di FRANCO CIMINO – L’oceano! Cos’è l’oceano? Il dizionario dice essere “le più vaste distese acquee del globo”.
Un oceano, invece, è un mare nel quale tutto si perde per essere ritrovato. Ci si perde per ritrovarsi. Ieri sera (martedì 20 agosto ndr), a Soverato, nella bella cornice di un piccolo e ancor più stretto vicolo del breve e ancor più stretto Corso, sotto l’egida della piccola e graziosa libreria “Non ci resta che leggere”, elegantemente gestita da due giovani donne, che i libri li vendono ma anche li leggono, si è tenuta una nuova presentazione di Nameless, il libro di Massimo Nisticó, ormai divenuto record di vendite, ma, assai di più, di partecipazione della gente. Sempre letteralmente una folla, quando circola notizia che in quel dato luogo e giorno e ora, vi sarà Massimo Nisticó a parlarne che se non arriverai un po’ prima neppure in piedi te lo puoi gustare. Ieri a Soverato, tanta altra gente.
I passeggiatori si fermavano e vi restavano, bloccati nel passaggio da quegli spettatori che allungavano la fila fin dopo l’inizio del vicolo. Sul Corso del passeggio e degli acquisti nei bei negozi. E degli sguardi nelle luminose eleganti vetrine. Io ne sono un diretto testimone, avendone, di questi incontri “nisticoiani”, perso soltanto uno. E, ieri che per impegni personali intrasferibili, ci sarei dovuto restare non oltre i primi minuti, mi sono incollato alla sedia e non l’ho lasciata più tra le mille foto che ho fatto a lui e le veloci dita della mano a pigiare sui tasti del mio telefono per trattenere qualche pensiero dei tanti che l’autore dispensava. A sollecitarlo o a “solleticarlo” c’era quel marpione di intellettuale e dirigente della Rubbettino, Antonio Cavallaro, che, sapientemente, tra il “non dirvi del libro perché dovete leggerlo”, e lo stupore di quella bella vista( quasi un corpo unico, scrittore e il suo pubblico) centellinava “domandine” danzanti tra quelle del parroco di campagna e quelle del professore di letteratura all’Universita di Harvard. Pane buono per i denti di Massino, che già parla a vederlo, con l’eleganza del suo vestire e la bellezza della sua persona. Due domande in una. Queste me le faccio io. La prima: «perché io partecipo sempre alle presentazioni di Nameless? Oh bella questa – direbbe taluno – é amico tuo!».
Sì, è un mio amico. Grande e vero. Come pochi ne ho avuti nella vita, visto i risultati, diciamo, complessivamente relazionali. Quelli pratici nell’amicizia. Il piacere di dare reciproco, cioè. E senza interessi e condizioni. Amare é donare. Con gioia. Ma non divaghiamo. Sì, l’autore di Nameless è un mio amico. Ma non quello che si incontra tra i banchi di scuola o nello spazio del gruppo dei pari. O nel lavoro o in quanto lungamente vicini di casa. Massimo mi é amico in conseguenza del suo essere ciò che ho conosciuto. Da pochi anni. L’uomo di fede sincera, che ho visto cantare e pregare, ovvero cantando pregando, nella Chiesa della mia parrocchia. Dal fondo della navata mi attirava una voce graffiata e quello strano carezzare con forza straordinaria una chitarra, che emergevano dalle altre voci e chitarre. Mi colpivano di curiosità e piacere immediato, quei canti-canzoni un po’ Te Deum e un po’ rock acceso, molto Beatles e parecchio Rolling Stone.
Avvicinatomi, l’ho visto. Tornato al mio posto, ho atteso che uscisse a Messa finita. Mi intenerisce un’immagine che è rimasta sempre uguale negli anni a seguire. Cammina mano nella mano con una donna bellissima. Come lui. É Barbara, la moglie, che gli sta sempre accanto e non gli ritira mai lo sguardo dai suoi occhi. Si siede in prima fila, e non lascerebbe quel posto forse neppure al Papa. Se lo deve guardare tutto, quel suo uomo, per proteggersi e per proteggerlo. E per prendere ciò che ogni volta quell’anima di oceano ne tira fuori una più delle parole che crea. Più bella del pensiero più bello del convegno precedente.
Anche ieri è stato così! Che bello, l’Amore che si materializza anche con una fotografia e poi si muove fin dentro le profondità luminose dell’immenso mare. Ma chi è questo qui, che veste sempre in abito elegante, preferibilmente “spezzato” e con originalità ancora più straordinaria quando fonde stili diversi, che poi confonde nel tutto nuovo di colori che neppure il più fantasioso stilista contemporaneo impiegherebbe nelle sue proposte? Quell’uomo bello, che,sotto quegli abiti indossa camicie belle e stiratissime, e al collo, non poche volte, la cravatta farfalla, chi era? Lui era ciò che ha iniziato a essere probabilmente dai primi anni scolatici e che è rimasto sempre. Un medico di valore. Un chirurgo capacissimo. Un curatore dei mali fisici. Un salvatore di vite umane. Un uomo di scienza. Ho iniziato così il mio cammino verso l’amicizia sua. Che si arricchisce in me della sua profonda vasta cultura.
Che già si può saggiare quando ti spiega una malattia o una cura, come più volte ha fatto in altre convegnistiche di tipo scientifico, o come riportano molti suoi pazienti. Spiega il fenomeno o il fatto, umanizzandoli con profili culturali umanistici che vanno dalle citazione dei filosofi alle brevi frasi di poeti e scrittori. Senza mancare un qualche riferimento ai musicisti più grandi, perché non c’è un pensiero di Massimo che non si accompagni alla musica. Anzi, se non è un pensiero musicale. Ché il lui ogni armonia, probabilmente da quella celeste, é suono. Musica. Canto. Ed è poesia, quando quell’armonia disegna le sue parole. Non ci vuole la zingara della canzone napoletana, per indovinare che quell’uomo è una rara figura di scienziato e umanista insieme. Studioso delle leggi ferree delle provvisorie certezze e, nel contempo, inventore di verità effimere in cerca della Verità che non raggiungerai mai dal reale. Massimo Nisticó, l’intellettuale intenso e il ricercatore di laboratorio. Un maestro del pensiero globale nella libertà di produrne di molteplici e diversi, talvolta contrastanti. E anche contraddittorio nella fase che precede la sintesi, come nel filosofo che amerà molto. O nella Trinità, cui per fede egli è molto legato da un convincimento inossidabile. E incorruttibile. Ecco, io partecipo alle presentazioni dei suoi libri e a queste numerose di Nameless per ritrovare ogni volta quest’uomo bello. Questa personalità alta. Quest’intellettuale intenso. Questo maestro che parla e fa lezione su tutto. E non perché sappia tutto, che è certezza bugiarda degli stupidi e dei presuntuosi. Ma perché in questi incontri lui cerca le domande sospese per interrogarsi con le domande dei convenuti.
Massimo è un cercatore di cose vere. E belle. Perché verità e bellezza esistono anche qui. In ogni verità che è bellezza. E in ogni bellezza risultante del vero. Quel maestro insegna cose ogni volta nuove e io ascolto e apprendo. Ecco perché ci vado sempre. Per ascoltare di un libro che ho letto quando era ancora fresco d’inchiostro e non lo ricordo. E non per difetto di memoria, che tra l’altro c’è, pur se in questo caso lo annullerei recitando, distante dal testo, parola per parola. Non lo ricordo perché a ogni presentazione, a ogni suo raccontare, a ogni commento e lettura di chi ne dice, c’è un altro Nameless. Non diverso o contrastante, ma nuovo e altro rispetto al precedente. «Ma perché c’è sempre più tanta gente ai suoi incontri sul suo libro? ». É la seconda domanda. Molti ci vanno perché conoscono Massimo, poco o molto. Altri, perché gli sono amici più di quanto lo sia io. Altri ci vanno perché hanno sentito parlare delle sue lezioni. Altri perché hanno sentito parlare di Nameless.
Non pochi vi accorrono perché hanno letto il libro e ne vogliono sentire e parlare. Altri ancora perché, se ne saranno convinti, faranno ciò che non è facile di questi tempi magri per chiunque, acquistare un libro. Pertanto, quel libro. Infine, io credo che tutti, in quella folla, ci andiamo per lo stesso motivo, navigare nell’oceano. E chi ne ha più capacità e forza, immergersi in esso. Navigarlo, entrare nelle sue profondità, sperando di perlustrarlo tutto e consapevoli che non potremo che farlo se non per una sola goccia, sia pure un milione di volte diversa. E, tuttavia, navigarlo, nuotarlo, fino a quando non ci saremo fermati per stanchezza. Perché quel navigare è il futuro che abbiamo dimenticato nel ritorno continuo a un passato che ci rattrista. Mentre ci intimorisce nell’oggi che non lo richiama se non nelle diverse forme di violenza che, a partire da quell’undici settembre duemilauno, si materializzano ovunque. In particolare, nelle guerre che non hanno tregua. Il nostro oceano è il futuro che inizia adesso e che sarà più sereno se oggi affronteremo con sensibilità nuova il dovere della genitorialità, superando l’angosciosa ricerca di paternità nel meccanismo biologico del generare. Ché questo mondo, parimenti ai figli che lo continueranno, ha bisogno di padri che lo salveranno. Oggi. Anche dalle proprie colpe.
Una, quella di aver “gettato” nell’arena, che loro stessi hanno lasciato alle nuove belve di perbenismo mascherato, lasciandogli credere (ai figli) che il mondo sarebbe stato quello che loro(i genitori), hanno sognato. La nuova genitorialità è nel generare oltre la corposità in ciò che crediamo di aver creato. Noi creati “a immagine e somiglianza di Dio”, come dice il Catechismo che abbiamo imparato da piccoli. Creato, noi, con l’idea che sia nostro, il figlio. E nostro di possesso, che ci appartenga per sempre. Quell’angoscia di procreare, per sentirci forti. Per lasciare tracce di noi sulla terra. Per prolungare, errando, la nostra vita oltre il tempo che sia finita. Invece, la genitorialità, specialmente nella paternità, è responsabilità. Verso il mondo. E verso noi stessi, che abbiamo il dono di creare cose nuove. Nuove sensibilità. Nuova coscienza. Nuovo senso di appartenenza alla sola “razza” che ci sia, quella umana. Nuova presenza oblativa nel presente, che tragga dal passato le migliore testimonianze per il migliore avvenire. E del presente usi la forza stessa dell’energia che diviene. Come il giorno dalla notte. La luce dalla non luce. Per costruire il futuro dal presente. Un futuro buono. Quello in cui noi non ci saremo, ma i nostri infiniti figli vivranno. Nella Pace, che è il leggero approdo dell’ inquieto esaltante navigare.
E la Donna? La Donna, per quanto talvolta si trovi sofferente sul tema, non ha bisogno di generare quando non può biologicamente anche se la scienza ormai ha raggiunto livelli di “creatività”sorprendenti. Talvolta, spaventevoli. Lei è Donna. É bellezza e forza. Sempre. É madre. Sempre. E figlia sempre della propria madre. É conservazione del passato e, insieme , promessa non ingannevole del futuro. Il futuro che dobbiamo tutti cercare. E cercare pensandolo, dopo averlo sognato. E progettandolo, carta e penna alla mano, se vogliamo che arrivi piano e amichevole. E non come un incidente della storia umana. Ma andare verso di lui, significa mettersi in viaggio. E quale viaggio si possa desiderare più avvincente se non quello per l’oceano mare? É il viaggio che tutti desidereremmo fare, senza punto di partenza. Senza quello d’arrivo. Anche senza meta. Un viaggio alla ricerca dell’Io che abbiamo lasciato per strada. In quel percorso sconosciuto che ci ha reso tutti anonimi. Anche quando ci siamo ritrovati accanto agli altri, come noi.
Che invece di comunità pensosa di sé, pensante il pianeta e ciò che lo copre, si lascia trasformare, da un potere ancora più anonimo, in folla priva di un qualche riferimento identitario. Folla allo stadio. Folla nei comizi senza contenuti. Folla dispersiva nelle piazze virtuali della rete. Il viaggio verso l’oceano nostro personale, è l’incontro con noi stessi e con l’altro da noi, diverso e simile a noi. Anche questo mare profondo non ha porti e nessuna sicurezza, perché all’Io riscoperto resta il dovere di continuare a viaggiare. A cambiare restando sé stesso. Per cambiare il mondo senza privarlo della sua natura e delle sue ragioni. Tutto questo è il libro. Un oceano da navigare.
Il proprio di chi legge. Più di tutto questo è Nisticó, che, infatti, si stupisce sempre ogni volta che, ripensandolo o rileggendolo con gli occhi degli, ne scopre nuovi significati. E nuove domande. Alla fine di non so quante pagine oltre le duecento, il lettore alla domanda finalmente postasi “ io chi sono? Qual è il mio nome?” si risponde ad alta voce: «Io sono ciò da cui provengo, il luogo in cui vivo. Sono la direzione del mio andare. Il mio nome è…». Nemelles non ti regala nulla. E non inventa. Non crea da ciò che non è. Ti fa soltanto ritrovare. (fc)