di GIOVANNI MACCARRONE – Come è possibile che ogni anno si ripresenti lo stesso identico problema nella stragrande maggioranza della nostra regione?
Negli ultimi giorni ci stiamo ponendo questa domanda con una certa insistenza. Il tutto parte dai diversi maxi blitz dei Carabinieri che quasi ogni anno avvengono in Calabria sulla gestione dei depuratori e dalle recenti notizie sul mare sporco in parecchie zone costiere della nostra regione.
Tutti i cittadini calabresi sono indignati, infastiditi, esasperati (e chi più ne ha più ne metta). A questo proposito, qualche giorno fa è anche intervenuto l’ex pm Luigi De Magistris, il quale nel commentare il mare sporco in Calabria, ha tenuto ad evidenziare: “In 20 anni non è cambiato nulla, avevamo provato a fare pulizia”.
Per dirla tutta, sono passati più di 20 anni. Risale, infatti, al 21 maggio 1991 la Direttiva 91/271/Cee del Consiglio, concernente il trattamento delle acque reflue urbane (Gu L 135 del 30.5.1991, pag. 40-52). Nel 1998, per chiarire alcune norme che avevano portato a interpretazioni divergenti nei paesi dell’Ue, la Commissione ha adottato la direttiva 98/15/Ce, entrata in vigore il 27 marzo 1998.
Dall’analisi dei paesi aderenti alla Cee (ora Ue), già nel 1991 è emersa la necessità di un intervento costante e incisivo sulle acque reflue urbane, anche perché la presenza di acque reflue urbane trattate in modo inadeguato o non trattate rappresenta un grave pericolo per la salute umana.
Le acque che non vengono trattate vengono riversate nei fiumi, quindi in mare La diffusione di materiale fecale nell’ambiente (acque di balneazione e acque potabili) possono causare nell’uomo infezioni da E. Coli che provocano diarrea e dolori addominali e possono causare malattie anche molto gravi come enteriti, colite emorragica, infezioni urinarie, meningite e setticemia.
In Italia la direttiva sopra citata (che, in generale, opera in sinergia con altri atti legislativi dell’Ue e contribuisce fortemente al conseguimento degli obiettivi della direttiva quadro Acque, della direttiva Acque di balneazione e della direttiva Acqua potabile), in un primo momento, è stata attuata con il DLgs n, 152 del 11 maggio 1999 (“Disposizioni sulla tutela delle acque dall’inquinamento e recepimento della direttiva 91/271/Cee concernente il trattamento delle acque reflue urbane…11”, pubblicato, nella Gazzetta Ufficiale n.101/L, del 29/5/99, e ripubblicato nella Gazzetta Ufficiale1 n. 146/L del 30/7/99 con aggiunta di relative note)
Il 18 agosto 2000 è stato poi emanato il decreto legislativo n. 258 recante “Disposizioni correttive e integrative del D.L.gs. 11 maggio 1999, n. 152, in materia di tutela delle acque dall’inquinamento a norma dell’articolo 1, comma 4, della legge 24 aprile 1998 n.128” pubblicato sulla G.U. Supp. Ord. n. 153\L del 18\9\20.
Successivamente, tutta la normativa nazionale di riferimento per lo scarico delle acque, è stata unificata ed inglobata nel D.Lgs. 3 aprile 2006, n.152 (Testo Unico Ambiente) che disciplina totalmente la materia in tutti i suoi aspetti (principi generali e competenze, obiettivi di qualità, tutela dei corpi idrici e disciplina degli scarichi, strumento di tutela, sanzioni). Segnaliamo anche il D.M. 185/2003, che definisce i criteri tecnici per il dimensionamento, la costruzione, l’esercizio, la manutenzione e il controllo degli impianti di trattamento delle acque reflue urbane, e il D.M. 186/2003 che determina le metodologie per l’effettuazione delle analisi delle acque reflue, a cui dobbiamo aggiungere – per dovere di informazione – il regolamento (Ce) n. 1882/2003, il quale stabilisce norme comuni per il monitoraggio e il controllo delle acque reflue, e il Regolamento (Ue) 2020/741 del 25 maggio 2020 (che trova applicazione a decorrere dal 26 giugno 2023) recante prescrizioni minime per il riutilizzo delle acque reflue per usi agricoli.
Insomma, come è agevole intuire, in base a tutta questa normativa di riferimento che presiede alla gestione delle acque reflue (e parliamo di tutte quelle che oltre ad essere urbane, possono anche presentarsi solo come acque reflue industriali, e/o di soli servizi e/o anche solo domestiche, ecc), dovremmo stare in una consistente botte di ferro.
Purtroppo non è proprio così. In Italia un terzo degli scarichi urbani e industriali va a finire direttamente nei fiumi o nel mare senza alcuna depurazione: in totale si contano 927 agglomerati di acque reflue non conformi sparsi su tutto il territorio nazionale per un carico generato totale di 29,8 milioni di abitanti equivalenti (sempre per dovere di informazione si evidenzia che l’unità di misura standard per l’inquinamento è l’abitante equivalente” (a.e.). Essa descrive l’inquinamento medio prodotto da una persona/giorno).
Per effetto della mancata o errata attuazione della normativa europea nell’ordinamento nazionale, nei confronti dell’Italia sono state aperte da parte della Commissione europea ben quattro (4) procedure di infrazione (Infrazione 2004/2034 per 75 agglomerati sopra i 15.000 abitanti equivalenti che scaricano in aree non sensibili, infrazione 2009/2034 per 16 agglomerati maggiori di 10.000 abitanti equivalenti, che scaricano in aree sensibili, Infrazione 2014/2059 per agglomerati con popolazione maggiore a 2.000 abitanti equivalenti e infrazione 2017/2181 per 237 agglomerati con oltre 2.000 abitanti equivalenti che non dispongono di adeguati sistemi di raccolta e trattamento delle acque di scarico urbane)
Nonostante i numerosi solleciti, l’Italia è stata però condannata dalla Corte europea di giustizia per non avere completato le fogne e i depuratori di parecchie città, soprattutto in Calabria, dove in larga parte il servizio è gestito direttamente dai Comuni (al riguardo consigliamo di leggere le due sentenze della Corte di Giustizia europea, emesse nel luglio 2022 e nel maggio 2018 e quella emessa nell’aprile 2014, mentre per la terza infrazione bisogna attendere, dato che la sentenza è ancora in fase istruttoria).
Attualmente l’Italia è condannata al pagamento di sanzioni pecuniarie pari a euro 257.800.000 nel settore delle discariche abusive, a euro 281.840.000 per quanto riguarda la gestione dei rifiuti in Campania, ad euro 142.911.809 nell’ambito delle acque reflue.
“E io pago!”, per usare la celebre battuta del barone Antonio Peletti (interpretato da Totò) nel celebre film “47 morto che parla”.
Qualcuno potrebbe dire che qui non c’è (niente) da scherzare e, per la verità, avrebbe pure ragione. Sta di fatto che, per fortuna, il nostro legislatore ha pensato bene di prendere le cose sul serio e dal 2017 in Italia è stato istituito un Commissario unico per la depurazione delle acque (al momento guidata dal Prof. Fabio Fatuzzo e dai due Sub Commissari, dott. Antonio Daffinà e l’avvocato Salvatore Cordaro, nominati con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 7 agosto 2023, di concerto tra il Ministro dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica e il Ministro per gli Affari Europei, il sud, le politiche di coesione e il Pnrr), che si occupa di tutti gli interventi necessari per far uscire le varie zone del Paese dai contenziosi Ue, in sostituzione dei precedenti Commissari nominati con l’art. 7 del D.L. n. 133/2014 (c.d. decreto sblocca Italia). Dal 2019, con il decreto Clima, le competenze si sono estese anche alle procedure 2014/2059 e 2017/2181, per cui sono stati previsti in totale 606 interventi in 13 regioni italiane.
C’è da domandarsi, tuttavia, se è funzionale tale soluzione alla risoluzione della problematica generale relativa agli impianti di trattamento e smaltimento delle acque reflue. Nutro (e non da solo) più di un dubbio in proposito
Innanzitutto, se il legislatore avesse voluto essere coerente fino in fondo, nel rispettare l’impegno preso con l’Unione Europea, non avrebbe dovuto prevedere la figura del Commissario unico solo per la risoluzione delle problematiche emerse dalle sentenze della Corte di Giustizia dell’Unione Europea di cui sopra (e a questo proposito segnaliamo che l’Ispra, a partire dal 2007, raccoglie ed elabora tutte le informazioni trasmesse dalle Regioni e dalle Province Autonome di Trento e di Bolzano, in Sintai – Sistema Informativo per la Tutela delle Acque in Italia – sono disponibili i report di sintesi, inoltrati alla Commissione dell’Unione Europea. L’ultimo report disponibile, trasmesso nel 2020, è relativo ai dati con la situazione al 2018).
Invece, come ben evidenziato nella proposta di revisione della direttiva sulle acque reflue urbane (di recente adottata dal Parlamento Europeo), “gli Stati membri dovranno istituire, entro e non oltre il 1º gennaio 2025, una struttura di coordinamento tra le autorità competenti per la salute pubblica e il trattamento delle acque reflue urbane. Tale struttura stabilirà i parametri da monitorare e con quale frequenza e il metodo da applicare”.
In seconda battuta: emerge la necessità di un intervento costante nel monitoraggio degli impianti di trattamento e smaltimento delle acque reflue al fine di verificare che le diverse figure che operano nella gestione degli impianti di depurazione, pubblici e privati (le figure che operano nell’ambito della gestione dei depuratori sono: 1. il titolare dello scarico ex art.124 D. Lgs. n. 152/2006; 2. il gestore del depuratore; 3. il manutentore del depuratore; 4. il produttore dei rifiuti del depuratore, su cui si innesta la recente Sentenza Tar Calabria (CZ) Sez. I n. 2231 del 9 dicembre 2022), si siano effettivamente adoperati nel seguire i diversi trattamenti impiegando tecnologie adeguate e personale specializzato, effettuando analisi preventive che classifichino gli scarichi e i rifiuti e le lavorazioni ad essi correlate.
Ricordiamo, a tal fine, che l’art, 132 del Tua, al comma 1, prevede quanto segue: «Nel caso di mancata effettuazione dei controlli previsti dalla parte terza del presente decreto, il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare diffida la regione a provvedere entro il termine massimo di centottanta giorni ovvero entro il minor termine imposto dalle esigenze di tutela ambientale. In caso di persistente inadempienza provvede, in via sostitutiva, il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, previa delibera del Consiglio dei Ministri, con oneri a carico dell’Ente inadempiente».
Al comma 2, invece, stabilisce che «Nell’esercizio dei poteri sostitutivi di cui al comma 1, il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare nomina un commissario “ad acta” che pone in essere gli atti necessari agli adempimenti previsti dalla normativa vigente a carico delle regioni al fine dell’organizzazione del sistema dei controlli».
La direttiva sul trattamento delle acque reflue urbane è stata adottata proprio allo scopo di proteggere l’ambiente dalle ripercussioni negative provocate dagli scarichi di acque reflue da fonti urbane e settori specifici. Gli Stati membri sono tenuti a garantire che le acque reflue provenienti da tutti gli agglomerati con oltre 2 000 abitanti siano raccolte e trattate secondo le norme minime dell’Ue.
In caso di mancato rispetto della direttiva comunitaria e delle conseguenti legislazione attuativa all’interno del nostro Stato in materia di reti fognarie urbane, depurazione delle acque reflue, adeguatezza degli impianti di trattamento dovrebbe, quindi, inesorabilmente scattare l’intervento sostitutivo di cui sopra oppure la nomina del commissario “ad acta”.
Si può tranquillamente giungere all’adeguata protezione dell’ambiente solo applicando e facendo applicare la normativa sommariamente ricordata a chi di dovere senza varianti di alcun genere.
La qual cosa non credo sia stato fatto finora. Anzi, credo che sia stato fatto proprio il contrario (unica eccezione è rappresentato dall’insistente e quotidiano intervento della Guardia Costiera calabrese, a cui va un doveroso riconoscimento per le frequenti operazioni di tutela dell’ambiente che ogni anno consentono di rilevare i vari illeciti penali e amministrativi a danno di depuratori di acque reflue asserviti ai comuni ricadenti nella propria giurisdizione. A tal proposito, mi piacerebbe che il Capo dello Stato conferisse all’intero corpo un encomio collettivo per tutto il lavoro svolto in questi anni in Calabria).
Per cui ci siamo trovati tutta l’estate frequentemente con il mare di colore verde, chiazze marroni, depuratori dismessi che continuano a ricevere reflui, liquami fognari provenienti da scarichi abusivi o condutture rotte, ecc. (eppure il Tribunale di S. Maria Capua Vetere nel decreto 5 maggio 2011 ha tenuto a precisare che “sussiste a carico del Sindaco il fumus dei reati di danneggiamento e di omissioni di atti d’ufficio nel caso in cui in assenza di autorizzazione ex art. 124 d.lvo 152\06 attiva uno scarico di reflui fognari provenienti da insediamento urbano con immissione in corso d’acqua superficiale e le cui acque risultano inquinanti per presenza di sostanze che superino i parametri di legge, perché trattasi di condotta idonea a danneggiare il fiume ricettore e perché viene omessa l’attivazione dei poteri che il RD 1265\34 Tu Leggi sanitarie attribuisce al Sindaco”).
La qual cosa è anche determinato dal fatto che esistono in Calabria un numero, ancora troppo rilevante, dei centri urbani – piccoli, medi e grandi… – privi di impianti centrali di depurazione fognaria o dotati di impianti parziali (cioè insufficienti a servire tutte le acque reflue urbane prodotte) ovvero a servizio di “sistemi di condotte”, cui non sono ancora allacciati (tutti o parte) degli “agglomerati” interessati.
In generale, poi, gli impianti sono collocati in aree che presentano problematiche di tipo geomorfologico (aree golenali di fiumi, in prossimità della costa o di torrenti, su terreni in pendenza, onde appare ancora urgentissimo, oltre che necessario, provvedere, quanto prima, alla realizzazione di nuove strutture o al miglioramento di quelli già esistenti (che è poi l’Obiettivo dell’Investimento Pnrr 4.4: fognatura e depurazione. per il cui raggiungimento sono destinati interamente al Sud 600 milioni di euro. Ulteriori investimenti saranno ricompresi nell’ambito delle politiche di coesione 2021-2027).
Infine, segnaliamo che, sebbene la Cedu (Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo firmata a Roma il 4 novembre 1950 e entrata in vigore in Italia con legge di ratifica del 4 novembre 1955, n. 848.), non preveda espressamente il diritto a un ambiente salubre, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha deciso diverse cause nelle quali era in questione la qualità dell’ambiente che circondava una persona, e ha ritenuto che condizioni ambientali pericolose o destabilizzanti potevano incidere negativamente sul benessere di una persona (si veda la recente sentenza del 9 aprile 2024, nel caso Verein KlimaSeniorinnen Schweiz and Others c. Switzerland, la Corte europea dei diritti dell’Uomo (Cedu) ha dato ragione all’associazione elvetica. In questa sentenza, la Corte europea citata, con 16 voti favorevoli contro uno, ha affermato che, la mancata adozione delle misure idonee a impedire il surriscaldamento globale e gli effetti negativi dei cambiamenti climatici, costituisce violazione degli articoli 6 ed 8 della Cedu, che riguardano il diritto ad un equo processo e il diritto al rispetto della vita privata e familiare).
Quindi, d’ora in poi, nonostante l’immissione di acque reflue non depurate in acque superficiali, sul suolo, nel sottosuolo e in rete fognaria non sia, di per sé, un diritto tutelato dall’articolo 8 Cedu, «la presenza persistente e duratura di acque reflue non depurate» può avere conseguenze avverse per la salute e la dignità umana, minando di fatto la sostanza della vita privata. Pertanto, qualora siano soddisfatte tali stringenti condizioni, può sorgere, a seconda delle specifiche circostanze della causa, un obbligo positivo dello Stato.
Noi, comunque, nonostante tutto quanto sopra, continuiamo a sperare che le cose prima o poi vadano per il verso giusto
In che tempi si perverrà alla soluzione dei problemi legati alla mala depurazione non possiamo dirlo. È certo, però, che “solo chi sogna può volare” (citazione tratta dal libro di James Matthew Barrie su Wendy e Peter Pan nei giardini di Kensington).
Per cui, continuiamo a sognare. Speriamo bene. (gm)