore».

Gioacchino da Fiore è un monaco-teologo che ha elaborato nel XII secolo un complesso ed originale pensiero profetico basato sulla esegesi concordistica della Bibbia e sulla teologia trinitaria della storia.
Gioacchino da Fiore è l’apocalittico che più ha influito su tendenze e movimenti profetici e millenaristici dell’ Occidente medievale e moderno. La sua visione della storia si fissa nelle immagini e nei calcoli di una rigorosa teologia simbolica e, nella
Storia della salvezza, l’Età dello Spirito rappresenta la piena realizzazione dell’Età del Figlio.
Nelle sue opere Gioacchino da Fiore introdusse un concetto nuovo rispetto al precedente millennio cristiano:
Cristo è l’ asse dei tempi, è il centro della storia.

La storia dell’umanità per Gioacchino è storia della salvezza; sull’intero corso dei tempi del Vecchio e del Nuovo Testamento domina la Trinità: il Padre, autore di tutte le cose; il Figlio che si è degnato di condividere il nostro fango; lo Spirito Santo, di cui dice l’Apostolo “Dove c’è lo Spirito Santo ivi è la libertà”.

Per Gioacchino da Fiore l’Età dello Spirito Santo non rimpiazza l’Età del Figlio, ma la porta a compimento dall’interno. L’abate florense è “lo storiografo dello spirito” che legge una visione adeguata del presente e prospetta l’ordito provvidenziale della prossima età salvifica. (rrm)

L’OPINIONE / Giusy Iemma: Feltri chieda scusa a Catanzaro e alle donne

di GIUSY IEMMA – L’affermazione di Vittorio Feltri riguardo Ilaria Salis, descritta come “vestita come una cameriera di Catanzaro”, mi indigna molto come donna, come cittadina di Catanzaro e rappresentante delle Istituzioni.

Commento oltremodo offensivo e basato su stereotipi negativi sia riguardo le cameriere che le donne di Catanzaro. Quello del sig Feltri è un giudizio sprezzante e classista, che non tiene conto della dignità e del valore del lavoro delle cameriere e del patrimonio culturale e di civiltà della città di Catanzaro. Mi si consenta di esprimere orgoglio per la mia città e per le professioni che le donne svolgono, incluse quelle nell’industria dei servizi. Il lavoro delle cameriere è onorevole e meritevole di rispetto al pari di tutti gli altri.
Esprimo forte solidarietà verso Ilaria Salis e sono accanto alle tante donne che hanno difeso e continueranno a difendere il loro diritto di vestirsi come preferiscono senza essere giudicatE in base a stereotipi o commenti sessisti.
Faccia Vittorio Feltri l’unica cosa che in questo momento gli rimane da fare: esprima delle scuse pubbliche a Ilaria Salis, alle donne ed alla città di Catanzaro.
Saremo sempre in prima linea in un più ampio contesto di lotta contro i pregiudizi di genere e di classe, per affermare il rispetto e la valorizzazione di tutte le professioni e delle diverse realtà locali. (gi)
[Giusy Iemma è vicesindaca di Catanzaro]

L’OPINIONE / Franco Cimino: Vittorio Feltri, padano, te la do io Catanzaro, ma il problema non sei tu!

di FRANCO CIMINO – In rete corre da ieri (sabato 29 giugno ndr) alla velocità della luce, un video dell’ineffabile Vittorio Feltri. Dura venti secondi e perciò tutti l’hanno divorato. È sempre lui, dietro la stessa scrivania, lo stesso studio, la stessa casa, dalla quale, passando di sera al divano del suo elegante salotto, pontifica a reti unificate. Tutti lo chiamano, nonostante dica grandi scemenze ingessato nei suoi abiti sempre uguali pur se ne ha molti e di qualità di alta sartoria. Ne ha dette tante. E non da ieri. Tante che non sai se ci è o ci fa. Io sinceramente penso, come il tale di “Quelli della notte”, la prima. Per aver iniziato e lavorato a lungo con Indro Montanelli, su Il Giornale da lui fondato per opporsi al predominio editoriale di Berlusconi, il nostro è stato sempre super valutato. Un semplice giornalista alla corte dell’affermato maestro, è stato considerato un suo allievo, quando i fatti dicono, purtroppo, che, forse anche per colpa sua, il mitico direttore di allievi non ne abbia avuti e di eredi neppure l’ombra.

Tra l’altro, anche per eccesso di considerazione del suo Io gigante, non ne ha designato neanche uno. Forse perché uno dei primi, ironizzo evidentemente, criteri di valutazione era l’altezza fisica, in rapporto a quella considerevole dell’uomo alto e magrissimo dagli occhi celesti. Per la vicinanza quotidiana a Montanelli, ex fascista di adozione “politica”, ma liberale di formazione culturale, l’idea che il giovane Veltri ha saputo abilmente dare di sé stesso era che fosse un liberale convinto, anche se il suo anticomunismo e anti tutto ciò che poi non fosse berlusconismo, più di qualche sospetto del contrario l’avesse prodotto, se pur non colto dai più. Per il suo scrivere netto e asciutto, come imponeva il fondatore de Il Giornale, fu considerato esageratamente ottima penna. E per qualche articolo, magari in qualche modo interessante, pure un grande giornalista. Per il suo stile apparentemente elegante e il suo eloquio fine, in quella erudizione ostentata, è stato considerato un intellettuale profondo.

La fotografia che ne è stata fatta, è quella, pertanto, riassumiamo, di un giovane elegante, brillante, giornalista libero, pensatore profondo dalla più profonda culturale liberale. Quanto di più assurdo si potesse già lontanamente immaginare. Aggiungiamo “democratico”, la parola più rappresentativa di quel suo tutto, e già da quel tempo lontano, non sai se piangere o ridere. Com’è potuto verificarsi tutto ciò é, oggi, pur se tardivamente, facile capirlo. Va intanto ricordato che era da tempo iniziata l’era dell’indebolimento progressivo di tutte le forme espressive del più alto pensiero. Sia nell’ambito degli studi e delle accademie diverse, sia in quello della Politica, sia in quello dell’economia. Ambiti tutti nei quali via via, per strade e meccanismi diversi, scompariva la migliore, pur con le contraddizioni e i limiti ben noti, classe dirigente della storia del nostro Paese.

Il resto l’ha fatto il “nuovo” sistema del berlusconismo, mutuato da fuori per quello interno, il sistema democratico, che aveva ormai perso ogni qualità e sostanza. L’unica struttura rimasta, nel Paese del post Tangentopoli, strumentalmente utilizzato per la più ingannevoli delle “rivoluzioni”, è la Democrazia e la sua Costituzione, le due entità “sovrane”, non a caso da tempo attaccate dal “nostro”, quale guerriero di una battaglia dai grandi poteri nascosti portata nell’Italia delle volute fragilità. Una persona così non può essere presa sul serio se negli anni che sul suo equilibrio mentale pesano come una pietruzza sulla formica, afferma una stupidaggine. Siccome non è la prima volta che dice di noi e del Sud le peggiori parole, come ben noto è che lui sia rozzamente nordista e antimeridionalista, razzista e anti immigrati (lo sanno pure le formiche), io ripeterei l’invito già rivolto in passato, non dategli retta. Ogni reazione, pur legittimamente dura, a questo poveretto suonerà come un complimento.

La prova provata della sua esistenza in vita. Non facciamogli questo favore. Questa volta, però, è non perché mi ha toccato nel vivo della carne – l’insulto alla “cameriera di Catanzaro, la cosa più bassa che si possa immaginare” – ma perché sia chiamato, almeno una volta, a pagare per l’uso, questo sì veramente offensivo, della libertà di parola. La parola è bella, la libertà è sacra. Non vanno abusate. Non vanno sfregiate. Trovo, pertanto, giusto che il Capoluogo lo quereli e lo chiami, senza condizione riparatrice alcuna, a pagare per le offese alla Città. E in solido, ché questi volgarotti falsamente borghesi se li tocchi nella tasca piangeranno davvero.

Poi, c’è il terreno squisitamente politico, che, oltre alla indignazione, deve sollevare un caso politico. Un caso che va aggiunto non alla legge sull’Autonomia, che, al di là dei propagandismo di maniera, non passerà per la volontà popolare che la spazzerà via come il vento fa con le foglie d’autunno. Va aggiunto alla questione, che, volutamente inosservata, sta prendendo corpo nella società e forma delle istituzioni. È, questa, prettamente culturale prima che politica, democratica prima che morale. Personale, mi azzardo a dire, prima che sociale. È la stessa che riguarda i silenzi dell’attuale classe di governo del Paese, quando ministri e militanti della destra storica fanno dichiarazioni strane sulla parità sociale, sull’eguaglianza tra cittadini e sugli immigrati. E dichiarazioni reticenti sull’antifascismo o molto striminzite, quando non ambigue, sulla natura antifascista della nostra Costituzione.

E sulla Democrazia, la nostra particolare perché nata dalla Resistenza! Questo silenzio oggi non vale. Sull’insulto grave perpetrato nei confronti di Catanzaro il silenzio di(li elenco tutti), Giorgia Meloni e del suo partito, di Tajani e del suo partito, dei ministri dell’interno e di quello della Cultura, il silenzio dei gruppi parlamentari di quei partiti e del Governo in generale, non è tollerabile, perché, aggiungendosi a quelli di cui sopra, confermerebbe il sospetto che il percorso di revisione ideologica della destra italiana non sia per nulla avvenuto. Confermerebbe pure che l’uso delle istituzioni democratiche, cui si è costretti momentaneamente dai ruoli istituzionali ricoperti, potrebbe apparire, se non del tutto essere, strumentale alla conquista piena del potere, dalla quale la successiva progressiva, indolore, modificazione del nostro sistema democratico.

Dei due presidenti della Calabria, Giunta e Consiglio, Roberto OcchiutoFilippo Mancuso, come del Sottosegretario calabrese all’Interno, Wanda Ferro, non sollecito alcunché, immaginando che essi, intanto informalmente, avranno già fatto sentire la loro vice di protesta. E, allora, onorevole presidente del Consiglio, dica all’Italia la sua indignazione per le dichiarazioni di quel giornalista di Milano. Lo inviti a tacere. E rifiuti il suo personale sostegno politico.

Ne va della sua dignità politica e della sua credibilità di persona. Soprattutto della sua bellezza di donna, ché le donne sono tutte belle. Quelle del Sud di più. Le donne di Catanzaro, poi, come la loro Città, le più belle del mondo. (fc)

L’OPINIONE / Raffaele Malito: Le differenze di scelte e missioni politiche di Matteotti e Berlinguer

di RAFFAELE MALITOCinquecento anni fa Machiavelli aveva distinto la politica come sfera di pensiero e di azione, del tutto indipendente e autonoma da altri campi  d’indagine, sia pure concettualmente contigui, quali l’etica e la religione. Secondo questa  visione  che  ha  le radici nella riflessione di  Benedetto Croce, Machiavelli avrebbe fissato uno dei presupposti  del pensiero moderno, distinguendo e separando la politica  dalla morale, dalla religione, dal mito. Il tempo e la storia dei grandi fatti umani, come l’illuminismo, la rivoluzione francese, il suffragio universale, le guerre mondiali, la guerra fredda  hanno cambiato i comportamenti umani trasformando masse informi dominate dal Principe, in popoli consapevoli.

E l’azione e le scelte politiche, anche se non contrapposte alle regole morali, devono essere giudicate per quello che riescono a produrre  di positivo sulle strutture economiche e sociali, nella capacità di garantire  il benessere e la pace, la democrazia e la libertà personale e collettiva. Questa  premessa per riflettere sulla propensione – che sembra apparire in alcuni scritti e frettolose argomentazioni – a dimenticare le differenze delle scelte e missioni politiche fondamentali di personaggi della nostra storia, ritornati attuali in occasione della celebrazione di anniversari che li ricordano: Giacomo Matteotti con i suoi cento anni dalla sua uccisione, per decisione di Mussolini, ed Enrico Berlinguer, morto 44 anni fa, subito dopo un comizio, a Padova l’11 giugno 1984. Il rischio della santificazione è incombente, come recita un saggio di Marcello Sorgi, per il capo del Pci.                                                                                                                  

Protagonisti della moralità politica sono stati definiti, senza sottolineare la sostanziale diversità politica, concettuale, ideale, programmatica, missionaria di questi due grandi personaggi della nostra storia: socialista riformista,  eroe e martire  della democrazia parlamentare, del diritto delle libertà personali e collettive, sempre, contro ogni forma autoritaria di governo, Giacomo Matteotti; Enrico Berlinguer, comunista, senza mai rompere, per un lungo periodo, con l’Unione Sovietica e le sue degenerazioni dittatoriali e imperialistiche, confermate da ben due invasioni militari, con i carri armati, di paesi satelliti, l’Ungheria nel 1956, la Cecoslovacchia, nel 1968. E solo nel 1976, la celebre intervista nella quale si dichiarava più sicuro sotto l’ombrello della Nato e sceglieva le democrazie occidentali, rompendo con le aberrazioni comuniste sovietiche, che si sarebbero espresse, ancora una volta, con il colpo di stato in Polonia del 1981. Il grande tema della moralità politica di cui si fa interprete Berlinguer con un complesso di superiorità,  non solo etica ma anche politica, che, nel tempo, il Pci  aveva sempre preteso e mostrato verso tutti gli altri partiti, con  una qualche,  particolare, predilezione negativa verso i socialisti, si è espressa sulla questione della corruzione – che egli sosteneva – della politica e dell’occupazione immorale degli apparati dello Stato portata al degrado, fino all’esplosione di Tangentopoli.         

Tutti corrotti, tutti ladri, concussori in alte sfere della politica e dell’amministrazione. A questo grande tema, Berlinguer ha dedicato la sua predicazione morale accusando i partiti governativi occupare i gangli del sistema  Paese, salvando ed escludendo solo il Pci.                   In una recente intervista rilasciata al Corriere della Sera, rimasta, curiosamente senza  echi e reazione, da parte degli eredi della storia Pci-Pds, Giovanni Pellegrino, senatore dal ’90 al 2001, per il Pci e il Pds, avvocato, presiedeva, nel 1992, quando scoppiò Tangentopoli e si materializzava la rivoluzione giudiziaria del pool Mani Pulite di Milano, la Giunta per le immunità del Senato, ha detto cose sconvolgenti sulla questione morale di quel tempo.

Tutti i partiti – ha rilevato Pellegrino – erano dentro il sistema delle tangenti e godevano di finanziamenti irregolari, compreso il Msi che era all’opposizione. Alla domanda del giornalista, Francesco Verderami, sul Pci-Pds, ecco la risposta di Pellegrino: «apparentemente il mio partito non prendeva soldi. Però nella cordata vincitrice di ogni appalto c’era sempre una cooperativa rossa. Dal 10 al 15%. Rivedo ancora i nostri congressi dove campeggiavano i cartelloni pubblicitari delle cooperative. Era chiaro il meccanismo di contabilizzazione  dei finanziamenti irregolari. Ed era altrettanto chiaro che  anche noi facevamo parte del sistema: una sorta di costituzione materiale del Paese. 

Quando ne chiedemmo conto, con altri nostri senatori, al segretario Occhetto ne avemmo una risposta  irritata: disse di non saperne nulla. Ed ecco la spiegazione di Pellegrino:  in parte era vero: il modello di finanziamento del Pci era stato ideato da Togliatti, lasciando la dirigenza  fuori dalla gestione dei fondi. Ma le imprese erano il vero polmone economico del partito, specie quelle che avevano  rapporti commerciali con l’Unione Sovietica. Insomma – concludeva Pellegrino – le forze di governo erano finanziate dalla Cia e da Confindustria, mentre il Pci era finanziato  dal Kgb e dalle società che gli appartenevano. E quando i finanziamenti russi cessarono, il Pci iniziò ad essere alimentato dalle cooperative che partecipavano agli appalti pubblici. Infine Pellegrino spiega perché l’onda giustizialista decapitò tutta la classe politica lasciando indenne solo il Pci-Pds e rivela: «Luciano Violante, definito la voce della magistratura nel partito, aveva ricevuto garanzie da Mani Pulite che non ci sarebbero state azioni contro di noi. Spiegai, in un colloquio con d’Alema, che l’obiettivo di Mani Pulite non era quello di colpire la corruzione amministrativa ma il  finanziamento irregolare della politica per svuotare di forza i partiti. Tutti i partiti. Per renderli deboli finanziariamente e politicamente». E per realizzare, così, il primato del potere giudiziario. Insomma, quasi un progetto di colpo di stato, in qualche modo prefigurato da Borrelli che non escludeva che il secolo sarebbe potuto essere quello del primato della giurisdizione sugli altri poteri del sistema politico e costituzionale.                                                                                               

La predicazione morale di Berlinguer aveva  avuto questo incredibile  sbocco autoritario. Contro questa deriva parlò, in un’atmosfera da crinale storico del Paese, Bettino Craxi, il 3 luglio del 1992, alla Camera dei deputati: «tutti sanno – disse – che buona parte del finanziamento della politica è irregolare o illegale. Se questa materia deve essere considerata  puramente criminale, allora gran parte del sistema sarebbe criminale. Nessuno, in quest’aula, responsabile politico, può alzarsi e giurare in senso contrario. Presto o tardi, concluse Craxi, i fatti si incaricherebbero di dichiararlo spergiuro».                                                                                

Nessuno si alzò. Tacque anche chi aveva sventolato la bandiera della questione e della diversità morale. I protagonisti della moralità politica, di cui si celebrano gli anniversari  e che si accostano con troppa approssimazione, le missioni politiche  – Matteotti e Berlinguer – erano, e sono stati, diversi. Perché la loro storia, umana e politica, era diversa: Matteotti non escludeva ed era aperto alle forze politiche democratiche, che credevano nei valori delle libertà personali e collettive. Berlinguer pensava ed agiva nella convinzione che tutti gli altri fossero corrotti e moralmente inidonei a servire il Paese. (rm)

In Cittadella si presenta l’avviso per finanziare master di I e II livello

Domani mattina, alle 11, nella Sala Conferenze della Cittadella regionale, sarà presentato l’avviso per il finanziamento di master di primo e secondo livello, per cui sono stati stanziati 6 milioni di euro, 2 milioni per ciascun anno accademico dei prossimi tre anni.

L’avviso pubblico, promosso dal dipartimento Istruzione su indirizzo dell’assessore Giusi Princi, finanzia master post laurea professionalizzanti destinati ai giovani laureati calabresi, ha l’obiettivo di potenziare le competenze dei nostri laureati e favorire il loro ingresso nel mondo del lavoro.

All’incontro con la stampa, oltre alla vicepresidente, interverranno anche la dirigente generale del dipartimento Istruzione, Maria Francesca Gatto, e il dirigente di settore, Menotti Lucchetta.

Saranno presenti i Rettori delle Università calabresi e una delegazione degli studenti coinvolti negli organismi accademici. (rcz)

L’OPINIONE / Flavio Stasi: L’assenza di una pianificazione del Porto di Corigliano Rossano dovrebbe preoccupare tutti

di FLAVIO STASI  – L’esigenza di garantire ed anzi attrarre investimenti, espressa dai sindacati confederali, è totalmente condivisa anche dall’Amministrazione Comunale. È necessario solo qualche precisazione rispetto alle “questioni giuridiche e procedurali” a cui fanno viene fatto riferimento.

Intanto l’assenza di una pianificazione del porto, denunciata fin dal primo giorno solo dall’Amministrazione Comunale, è una questione che dovrebbe preoccupare tutti, anche le rappresentanze sindacali, in quanto è sinonimo di totale mancanza di prospettive di sviluppo e visione dell’Autorità Portuale nei confronti del sorgitore.

Pur comprendendo l’approccio pragmatico dei sindacati, non è possibile – per chi governa il territorio – sostituire la pianificazione con un “il primo che arriva, si insedia”. Lo abbiamo detto più volte: sarà un tema poco accattivante, ma la pianificazione non è un orpello burocratico, bensì il principale strumento di sviluppo a disposizione del territorio.

Secondariamente la eventuale lacuna procedurale sollevata non è assimilabile ad un grigio appiglio burocratico, come un difetto di notifica o la scadenza di un termine, bensì all’assenza di un percorso autorizzativo chiaro in relazione alla conferenza dei servizi. Si tratta di un tema di trasparenza amministrativa che credo debba stare a cuore anche alle rappresentanze sindacali.

Fatte queste precisazioni non rifuggiamo a discussioni di merito. Ritengo che tutto il territorio sia concorde nel non voler rinunciare all’investimento; tuttavia, credo sia necessario approfondire e condividere quanto chiesto da più parti, compresa l’Amministrazione Comunale, ovvero la valutazione dell’insediamento al di fuori del perimetro portuale, con un vettore di trasporto ed accesso alla banchina dedicato ed al servizio della zona industriale.

È ben chiaro che si tratterebbe di una soluzione meno conveniente per l’investitore, me le istituzioni e le forze sociali esistono per contemperare ed equilibrare degli interessi diversi, ed il nostro ruolo ci impone – per il contesto geografico, urbano e paesaggistico dato – di lavorare affinché lo stabilimento si insedi nella sua collocazione naturale, ovvero la zona industriale. Sarebbe utile se a questo obiettivo lavorassimo tutti insieme ed ovviamente l’Amministrazione Comunale resta disponibile in tal senso. (fs)

[Flavio Stasi è sindaco di Corigliano Rossano]

Il Sud di Gregorio Corigliano: “Ecco l’anima del luogo”

di PINO NANO – «Ero all’estero e, ricordo, scrissi una cartolina ad uno dei miei professori più cari. “Mi manca il mio paese” e non ero a Schindilifà, ero a Brighton, a pochi passi da Londra per seguire un corso di inglese. Eppure, mi mancava il contatto con la gente, con i miei genitori, mia sorella, mio fratello, mi mancava la passeggiata in piazza, l’incontro con Pino e con Ciccio, la nostra gitarella a Palmi o a Gioia Tauro – non Parigi o Berlino. Mi mancava il luogo dell’anima. O l’anima di quel luogo…».

Appena fresco di stampa, Ecco l’anima del luogo, Gruppo Albatros Il Filo (182 pag), è il nuovo libro del giornalista Gregorio Corigliano che dopo aver raccontato 30 anni di cronache in televisione ora racconta sé stesso e i luoghi della sua infanzia con una dolcezza e un senso di solitudine che la dicono lunga sulla sua vita di grande successo.

Ad aprire questa favola moderna sono i versi di una canzone bellissima che hanno reso poi famosa Iva Zanicchi che di suo padre confessava: «Non esiste un altro uomo/ Così caro come lui/ Sogna ancora ad occhi aperti/ E non ama la tristezza/ Noi ci somigliamo tanto/ Ma io non sogno ad occhi aperti/ Io appartengo a un altro mondo/ Dove lui vivrebbe male/ Caro, caro vecchio mio/ Ora corri insieme al tempo/ E non corri più nel vento/Ho il tuo sangue nelle vene/ E ti porto nel mio cuore…».

Questa è la storia di una saga, la storia intima di una famiglia del Sud, una famiglia sana, perbene, come mille altre in quegli anni, alle prese con i mille problemi della guerra prima, della ricostruzione dopo, e della rinascita ancora più tardi.

«Quel che più conta è che se ne sono andati i rapporti di un tempo…Mia sorella è andata a vivere nel bolognese, io nel cosentino, ma torno due volte al mese. C’è mio fratello che tiene aperta la casa ed i ricordi. E non è assolutamente poco…».

È  la casa del “rosmarino”, che è la casa natale di Gregorio, quella di San Ferdinando, dove tutto ruota attorno ai ricordi passati.

«Nel mare delle parole scritte per esser lette – scrive nella prefazione che fa la scrittrice Barbara Alberti – ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze…».

Ma questo libro è anche la storia di un popolo, quello calabrese, eternamente in bilico tra miseria e disperazione, eternamente in viaggio e in cammino, ma è anche la storia della “Piana”, quella di Eranova e Gioia Tauro, dei suoi aranceti, dei suoi contadini, dei suoi artigiani, dei suoi mandriani di pecore, dei suoi sacerdoti.

È la storia del mare che sta di fronte casa sua, a due passi dal porto di Gioia Tauro, una landa di sabbia bagnata dalla fortuna, poco più avanti la Costa Viola, con i profumi dell’Aspromonte, una montagna quasi sacra, irraggiungibile ed eternamente tormentata dalla paura di violenze inconfessabili. Storie di uomini e di cose senza tempo che hanno affidato al mare e ai tramonti sullo stretto di Messina le proprie speranze e le proprie illusioni.

«Oggi ho preso la bicicletta – scrive l’autore – ed ho camminato a lungo, e non solo per le vie del centro-paese. Anche in periferia. Pedalando, pedalando ho potuto notare che ci sono centinaia e centinaia di case chiuse- nel senso non più abitate. Ma chiuse non per possibili ritorni, case dalle porte sbarrate, incatenate, se non a pezzi, quindi aperte. Non una o due, ma una infinità. Case un tempo vissute da famiglie, spesso numerose, ed ora in completo abbandono…»

Questo saggio è uno straordinario scrigno di ricordi, una cassaforte di emozioni, la narrazione romantica e straordinariamente avvincente di una Calabria che non esiste più, dove gli uomini partivano per la guerra e a casa rimanevano donne e bambini, e dove i bambini per tutta la vita hanno sognato una stretta di mano da padri invece condannati alla solitudine e ai lavori massacranti di un popolo errante. (pn)

Celebre (Fillea Cgil): Completare gli invasi esistenti per contrastare la siccità in Calabria

«Noi della Fillea Cgil Calabria, pur essendo convinti che la battaglia contro la siccità e la carenza d’acqua bisogna farla su più fronti, riteniamo che una buona risposta potrebbe arrivare con il completamento e l’avvio degli invasi esistenti evitando così di lasciare le opere incompiute». È quanto ha dichiarato Simone Celebre, segretario generale di Fillea Cgil Calabria, suggerendo la creazione di «un nuovo impianto idrico», dato che «oltre il 50 % dell’acqua si perde per strada e non arriva a destinazione».

Una scelta, per Celebre, «che non solo darebbe un fattivo aiuto a contrastare la siccità e la conseguente penuria d’acqua, ma che contribuirebbe, altresì, a creare migliaia di posti di lavoro. Pertanto, auspichiamo che il Consiglio Regionale nelle prossime sedute inizi a parlare delle “storiche” dighe incompiute presenti nella nostra Regione come la Diga dell’Esaro e la Diga del Re Sole nella provincia di Cosenza, la Diga del Melito nella provincia di Catanzaro e la Diga del Metrano nella provincia di Reggio Calabria».

«La siccità e, soprattutto, la carenza d’acqua, la crisi energetica – ha ricordato – oramai, sono tra i problemi più gravi dell’intera umanità, anche perché si ripropongono sempre più spesso negli anni a causa dei cambiamenti climatici in corso, e non solo.  Il 2023, secondo gli esperti, si è caratterizzato per essere stato l’anno dove si è registrato una delle più gravi siccità degli ultimi secoli. La siccità e la carenza d’acqua sono problemi che stanno colpendo pesantemente l’Italia. Emergenza che nel primo semestre di quest’anno ha interessato soprattutto il Sud»

«1Anche la nostra Regione – ha concluso – non è esente dall’emergenza siccità e dalla carenza d’acqua. Da più parti, infatti, si sostiene e si chiede che la giunta regionale calabrese dovrebbe avviare al più presto una discussione e la realizzazione di un piano articolato di contrasto alla siccità e alla carenza d’acqua, che ci consenta di guardare al futuro con ottimismo. È necessario intervenire con urgenza, ora, con misure che possono portare un sollievo immediato. (rcz)

L’OPINIONE / Domenico Mazza: La Superstrada Cosenza-Sibari, l’ennesima incompiuta

di DOMENICO MAZZA – Ho avuto modo di leggere una nota della Provincia di Cosenza nella quale si dava comunicazione dell’imminente conclusione lavori lungo la SP197. Per chi avesse poca dimistichezza con le sigle, la SP197 è la lingua d’asfalto meglio conosciuta come “strada della diga”. Non nascondo il mio stupore nell’aver letto alcune approssimazioni delle quali a breve illustrerò. Nondimeno, devo constatare che le superficialità di approccio all’argomento in questione qualificano, da almeno due lustri, l’Ente intermedio autore del dispaccio.

La vicenda della famosa “Via del Crati” (così fu battezzata l’opera durante la sua presentazione) risale al 2011 quando a presiedere il massimo livello amministrativo provinciale era l’on. Mario Oliverio. Quella del già Governatore regionale fu l’ultima Presidenza provinciale a suffragio universale. Poi intervenne la Delrio e le Province furono trasformate in Enti di secondo livello. Alla guida dell’Assise, da allora, si sono succeduti Mario Occhiuto (al tempo sindaco di Cosenza), Franco Iacucci (già Sindaco di Aiello) e l’attuale Primo cittadino di San Giovanni in Fiore, Rosaria Succurro.

Tredici anni fa, durante una conferenza stampa, venne presentata la nuova superstrada Cosenza-Sibari come una delle principali infrastrutture presenti nel piano delle grandi opere pensate dalla Provincia di Cosenza. L’asse stradale faceva parte di una pianificazione infrastrutturale di tutto rispetto: “Sibari-Sila”, “strada di collegamento tra gli estinti comuni di Corigliano e Rossano (ex 106 lato monte)”, “velocizzazione itinerario A2 svincolo di Castrovillari-centro Città”, solo per citarne alcune…

La Cosenza-Sibari gemmò come un articolato intevento, di parziale adeguamento e nuova opera in variante, del più complessivo disegno di percorrenza della valle del Crati. Il progetto prevedeva la congiunzione della SS106 radd. (Corigliano-Rossano, loc. Salice) con la SS107 (Cosenza, area ex Carrefour), con intersezione allo svincolo di Tarsia sull’A2. La nuova strada di categoria C1 (extraurbana secondaria), una volta ultimata, avrebbe raccordato in circa 40 minuti il Capoluogo, i Comuni della destra Crati e la piana di Sibari. L’opera pubblica, pertanto, almeno nella parte iniziale, avrebbe dovuto rappresentare una valida alternativa al tracciato autostradale.

Da allora il progetto è stato più volte rimaneggiato e riproposto come un più modesto collegamento Tarsia-Cantinella. Del resto il centralismo che storicamente connota la provincia di Cosenza non è certo nuovo a queste cose. Credo, in tutta onestà, che pochi altri Enti in Italia siano riusciti a trasformare il concetto di trasversale in un più generico appellativo di rabberciata traversa. Da questo punto di vista le varie revisioni al ribasso di progetti come la Sibari-Sila e la Sila-Mare potrebbero fare scuola.

Tuttavia, gli Amministratori jonici dovrebbero quanto meno indignarsi nell’apprendere che la parziale apertura del non ultimato secondo lotto funzionale (svincolo Terranova – diga del Crati), venga promosso come “Intervento realizzato per incrementare la sicurezza e collegare in maniera rapida i Comuni della valle del Crati con quelli dello Jonio cosentino”. Vieppiù, con l’aggravante che il primo lotto funzionale (svincolo Tarsia A2 – diga del Crati), a distanza di oltre 13 anni dalla posa della prima pietra risulta parzialmente adeguato a categoria C1 e con un contenzioso che dal 2013 inibisce l’apertura della galleria “Cozzo Castello” e dei due viadotti di collegamento alla stessa.

Forse, Popolazioni e classi dirigenti joniche dovrebbero porsi delle domande…

Non fosse altro che per evitare di farci considerare alla strega di una tribù con l’anello al naso. Capisco che la politica sia fatta anche da parate e attimi di giubilo, tra l’altro, talvolta, neppure richiesti. Tuttavia, vendere come “lavoro finito” l’insufficiente imbastitura di un abito pensato e mai seriamente realizzato mi sembra troppo anche per un popolo, da sempre, trattato alla stregua di coloni. (dm)