di GIUSEPPE TRIPODI – La certezza dell’esistenza di una Calabria film Commission, con sede a Roma e voluta dalla defunta presidente della Regione Calabria Jole Santelli, è la produzione di sei docu-film programmati sul canale televisivo RAI-Storia per le seconde serate del martedì di questo inizio di estate 2022.
I primi due prodotti, già andati in onda il 21 e il 28 giugno, sono stati dedicati alla giornalista Adele Cambrìa (1931-2015) e alla contadina Giuditta Levato (1915-1946), ferita a morte a fine ottobre 1946 dal fattore di un agrario a Calabricata, frazione del comune di Sellia Marina in provincia di Catanzaro. Seguiranno i profili di altre quattro donne tra cui figurano la prima deputata calabrese Giugni Jole (1923-2007) e la sindaca di Pedace Rita Pisano (1926-1984) che fece parte del movimento per la pace e contro la Nato e che ebbe l’onore di incontrare a Roma Pablo Picasso e di venirne ritratta.
Sia il ritratto di Adele Cambria, esponente di un ceto medio intellettuale inquieto e radicale nelle sue scelte giornalistiche, che quello di Giuditta Levato, contadina comunista, sono apparsi entrambi abbastanza credibili ad uno spettatore televisivo medio come l’autore di queste note.
Ha stonato, tra gli interventi che hanno colorito la trasmissione, quello reiterato di un ex politico che, con piglio storico derivato dai suoi pregressi ma molto malcerti studi di perito industriale, ha pontificato considerazioni generiche che nulla hanno aggiunto e nulla hanno tolto alla tragica storia di Giuditta. Un vero e proprio pedaggio pagato da un lavoro, per il resto abbastanza dignitoso, ad una onnipresenza della politica magari declinata in modo bipartisan.
Certo gli autori avrebbero fatto meglio a intervistare su Giuditta Levato il giornalista Romano Pitaro che alla vicenda ha dedicato un riuscitissimo saggio nel libro collettaneo Storie di lotta e di anarchia in Calabria (Giuditta Levato: la sentenza condanna (suo malgrado) i mandanti …, pp. 117-129); al quale si deve somma gratitudine perché ha fatto conoscere un particolare della vicenda da nessuno riferito nei settant’anni e più che ci dividono da quell’omicidio; crimine rimasto impunito ad onta di una magistratura ancora legata al ventennio fascista durante il quale aveva coperto violenze e stragi anche e ben più efferate.
I magistrati infatti non solo assolsero l’omicida di Giuditta ma, con sublime noncuranza o con dolosa determinazione contro la vittima, lasciarono che i poveri resti della donna fossero sepolti in un luogo anonimo di cui poi è stata impossibile l’identificazione.
Né la povertà permise ai familiari di rivendicare quel corpo martoriato col bimbo in grembo che, così, rimase disperso come quello delle vittime nei processi per eresia o stregoneria nei secoli più bui dell’Europa cristiana: senza un sasso, avrebbe detto il poeta, che lo distinguesse dalle altre «ossa che in terra e mar semina morte».
Connotati da tragedia classica che non sarebbero venute in mente neanche a Bertolt Brecht.
Opportuno ed arricchente il contributo di Francesca di Francesca Prestia che ha cantato in apertura del documentario il suo Bella Giuditta con il quale aveva «premio speciale 2018 al concorso “Giovanna Daffini” di Motteggiata (Mantova) il cui ritornello è un vero capolavoro di rimandi alla cultura calabrese
Bella Giuditta
Spiga rigogliosa
Petalo di Rosa
Rosa nel bicchiere,
…
ove risalta la «spiga rigogliosa» del secondo verso che rimanda ai contadini deputati a far crescere le spighe dal seminato devastato dalla tracotanza padronale; spighe che Giuditta, con la sua lotta, avrebbe voluto diventassero messi dorate e nivea farina per il pane dei miseri deschi «fioriti d’occhi di bambini» denutriti di Calabricata; il verso 3 rimanda alla fragilità di Giuditta «petalo di rosa» che, bisognosa di carezze da polpastrello delicato di mano amorosa o infantile, venne invece stroncata dalla fucilata assassina.
Il quarto verso, infine, è un calco casuale dal titolo e dalla chiusa di una delle più bella liriche di Franco Costabile (Sambiase 1924-Roma 1965): Calabria, rosa nel bicchiere; qui quel nome comune «Rosa» viene quasi personalizzato oltre che utilizzato sia nella chiusa del verso 3 che nell’apertura di quello successivo: è una tecnica poetica, collaudata da secoli d’uso sia nella poesia popolare che in quella colta, nota come anafora (detta anche ‘lascia e prendi’, spagnolo leixaprende, sardo lassa e pidda). (gt)