di FRANCO CIMINO – Metti una sera. A Catanzaro. Metti che la sera sia sospesa tra estate resistente e autunno incipiente. Metti che hai saputo che il diciannove, nell’ultimo giorno di proiezione del film “ Il Campo di Battaglia” ci sarà il regista Gianni Amelio. Metti che in questo modo, qui da noi, si svolga una vera festa del Cinema. Metti che questa festa, la visione di questo film, la presenza di questo grande regista, si tengano al Comunale, il teatro al centro del Centro Storico. Metti che io abbia acquistato il biglietto con prenotazione posto da una settimana. E la gioia con gratificazione morale e culturale è garantita. Il film inizia alle diciotto. La sala non è piena. Forse, poco meno della metà. Scorrono le immagini, su fondo chiaro scuro. Come il contrasto nella filosofia del film. Il ritmo è lento. Come le vite dei personaggi, tutti. I dialoghi sono stretti, asciutti. Di lessico essenziale. Come le musiche senza parole, delle “colonne sonore”.
La narrazione è a tratti tenera, a tratti dura. Come le storie nella storia di cui il film dice. La storia filmica è apparentemente senza storia. Come quella che ci è stata fatta studiare nelle scuole, che il regista nel suo tempo ha frequentato. I silenzi dei protagonisti sono gran parte delle voci narranti. Mute, fuori dalla scena. Negli sguardi intensi dei protagonisti, dentro il susseguirsi delle scene, fino a quella drammatica ma esaltante che precede il finale. E che, anzi, la anticipa, se non la ferma proprio nel momento in cui Anna, coprendo con il suo cappotto le spalle di Giulio, allontanatosi per respirare l’ultimo boccone di vita, occhi negli occhi di lui, gli dice ciò che si era negata da anni. È uno dei “ti amo” afonici più belli che mi sia mai capitato di ascoltare. Un “ti amo” così pieno che vorremmo aver detto e forse abbiamo, non pochi degli spettatori, pronunciato almeno una volta nella nostra vita. Questo film è da vedere. Ancora una e più volte. Gli adulti per cogliere appieno la loro responsabilità in questo mondo vissuto, consumato, subito. Lasciato danneggiare quando non lo avessimo danneggiato noi. Individualmente, chiusi nel nostro cattivo privato.
Collettivamente, in quel bugiardo stare insieme, privo di qualsiasi identità sociale. Identità, intesa anche come identificazione di un qualsiasi senso comune che non sia la folla anonima nei non luoghi o l’esercito in divisa negli stadi. Il Campo di Battaglia è un grande film. C’è la battaglia senza il campo della battaglia. Il campo simbolicamente è rappresentato dall’ospedale militare, in cui i soldati combattono tra coraggio e viltà, tra senso assai scarso della patria e attaccamento egoistico alla famiglia. Una battaglia della paura spontanea contro il coraggio imposto dal “ dovere della guerra”. Una battaglia per la difesa della propria vita contro chi quella vita, la singola del soldato, mette a repentaglio. Dell’abito del contadino contro la divisa. La battaglia dell’unica radice, il paesino e la regione d’origine contro quella “innaturale” di un Paese grande, l’Italia, che non sentono proprio. Straordinaria la messa in scena unica, la corsia unica, dell’unico ospedale, di soldati originari di ogni singola regione di quell’Italia ancora incompiuta pienamente. Il maestro dietro la cinepresa li fa parlare ciascuno nel proprio dialetto stretto. Ciascuno di loro fingendo o procurandosi qualsiasi menomazione pur di non tornare al fronte.
In questa volontà, ondeggiante tra viltà e coraggio, tra vita propria e difesa della patria, sono aiutati, da un tenente medico profondamente buono. Anche lui ondeggiante tra il la pietà per quei ragazzi, che non vogliono morire, e il l’ubbidienza, in quanto militare, alle disposizioni delle autorità militari e di governo. In quel luogo, in quella situazione, si consuma, ancora una volta senza dialoghi diretti e scontri personali, un altro contrasto, un altro chiaroscuro. Il tenente buono e il suo superiore, direttore del campo-ospedale, che intuendo la furbizia di quei disperati vuole rimandarli tutti nel “campo di battaglia”. Il film è ambientato nel periodo 1915-1918. Ed è di un’attualità sconvolgente. È un film ideologico, senza ideologia di riferimento. È politico, senza un orientamento politico che politicamente lo classifichi. È un film umano e profondamente cristiano, senza una cultura umanitaria e chiese alle spalle. È laico pienamente, perché universale è il suo messaggio. La forza della narrazione è di una potenza impressionante. Solo una mano forte e delicata, una mente intelligente e illuminata, una regia “religiosamente” ispirata, avrebbe potuto realizzare un film sulla guerra senza la guerra. Un film contro la guerra senza che il no prorompa dagli schermi, ché dal cuore degli spettatori dalle prime immagini fuoriesce impetuoso e combattivo. Dicevo della sala semipiena. Peccato per una Città, la nostra, che si lamenta dei cinema e del Corso vuoti, e poi, lo vedremo stasera, strariempire, fino all’asfissia, le strade delle tre notti(?!?) piccanti. Chissà cosa ne avrebbe detto Gianni Amelio sulla domanda del “negato amore” per Catanzaro. La sala semivuota mi ha consentito di sedere, solitario, in terza fila. Davanti e ai lati, nessuno. Questo mi ha permesso di liberare il mio pianto per tutta la durata del film. Ho pianto per la bellezza estetica delle immagini e per quegli insistiti primi piani su tutti i personaggi della narrazione. In particolare, per quel soldato siciliano, che fino alla morte per assurda fucilazione, difende il suo cognome, siciliano, dalle storpiature dei superiori, quasi a voler significare la negata dignità del “potere,” tutto “piemontese”, di quei povericristi miseri e ignoranti, di più meridionali. Ho pianto per la dolcezza “impotente e travolgente di Giulio, per la fragile durezza” ideologica e personale, di Anna, la scienziata mancata per sua volontà, oltre che per i pregiudizi della cultura del tempo.
La donna di grande intelligenza e sensibilità, che si è tagliata il percorso universitario e quello della felicità, cui si sentiva negata per i fatti esistenziali, che il film non specifica ma che lascia intuire. “Questo non è autorizzato”, risponde a ogni domanda di Giulio, l’amore ritrovato in quella trincea del dolore, dopo molti anni. In verità non era autorizzata non la domanda, ma la risposta, che lei non voleva dare a sé stessa. Pure quella dell’Amore, che aveva dentro. Ho pianto di rabbia, per le guerre in atto e per quei morti e quei feriti, soldati e civili, di questo o di quel paese in odio reciproco, di cui non ci importa nulla, mentre vediamo le immagini televisive che scorrono davanti ai nostri occhi asciutti pure delle lacrime insincere. Ho pianto per l’Amore che scorre per tutto il film, fino alla deflagrazione più potente di un ordigno micidiale. Ho pianto per il mio prendere decisamente parte a favore di uno dei due principi in “guerra” , morale culturale, che si svolge, da un’infanzia lontana, tra due amici, Giulio e Stefano. Che di fraterno quest’ultimo ha il volto di Caino, fratricida anche lì, in quel posto del contagio certo, per una gelosia intrecciata ad invidia indirizzata anche alla stupida illusione di “impossessarsi” del cuore di Anna. Tra il no deciso alla guerra in nome dell’umanità, di Giulio, e il sì alla stessa in nome dell’amor di patria e del dovere verso la divisa, io ho scelto ciò che è in me da sempre, il No. La guerra fa schifo!
Ho pianto, perché Amelio, da fine intellettuale, da magico artista, fa vincere il no. Il suo, paradossalmente, è in quel titolo di giornale che l’ufficiale medico, il solito Stefano, mostra ai feriti ancora in ospedale. “Vittoria!”. E quel soldato che chiede di poterselo portare a casa. Per ricordo o per non dimenticare? In quella scena, la prima delle due finali( l’altra è Anna che ripete a una bambina, spaventata di morire, la frase di Giulio”qui non muore nessuno”), c’è il pensiero più forte e coraggioso, francescano di Francesco il Papa, direi. La guerra non la vince nessuno. La perdono tutti. Solo la guerra vince su sé stessa. Ho pianto per l’Amore che da Anna e Giulio, è sceso come una carezza sul cuore, in sala. L’Amore vero. Quello del “per sempre”. Nel mezzo, ho pianto per il tremore del mio pensiero dinnanzi alla domanda, sul mondo da sempre sospesa.
È quella che si era posto anche Fabrizio De Andrè ne Il Pescatore. E che Amelio, da par suo, mette negli occhi di Giulio: “essere buoni o giusti?” E da qui le nostre a seguire: “Dio che fa dinanzi a questo quesito? E la guerra è giusta? Cosa viene prima la vita propria o quella degli altri? Cosa far prevalere, la coscienza o il dovere? La famiglia o la Patria? E qual è il coraggio o la viltà tra chi rifiuta la guerra e chi in guerra ci va?”.
Sono domande, che spero, con Amelio, accompagnino gli spettatori fino alle loro case. Sono domande sospese. Non impongono una risposta. Siamo troppo piccoli rispetto ad esse. Ma il coraggio di porsele è già tanto. (fc)