Alla ricerca della casa di Stromboli dalla Calabria

di GREGORIO CORIGLIANO – Mia nonna era nata a Stromboli, la più coinvolgente delle Isole Eolie. Come l’avesse conosciuta il padre di mio padre non l’ho mai saputo o, forse, col passare di tanti anni l’ho dimenticato.

Una delle poche cose che ricordo, e che mi ha raccontato mio padre, è che dall’isola veniva in barca a remi a trovare il padre di mio padre che poi avrebbe sposato. So che remava lei e si dava il cambio con suo padre.

Ricordo ancora che portavano capperi, nient’altro. Sei ore di barca a forza di remi. Evidentemente, gioventù a parte, doveva essere una donna energica, visto che poi ha concepito ed allevato ben dieci figli.

Ha sempre vissuto a San Ferdinando, dove mio nonno si era trasferito lasciando Laureana di Borrello. E qui ha sempre fatto il falegname. Era la fine del 1800, attorno al 1870. Mio padre, ultimo di dieci figli era infatti del 1916. E’ stato verso il 1960, mia nonna vivente, che mio padre e mio zio Frank, venuto dagli Stati uniti ebbero l’idea di andare a Stromboli per verificare lo stato delle cose, anzi della casa.

Fece loro compagnia un parente diretto di mia nonna, venuto apposta da Napoli, di cui non ricordo il nome. Era un signore alto e robusto che venne a San Ferdinando per una settimana, ospite di mio padre, con il figlio quindicenne. Non ho ormai nessuno a cui poter chiedere per sapere notizie di questo signore, il cui aspetto ho impresso nella memoria, come quello del figlio che ha dormito nel mio stesso lettino, pe mancanza di posti-letto.

Fino a qualche anno fa, ricordavo anche il cognome. Adesso il galoppare della vecchiaia mi impedisce il ricordo. Forse verrà, come spesso accade. Mio padre, mio zio ed il napoletano con ferry boat da Reggio andarono a Stromboli. La cosa che fecero, però, è stata solo la scoperta dell’isola, della casa di mia nonna neanche l’ombra, nessuna traccia. In casa abbiamo la foto della traversata sulla nave.

Tornato che fu un’altra volta mio zio dall’America, io ero già grande, ricordò il caso della casa di nonna. Ed invitò me ad andare a compiere una ulteriore verifica, aggiungendo stavolta di compiere una salto anche a Filicudi, perché, in quest’altra isoletta, ci sarebbe stata la casa di uno zio, marito di una sorella di mio padre, Maria, di cui ricordo bene il nome anche se non l’ho mai conosciuto: Peppino Taranto. In men che non si dica, organizzo il viaggio da Reggio. Aliscafo fino a Milazzo, poi Lipari, quindi Stromboli. Con me Luigina, impareggiabile ed impagabile compagna di vita.

Alla ricerca della casa smarrita. Domanda di qua e domanda di là, trascorriamo una piacevole giornata all’isola. Niente da fare. Solo un signore giudizioso ci ha detto di andare al catasto. Noi non ci avevamo, colpevolmente, pensato. Marcia indietro, aliscafo pe Lipari. Un’oretta di verifiche a registri e scartoffie varie, ma di case intestate a Mariangela De Simone, questo il nome di mia nonna o di Giuseppe Taranto, nulla di nulla. Chiediamo di un geometra, lo troviamo. A pagamento, ci aiuta, ma non veniamo a capo di nulla.

Avevamo visto a Stromboli molti ruderi, forse anche quelli della casa dei genitori di mia nonna, ma vattelapesca. In quegli anni era fiorente il mercato dei ruderi. Così sarebbero, poi, nate le ville dei benestanti italiani. L’acquisto di case abbandonate dai proprietari, diventate res nullius, hanno fatto la fortuna degli audaci.

Delusi e sconsolati perchè non saremmo mai diventati ricchi da avere una casa alle Isole, torniamo indietro ed anziché rientrare nelle Calabrie, come dicono gli isolani, ci fermiamo a Taormina. Telefonata al professor Lello Galluzzo per un consiglio turistico-alberghiero, cena di grande livello al ristorante le Batracomiomachie, pernottamento al San Domenico, per festeggiare la delusione.

E l’indomani, felici e (s)contenti torniamo sulla terra ferma. Il sogno di una villa eoliana, o della shakesperiana notte di mezza estate, era svanito, come dei parenti si è persa ogni traccia, né De Simone, né Taranto. Siamo stati ricchi di un sogno. E non è poco. (gc)

L’OPINIONE / GREGORIO CORIGLIANO: Il funerale dell’agricoltura, troppo tardi

di GREGORIO CORIGLIANO – Hanno ragione da vendere a celebrare il funerale dell’agricoltura nella Piana come ha scritto Michele Albanese. Sono però fedeli non praticanti perché hanno atteso troppo tempo col “morto” in casa, gli agricoltori pianigiani. E difficilmente potranno ricevere l’assoluzione, anche se basta non perdere la speranza.

L’agricoltura è morta da troppo tempo. Io che avevo due ettari di terreno coltivati a clementine, sono stato costretto a vendere tutto. Non era più possibile continuare la coltivazione, i costi di mantenimento di una proprietà agricola non erano e non sono più sostenibili. Nessuno, o poche persone, ha idea di cosa comporti a lavorazione di una piantagione di mandarini o comunque di agrumi. A parte le tasse sulla proprietà, sul reddito dominicale, che non sono affatto secondarie, perché arrivano puntuali come la morte, si comincia, per esempio, con l’energia elettrica. Come si irriga oggi un terreno? O c’è l’acqua del consorzio di bonifica che arriva tramite canalette che tu devi manutenere, oppure ti costruisci l‘impianto di irrigazione autonoma a pioggia, per esempio. E questo costa un fracco di soldi, sempre meno rispetto all’energia elettrica che devi pagare per fare andare l’impianto.

Bisogna irrigare, è vero, soprattutto d’estate, a primavera e in autunno non guasta, ma serve tanta e tale di quella acqua che il contatore dell’Enel non smette mai di girare. Ti piace anche perché non hai da chiamare e seguire un operaio, alzi un interruttore e l’acqua va. Un mese, due mesi, un anno. Poi si guasta il motore, devi chiamare l’elettricista, poi si blocca l’irrigatore o si intasa, e giù spese aggiuntive. E come crescono i frutti? Se non dai da mangiare alla terra, questa non risponde alle tue sollecitazioni. E quindi, devi comprare il concime. Vai al negozio, ma non te lo danno con un “passo domani” o un semplice pagherò. Soldi sull’unghia, come all’Enel, che è pronta a mandarti sempre e comunque un “tagliatore” di corrente, se non fai il versamento. Vai a comprare il concime e poi? Devi caricarlo in macchina, dando per scontato che tu ce l’abbia. Lo devi portare sul terreno, devi chiamare l’operaio per buttarlo alle radici delle piante. Poi gli devi portare la colazione perché ci vogliono un paio di giorni. Altri soldi.

E gli anticrittogamici? Servono? Certo che servono. C’è sempre la peronospera o il ragno rosso, malattie sempre in agguato. Altro giro, altri pagatori. Vai al negozio, compri gli antiparassitari. Già ma quali? Che ne sai tu che hai voluto la bicicletta del giornalismo ed ora devi pedalare? Se non hai un compagno di scuola che ha studiato la materia e ti dà un consiglio gratis ( poi ti devi sdebitare comunque con un panettone!) devi chiamare l’esperto. Lo devi andare a prendere perché non sa dove è ubicato il terreno, fa la visita ed emette la sentenza. Il tuo terreno ha bisogno di questo e quest’altro, le piante sono malate, devi curarle. E giù soldi. Nel frattempo hai da curare la redazione o fare la conduzione del telegiornale, torni indietro e vai avanti. Poi vai avanti e torni indietro, e nel frattempo chi guarda l’operaio? Perchè non bisogna dimenticare mai ciò che ti diceva il tuo papà: «l’occhio del padrone ingrassa il cavallo».

Se non lo fai, ti costa il triplo, perché impiega più tempo per guadagnare giornate (e paghe) di lavoro. E poi? Non è finita. Il giardino di agrumi va allevato come un bambino. Ad un certo punto ti accorgi che è malato e devi chiamare il medico delle piante e poi gli sono cresciute le unghie. E cosa fai? Prima il dottore in agraria e poi il potatore, che non è una cosa facile. Operai specializzati che sembrano farti un favore a venire, perché sono sempre una squadra di sette otto persone munite di forbici e guanti, alle quali alle undici devi portare un colazione, con birra e panino. La “trusciata” col pranzo se la portano loro, una volta arrivavano in bici, oggi in fiammanti utilitarie.

E’ finita? Aspetti il frutto? Ah, quest’anno non è andata bene, quest’altro sì. E vai a trovare il compratore che, una volta era lui a cercarti, adesso lo devi pregare. Pe cosa? Per trenta centesimi, anche meno, al chilo di quei mandarini che trovi al supermercato a due euro? E non devi pagare anche la guardiania del terreno e del frutto? Il riscossore si presenta puntuale appena capisce che hai (s)venduto le clementine. Tutto questo col buon tempo. Se poi ti capita la malannata del cattivo tempo? Non ne parliamo. Incarichi un collaboratore, anche se meglio di te non c’è nessuno. E poi fanno il funerale dell’agricoltura! Troppo tardi. Bisognava pensarci prima. Adesso servono i forconi, altro che SanRemo! (gc)

Il racconto / Gregorio Corigliano: Scusi c’è il lavoro? Torni l’anno prossimo

di GREGORIO CORIGLIANO – Scusi, finalmente, c’è? «Chi»? Il lavoro! «E lo cerca qui, perché»? Non è l’ufficio provinciale del lavoro? «Certo, ma qui è l’ufficio, non il lavoro»! Se c’è l’ufficio, c’è il lavoro, se no che ufficio è? Lo dice la parola stessa: ufficio provinciale del lavoro. Significa che da voi si distribuisce il lavoro a chi lo cerca. «Non è così, come dice lei, amico mio»! Ed allora come è? «Qui si fanno le pratiche per vedere di organizzare al meglio, quasi scientificamente, i posti di lavoro»! Visto, lo dice lei stesso, come organizzare. Con scienza e, quindi, coscienza, spero, i posti di lavoro. Quindi siete tutti impegnati a fare lavori di matematica, trigonometria, algebra per far quadrare i conti in modo da poter procedere, in un secondo tempo, alla distribuzione dei posti tra quanti anelano ad un posto e sono in fila da anni. Applicavano la legge di Taylor, senza conoscerla, forse. Alcuni sono diventati vecchi, vero? «Aspetti, io sono solo il centralinista, assunto con la legge sulle categorie protette perché non vedente e non sono a conoscenza di come i dirigenti stiano lavorando. So che lavorano da anni, perché sento i ticchettii delle macchine da scrivere, i fischi dei gessetti sulle lavagne (quelli che facevano “arrizzicare” le carni) le porte che sbattono, un tram tram (guardi che si dice tran tran, mi inserisco) nei corridoi, poi c’è chi grida, chi urla, chi entra, chi esce. Insomma, da non vedente capisco che c’è gran movimento, quindi significa che lavorano, altrimenti non si sarebbe sentita una mosca volare!» Vabbè, non parli mi passi il dirigente.

Si inserisce di nuovo perché, mi dice, che il dirigente non risponde. «Signore, aspetti in linea, per non perdere la priorità ricevuta, perché capisco che c’è gente in attesa!» Gente in attesa? Lo so bene, i miei figli sono in attesa da trent’anni di un posto! «No, in attesa di parlare col dirigente che non riesco a beccare mai, in tutta la mattinata perchè sarà nella sala riunioni e, a dire la verità, passo la linea, ma poi non la prende nessuno!».

Dimenticando che è cieco, pardon, non vedente, gli chiedo la cortesia di andare a vedere, poi mi riprendo, e gli chiedo di mandare qualcuno. «No, signore son tutti là, presi e compresi ad organizzare numero, graduatorie e distribuzione dei posti, almeno così mi hanno detto, pregandomi di dirlo a quanti avrebbero telefonato e cosi sto facendo, come con Lei, ma piuttosto mi perdoni ma sento il cicalino che mi avverte che ci sono altre telefonate in corso e chiude!» io, che chiamo da un paesino della provincia non so come fare, però sono contento perché finalmente ho trovato un posto che si chiamava “Ufficio del lavoro e della massima occupazione” al quale mi aveva indirizzato un conoscente che si chiamava “collocatore” comunale ma che, alla fine, non era stato messo nelle condizioni di collocare proprio nessuno. Indirizzava le persone a questo ufficio. Io mi ero appena laureato ed ero convinto, con una telefonata, di aver trovato o quasi il posto.

Papà. Lo sai che ho trovato il posto? Davvero? Come, dove, quando? Così racconto al mio genitore quello che mi era capitato: la telefonata, la sala riunioni, i consigli del telefonista, le graduatorie. Mio padre mi guarda e parla… con gli occhi. Volendomi dire «che beata illusione». Lui che era riuscito a vincere un concorso nel 1948 al ministero della pubblica istruzione e raggiungeva la scuola dove insegnare, distante assai da casa, con un guzzino. Come devo andare a Reggio, chiedo a mio padre. Non c’era soluzione diversa dalla ferrovia. Altra avventura, insomma mi organizzo e, alzatomi prestissimo, alle cinque del mattino, tra autobus e treno, raggiungo Reggio. Vado a quell’ufficio del lavoro e chiedo del centralinista del giorno prima. Era assente per malattia. Lo sostituiva un altro collega, sempre della stessa categoria protetta. Gli spiego la questione facendogli il riassunto della telefonata.

Il lavoro, i posti, le graduatorie. Anche il mio nuovo interlocutore mi dice che, a suo sapere, la riunione “dei posti” era in corso. Mi fa entrare e mi dice di attendere nella sala della terza porta a destra. Un freddo cane, mi siedo fiducioso ed attendo il mio turno. Si fanno le 14, ma non mi chiama nessuno. Mi alzo, con uno scatto, vado nella sala riunioni ma non trovo “anima criata” come avrebbe detto Camilleri. Mi arrabbio e grido perché mi sentivo preso in giro. Deluso e sconfortato, prendo le scale – l’ascensore era rotto – manco a dirsi. Saranno state le masse di disoccupati che quotidianamente raggiungevano la sede della “massima occupazione” che non aveva sopportato i richiedenti lavoro. Qualcuno mi dice di tornare l’anno prossimo, e poi l’altro ancora fino a quando… il lavoro non sarebbe giunto a me. Cosa che non è mai avvenuta. Quell’ufficio non c’è più: abolito. Era una presa in giro con quella denominazione. In compenso oggi si celebra la storica festa del lavoro ed in tutte le Prefetture viene consegnata l’onorificenza della “Stella ai Maestri del lavoro” che, ancora e non si sa per quanto, non c’è! Ed i giovani fischiano alla luna, come e più di prima! (gc)

Al cimitero in bicicletta tra i ricordi di chi non c’è più

di GREGORIO CORIGLIANO – Davvero si stava meglio quando si stava peggio? Non ho certezze, forse. E provo a fare una verifica che definire terra terra è poco. Intanto penso che significhi una cosa soltanto: erano più favorevoli situazioni molto peggiori di quelle di oggi, delle quali ci lamentavamo, eccome. Mi scatta la voglia di fare un giro in bicicletta. Me lo ha ordinato il medico, ma siccome non si può leggere in bici, che fai? Guardi a destra e a manca sulla strada provinciale che da San Ferdinando e, più in generale dalla piana di Gioia Tauro, porta a Nicotera.

Pedala che ti pedala avrei voluto raggiungere il fiume Mesima, ma la mancanza di allenamento, mi ha costretto a cambiare idea, e cosi vado al cimitero per la commemorazione dei defunti.Intanto guardo. Rispetto al passato c’è un bancomat che prima non si sapeva neanche cosa fosse. Mi son detto, hai visto che progresso! Guardo meglio e mi rendo conto che prima, nello stesso posto, c’era un banca, cooperativa, ma sempre istituto di credito. Una banca? Si. Adesso non c’è più perché non corrispondeva ai soci alcun guadagno. Forse perdite, dice qualcuno. Ed allora il consiglio di amministrazione ha deciso di chiuderla.

Già, poco prima aveva chiuso un’altra banca, più grande rispetto a quest’ultima. Non rispondeva alle logiche dell’istituto che ne ha chiuso, da banca interregionale, decine di altre. Ticchiti, fuori una, anzi due. Cammina che ti cammina, anzi pedala che ti pedala, mi vengono in mente le sedi di alcuni commercianti di agrumi. Tutti del luogo dell’anima. Prima porta: sprangata. Seconda porta: cadente. Terza porta: sigillata. Un tempo nell’ordine c’era Pino e Melo e prima ancora Pasquale: avevano la macchina per la pulitura delle arance che i titolari compravano nel paese e vendevano nei mercati del centro Nord, o da Battistini a Firenze.

I proprietari se non erano contenti, nemmeno erano scontenti, vista la perenne crisi agrumicola che, dal 1980 in poi, riguardava e riguarda il comparto. Prima ancora, c’era maggiore soddisfazione per gli agricoltori, ma anche per i commercianti che di mattina giravano per le campagne per visionare la roba e per stimarla e decider di fare le proposte d’acquisto ai proprietari. Più avanti c’era Concetto ed i suoi fratelli: sempre vivo e pronto a scappare di qua e di là, ma con occhio attento alle clementine, al tarocco ed al sanguinello. Un destino crudele lo ha fatto fuori! Più avanti ancora Bagnato chacarel, sempre presente, ma sempre stanco. Anche lui, con figli e nipoti, stesso mestiere. E adesso? Tutto chiuso, non vola una mosca, quando prima era un vociare continuo ed un traffico veicolare non usuale. E più avanti? La macchina olearia dei trumbi Rombolà, alla quale facevano ricorso tutti i non pochi produttori di olive per la provvista di casa se non per la vendita dello stesso prodotto. C’è un portoncino malandato e tutto è sbarrato. Tant’è!

Raggiungo il Cimitero. Mi fermo per un doveroso requiem ai defunti, parenti e amici, non pochi. Torno indietro, sconsolato. Possibile, mi dico che sia tutto finito? Che non ci sia più commercio dei frutti della terra, per la quale si erano fatti sacrifici inauditi? Così è. Arrivo alla curva che porta in paese. E l’officina dei fratelli Spinelli, alla quale si rivolgevano braccianti e proprietari coi loro trattori L5? C’è un supermercato ed il consorzio agrario di Don Gino? Trovavi tutto quanto serviva per la coltivazione della terra, concimi ed anticrittogamici che Mantella portava a spalla e mio cugino Cillo fatturava. Manco il bar del Tacchino, per il tressette o la passatella di lavoratori e non! Chiuso. In compenso ci sono i cinesi ed una parafarmacia. Afflitto da porte chiuse e da abbandoni vado avanti. Manco la “rosa dei venti”!Il bar dell’Enal, punto di ritrovo degli stranieri ed una volta “centralino telefonico”, secondo a quello di Chicchina del telefono. Facevi la fila per fare o ricevere una telefonata. Al muro segnati a penna i numeri di uso frequente: medici, ospedale, albergo (c’era scritto “sfogo”, per poter trovare, a richiesta, “compagnia”). Pedala che ti pedala, mi fermo: un portone in alluminio anodizzato, sbircio. Un salone vuoto. Era la sede dell’Agenzia della Cassa di risparmio, anch’essa chiusa. Gesù, Gesù.

Al posto del negozio di tessuti gestito prima da Preiti (prihchiti) e poi da Pascalino ‘u lupo, un abbandonato bar di infimo ordine, chiuso, stavolta per fortuna. Dell’agenzia di viaggi di Pino Di Tommaso, sostituita da una pescheria è rimasto un rudere.Ed il botteghino del “durceri”, dove trovavi tutto l’occorrente per spedire un cesto di arance ad amici e parenti, con targhetta, spago, piombo? Porta sbarrata. Ed il bar del ‘Regno? E’ diventato la casa del figlio, mentre, girato l’angolo, la puticha di generi alimentari della moglie, un ritrovo di gioco a poker di pochi intimi, Nandu e Cicciu. C’è invece il negozio di scarpe di Belfiore? Ma quando mai? Anch’esso chiuso. Trovavi anche bottoni e filo a spagnolette! E la parruccheria di Fernanda? Chiusa da tempo immemorabile. La figlia di Nando Ingegnere, bravissima, trasferita a Cosenza, maritata Campisi, è salita in Cielo. Di fronte c’era il palazzo del prete, adibito a sede Cisl, al piano di sotto, e della Dc, con annesso stanzone per l’Azione Cattolica (con tavolo di ping pong e biliardino – ho trascorso la mia vita da giovane studente- al piano di sopra: oggi è un normale appartamento.

Ed il negozio di bombole di gas e lampadari di Celeste? Scomparso nel nulla. Il barbiere Placido, con pantaloni dieci centimetri più corti, che fungeva da sacrestano? Solo il ricordo. Anche della super profumeria di Calì padre, coadiuvato da moglie e figlie, si ricordano, chi più chi meno, gli olezzi francesi al bergamotto. Se giri l’angolo, non trovi la sartoria Aricò, la macelleria Stilo e vorresti assaggiare il gelato al bacio del Cavallo! Venivano anche dai paesi vicini per gustare le prelibatezze dolciarie di mastru Micu. In piazza c’è la falegnameria di Mastro Filippo, nipote di mio padre? Neanche l’ombra! il negozio della Gioitta? Solo l’odore del vino che vendeva sfuso. Ed il bar dei cento proprietari? Ultimo dei quali Micuccio Cicchedu (prima u Zella?) che teneva il gioco a carte per i giovani studenti universitari, ma anche la bazzica? Il pensiero, solamente, di noi ex giovani che ricordano, come ho fatto io, Franchino Mariani, Frank Palla, Pepè Tavella, Lele Broso, Picicia, Mommino i Missina. Oh mio Dio!

E non puoi comprare la carne di Ciccio Stili, come lo chiamava Micu Canduni, perché ha lasciato questa terra, come Mastru Iapicu e Micu sette teste. Non c’è più il negozio di Radio, televisori, cucine e frigoriferi di Mercurio Fornaciari, il commerciante che portò, nel 1956, con l’ausilio di turinecci e del caciotto, il primo apparecchio televisivo in piazza, per la delizia di grandi e piccini.

E anche la casa dei Marchesi Nunziante, di grande pregio, ha fatto posto, non si è mai ben capito il motivo, al Municipio, diventato, Comune di San Ferdinando. Noto che il camion di Milio, per fortuna, non c’è più e, purtroppo neanche Carminu da calia, come è sparita la sartoria di Cicciu tricchili, che cuciva e tagliava anche chi capitava sotto il tiro infuocato del fratello Nando e del poliziotto-canazzo di guardia Calabrò. Torno a casa? Non mi so regolare, proseguo il mio tour. Il neo aperto Pane e parole è volato via assieme all’inventore Liberto, ma c’è Augusto con la figlia del maresciallo che tengono banco con frutta verdura e vino casaloro.

Non c’è più la ditta di legnami e similia Bonifacio-Liberto e naturalmente spariti, ovviamente, coloro che ferravano i cavalli. Ed i vigneti? Rasi al suolo, per far posto a case, case, ville e alla figlia di Tuttofare che, con Michele, soddisfa palati fini. Toh, anche una improvvisa pizzeria. Giro! Il vecchio super apprezzato cinema Garden, che ha preceduto centri più importanti della Piana e dove hanno proiettato un film con l’attore Pino Policriti, biondo, è stato fatto crollare. C’è, però, un affermato dentista ed uno studio legale, condotto dalla figlia di un mio amico che, a quei tempi, non c’erano.

Sono stanco, la bicicletta è dura da gestire ormai, torno a casa. Per nostra grande immensa fortuna, è rimasta la Chiesa Madre, punto di riferimento di cattolici e non solo. Dovrei girare ancora. Avrò sicuramente dimenticato altre presenze, colpa dell’essere diversamente giovane!

Sicuramente non troverei più i miei punti di riferimento giovanili: tra questi la storica edicola Attuario, il coiffeur Nandu Lanzo, mastro Michele del Totocalcio, il corpo dei vigli urbani. Si stava meglio allora perché risuona molto rimpianto e nostalgia dei tempi passati che, seppur non magnifici erano sicuramente migliori. Si era poveri davvero, ma c’era, sicuramente, il sapore della gioventù! Quella che non torna più. Ed allora nella ricorrenza dei morti non mi resta che tornare al Cimitero per una doverosa e sentita visita ai morti. (gc)

L’OPINIONE / Gregorio Corigliano: sussurri e grida intorno a Germaneto

di GREGORIO CORIGLIANO – Sussurri e grida. Il famoso film di Ingmar Bergman degli anni Settanta mi viene in mente a proposito della situazione politica regionale. I sussurri si percepiscono al momento della riunione dei vertici (?) dei partiti (??) di centro sinistra, allargata a qualche movimento civico, di recente costituzione. Le grida, invece, a conclusione o all’indomani dell’incontro al vertice. Mai nessuno che sia soddisfatto. I sussurri alla sera o alla notte. Le grida la mattina. I sussurri per far trapelare quel che si è detto e soprattutto, chi lo ha detto. Se qualcuno tra giornali, agenzie e social ha ripreso la soffiata ecco che ci sono le grida di chi è insoddisfatto. Ed il bello è che tra sussurri e grida non c’è chi abbia parlato di temi politici, di proposte programmatiche o di intuizioni per battere l’avversario, in questo caso il centro destra. Solo e soltanto di come comporre, e con chi, la coalizione e chi deve guidarla. Sussurri, soprattutto, perché si tratta di riunioni da remoto, cioè al computer. Non si vedono, il più delle volte, ma si sentono. Chi ha potuto partecipare – fortunato lui – ha “firmato” la presenza, acquisendo il titolo di poter partecipare alla successiva riunione. E comunque c’è da star certi che non si è parlato di Recovery Fund, men che meno di Next Generation Eu, di utilità del Mes, di interventi per il Sud o per i giovani del Sud o della Calabria in particolare. Ma solo e soltanto di come comporre la coalizione e, immagino, dopo l’assoluzione di Oliverio, se deve partecipare alla coalizione l’ex-presidente della giunta e a che titolo e con quale ruolo.

Il problema principale è Tansi sì o Tansi no e con che ruolo e se è soddisfatto. E poi il M5S, sì o no. In accordo o disaccordo col Pd? E chi esprime il Presidente? Ore ed ore di discussione, perché i partecipanti, essendo tutti di vecchio conio, come si diceva un tempo, sono veramente bravi nel fare melina o nel perdere tempo. Nessuno che faccia il beau geste e dica, io non partecipo alla giostra delle candidature ma vorrei esprimere solo un parere ed indicare un giovane professionista per eventuali esigenze. No, tutti indispensabili, senza che si faccia un esame di coscienza e si pensi che alle ultime elezioni i cittadini hanno eletto il peggior Consiglio regionale di sempre. Espressione di candidature imprevedibili. Singolarmente nulla quaestio, o quasi, nell’insieme, però, da entrambi i versanti, l’assemblea non ha brillato affatto. Ed i nomi di cui si parla? Tutti della vecchia nomenclatura, a parte Tansi.

Ed ecco che si sarebbe parlato di candidati alla presidenza  del calibro di Viscomi, Irto, da qualche giorno, lo stesso Oliverio. Sconosciute, o non note, le proposte pentastellate o del partito di Renzi, men che meno di Leu, o del movimento M24A ET di Pino Aprile, che si candida personalmente con a fianco di un gruppo di insegnanti impegnati, tra cui Cinzia Lamberti Pantalone Spadei, sempre puntuale sui social e agli incontri. E dire che non si vota fra un mese, come era pur previsto, ma il decreto Spirlì ha spostato il turno ad aprile. Da un lato, la nuova data ha facilitato le scelte o, quanto meno, ha dato tempo maggiore, covid permettendo, per “riflettere” sulle scelte. L’unico che ha già preparato liste e candidati è Carlo Tansi. Lo stesso Pino Aprile è in fase avanzata di raccolta di adesioni. De Magistris pur non gradito dall’establishment, scioglierà la riserva a breve, pur affermando che si tratta di un’ipotesi certa. I sostenitori ci sono. Tra questi Michele Conia e Saverio Pazzano, entrambi di sinistra.

Non è dato sapere se l’attuale dibattito ha toccato quello che Anna Falcone, tra i protagonisti coperti della eventuale candidatura alla presidenza, (non mi piace discesa in campo) ritiene necessario: competenza, autorevolezza e autonomia dei candidati. È comunque necessario, oltre al nome autorevole, una squadra. Cosa può fare un presidente senza l’ausilio di un gruppo di giovani esperti e preparati, in grado di fare i consiglieri, gli assessori, gli sherpa del presidente, i gostwriters. E che sappiano di cosa si parla in Consiglio regionale e che abbiano un minimo di dimestichezza col diritto regionale e amministrativo. Lo stesso discorso vale per il centro destra penalizzato dalla scomparsa della presidente Jole Santelli che aveva battuto Pippo Callipo con migliaia e migliaia di voti in più. Non sono tantissimi i nomi che circolano, a parte Roberto Occhiuto, Wanda Ferro o l’assessore Gianluca Gallo o il medico di Roccella, Bernardino Misaggi, proposto da Berlusconi. Sicuramente ci saranno altri nomi, ma non è dato sapere. E gli incontri al vertice con Salvini, Tajani e Gasparri, che in Calabria è di casa, come la Meloni? Evidente è ancora presto per sciogliere i nodi. Che non sono pochi sia a destra che a sinistra. (gc)

 

Nero di seppia
di Gregorio Corigliano

Quante storie sono conservate nei taccuini di un giornalista? Tornano alla memoria volti, persone, luoghi che non sono stati dimenticati, ma stavano un po’ in disparte, quasi nascosti in qualche angolo di cuore. E allora viene voglia di far uscire questi schizzi di memoria, che in realtà non sono poi così piccoli, anzi, man mano che le dita scorrono sulla tastiera, si scoprono sfumature e angolazioni che incredibilmente erano sfuggiti. Così, Gregorio Corigliano, giornalista di lungo corso, scrittore, calabrese di San Ferdinando di Rosarno ma più propriamente calabrese al 100%, ha messo insieme le sue storie al “Nero di seppia” (che dalle nostre parti è uno straordinario ingrediente per condire pasta e riso) che riescono a sedurre anche il lettore più distratto. Sono tinteggiature chiare di luoghi e persone, spolveri di memoria, che coinvolgono e avvincono il lettore.

Il giornalista Tommaso Labate, cronista parlamentare del Corriere della Sera, introduce il libro di Corigliano con la stessa passione che ritroveranno i lettori: « C’è un un uomo – scrive – che ha il mare dentro e nelle pagine cammina, osserva, guarda, pensa, scrive. E quel mare, che è avvolgente quanto inquietante, feroce quanto rassicurante, ha una forza espressiva totale quasi fosse umano. O, forse, divino. Il mare ha cromatismi che variano, odori che avvolgono, “sprizzi” che toccano, silenzi che parlano. E quell’uomo vi è immerso tutto. Seduto in riva al mare. E quell’uomo riempie i suoi taccuini di nero di seppia e i fogli si bagnano di storie e narrazioni che sanno d’infanzia, di adolescenza e di una vita che cresce. E sanno di quel piccolo mondo antico che è sedimentato nella memoria dell’uomo che scrive e che, d’un tratto, appartengono a tanti. Forse a tutti. Ci sono fichi, clementine, uva, pescato, profumi e sapori che hanno palpiti e ticchettii d’anima. E quel nero di seppia lentamente si fa osservazione del mondo e racconta altre storie perché quell’uomo, l’uomo del mare, diventa giornalista e le sue pagine si fanno mondo e storie di umanità, spesso dolorosa e dolente. Ma anche ironica, eroica, immaginifica, progressiva, scottante. Perché un giornalista dipinge nei suoi taccuini il mondo tutto con le sfaccettature più diverse e complesse. Come il mare. Dove torna e ritorna sempre. Seduto in riva al mare. E lì, l’uomo del mare, si fa mare». (dl)

NERO DI SEPPIA
di Gregorio Corigliano
Pellegrini Editore, ISBN 9788868228477

Nero di seppia, un “memoir” nostalgico di Gregorio Corigliano

Nel suo ultimo libro “Nero di Seppia, dai taccuini di un giornalista seduto in riva al mare” (Edizioni Pellegrini) Gregorio Corigliano, storico giornalista Rai e per lunghissimi anni inviato speciale e massimo esperto della RAI sui sequestri di persona che hanno riguardato in particolare la Calabria, racconta questa volta se stesso e la sua vita da “marinaio”.

Lo fa con una delicatezza inusitata, con un linguaggio d’altri tempi, che trasuda di nostalgia, di emozioni per le cose perdute, di ricordi atavici forti, di leggende e di novelle sempre attuali, ma lo fa soprattutto con un garbo ed un “senso di rispetto” verso il mare, che ha segnato profondamente la sua vita, che merita davvero grande ammirazione generale: “È stato lo zio Nino a farmi amare il mare. Non potrò mai dimenticarlo!…Quando mi sono iscritto al social più famoso, ho pensato di aggiungere “giornalista che ama il mare!” Perché? Lo si intuisce, ovvio. E perché lo amo? Perché sono nato, tantissimi anni fa a venti-venticinque metri dal mare. Tanto distava la casa dei miei genitori dal Tirreno. Mi affacciavo, quando ero più grandicello, e dalla finestra ammiravo il mare.

Lo vedevo, lo respiravo, lo gustavo”. Figlio di mare in tutti i sensi, perché figlio di un uomo e di un intellettuale che amava egli stesso così tanto il mare da essersi dimenticato di lui, che proprio quel giorno stava per venire alla luce: “Quando sono nato, mio padre era a mare. Era andato a pesca.

Lo sapeva bene che i giorni del parto si erano compiuti. Pur nondimeno il mare per lui era una calamita, d’estate. Non riusciva a non raggiungere la spiaggia, d’estate e di inverno. Era più forte di lui. Quando è tornato io ero già nato, ed ero il primo figlio. …Sono nato, alle sette del mattino, due ore dopo che lui era andato a mare.

Quando è tornato, felice e contento perché aveva pescato quattro seppie, ha avuto la sorpresa, che lo ha mandato in estasi, di trovarmi accanto a mia madre. Ero nato. Tutto questo per dire dell’amore per il mare che non ha frenato mio padre neanche nei “giorni del batticuore” intimo”.

215 pagine, una prefazione di Tommaso Labate (storico notista politico del Corriere della Sera), una post fazione di Agostino Pantano (inviato televisivo di punta de LaCnews 24) 34 capitoli diversi, tutti pezzi di autentica storica calabrese, ritratti coloriti e ammalianti di una generazione e di un tempo ormai lontani, ma pieni di amore per quegli anni e per quelle traversie, dalla nascita alla prima elementare, poi le medie, gli anni del liceo, l’Università a Messina, i primi viaggi all’estero, l’abbraccio mortale del giornalismo, e poi ancora il primo giorno di assunzione alla Sede Rai della Calabria, di cui è stato anche Caporedattore, e i mille successi nazionali e internazionali legati al suo lavoro quotidiano, con tutto quello che ne deriva dall’avere la fortuna di fare per mestiere e per passione l’inviato speciale di una grande e meravigliosa azienda pubblica come la Rai.

Ma una delle pagine più struggenti di questo suo racconto di vita è il momento in cui suo padre gli regala la sua prima macchina: “La mia prima macchina, ricordo che andammo, con mio padre e con Ciccio, all’Icar di Gioia Tauro e Sandro Benedetti mi consegnò l’unica Fiat 500 che aveva, azzurra e, ahimè, senza sedili ribaltabili… allora indispensabili. Fu targata RC 78101, lo ricordo ancora”. E’ l’inizio della grande avventura nel mondo del giornalismo: “Il primo ed unico sequestro di persona avvenuto a San Ferdinando, quello di Franco Bagalà.

Una prigionia di dodici giorni. Del riscatto non ho mai saputo alcunché di ufficiale. Con il grande Gigi Malafarina, facciamo, con mia grande soddisfazione, i pezzi a due firme sulla Gazzetta del Sud. Quale onore!”.

Ma è chiaro che San Ferdinando è solo una parentesi della sua vita futura, costellata di incontri importanti e soprattutto di amici influenti e di grandi giornalisti. È il caso di Franco Bucarelli, forse il più grande cronista di nera che la Rai abbia mai avuto, dallo stile irripetibile e dalle mille risorse professionali. Gregorio Corigliano lo ricorda in questo modo: «È proprio alla partenza per Istanbul che conosco il giornalista che più di tutti, in assoluto, sarà il mio mentore, il mio amico non calabrese più affettuoso, il mio consigliere, il mio maestro, anche di vita: Franco Bucarelli, inviato speciale del Gr2 dell’epoca. Quanti consigli, quante spinte ideali, quante esperienze con lui, da Bangkok a Tokio, da Malta a Copenaghen. L’ultima a maggio 2019 a conoscere Cracovia e dintorni, il regno di Papa Giovanni Paolo II. Un’esperienza unica. Anche di questa sarò grato a Franco tutta la vita”. Il viaggio forse più emozionante per lui fu quello negli Stati Uniti, New York, la Grande Mela, la Little Italy, il Ponte di Brooklyn, la Statua della Libertà, il Grande museo di Ellis Island, e qui una nuova scoperta della sua vita, la più inattesa: “Non ci crederete ma è solo nel 1970 che ho conosciuto altri tre Gregorio Corigliano, i figli dei miei zii.

Nessuno allora era mai venuto in Italia, men che meno in Calabria. Solo due di loro, ma negli anni ’90. A mala pena conoscevano un po’ di dialetto calabrese”. Emigrati tra emigrati, emigranti tra emigranti, alla fine anche lui ha speso da emigrato tutta la sua vita lontano da San Ferdinando di Rosarno, il paesello di cui il libro trasuda sangue, per via dell’amore viscerale che da sempre lega Gregorio Coriglano alla sua gente e al suo paese natale: “ Vinisti?” “Sì”. “E quando vinisti?” “E quando tindi vai?” “Non lo so”.

“Veni e mangi ‘a casa mia?” Queste, in sintesi, le prime parole che ascolto quando arrivo nel luogo dell’anima per le vacanze. Costa smeralda, Billionaire? Ma quando mai?

Vuoi mettere il posto dove gli odori, i sapori, gli sguardi ti appartengono e cambiarli con il lusso che secondo me vacanza non è? È sempre così”. Ma tra una missione e l’altra all’estero torna nella sua vita, prepotente e indomita, la voglia di mare, e qui i ricordi del suo mare sono davvero infiniti e per certi versi anche strazianti : “Una volta, addirittura, Zarafino mi ha portato da mezzanotte alle sei del mattino per la pesca dei tonni. Non ho resistito che fino alle tre: il sonno ed il freddo furono più forti. Il modo per riscaldare i piedi era tenerli in acqua.

Non ci crederete, ma l’acqua di notte, rispetto alla temperatura esterna, è molto calda. Poi su un angolino, alla meno peggio, mi addormentavo ed i marinai mi sfotticchiavano. Giustamente: sei voluto venire ed ora dormi? Svegliati, lupo. E chi ce la faceva?” Delle sue radici Sanferdinandesi Gregorio Corigliano ne fa in questo suo romanzo, perché tale è questo suo nuovo saggio, motivo di vanto.

È come se essere nato da queste parti gli desse prestigio e autorevolezza, proprio perché figlio di una tradizione senza fine, che è la tradizione dei nostri paesi più piccoli e della gente che li vive, testimone privilegiato di una storia infinita: “Chi è nato ed è cresciuto in un paese piccolo piccolo di vicini ne ha quanti ne vuole, se li vuole, ed anche se non li vuole.

Eccome se li ha. Perché un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra, c’è qualcosa di tuo che, anche quando non ci sei, resta lì ad aspettarti”.

E per chi non avesse capito fino in fondo questa “ammissione di colpa”, Gregorio Corigliano va ancora oltre e riconosce che aveva proprio ragione Cesare Pavese nella “Luna e i falò”: “Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra, c’è qualcosa di tuo, che, anche quando non ci sei resta ad aspettarti”. E questo è (o era) San Ferdinando, non più, e da tempo, frazione di Rosarno, ma il luogo della tendopoli e di Sarko! E questo in aprile, maggio, giugno e vieppiù in luglio ed agosto. Sempre gli stessi rituali”. Un saggio letterario? Forse.

Un romanzo? Forse ancora di più. Un’analisi antropologica? Certamente anche quello. Di fatto in questo suo ultimo libro il grande inviato di un tempo ricorda il suo passato con una forza ancestrale da lasciare esterrefatti: “La mia vita, solo giochi? No, di certo. Mio padre, in piena estate, ma di mattina, mi mandava a ripetizione da un altro vicino, anzi esattamente di fronte a casa mia. Il professor Giovannino Celeste.

Docente molto attento che mi plasmava sulle lettere e sulla scrittura. Letture, letture, dettati e commenti. Autori i più vari. Pascoli, De Amicis, Leopardi, Foscolo e via dicendo. Questo per l’italiano. Per il francese, sempre di mattino, dal professor Peppino Cimato. Due ore toste, con pochissimi alunni a ripetere. Poi con lui, a mare.

Mia madre attendeva sull’uscio ed in tre scendevamo sulla spiaggia. “Mamma mu jettu”? Va bene, ma aspetta un poco, asciuga il sudore”. Mamma, e poi ancora mamma, disperatamente mamma for ever: “Mio padre era già partito col Guzzino rosso, tutto imbardato con giubbotto, giornali al petto, berretto con copri orecchi e occhialoni anti vento per insegnare a Spina, una contrada di Rizziconi. Mia madre restava a casa, al focolare, in tutti i sensi. Sistemare la casa, rifare i letti, cucinare al fuoco (‘u focularu) i fagioli (o i ceci) nella pignata, la verdura al fuoco della legna o ai fornelli di una modestissima cucina a gas”.

Il libro di Gregorio Corigliano è anche lo specchio dell’anima del suo paese natale e della sua gente, e che il cronista rilegge qui in chiave moderna, dandoci la sensazione che la cosa non gli sia mai pesata, ma in realtà tutte le sue pagine sono impregnate di solitudine e di amarezza per il tempo perduto: “E dopo cena, verso le 19.30?

Se era inverno, si stava attorno alla ruota di legno col braciere (ancora ho sia l’una che l’altro) e mio padre ci parlava della guerra, era partito nel 1939 e rientrato dopo 9 nove anni, e soprattutto delle pene patite in prigionia, in India, ai piedi dell’Himalaya. Mia madre, quando mio padre si addormentava, ci raccontava dei sacrifici fatti da suo padre e dai suoi fratelli per coltivare la terra. Divertimento? Non tanto, anche perché la televisione non c’era.

L’aveva un nostro cugino, Pasquale Ferro, padre di Mimì e Carmela. Andavamo a casa sua per vedere Lascia o raddoppia o Campanile Sera. Nel periodo 94 di Natale, c’era Canzonissima, con l’estrazione dei biglietti della Lotteria. Per il resto, niente, cioè tutto, rientravamo sereni, anche se morti di freddo. La casa era gelata, il calore veniva dal braciere che spostavi nelle varie stanze. Ed a letto? Un mattone caldo, o la bottiglia di vetro con acqua bollita! E ti addormentavi pronto a rialzarti al mattino e a ripetere ritmi e serenità dei giorni precedenti”. Dio mio che efficacia! Ma quella era la nostra vera vita. Capitolo dopo capitolo, il libro ricostruisce con una lucidità storica ricca di dettagli e di riferimenti personali, mille nomi diversi, mille situazioni diverse, mille aneddoti altrettanto diversi, la vita della gente comune scandita da tanto lavoro e da tanta fatica: “Una volta, in campagna, al giardino di arance e mandarini, si andava “a giornata” d’inverno e a “matinata” d’estate. La differenza non era di poco conto: a giornata significava iniziare a lavorare al sorgere del sole o alle prime luci del giorno, alle sette o al massimo alle otto e per sette otto ore. Col buon tempo o con il “malutempu”. E tutti i santi giorni, a volte, anche la domenica.

Un’intera giornata di lavoro. “A matinata, significava cominciare quasi col buio, partendo con la bicicletta col fanalino che si accendeva con la dinamo che strusciava sul copertone della ruota, per arrivare appena faceva giorno”. Ancora più struggente il ricordo del giorno in cui nella Piana di Gioia Tauro arrivarono le ruspe per favorire il “sogno” del quinto centro siderurgico, e qui il romanzo di Gregorio Corigliano si fa “amaro” e “disperato”: “Una “carneficina”! Quale spettacolo ai nostri occhi! Interi appezzamenti di terreno della Lamia, una delle contrade più floride per la produzione delle clementine, erano stati “livellati”.

E la ruspa continuava imperterrita, senza pietà, ad abbattere, sradicandoli, altri alberi, sotto gli sguardi impietriti ed esterrefatti dei vecchi proprietari (vecchi perché i terreni erano passati di proprietà dello Stato che li aveva espropriati, pagandoli anche a prezzo di mercato) che a stento riuscivano a trattenere le lacrime. Qualcuno piangeva ancora! Dalla ruspa senza cuore all’inferno dell’abbandono il passo è breve”.

Quanta tristezza atavica!

Quanto rancore personale nei confronti di un Paese che non ha mai condiviso le ragioni del Sud e le necessità della gente che lo vive: “Questi appunti li ho scritti (a penna su carta a quadretti di cui conservo l’originale) a marzo del 1981. Allora veramente andai in campagna in contrada Granatara perché, dopo l’esproprio del nostro terreno per il (fallito) quinto centro siderurgico, mio padre non voleva restare senza un agrumeto e aveva investito il ricavato del risarcimento in un nuovo terreno, che ancora, per poco, abbiamo.

Sono vent’anni, però, che, ad annate alterne, non provvede per se stesso. Ci rimetto del mio. Un giorno, abbastanza presto venderò. Con dolore, ma devo farlo! Chiuderò gli occhi sui tantis- 85 simi, immensi sacrifici fatti da mio padre. La crisi è tale che non conviene più avere pensieri ed occuparsi di terreni”.

E’ storia vera, ancora attualissima, incontestabile, ma per la prima volta oggi, forse, un romanzo dai toni crudi e pesanti ricostruisce questa fase utilizzando l’arma impropria della malinconia e del senso di solitudine: “Mio padre non aveva piantagioni di clementine. Aveva in zona Colline, un ettaro di uliveti con una decina di piante di fichi, bianchi e neri (i fichi “milingiana”).

Ricordo benissimo che andavamo a raccogliere le olive, con mia madre e tre-quattro donne del paese che fungevano da raccoglitrici con le scope che mio padre preparava qualche giorno prima perché, non si trattava, come tutti qui sanno, di scope normali, ma proprio di ramazze in grado di raccogliere le olive tutt’intorno all’albero, farne un unicum e poi sistemarle nelle sporte che bisognava portare all’ingresso della proprietà”.

È storia contemporanea, del Mezzogiorno di questi ultimi 50 anni, storia nuda e cruda, impietosa e irritante, a volte offensiva e oltraggiosa verso chi ne è rimasto vittima, che qui viene riproposta con grande efficacia da un testimone autorevole e privilegiato come lo è ancora Gregorio Corigliano, e che ha fatto del linguaggio scritto la sua unica mission di vita.

Leggiamo insieme questo passaggio, che è davvero impietoso: “E se un giorno la terra te la chiede lo Stato? Che fai? Puoi non dargliela? Certo che no, anche se ti batti con le unghie e coi denti per evitare l’esproprio e la distruzione di quel che avevi creato con grandi sacrifici.

Tu, tuo padre, tuo nonno, perfino il tuo bisnonno, La terra significava anche e soprattutto essere radicati proprio lì, nel tuo paese.

Quel paese che hai dentro di te, al punto che torni spesso anche se vivi a Torino, Parma, Milano o a Cosenza. Ti manca l’aria, ti manca il profumo, ti manca l’atmosfera. E forse ti manca la gioventù che te lo aveva fatto (e te lo fa) apprezzare ed amare”. Ne deriva il ricordo immediato dei vecchi amici i infanzia, che ti porti dentro per tutta la vita: “Il primo a tirare fuori il dialetto dell’anima, è Ciccio, che pur vivendo a Parma, da quaranta e passa anni, è quello che ricorda il dialetto alla perfezione, anche quello non più in uso. “Vieni a casa mia stasera?”

Ti faccio una “mpagghiata”. E cos’è? E di undi veni i Bolzanu?… Poi tutti insieme ricordiamo quelli che c’erano gli anni scorsi e non ci sono più. A partire da Mino il bello, da Renato, la cui moglie, di Oslo, veniva ogni giorno al paesello, con Denise e Grethe. Adesso anche Christine è volata…! Ciccio il grande e Ciccio il parmigiano, sono i “mastri della serata”. Con occhio svagato guardiamo le ragazze che sostano in piazza. Solo l’occhio. Altre cose sono ricordo del tempo che fu e che non ritornerà”. Dal passato all’attualità di queste ore.

Oggi San Ferdinando è icona della “tendopoli”, un nuovo popolo vive queste terre e nessuno meglio di Gregorio Corigliano riesce qui a darci l’immagine vera di cosa accada ogni giorno dietro le tende della piana: “Uomini privati di dignità, “dannati della terra”.

Specifico “dannati della terra nostra, della terra del sole e del mare”: dannati come Sacko Soumaila che ci ha rimesso la vita, come le altre vittime, tra e quali Becky Moses e Moussa Ba. Nella tendopoli il dolore si rinnova, è forte. Il dolore è stato molto forte quando ha perso la vita Sacko, che era il loro punto di riferimento, la loro guida”. Nient’altro? Potremmo andare avanti per ore ancora, c’è un capitolo di questo libro per esempio dove il grande cronista ricostruisce l’arrivo a San Ferdinando del regista Roberto Rossellini e Ingrid Bergman:”A cena si apprese che Ingrid Bergman e Roberto Rossellini erano diretti proprio a Stromboli per girare l’omonimo film.

Mio padre diede loro tutte le informazioni possibili perché sua madre, mia nonna, Mariangela De Simone, era proprio di Stromboli. Rossellini aveva 43 anni, Ingrid 34. Una storia d’amore che gli esperti di cinema conoscono bene. Nessuno, o pochi, forse, hanno mai saputo della sera d’amore calabro-sanferdinandese”.

Volete saperne di più? Semplice. Venerdì prossimo 13 dicembre, giorno di Santa Lucia, Gregorio Corigliano e Walter Pellegrini presenteranno in anteprima nazionale il libro alla Terrazza Pellegrini, e lo faranno insieme a Antonietta Cozza e due vecchi compagni di lavoro e di vita di Corigliano, Riccardo Giacoia e Mario Tursi Prato, che sono cresciuti con lui in redazione e che da lui hanno imparato fino in fondo l’amore per la scrittura e la parola. (p.n.)

nero di seppia

QUELLE ESTATI SUL TIRRENO APPENA 50 ANNI FA…

di GREGORIO CORIGLIANO

Non è da moltissimo tempo che si fanno le vacanze. Anzi. Fino a poco più di 50 anni fa, probabilmente, la parola vacanza era conosciuta da pochi. Nei mesi canonici di luglio e di agosto in Italia ed in parte in Europa, si rimaneva in casa. I fortunati erano coloro che avevano la casa di abitazione al mare o in montagna. I più la preferivano al mare perché così avrebbero potuto “cullarsi tra le onde o stendersi sulla spiaggia con la scusa del “sole per l’inverno” o per fare le c.d. “sabbiature” contro i possibili reumatismi. C’erano anche coloro che ritenevano di dover andare in Aspromonte, in Sila o sul Pollino per godere delle frescure dei boschi.
C’erano delle differenze,però. Chi aveva la casa di abitazione al mare, ricavava due ore per “prendere” il bagno e poi tornava a casa. Chi invece viveva in montagna, a meno che non fosse ricco ed avesse la casa di proprietà, o doveva viaggiare – ma era una faticaccia – oppure provvedere al fitto di un localino. Gli storico-statistici fanno risalire al 1967 l’anno di inizio delle vacanze. Era l’anno in cui si scendeva a mare e ci si portava dietro – racconta chi questa esperienza l’ha fatta – un lenzuolo bianco che si sistemasse a mo’ di ombrellone, ma anche di spogliatoio, i giochini dei bambini, rigorosamente un cocomero ed un paio di bottiglie d’acqua che si facevano rinfrescare a mare. I frigoriferi ancora non c’erano. A mare si sistemava anche il cocomero. Questo per chi rientrava a casa per l’ora di pranzo, perché, c’erano anche quanti restavano l’intera giornata a mare, viaggiando dai paesi vicini, in autobus.  In questo caso, le masserizie da portare sulla spiaggia erano davvero molte di più. Sedie e sedioline di tutti tipi, salvagenti, tovaglie, cibo preparato la mattina, vino e poi via al mare a sciacquettarsi. Poi, il pranzo luculliano, il sonnellino, rigorosamente, d’obbligo, da parte di mariti, mentre le mogli dovevano accudire i bambini che erano il motivo ufficiale della “calata” al mare. Perché, con la scusa dei ragazzini, anche mamma e papà godevano della frescura delle acque del Tirreno o dello Ionio. Naturalmente non c’erano lidi o stabilimenti balneari per cui tutto avveniva sulla spiaggia, compreso il cambio dell’eventuale pannolino. E dove finivano i c.d. “resti” della giornata a mare? Tutto sulla spiaggia, che era luogo di svago, luogo di sole, ma anche per nascondere i rifiuti. Già da allora il problema, croce e delizia,anche oggi degli amministratori. Ed il bello è che c’era più gente allora che non oggi. Anche se, essendoci maggiori disponibilità, oggi si va di quà e di là, anche per conoscere nuovi lidi, appunto. Quando non si va fuori provincia o fuori regione.


Allora era un arrangiarsi del quale nessuno si vergognava, probabilmente perché ci si conosceva tutti od anche perché le spiagge di un tempo erano talmente lunghe e pulite – come il mare “era una tavola blu” – che ognuno trovava spazi anche per tutelare la propria privacy. Suore e sacerdoti avevano i loro spazi privati. Nel luogo dell’anima, (San Ferdinando mare, un tempo ormai lontano frazione di Rosarno!) si ricavavano gli spazi per giocare al pallone, ai tamburelli o ai cerchietti (per le ragazze), le bocce o i piattelli sarebbero arrivati anni dopo.
Di motoscafi neanche a parlarne. Al massimo, la barchetta con i remi,senza motore, che ti prestava qualche marinaio,tuo compagno di scuola, giusto per il gusto di vedere il mare “turchino”, che era molto lontano dalla riva. E la mattina e la sera? Essendo, il luogo dell’anima, dove si aveva ( e si ha casa) avevi i compiti preassegnati dai genitori. La mattina si accompagnava il papà in campagna per i lavoretti di stagione, tra questi il problema dell’irrigazione che è stato sempre un dramma per la carenza d’acqua (come quest’anno), poi gli anticrittogamici per le malattie delle piante e se qualcuno aveva provveduto a piantare frutta di stagione a raccogliere i cetrioli, i peperoni, i pomodori o i cocomeri.
Alle undici, rigorosamente dopo il 29 giugno, perché una triste leggenda impediva di fare il bagno prima di quella data, il tuffo in mare. Nuotata di rito fino a quando le labbra non diventavano nere, poi sulla spiaggia, ad “arrenarsi” a buttarsi sulla “rena” che bruciava per il calore e cosi riscaldarsi per poi rituffarsi. Qualche volta si preparavano i sacchetti per i tuffi dall’alto, qualche altra la gara “alle calate”. Farsi spingere il malcapitato, cioè, dalla testa e possibilmente arrivare a toccare terra sott’acqua. Era una gioia se il mare era calmo. Perchè, ove mai fosse stato agitato? Ancora meglio, per i giovanotti che si dovevano far vedere dalle amiche che erano capaci di tuffarsi anche quando c’erano i cavalloni che incutevano paura. I più arditi,però,non ne avevamo e riuscivamo a sfidare la furia delle onde, qualche volta correndo il pericolo di non riuscire a venir fuori.
Eravamo costretti ad aspettare un po’ di “calmeria” che di tanto in tanto arrivava. Si era fatta l’ora di pranzo, si doveva tirar la bottiglia dal pozzo dove, legata con una cordicella, mio padre, la faceva rinfrescare, poi si preparava – d’obbligo – l’idrolitina, poi ancora si portava in cucina il cocomero che mia madre tagliava a fette. Nel frattempo aveva preparato i peperoni arrostiti sulla “fornacetta”! E poi? Poi c’era il rito della pennichella che precedeva i compiti che gli insegnanti ti avevano assegnato. Fino alle 18. Dalle 18 alle venti si tornava sulla spiaggia, giusto per non perdere l’abitudine. Si giocava, anche se c’era chi tornava a fare il bagno. Tamburelli o, sotto le barche, il gioco a carte napoletane. Senza soldi, anche perché non ce ne erano. Poi, il rientro per la cena. Ed infine, udite, udite, a parte quanti tornavano a mare, si stava seduti di fronte all’uscio di casa a “spettegolare” con genitori, parenti ed amici, con la scusa di prendere un po’ d’aria fresca. Naturalmente di condizionatori neanche a parlarne. Non c’era il frigorifero! C’era la spensieratezza, però! L’ansia non si sapeva cosa fosse, chi più chi meno. La compagna di vita era la gioventù che passa in fretta e non torna più. Memento!

SAN FERDINANDO (RC): PROFUMO DI MARE, SAPORI DI CALABRIA

di GREGORIO CORIGLIANO

“Vinisti?” Si. E “quando vinisti?” Ieri sera. “E quando tindi vai?” Non lo so. “Veni e mangi a casa mia?” Queste, in sintesi, le prime parole che ascolto quando arrivo nel luogo dell’anima per le vacanze. Costa smeralda, Billionaire? Ma quando mai? Vuoi mettere il posto dove gli odori, i sapori, gli sguardi ti appartengono e cambiarli con il lusso che secondo me vacanza non è? Anche quest’anno è stato così.
Sono arrivato in tarda mattinata a San Ferdinando di Rosarno e, prima di ogni altra cosa, la voglia è stata, dopo qualche salutino familiare, di guardare il mio mare, bagnarmi i piedi, stendermi al sole e salutare i vicini di ombrellone che io, per la verità, non porto mai. Preferisco una sediolina, sedermi e leggere uno- due giornali. Il tempo di acclimatarmi. Ed abitando a venti metri-venti dal mare nella casa che fu dei miei genitori e che adesso è rimasta a noi tre figli, rientro per la doccia d’obbligo,nel cortile, poi mi sdraio sulla veranda a controllare lo smart-phone, poi mi avvicino al desco. La colf, bravissima, Nathalia, ucraina, aveva preparato per noi, uno spaghetto con panna e nduja. Squisito. Conciliava  la pennichella. Fino a quando? Fino quando “me sceto, diceva il mio compare Franco Bucarelli, voce e storico inviato speciale del gr2 per trenta e più anni. Adesso in pensione. Cioè, senza orario fino a quando mi sveglio. E cosi, tutti giorni. La lettura dei giornali, almeno tre, per iniziare, poi la prosecuzione alla sveglia. Un po’ ancora sdraiato a letto e se il caldo non era di quelli terribili, sulla veranda che da su un grande giardino pieno di verde curato dal mio amico Ciccio Scarfò, con molta cura.
La sdraio, che adopero venti giorni all’anno, è sempre la stessa da almeno dieci. Io non amo cambiare. Anche le poltrone, le sedie e le lampade sono sempre le stesse che sistemo io stesso il primo giorno che arrivo. Alle venti, non prima per via del caldo, esco e vado o sul lungomare o in piazza. A seconda di come sono predisposto. Se vado prima in piazza, sul lungomare vado dopo cena. In piazza? A far che? Ad incontrare i miei amici di infanzia e qualcuno  acquisito di recente. Basta attendere e nel volgere di un’ora arrivano tutti. Ed allora, dopo il “quando vinisti” i saluti di rito. Come va, come non va, ti fermi molto, fa il bagno in genere. Stasera che e dove mangi. E poi via alle chiacchiere consuete, in linea di massima sempre le stesse. Da anni. Primo discorso. Ci sono belle donne? Ci sono turisti? Il paese è migliorato? E poi via con il classico  “ti ricordi?” di prammatica.


Ed i ricordi sono di persone e di cose. Il primo a tirare fuori il dialetto dell’anima, è Ciccio, che pur vivendo a Parma, da quaranta anni, è quello che ricorda il dialetto alla perfezione, anche quello non più in uso. “Vieni a casa mia stasera?” Ti faccio una “mpagghiata”. E cos’è. E “di undi veni i Bolzanu?” Poi ho scoperto che si trattava, più o meno, di una insalata di ortaggi cotti, imbevuti di olio. L’inserimento di Ciccio il grande non arriva in ritardo. “Venite a casa mia, vi faccio vedere io come si cucina e come si mangia. Detto fatto, tre o quattro amici selezionati andiamo “Chez Ciccio” e da dove vengo vengo dal mulino. Prelibatezze  a scelta. Tutto preparato da lui, Ciccio il grande. Il patriarca.. Ma tutto in regolare silenzio. Nessuno deve sapere.
Ad un certo punto si inserisce Ercolino, chirurgo in pensione che avendo una memoria di ferro, ricorda soprannomi e detti del paese che risalgono al 1955. “Vi ricurdati come chiamavano a chidu chi vindia u vinu? I Figghioli. Come è possibili che c’era u Bromu? E faceva finta di incazzarsi quando gli davamo questo appellativo, invece si divertiva? E la  moglie che faceva la pipì in piedi. E giù risate! Poi ci sono state, quest’anno le new entry. Piero di Piacenza, che si divide tra l’Emilia e la Calabria viaggiando in macchina ed è costretto a cucinarsi da solo. E Damiano, divorziato? Ha scoperto il gusto di facebook e si diverte e chiede al nipote Agostino, leader del social più in auge con “quelli che ti amo o quasi lercio”, che ci informa degli ultimi fatti del giorno. Quando, con Giacomo Giovinazzo, non ti invita a mangiare fino a scoppiare nelle campagne di Limbadi.
E poi c’è ancora Nandu Carcarazza che ha sempre bisogno di compagnia per avviare gli irrigatori. E chi ci va? Il mio amico Ciccio da Parma, che ricordando il padre, si commuove pensando alle arance che  non ha più. Ed è comunque felice, perche la coltivazione costa troppo. Poi tutti insieme ricordiamo quelli che c’erano l’anno scorso e non ci sono più. A partire da Renato, la cui moglie, di Oslo, viene ogni giorno nel paesello, con Denise e Grethe. Ciccio il grande e Ciccio il parmigiano, sono i “mastri della serata”. Con occhio svagato guardiamo le ragazze che sostano in piazza. Solo l’occhio. Altre cose sono ricordo del tempo che fu e che non ritornerà. Ci sono altre new entry, ma che non mi vengono in mente. A parte Meluzzu zulù che divide l’anno tra Torino, il luogo dell’anima, l’estero. Però sa tutto, anche delle amiche che vengono da Firenze per le vacanze. Ed anche più. Quando Ciccio glielo consente cucina lui. Ma Ciccio, ingrato, non è mai soddisfatto. Michele si mangia la frutta nella limba. Micucccio, ricorda le cose che ha fatto quando era alla guida dell’amministrazione comunale. E si sofferma sui particolari. Tutti in piazza, arrivati in macchina, anche se loro case distano dall’unica panchina centinaia di metri. Poi sul lungomare. Per? “ U cameduzzu i focu”, e per la festa dell’Immacolata, la cui effigie dai pescatori viene portata in acqua per benedire il pescato, o di Santa Barbara. Le due uniche feste che, nel luogo dell’anima tengono banco. E trenta giorni passano così, con noi che ci divertiamo con poco. Senza lussi, senza Briatore, senza balli, ma solo revocando quel passato che non torna più. Nemmeno quello del Lido La Playa, dovuto ai fratelli Loiacono, che è stata la stagione dei nostri amori estivi. Insomma, aveva ragione Cesare Pavese nella “Luna e i falò”: “Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra, c’è qualcosa di tuo, che, anche quando non ci sei resta ad aspettarti”.

(Gregorio Corigliano, giornalista e scrittore, è stato caporedattore RAI a Cosenza)