di SANTO BIONDO – Sul Mezzogiorno, si continua a rimanere in silenzio. Addirittura si sta per aprire nel Paese, una forte contraddizione tra gli obiettivi che l’Europa assegna all’Italia attraverso il Pnrr e la volontà, espressa dalla nuova compagine di Governo, di realizzare una autonomia differenziata che contrasta fortemente con la visione solidaristica dell’Europa post pandemia.
Infatti, se da una parte Bruxelles chiede al nostro Paese di porre la massima attenzione sui temi della convergenza territoriale e della coesione sociale e invita la politica e le istituzioni ad intervenire, per risolverle, sulle problematiche ancora aperte del divario territoriale tra il Sud e il Nord del Paese – divari nelle infrastrutture, nella sanità, nei trasporti e nella scuola, solo per fare alcuni esempi – che ogni anno contribuiscono a determinare l’uscita dal Mezzogiorno di circa 130 mila abitanti; dall’altra parte c’è, invece, l’idea di una certa politica, che si affianca alla pretesa incostituzionale di alcune regioni, di disporre in autonomia di più competenze e più risorse, andando ad indebolire le regioni più fragili del Paese.
In questo progetto di autonomia differenziata, su cui punta in modo particolare la Lega, si continua a non voler discutere della parte della Carta costituzionale che è di più interesse per le regioni del sud, quella che inserisce nel nostro ordinamento strumenti quali: la perequazione, la tassazione locale, e la definizione, appunto, dei Livelli essenziali delle prestazioni.
Mentre si mette in un cassetto la corretta applicazione di questi dettami costituzionali, si prova a spingere la discussione sugli aspetti della riforma costituzionale che stanno più a cuore alle aree economicamente più forti del Paese: calcolo dei costi standard, autonomia fiscale, che ha prodotto una progressiva riduzione delle rimesse statali in favore dei territori del Sud.
Di recente sul Mezzogiorno la Banca d’Italia e non un incallito meridionalista, nel suo rapporto annuale, ha sottolineato che, soprattutto nel periodo compreso tra il 2010 e 2020, nel nostro Paese si è realizzata una sperequazione nella distribuzione della spesa pubblica nazionale che ha penalizzato i comuni del Sud.
La Banca d’Italia chiarisce, in modo inequivocabile, come ormai la ingiusta distribuzione delle risorse statali tra Nord e Sud non appartiene al libro delle leggende metropolitane, ma è invece una reale condizione del nostro Paese che rischia di ottenere un definitivo riconoscimento istituzionale.
Dalle analisi della Banca d’Italia emerge, con evidenza, il fatto che per mettere in atto un graduale azzeramento dei divari tra il Nord e il Sud del paese il Pnrr da solo non basta, ma all’attuazione del Piano occorre abbinare una efficace spesa delle politiche di coesione 21/27 e un non più rinviabile riordino nella distribuzione della spesa statale che, partendo dall’assunto che le risorse europee devono essere complementari e non sostitutive delle risorse nazionali, sappia mettere fine alle storture prodotte nei bilanci degli enti territoriali meridionali dalla legge sul federalismo fiscale, la famigerata 42/09.
La 42/09 che, nel silenzio generale, da alcuni anni sottrae risorse ai territori del Mezzogiorno e rappresenta un assaggio di cosa sarebbe un Paese in autonomia regionale ha come punto centrale il criterio della spesa storica, criterio che ha finito per garantire i servizi essenziali di cittadinanza dove c’erano già e ha invece cristallizzato l’assenza degli stessi nelle regioni del Sud.
La legge sul federalismo fiscale non è solo incostituzionale ma addirittura si scontra con lo stesso Pnrr, dato che l’arretratezza dei Lep nel Mezzogiorno è stato uno degli indicatori che ha permesso all’Italia di strappare in Europa la quota più alta del finanziamento di Ngeu. Piuttosto che di autonomia regionale, occorre che politica e le istituzioni si adoperino ad avviare una discussione seria, diretta a rivedere totalmente la legge sul federalismo fiscale, per riscrivere e superare la legge 42/09! (sb)