IL RICORDO / Franco Cimino: Antonio Guarasci, il primo presidente della Calabria del riscatto e della democrazia

di FRANCO CIMINOAntonio Guarasci, chi è costui? Chi lo conosce? Salgo per un momento in cattedra e faccio la domanda da prof. A tutti gli uomini e le donne della Politica, innanzitutto. Lo domando a voi, assessori della giunta e ai trenta consiglieri regionali. Allora, chi è Guarasci? Va bene, non rispondete, lo domando adesso ai sindaci della regione, ai consiglieri comunali e se non mi risponderanno ai deputati calabresi e ai rappresentanti di partito.

Dinanzi a questo silenzio, andrò in tutte le nostre scuole e università, e troverò qualcuno che mi saprà dire una parola su quest’uomo. E che diamine! Niente! Scena muta. Eppure, sarebbe bastato andare su Wikipedia, per averne una qualche notizia di quella pure assurdamente troppo brevi e sintetiche. Si sarebbe, però, potuto apprendere due cose importantissime, anzi tre. Antonio Guarasci (Rogliano, 7 maggio 1918- Polla, 2 ottobre, 1974) è stato un politico italiano. Copio e incollo, in forma retorica evidentemente, ché io lo so bene questo è molto altro di lui. L’anagrafe dice che egli sia stato un uomo per intero del secolo scorso e che lo abbia attraversato in alcune delle sue fasi storiche più importanti per il Paese. Ha fatto in tempo, prima che la sua vita si arrestasse a soli 56 anni. A Polla. Un nome di una località apparentemente insignificante, ma che tra un momento ci dirà di lui. Essere nato nel 1918 lo costringe ad andare in guerra e a vivere la sua giovinezza per tutto il tragico tempo del nazi-fascismo. Inviato in Africa – dice la biografia ufficiale –partecipa alla battaglia di El Alamein contro gli inglesi. Fatto prigioniero sconta un non breve tempo di prigionia negli Stati Uniti. Durante questo periodo incontra alcuni antifascisti, che rafforzano in lui la già forte sensibilità democratica e la coscienza che la Libertà è della Democrazia l’unica essenza. Finita la guerra, torna in Calabria dove sposa la figlia di Buffone, un autentico antifascista prigioniero con lui a Seattle.

Si impegna subito in politica e aderisce già dal 1946 alla Democrazia Cristiana, di cui sposa pienamente i principi cristiani ispiratori applicandoli a una chiara concezione laica dell’impegno politico. Anzi, della politica, il luogo in cui ogni fede, religiosa o ideologica, si fa parte di un discorso comune, che trova nelle istituzioni il tempio proprio della laicità e della laica ricerca del Bene Comune. Valore fondamentale nel quale si racchiudono i beni comuni, ciascuno dei quali va difeso e valorizzato in quanto patrimonio di tutti. Quali erano per Guarasci, giovane consigliere provinciale nel periferico collegio di Rogliano e, poi, assessore e quindi presidente di quell’ente, questi beni? Docente di storia e filosofia più la fede cristiana, dai licei all’Università, democristiano coerente più la passione accesa per la Politica, ebbe facile modo per riconoscerli e declinarli.

I suoi “preferiti”: il territorio, in cui il paesaggio rappresenta il quadro di un dipinto pregiato; gli enti locali, i comuni in particolare, quali strumenti in cui quel primo bene potesse essere difeso attraverso la diretta partecipazione dei cittadini. Ché nessuno come loro potrebbe avere la forza e il dovere, con la gioia e la responsabilità, di prendersene cura. Enti locali, territorio, cittadino, il triangolo perfetto della Democrazia. Cultura, tradizione e religiosità popolare, un altro triangolo perfetto, dell’identità sociale. Dell’appartenenza buona, libera e solidale al proprio luogo. Coscienza, responsabilità, cittadinanza, altro triangolo perfetto, quello della politica. Politica che è partecipazione, divisione nella distinzione, unità, altro triangolo perfetto. Quello del pluralismo, l’Unione articolata di tre autonomie, quella dei comuni, della persona, dei partiti e delle forze sociali accanto ad essi. Triangolo perfetto, ancora, e qui ci si potrebbe fermare, ma continuiamo.

E, quindi, ideali, ideologie, idee, che sono l’organizzazione programmatica di queste. E, ancora, pensiero, pensato, azione. Il primo è la filosofia, il secondo la politica, il terzo il governo. E, ancora, assemblea elettiva, giunta, maggioranza-minoranza come unico soggetto democratico. E ancora, lavoro, lavoratori, ricchezza, altro triangolo quello della Costituzione che prende corpo. E, ancora, democristiano, democratico, membro eletto. E finisco(solo, però, per mia personale stanchezza di scriverne), l’ultimo triangolo perfetto, mare, monti, beni culturali. E per essi, pesca, agricoltura, turismo. E terra, acqua (fiumi, mare fiumare)cielo. Cioè la natura, il grande patrimonio della Calabria, quella della poesia di Costabile e Repaci. La Natura che va difesa e riconsegnata intatta alle nuove generazioni. In questa molteplicità di triangoli, che mi sono dialetticamente costruito per meglio rappresentare la straordinaria personalità di un uomo nato per la politica, di un pensatore corredato dal pensiero profondo, di uno studioso vissuto per la conoscenza, vi è Antonio Guarasci. Il gigante vero di una Calabria che grazie a lui iniziava a liberarsi da ogni sudditanza per diventare protagonista del suo riscatto e della sua dignità riscoperta. Sudditanza verso i poteri esterni, che l’hanno sfruttata e derubata.

Sudditanza verso i poteri interni, che l’hanno assoggetta a comandi e comandanti di poteri violenti e paralleli al potere legale, con i quali non poche volte si confondeva. La mafia, non era il solo. Sudditanza verso l’ignoranza, nella quale placidamente la Calabria stava tra il sonno della ragione e l’abbandono della speranza. Questa immensità di valori e di energie vitali Antonio, Tonino, Guarisci si è portato alla Regione, della quale divenne il primo presidente. Qui, quella profonda ansia di riscatto, molto sostenuta sul terreno morale e culturale, si fece subito progetto di crescita attraverso la valorizzazione delle risorse territoriali, tutte. Lo scopo era primariamente politico. Esso si articolava in due momenti “contestuali”, mi verrebbe di dire “paralleli”. Crescere con le proprie forze significava costruire dal basso un nuovo modello di sviluppo regionale. Questo, avrebbe favorito la prima necessità dei calabresi, l’unità. Unità territoriale, politica e culturale. Realizzare la propria crescita senza più le mance di un governo centrale ingiusto e storicamente divisivo, che alla Calabria chiedeva, e prendeva, solo le braccia in cambio di scarse rimesse“ postali”, avrebbe consentito che la nostra terra divenisse protagonista di un nuovo Mezzogiorno.

La nuova realtà socio-economica, che unitariamente al Paese avrebbe dato in termini di risorse fondamentali per un suo più forte protagonismo in Europa. Perché si potesse realizzare tutto questo ben di Dio, era necessario, per quel grande Presidente, che la Calabria crescesse in spazi di libertà, che significa anche conquista di diritti, e di Democrazia, enti locali rivitalizzati. Partiti vivi e vitali, forze sociali moderne, associazioni libere e organizzate, Chiesa locale aperta al sociale, ma soprattutto scuole diffuse e università, rappresentavano per lui i luoghi della partecipazione reale dei cittadine e per la formazione di una vera coscienza democratica. Su questo mare oceanico si muoveva l’intelligenza politica e il coraggioso lavoro del presidente illuminato da una grande fede e una robusta ragione. Il politico delle grandi visioni e delle grandi intuizioni, il pensatore delle grandi prospettive della Politica, e, da qui, il primo edificatore, in Italia, dell’alleanza tra Democrazia Cristiana e Partito Socialista, (e, con uno sguardo più lungo, del rapporto fecondo tra l’area cattolica e riformista e la sinistra, anche comunista) viene un attimo dopo. O, forse un attimo prima, quale metodo e strumento e sostanza( un altro triangolo perfetto) della sua lungimirante azione politica e di governo.

Un uomo forte e coraggioso, dotato di un pensiero e di una parola possenti. Un principe e un lottatore, un gigante e un fanciullo, che avrebbe fatto grande la nostra Calabria, se quella notte del 2 ottobre del 1984, non fosse morto nello schianto della sua automobile sulla strada di Polla. Andava a Roma per difendere il lavoro di duemila operai di un’ impresa operante a Cetraro. In quel viaggio, in quella battaglia, in quell’idea, lavoro, persone, ricchezza, c’era tutto quel triangolo perfetto che aveva in ogni sua punta la triade della bellezza. (fc)

IL RICORDO / Filippo Mancuso: Antonio Guarasci e il suo impegno politico e umano per la Calabria

di FILIPPO MANCUSO – A cinquanta anni dall’incidente stradale del 2 ottobre 1974  avvenuto a Polla,  che ha visto la morte del primo Presidente della Regione Calabria durante un viaggio a Roma per difendere il posto di lavoro di migliaia di tute blu del tessile di Cetraro, il Consiglio regionale – nel ricordare il tragico evento e osservare un minuto di raccoglimento – esprime sentimenti di sincera gratitudine per l’impegno, politico e umano, dispiegato a favore delle comunità calabresi dal prof. Antonio Guarasci.

Antonio Guarasci è stato un  lungimirante uomo delle Istituzioni, che ha saputo agire per il bene comune, adoperandosi a traghettare la Calabria verso nuovi orizzonti, riuscendo a interrompere, a pochi anni dall’istituzione delle Regioni, il centralismo statale e a  dare voce e spazio all’autonomia decisionale dei territori, affrontando anche la piaga della disoccupazione e delle ‘storiche arretratezze’ della Calabria.

Antonio Guarasci, con il suo profilo umano e la sua storia politica, rimane tutt’oggi un esempio di integrità etica a cui ispirarci nel quotidiano svolgimento delle nostre prerogative e, allo stesso tempo, rappresenta un monito, per tutti noi, a fare di più e meglio, ampliando la partecipazione dei cittadini alle scelte della Regione, e per dare, con la necessaria spinta all’innovazione che il nostro tempo esige, risposte ai problemi attuali della nostra Calabria.

In questa circostanza, ricordiamo anche le figure di altri tre consiglieri regionali della prima legislatura venuti a mancare agli inizi degli anni ’70, anche loro convinti regionalisti: Giorgio Liguori, Consolato Paolo Latella e Giuseppe Fragomeni. I primi due morti nell’adempimento del loro mandato istituzionale: Liguori, membro della Commissione Statuto, il 21 dicembre 1970, in un incidente stradale mentre si recava alla seduta del Consiglio regionale; Latella, assessore alla sanità, il 3 gennaio 1974, a seguito di un’emorragia cerebrale che l’aveva colpito sei giorni prima nell’aula del Consiglio regionale; Fragomeni, il 21 aprile 1975, a poche settimane dalla fine della legislatura. (fm)

[Filippo Mancuso è presidente del Consiglio regionale]

IL RICORDO / Graziella Tedesco: Giuseppe Marino, 100 anni dalla nascita

di GRAZIELLA TEDESCOSabato scorso, nella Piazza municipio di Gallina un nutrito gruppo di politici, scrittori, medici, musicisti e giornalisti hanno onorato e ricordato, a cent’anni dalla sua nascita, la figura del prof. Giuseppe Marino, psichiatra, giornalista, poeta, mecenate ma, soprattutto un uomo di sconfinata umanità e finezza intellettuale.

Non appena ho letto la notizia in merito a questo evento, mi è venuto in mente il periodo in cui ho incontrato il professore Marino verso la fine degli anni Ottanta. Era un momento drammatico per la mia famiglia, poiché mia zia Azzurrina, la sorella di mia madre,  affetta da oligofrenia dalla nascita, aveva perso ogni freno inibitore dando il meglio di sé. Non sapendo a quale e Santo votarci, a quale specialista medico rivolgerci, ogni nostro tentativo era vano e intanto, mia zia ci toglieva il sonno, sfasciava i mobili e reagiva in maniera violenta contro tutti noi. Su consiglio di un amico, arrivammo allo studio del professore Marino in un pomeriggio di ottobre di tanti anni fa. Il professore guardò mia zia, che era visibilmente alterata, notò l’occhio nero di mia madre e il mio labbro tumefatto e, con una battuta dialettale smorzò la tensione di quel momento. Ci disse: «Vi resi o boni o nenti». In effetti mia zia ce le aveva date o “boni o nenti”. Comunque, il professionista prescrisse la sua terapia, ascoltò tutti i presenti e ci diede appuntamento da lì a quindici giorni.

Quando chiedemmo la parcella, il professore sorrise e ci accompagnò delicatamente all’uscita della sua casa-studio. Mia zia grazie a quella terapia, migliorò nel giro di ventiquattro ore e quando andammo al controllo come previsto, mia zia aveva recuperato buona parte della sua normalità. Il professore ci spiegò in seguito, con calma che cosa le era accaduto, definendo con acume la sua come una malattia degenerante e che purtroppo, era in fase di declino. Da quel giorno, si instaurò un’amicizia profonda con il professore anche perché, da profondo conoscitore del suo mestiere sapeva che il malato psichiatrico logora la famiglia quando questa non è supportata ed aiutata. E lui fece questo: curò mia zia e supportò la famiglia.

Mia zia morì venti anni dopo ma, nonostante tutto la grande amicizia, la stima e la riconoscenza nei confronti di Giuseppe Marino rimase sempre invariata. Il disagio mentale non è soltanto il risultato di formule, prescrizioni, diagnosi. Il disagio mentale è sofferenza per il malato e per le famiglie che, spesso ne escono devastate. Il professore, questo concetto lo aveva incamerato nella sua mente ed esposto abilmente nelle sue opere. Il malato e la sua famiglia erano uomini e donne da rispettare e supportare.

Ecco perché ho avuto la fortuna di incontrare lui, i suoi figli e suo genero che continuano egregiamente la sua professione con gli stessi insegnamenti e con lo stesso spirito, benedicendo davanti a Dio  il giorno  in cui mi sono imbattuta nel loro cammino. (gt)

IL RICORDO / Santo Gioffrè: A un anno dalla morte di Otello Profazio

di SANTO GIOFFRÈOtello Profazio fu uno Spirito Libero, cantore della sapienza popolare mai inficiata da qualunquismo o da credulonerie ciarlatane. Nelle sue ballate, l’ansia di in Popolo comunque proiettato al riscatto sociale. Egli fu un solitario Socialista libertario, figlio di quella formazione politica che aborriva totalmente il fascismo e il leghismo.

Avevo conosciuto Otello 26 anni fa, nell’aula magna dell’Università di Siena mentre, con i suoi stornelli, incantava l’auditorium composto dalla migliore intellighenzia snob della Sinistra Toscana. Da subito, c’intendemmo. Tutti e due eravamo preda di epidermite reattiva verso quel mondo. Fummo amici, spontanei e sempre critici. L’ho accompagnato in tutta la sua lucida vecchiaia. Mi raccontò della sua vita, i viaggi, la gente incontrata all’estero, il suo amore per la chitarra alla quale dava vita sol perchè della sua vita faceva parte.

Osservava la realtà attraveso i silenzi e le pause stampate nello sguardo degli uomini normali, come pittore di nature vive, e, poi, ne traeva testi, sonorità e ballate che trasformava in forza dirompente in ogni palco. Mi diceva: «come tu fai partorire e dai vita, io, osservando le molteplici realtà in cui viviamo, voglio far partorire, attraverso la riflessione di chi mi ascolta, la voglia di riscatto, anche in chi ha difficoltà alla presa di coscienza…».

Molto riservato, non approfittò mai delle numerose ed importanti amicizie cui godeva. Mi parlava di tutti i grandi artisti incontrati, soprattutto di Gaber e De Andrè. Mi raccontò di quando, per la prima volta, si vide tanti soldi in tasca. Glieli aveva dati il produttore perché aveva composto la colonna sonora del bellissimo film “l’Amante di Gramigna”. E, poiché stava in un katoio, si comprò una casa a Roma. Mi diceva: «Io non sono Comunista come te. Sono stato sempre un socialista libertario, ma pure gli Anarchici, come De Andrè, mi piacciono molto e mi piace, sempre, ascoltarvi».

Da Assessore Provinciale alla Cultura, un giorno venne a trovarmi e mi propose un tour, nella Provincia di Reggio Calabria, dei maggiori Cantautori di musica etnica e popolare dell’Italia meridionale. Gli dissi che aveva carta bianca. Vennero tutti e fu un successo incredibile. Quando presentò la nota spese per il rimborso, mi accorsi che era meno del badget che il mio Assessorato gli aveva deliberato. Gli chiesi… Mi rispose che si erano arrangiati col vitto e l’alloggio per tutto il tour, facendomi perdere la faccia per lo scorno visto il calibro dei partecipanti, come Rosa Balistreri. Ma Otello era così. Memorabile fu un dibattito organizzato dal Teatro dei Semplici, a Gallina, nel 2009. Si dilettava, in relazione alla fiction tratta dal mio romanzo, Artemisia Sanchez, da poco andata in onda, a dirmi del Filo di Seta, la sua bellissima ballata, e quando si ruppe tra Don Angelo e Artemisia… Andavo a trovarlo a Pellaro, perché l’unica cosa che voleva, era il mio olio e lui mi compariva con un gran cappellaccio australiano. Stavano giornate intere assieme. L’ho visto prima che stesse male e mi sorrise, in quella stanza-cucina in disordine.

Mondi belli che vanno via. Ma Tu, carissimo amico mio, se pur riservato, hai dato, alla Calabria e all’Italia, la parola giusta perché, se qui si campa d’aria, negli Spiriti Liberi alberga, sembra, la fame del riscatto e della Rivolta, persino contro gli ignoranti. Ciao Otello.

IL RICORDO / Ermanno Profazio: Un anno fa ci lasciava mio padre, Otello

di ERMANNO PROFAZIO – Un anno é passato dall morte di mio padre. È stato un anno intenso di emozioni e di riflessioni in cui, sia pur lentamente, abbiamo tentato di avviare una serie di progetti per ricordare e salvaguardare l’immenso archivio di canzoni e ricerche che ha lasciato.
Molti progetti sono ancora in divenire e richiederanno del tempo per essere pienamente realizzati. Comunque già oggi possiamo citarne 2 che sono visibili e ci rendono orgogliosi: Il tributo-ricordo Ciao Otello: una pubblicazione realizzata da Santo Strati con la nostra collaborazione che contiene contributi di tante persone che hanno conosciuto e apprezzato l’attività 70ennale di mio padre. Da diversi mesi é disponibile e può essere ordinato su Amazon.
La creazione di un canale Youtube (https://www.youtube.com/@ermannoprofazio7066) dove sto pubblicando, a poco a poco, i video e tutte le canzoni, corredate da spiegazioni documentate, testi, traduzioni in italiano e, ove richiesto, anche in inglese. (ep)

IL RICORDO / Gianni Papasso: Dieci anni fa la visita di Papa Francesco a Cassano allo Ionio

di GIANNI PAPASSO – Ricorre il X anniversario della venuta di Papa Francesco a Cassano All’Ionio. onostante lo scorrere del tempo, la data del 21 giugno 2014 è rimasta scolpita nella memoria e nel cuore della gente di Cassano All’Ionio.

Ricevere l’abbraccio e la paterna benedizione di Papa Francesco è stato per tutti un onore ed un privilegio.

Sono ancora vive le immagini e le emozioni di quella giornata particolare ed irripetibile, che resterà incisa in maniera profonda ed indelebile nella storia di Cassano All’Ionio e della Calabria intera.

La gioia ha illuminato gli occhi di ogni singolo cittadino, nel mentre le strade di Cassano e la spianata di Sibari erano stracolme di gente venuta da ogni dove. Ad abbracciare il Santo Padre, quel giorno, è stata una folla immensa, commossa ed allo stesso tempo composta e tranquilla.

Nessun evento negativo e nessun disordine, difatti, hanno turbato lo svolgersi di quella giornata tanto particolare.

Nella giornata in cui si celebra il X anniversario avvertiamo il dovere di esprimere sentimenti di profonda riconoscenza nei confronti di Mons. Nunzio Galantino, per l’Instancabile ed appassionato impegno profuso perché Cassano potesse ricevere l’immenso dono della venuta di Papa Francesco.

Allo stesso tempo, per lasciare un segno tangibile e duraturo nel tempo, insieme al Vescovo Mons. Francesco Savino e al M° Gerardo Sacco stiamo pensando alla realizzazione di un’opera d’arte a ricordo del memorabile evento.

È Innegabile che il passaggio di Papa Francesco nella nostra terra, il suo benevole sorriso e, in particolare, le sue parole hanno acceso una luce di speranza nuova nel cuore di tutti, tanto che il 21 giugno 2014 segna la data di inizio di quel cambiamento di cui si aveva grande ed urgente bisogno.

Le sue parole di condanna alla mafia ed alla criminalità organizzata, culminate con la scomunica, hanno assunto la sembianza di un forte vortice che dalla Spianata di Sibari si è propagandato fino a raggiungere le coscienze di tutti i calabresi e dei cittadini del mondo intero.

Soprattutto, quelle parole   hanno  rinvigorito  l’animo  di noi amministratori, che ci siamo sentiti più motivati e forti, più predisposti a lavorare per costruire  una società migliore, più giusta e  solidale e, specialmente, libera dalla violenza e dalla prepotenza  di quei poteri occulti,  che condizionano la vita degli onesti e pregiudicano  il futuro di questa  nostra terra ricca e bella, che vuole reagire e progredire nella tranquillità dell’ordine sociale, scrollandosi  di dosso definitivamente l’etichetta di “terra amara”.

Dopo quella giornata ci siamo sentiti più predisposti a “proteggere la casa comune”, a custodire l’ambiente ed il bellissimo paesaggio naturale, che il Creatore ha voluto regalare a questo bellissimo lembo di terra di Calabria; soprattutto a lavorare per il benessere collettivo, rivolgendo lo sguardo, in primis, ai bisogni degli ultimi e degli svantaggiati.

La venuta di Papa Francesco è rimasta incisa in maniera indelebile soprattutto nell’animo dei nostri giovani: l’esortazione del Santo Padre a “non lasciarsi rubare la speranza” continua ad essere un faro che  illumina il loro cammino; parole che li guideranno nella costruzione del futuro; che li incoraggeranno  a “pensare alla grande” e  a  “fare rumore”  per cambiare  il destino di questa nostra terra che  per  le potenzialità,  le  ricchezze naturali e culturali che esprime e per la gente onesta, laboriosa  ed ospitale che la abita, può coltivare il sogno di  un domani diverso e migliore. (gp)

[Gianni Papasso è sindaco di Cassano allo Ionio]

Sara Tafuri, la ragazza che aveva fatto l’attrice

di LUIGI TASSONISara era bellissima, ma d’una bellezza non banale, anzi strettamente legata al suo modo d’essere, al suo carattere vitale e spinto da entusiasmi. E siccome aveva soprattutto un’intelligenza dinamica, sapeva coinvolgere l’interlocutore, gli amici, i suoi compagni di avventura.

L’avventura di Sara Tafuri era cominciata in sordina a Catanzaro, città piccola e insufficiente, come lo è oggi ancora, per i giovani talenti. E allora (siamo intorno al 1976) un gruppetto di giovani attori cercava la propria strada, incoraggiato da un appassionato come Lillo Zingaropoli, e da un grande professionista come Mario Foglietti. Tutti loro, Diego Verdegiglio, Rosa Ferraiolo, Anna Maria De Luca, Pino Michienzi, Carlo Greco, investivano il loro impegno e il loro studio come giovani attori in una provincia desolata, e a volte ravvivata da brevi sprazzi di opportunità, di confronto e di attenzione. Tutti loro si muovevano nel piccolo teatro della vita di provincia pensando al palcoscenico, e alcuni alla macchina da presa. 

Sara era la più piccola, non ancora ventenne, animata dalla voglia di farcela, e cosciente del sacrificio e della spietata scena in cui avrebbe dovuto confrontarsi, quella scena della vita e delle immagini che non l’ha risparmiata e che allo stesso tempo l’ha affidata alla nostra memoria, legandola comunque alla storia del cinema. Dunque, quando arriva Fellini, poco prima del 1980, dopo alcuni anni di ingrata gavetta anche televisiva, è come se quelle porte magiche che i ragazzi di provincia sognavano a occhi aperti si fossero spalancate d’improvviso.

La soubrettina Sara nella Città delle donne sembra aver trovato il palcoscenico giusto, e quelle sue movenze, di lei sorridente e giocosa intorno a un Mastroianni attonito e volubile, andrebbero lette come la passerella appariscente di un femminile ammirato, osannato e mortificato in egual misura, ma un femminile che ha molto di più da dare e da dire. La seduzione, e questo Fellini lo sapeva bene, come lo sapevano i suoi amici Simenon e Zanzotto, che con lui conversavano di queste cose, è un effetto che s’aggira oltre le superfici, oltre le apparizioni eclatanti, è fatta di pause, silenzi, passi cauti, e di intelligenza. Tutte doti che non mancavano a Sara, come dimostra la sua presenza di attrice nei Tre fratelli di Francesco Rosi, e come mostra benissimo un bellissimo film documentario, oggi diremmo un docufilm, sullo scrittore Fortunato Seminara, firmato da Foglietti e da chi scrive per il testo, che appartiene alla cineteca della Calabria.

Lì Sara vi appare in una scena magica a suo modo, accompagnata dalle note di Rachmaninov, negli interni di un vecchio casotto di campagna (che era la campagna di mio padre), con il suo sguardo luminoso ed enigmatico rivolto all’orizzonte. Anche questa sua immagine è destinata a perdurare nel tempo, a dirci implicitamente di lei, a darci la misura del suo generoso dialogo con il mondo.

Ragazza incuriosita dalla conversazione, familiare in tutto il suo essere, Sara era e resta quell’immagine giocosa che, in un pomeriggio di agosto, con il poeta Nelo Risi coinvolgemmo in una intrecciata chiacchierata sul femminile, sulla fierezza, sulla dignità, sulla gioia, sulla passione e sul rispetto, che ogni donna dà e sa che deve ricevere, come era giusto che fosse e con urgenza in anni in cui tutto questo non era affatto dato per scontato. Sara incarnava questa complessità, con la tenacia e la perseveranza di un femminile differente, coraggioso, avventuroso. (lt)

Pippo Marra ricorda il cardiologo Franco Romeo

di PIPPO MARRA L’AdnKronos è orgogliosa di ospitare questa serata dedicata alla memoria del professor Franco Romeo, le cui figlie: Alessia, Silvia e Francesca, sono con noi stasera a condividere questo momento.

Un caro saluto va all’avv. Giacomo Francesco Saccomanno e al prof. Giuseppe Germanò, rispettivamente Presidente e Consigliere dell’Accademia Calabra, promotori di questo evento.

Saluto anche Roberto Occhiuto, Presidente della Regione Calabria e Carmine Belfiore, questore di Roma, nonché gli altri illustri ospiti.

Franco Romeo era un mio amico. Un calabrese importante, una persona cara, piena di premura per il prossimo. Ma soprattutto, ripeto, un amico. E se metto per iscritto il mio ricordo è prima di tutto per non commuovermi.

È stato un cardiologo importante, e lo attestano tutti i riconoscimenti che si è meritato. Tra i tanti, cito solo la medaglia d’oro al merito della sanità pubblica che gli ha voluto conferire il Capo dello Stato, Giorgio Napolitano, nel 2013.

Per la nostra agenzia, che ai temi della salute ha dedicato sempre una particolare attenzione anche attraverso l’impegno più specifico di “AdnKronos salute”, è stato sempre un interlocutore prezioso, competente, amichevole.

E il compito di chi fa informazione e comunicazione è prima di tutto quello di conservare la memoria, di non dimenticare. È questo lo spirito con cui ci ritroviamo questa sera, e anche nel dispiacere per una persona di valore che non è più tra noi, restano sempre le mille tracce che il professor Romeo ci ha lasciato come la sua preziosa eredità. La nostra serata ha questo spirito e so che la condividerete con me e con tutti i presenti. 

Ma forse il merito maggiore, più ancora che nella sua competenza scientifica, stava nella sua disponibilità umana, nella cura che si prendeva dei suoi pazienti, nell’attenzione che riservava ai 

malati prima ancora che alle malattie. È qui che si nasconde il valore più profondo del grande luminare.

La sua scomparsa ha colto tutti di sorpresa. È avvenuta in un’età giovane, quando avrebbe ancora potuto essere di utilità e di conforto a tanti pazienti che si affidavano alle sue cure. Una circostanza che rende tutto ancora più amaro.

Per noi, che ci siamo avvalsi dei suoi consigli e della sua esperienza, questa perdita è particolarmente dolorosa. L’opera del maestro Gerardo Sacco, con cui oggi lo ricordiamo, è un ringraziamento per il suo operato. E più ancora, un modo per dire che non dimenticheremo tutto il bene che ha fatto. (pm)

[Pippo Marra è Presidente dell’Adnkronos e del Gruppo GMC Comunicazione]

Foto © 2024 Calabria.Live

 

IL RICORDO / Franco Cimino: Il mio Carmelo Pujia, tra sentimento e ragione

di FRANCO CIMINO – Carmelo Puija dopo ventuno mesi esatti dalla scomparsa, torna dalla sua Polia, dove vi è andato, colpevole il Covid pure in esaurimento, troppo frettolosamente, a Catanzaro.

Vi torna per un convegno a lui dedicato. E per la parola di chi è stato invitato a parlarne. Tutte personalità importanti. Roberto Occhiuto, il presidente della Regione, Pierferdinando Casini, il presidente(presidente emerito della Camera e quasi presidente della Repubblica). Questi i nomi di maggiore richiamo, che fanno immaginare una sala gremita di persone. Saranno davvero tanti. Chi verrà oggi, non lo farà, però, come spesso accade qui da noi, per

la buona possibilità di poter salutare, e magare parlarci un po’, gli uomini del potere che potrebbero rispondere a qualcuna delle numerose richieste che i calabresi avrebbero da muovere. E senza rimprovero, tra l’altro, ché noi siamo gente “ bella”, e perciò umile e rispettosa. No, no, chi verrà nella sala grande del palazzo della Regione, verrà solo per

lui, Carmelo Pujia, l’onorevole per tutti, Carmelino per gli amici. Dispiace già dire, mentre scrivo, che quasi tutti coloro, e non erano pochi, che usavano chiamarlo così, non ci sono più. Ne ricordo con tristezza, gli ultimi due, Cataldino Liotti e Guido Rodhio, che sarebbero sicuramente venuti, commossi, ad ascoltare in prima fila. Ma ci saranno gli altri. Chi sono? Lo dico, sussurrandolo, al mio amico Pierferdinando, che, in serata, all’hotel Guglielmo, presenterà il suo libro dal doppio intrigante titolo “C’era una volta la politica. Parla l’ultimo democristiano”. I presenti odierni sono i democristiani. E non sono pochi già quelli che oggi li rappresenteranno tutti.

La Calabria è stata, anche sinceramente, piena di autentici militanti. Io, per fortuna, ho l’età per ricordarmeli tutti, nome per nome, viso per viso, militanza per militanza.

E sono ancora numerosi. E vivi e svegli e intelligenti. E dolorosamente sofferenti per la perdita di quel grande partito della Democrazia e della Politica. Io tra questi. Ma, diversamente da una buona parte di loro, non rassegnato alla fine della Politica e alla perdita di quegli immarcescibili ideali, cui mi sono formato. Verranno tutti per “sentire” la DC, sentirne la eco pure lontana. Verranno per “sentire” di esserci stati e di non aver creduto invano. Per “sentire” la bellezza di una storia, che, nonostante limiti e contraddizioni, colpe ed errori, è storia viva. Storia che potrebbe continuare se chi avesse cuore sincero, mente limpida e coerenza morale e politica, soprattutto credibilità e disinteresse, si mettesse al lavoro “ gratuito” per farla rinascere. Quale dovere, tra l’altro, verso un Paese quasi alla deriva e verso la Politica, affinché non muoia sepolta da quei difetti gravi che oggi la coprono, tra ignoranza e scarso senso delle istituzioni.

E stupida concezione divistica di uno già sterile protagonismo, vuoto di idee e di passione. Tutti verranno all’incontro odierno per incontrare Carmelo Puija, ancora sorpresi, oltre che addolorati, che lui non ci sia più. Verranno per “ sentire” lui e, suo tramite, tutta la bellezza di cui ho detto qui. Carmelo Pujia è la sintesi di questi valori e di questa storia. Incontrarlo oggi non sarà solo nostalgia. Ma, come io credo, promessa di un nuovo impegno. Quale dovere che ciascun democristiano autentico deve sentire verso questa terra e le istituzioni. Come ha fatto proprio quel grande leader di quella grande Democrazia Cristiana calabrese ancora sospesa tra pregiudizio e cattiva conoscenza dei suoi impegnatici anni. Pregiudizio e incompleta quanto distorta conoscenza, per responsabilità anche della non corretta azione di pochi tra i suoi uomini che l’hanno rappresentata nelle diverse istituzioni.

Di Carmelo Pujia, il gigante, l’uomo delle possenti idee e dall’indomito coraggio, parlerò in altre situazioni meno cariche delle intense emozioni che mi prendono ancora. Meglio ne parleranno gli osservatori neutrali e gli storici quando finalmente la Calabria sarà studiata con maggiore obiettività. Il suo ruolo, come quello di Mancini, Misasi, Rossi, Pucci, Reale, Ambrogio, Politano, Casalinuovo e altri, sarà centrale. E la sua azione molto esplicativa. Oggi voglio parlare di lui in altro modo. Di getto, così come mi viene. Della sua persona più che della sua personalità. Della sua umanità più che della sua politica. Della sua cultura umanistica più che della sua tecnica operativa. Della sua sensibilità più che del suo carattere mica facile. Della sua fragilità che non della sua forza. Dell’uomo prima che del politico. Dell’oratore naturale che non del parlatore attento. Dell’amante della parola più che del concreto espositore di concetti definiti. Della sua emotività più che della sua razionalità. Della sua tenerezza di padre che non della sua imperiosa autorità. Della sua poesia prima che della distaccata concretezza. Del suo spirito fine che non della sua virulenza. Del suo amore per la propria donna prima che di quello per tutto ciò che faceva. E vorrei parlare di quell’indicibile dolore più che del coraggio con cui lo nascondeva anche per proteggere quella madre, che l’ha subito violentemente, e quei suoi figli perché non soccombessero al dolore. Dell’uomo semplice, in ultimo disarmato di tutto, e del mio amico, vorrei parlare, anche. Mi rendo, però conto, scrivendo, che pure questi titoli sono tanti. E, allora, mi limiterò a dire, così alla rinfusa, ciò che il mio cuore detta, fino all’ultima riga che segnerà la mia stanchezza prima che quella di chi vorrà generosamente leggermi. Carmelo ha lasciato la politica molto anni fa allo stesso modo in cui l’ha vissuta, con dignità e onore. Intensamente vissuta, per quell’aggiunta straordinaria di passione e sentimento che solo nel “lunghissimo dopoguerra” della ricostruzione morale e civile, economica e culturale, del Paese, i militanti potevano sentire. Ah, la Politica, con la maiuscola! Per Carmelo Pujia era un tutto che si poteva accostare solo alla famiglia tanto amata, a cui però ha dovuto sottrarre quel tempo che neppure gli bastava, dal mattino presto fino a notte, per quell’amore che l’ha avvinghiato fin dalla più giovane età. Ecco, mi è spontaneamente venuta meglio la descrizione di quel fuoco che ardeva in lui. Era amore, amore vero verso l’attività umana più bella e più importante. La passione l’accendeva esattamente come il fuoco fa con ciò che benignamente arde.

Quando non rovina, non distrugge, non cancella, ma invero riscalda, accende energie, mette in moto i cuori, illumina la mente della persona e il cammino delle genti. Ah, l’Amore, quello vero!

Carmelo Pujia, era infuocato d’Amore. Non gli bastava mai, quello del donare, ché quello ricevuto era assai meno. Non gli bastava mai, sì. Ne elenco in parti suddivise quello che più mi è rimasto impresso, avendolo conosciuto bene. Parti suddivise ma non divise. Al contrario concatenate, ciascuna facendo parte di un tutto. Unico, assoluto. Unitario. Quello che lui ha sicuramente incontrato nei suoi ultimi anni, sia con la ragione sia col cuore, nonostante la sua fede cattolica fosse stata sempre ferma lì, in quegli insegnamenti che l’amatissima madre gli ha impartito, avvertendolo con carezzevole severità che non avrebbe mai dovuto dimenticarli o rinnegarli. Ah, la madre! Carmelo aveva per lei, la maestra del paese natale, un amore sconfinato. Totale e totalizzante. Anche quello verso il padre era di simile caratura. Soprattutto, per la stima enorme verso quell’uomo che aveva lavorato sempre con onestà e spirito di sacrificio. Ma quello nei confronti della madre era fatto di mille altre sfaccettature. O di foglie diverse che non si finirebbe mai di contare. Ogni foglia una carezza, un insegnamento, un rimprovero, un consiglio. E tutte insieme, la felice esortazione ad amare. La propria terra, innanzitutto. In ogni parte in cui la terra dei padri si compone. Polia, il piccolo articolato paesino all’interno del vibonese, la prima. Qui vi sono le sue radici. Non le ha mai dimenticate. Andava fiero di essere nato e cresciuto lì. Nonostante la sua passione e le sue ambizioni l’avessero portato presto via, di quel piccolo paese ne parlava con orgoglio e, sempre più che passassero gli anni e crescesse la nostalgia, con delicatezza. Te lo descriveva, anche nei libri che aveva scritto, nelle sue diverse realtà territoriali, che forse erano anche in qualche modo culturali. Ora io non la so recuperare bene in memoria, ma Pujia elevava quelle diversità e apparenti separatezze a quei valori profondi che facevano di ciascun poliasino (si dice così?) un cittadino del mondo, a partire da quello piccolo piccolo, la Calabria. Una persona tanto legata a quel pezzo di terra, anche interna al suo territorio comunale, quanto aperta ad altre realtà. Ad altre culture ed esperienze. Forse, nasceva da qui quella sua intelligenza poliedrica e geniale e quella curiosità accesa, che hanno fatto di lui una delle personalità più complete e più forti della Calabria. Uno dei politici più grandi oltre che tra i più importanti della storia politica regionale. Di questo politico straordinario, grandissimo quanto le idee che la sua mente fertile ha partorito, specialmente per lo sviluppo della nostra terra, ripeto, non ne parlo ora. Non ne parlo in questa triste giornata, strapiena di ricordi e di commozione. L’ho fatto tante volte in questi anni e lo farò, mi ripeto nuovamente, non appena si sarà riposata l’emozione del momento e razionalizzata la mia personale sofferenza per la sua scomparsa. Una scomparsa da molti sentita come prematura, nonostante gli anni che lo avrebbero voluto vecchio senza però esserci mai riusciti, ché Pujia è sempre rimasto presente alla vita. E a se stesso, anche se il cammino compiuto lungo un dolore immane hanno portato i suoi occhi celesti come il mare quando il cielo lo rischiara del suo azzurro limpido, a guardare in modo diverso il mondo, la vita stessa. E le persone. E tutto ciò che la loro umanità detta e la loro forza muove e trasforma. O rovina. Nella terra che li nutre del sangue di madre, che mai è matrigna. Questa terra madre è la Calabria. Ah, la Calabria, amore immenso il suo! Per Carmelo, la nostra regione non era una terra disgraziata o condannata da un Dio cattivo e per essa non usava mai il termine “sfortunata”. Noi, i suoi figli, prima ancora che i tanti arroganti e stupidi dominatori che l’hanno derubata, al pari dei suoi figli degeneri, di tante bellezze, siamo i responsabili del suo impoverimento. Poi, i governi e i vari parlamenti, che nel tempo hanno operato con scarsa sensibilità verso il Mezzogiorno, hanno fatto il resto. Proprio per questo, e per il fatto che le cose umane vengano determinate dalle azioni degli uomini, anche quelle che procurano le più tristi conseguenze dagli eventi naturali calamitosi, sono i calabresi a doversi impegnare in prima persona per cambiare l’ordine delle cose, invertendo nettamente il loro cammino, storico e contingente. Ecco che la passione si trasformava in sollecitazione all’impegno individuale e collettivo, a una presa di coscienza politica che passava anche per la ribellione. Ah, la ribellione! Il carattere di Carmelo era impetuoso, un uragano in permanenza, un vulcano sempre acceso. In qualsiasi altro tempo fosse vissuto, egli avrebbe danzato sulle barricate. O avrebbe partecipato a eventi rivoluzionari. Tranquillamente avrebbe potuto essere giovane socialista o comunista, sarebbe stato anche lì il primo della classe. Decise di essere democristiano. Chissà se in questa scelta non ci fosse l’influenza della madre, fervente cattolica. Fedele praticante.

Non lo sappiamo e poco ci importa di saperlo. Quel che conta davvero è l’amore e la fedeltà con cui ha servito la Democrazia Cristiana. Ah, la DC, quante battaglie fatte in suo nome e quante lotte al suo interno per divenirne il migliore in perenne conflittuale amicizia con l’altro genio della politica, Riccardo Misasi. Ah, l’amicizia! Ah, Misasi! Carmelo amava l’amicizia, pur venendone più volte tradito. Ovvero, subendone spesso la strumentalizzazione altrui, anche se talvolta( poche in verità) per colpa di qualche “ consigliore”, anche lui stesso l’ha distratta dal suo cuore. Riccardo Misasi che la vulgata( ed anche i gruppi ristretti di sostenitori dei due) ha sempre voluto fosse il suo nemico ampiamente ricambiato, è stato invece un suo grande amore, come l’amicizia nel suo più profondo significato lo era. Lo scontro c’è stato. E a volte durissimo, come quello tra giganti. Uno scontro che ha indebolito entrambi, con quelle insane tifoserie reciproche che volevano che ciascuno dei dei occupasse un unico posto di comando. Quello che non era il loro, destinati, invece, dalla storia e dalla loro propria grandezza, ad occuparne due diversi, ma assai importanti. Eh sì, perché Riccardo e Carmelo, per amore esteso dell’amicizia, nonostante la fermezza delle loro autonome decisioni, talvolta, anche per la stanchezza della fatica o per quella della loro insistenza, a quelle insincere sollecitazione “guerriere” a cui davano retta, sono stati in conflitto quasi ininterrotto. Ma i due si volevano bene. Un bene grande e vero, rafforzato dalla reciproca enorme stima.

Quella alterata competizione, come le altre che nei decenni si susseguirono e si intrecciarono, anche tra esponenti di partiti diversi, mantenendo divisa la classe dirigente o le migliori intelligenze in essa, indebolirono anche la Calabria. Ah, la Calabria! Nuovamente lei, terra di bellezza resistente, di forza nell’antico orgoglio trattenuta, di speranze radicate nel cammino lungo ed erranti sulle gambe dei suoi figli lontani. Basterebbe ricordare i suoi discorsi sulla nostra terra, sulla sua fragilità e forza, sulla sua povertà e ricchezza e la sua visione, assai avanzata anche oggi, per trovare davvero le vie più sicure di una crescita ordinata e uno sviluppo davvero moderno della nostra regione. Una crescita economica che, puntando sull’unità territoriale da costruire con una autentica architettura geo-politica e culturale che ne disegnasse le forme antiche e nuove, rafforzasse contemporaneamente il tessuto democratica e la coscienza civile, le più forti barriere contro le mafie di ogni genere. E qui mi fermo. Si è fatto tardi e devo prepararmi ad andare al convegno in cui si parlerà in maniera sicuramente troppo affettuosa di lui. Gli sarebbe davvero piaciuto ascoltare e chissà che ciò non accada da quel posto in cui si trova. Posto sicuramente buono. E riposante. Carmelo Puija però andrà ripreso e studiato. È stato un grande innovatore.

Un trasformatore incompleto di una realtà difficile. Un utopista del reale, mi si lasci passare il termine, che potrei lungamente sciogliere dalle sue apparenti contraddizioni. Il suo disegno di una Calabria nuova, le sue famose “ schede programmatiche, che l’hanno preceduto, la proposta di una legge Calabria, che l’ha seguito, la sua idea di nuovo Mezzogiorno come strumento per lo sviluppo dell’intero Paese, il suo incompleto sforzo di studiare l’Europa, di cui sentiva il fascino e anche i dubbi per come veniva ancora intesa, la passione per la Democrazia, la sua leadership particolare nella forza espressiva e quella della forte personalità con cui la nutriva, la sua concezione del potere e la tecnica con cui l’ha gestito, l’idea di partito e quella del rapporto con le altre forze politiche, il suo “ invisibile” tentativo, in parte qui riuscito, di realizzare davvero il rapporto organico, quindi di governo, tra la Democrazia Cristiana e il Partito comunista calabresi, poi bloccato dal suo amico Ciriaco De Mita, allora segretario politico, l’errore anche di non aver costruito classe dirigente pur avendone la possibilità( fatto di cui parlava con dispiacere negli ultimi anni), sono alcuni dei temi che andrebbero studiati e appruo goditi. Qui resta, subito visibile, la lezione politica e umana che ci lasciato. Una lezione utile a restare democristiano o a divenirlo. Una lezione necessaria a comprendere e a fare la Politica. Una lezione di vita, indispensabile a capirla, la vita. Ad amarla fino in fondo. Soprattutto, quando ci porta un conto troppo salato e una sorta di ingiustizia praticata sul campo di una esistenza tanto generosa quanto coraggiosa e sognante. (fc)

Il ricordo del Presidente Giorgio Napolitano in visita all’UniCal

di FRANCO BARTUCCIGiorgio Napolitano all’UniCal per presenziare la cerimonia inaugurale dell’anno accademico 2008/2009 e la intitolazione dell’aula magna dell’Università della Calabria alla figura del primo rettore, prof. Beniamino Andreatta scoprendo insieme alla vedova signora Giana Petronio Andreatta un bassorilievo in argento realizzato dall’orafo Gerardo Sacco.

Era il 15 gennaio 2009 e il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano volle lasciare una sua testimonianza sulla figura del Rettore Beniamino Andreatta, politico, senatore della repubblica e più volte Ministro del Governo Italiano.

Dopo la visita di Sandro Pertini, avvenuta il 3 marzo 1982 e quella del Presidente Carlo Azeglio Ciampi che il 7 febbraio 2001 venne all’UniCal per inaugurare la Biblioteca d’Ateneo in ricordo del prof. Ezio Tarantelli, ucciso dalle Brigate rosse, al quale fu intitolata la Biblioteca dell’area sociale/economica/giuridica e politica, quella del Presidente Giorgio Napolitano costituisce la terza permanenza di un Presidente della Repubblica nel Campus Universitario dell’Ateneo calabrese. 

Quel 15 gennaio 2009 per il Rettore Giovanni Latorre costituiva un motivo di forte orgoglio nel ricordare le qualità raggiunte dall’UniCal per l’alta formazione e la ricerca scientifica auspicata dallo stesso Rettore Andreatta.

«Insomma una Istituzione di alta formazione – pronunciò il Rettore Giovanni Latorre – che con la sua collocazione geografica e le sue politiche di diritto allo studio rappresenta uno straordinario motore di promozione sociale e quindi, in definitiva, di coesione sociale e di democrazia in questa difficile parte del Paese».

Ad ascoltare il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano intervennero in tanti quel giorno riempiendo l’aula magna, tra i quali si segnalano diversi rettori ospiti delle Università italiane, il Presidente della Giunta Regionale della Calabria, Agazio Loiero, la signora Giana Petronio Andreatta, accompagnata dalla figlia Eleonora, nonché Enrico Letta, già sottosegretario alla Presidenza del Consiglio e direttore dell’Arel.

Fu un discorso chiaro e di forte apprezzamento della figura di Beniamino Andreatta quello pronunciato dal Presidente Napolitano, ma anche di tutela e sviluppo del Mezzogiorno.

«Sentiamo la sua mancanza, più semplicemente, come persona di prorompente talento, di forte carattere, di straordinaria generosità e finezza umana. Ma c’è piuttosto da dire quanto prezioso per l’Italia sarebbe oggi il suo contributo: il contributo della sua competenza e della sua fantasia, della sua passione e del suo coraggio, del suo senso dell’interesse pubblico, al servizio di visioni anticonvenzionali dei problemi dell’economia e di scelte limpide e rigorose».

Non mancò di chiarire meglio la personalità e il modo di fare del prof. Senatore Beniamino Andreatta: «Il primo è quello dell’esempio che più di ogni altro egli ha concorso a dare di come si possa far nascere, in condizioni ambientali difficili, una Università campione, una università di eccellenza per qualità culturale, per proiezione internazionale, per radicamento nella realtà regionale, per serietà degli studi e, anche, per capacità di autogoverno e di uso oculato delle risorse».

«L’altro profilo- continuò il Presidente – che motiva l’omaggio di questa mattina a Nino Andreatta è quello della passione di un uomo del Nord per il Mezzogiorno. Passione che faceva tutt’uno, direi, con il sentimento di un dovere nazionale. Il sentimento e la passione che spinsero dopo l’unità d’Italia Franchetti e Sonnino ad affiancarsi a Giustino Fortunato nelle analisi che fondarono il meridionalismo liberale, e che videro via via altri illuminati uomini del Nord impegnarsi in prima persona nell’azione per la rinascita del Mezzogiorno nei primi decenni del secolo scorso».

«In questo solco va collocata la figura di Nino Andreatta e va collocato il suo impegno in Calabria, per la fondazione dell’Università della Calabria nello spirito che ho ricordato. Non occorre dire quanto ci sarebbe bisogno che quella tradizione riprendesse vigore. Sarebbe una risposta eloquente a deleterie contrapposizioni tra Nord e Sud, a vecchie e nuove sordità verso le esigenze del Mezzogiorno, e anche a ogni forma di scoramento, di inerzia e di stanca gestione dell’esistente in queste stesse regioni. L’esperienza di questa Università – concluse il Presidente Giorgio Napolitano – per come venne pensata e varata da Nino Andreatta e per come è cresciuta in più di trenta anni, è motivo di fiducia per tutti noi».

Nel concludere questo servizio e nel ricordare il Presidente Napolitano all’uniCal per fare un affresco sulla figura del Rettore Beniamino Andreatta ci porta a riflettere che anche lui ci ha lasciato nel cinquantesimo anniversario del primo anno accademico 1972/1973, quasi al termine del tempo, della nostra Università. Quel giorno è stato per me l’ultimo trascorso quale responsabile dell’ufficio stampa e pubbliche relazioni in quel contesto in quanto pochi giorni prima entrato in quiescenza; ma oggi quelle parole costituiscono un motivo in più per sollecitare l’attuale dirigenza dell’Università ad impegnarsi per fare una puntuale e dettagliata riflessione su ciò che l’UniCal è stata in questi anni e creare quei presupposti essenziali per prepararsi a vivere i prossimi anni in funzione pure della creazione di un rapporto vivo con la società e contestualmente essere punto di richiamo per il superamento delle barriere divisorie tra Nord e Sud del Paese che permangono ancora. (fb)