di ANNA MARIA VENTURA – Il 25 Aprile può essere considerato come il più importante appuntamento civile che la nostra Nazione rinnova da settantotto anni. In questa data si riporta alla memoria viva, in ragione di accadimenti storici fondamentali, la Liberazione del Paese dall’occupazione nazifascista e la nascita della Repubblica democratica. La Resistenza Italiana e la lotta di liberazione riscattarono il paese e lo fecero padrone del proprio destino. Un destino di libertà, custodito e difeso dalla Costituzione. Questa, pensata e scritta dai Padri e dalle Madri Costituenti, sancisce fondamenti, principi e garanzie della nostra libertà e dei nostri diritti fondamentali. Ai valori della Resistenza e della Costituzione dobbiamo ancorarci per affrontare ogni momento della storia presente e futura. In particolar modo l’oggi, dopo una pandemia che ha minato la sicurezza e mutato comportamenti e modi di vivere e il dolore di una guerra che sta facendo sanguinare il cuore dell’Europa e che si aggiunge ai numerosi conflitti presenti in ogni parte del mondo. In tale contesto è necessario ribadire l’importanza dei valori della libertà e dell’uguaglianza, della democrazia e dell’indipendenza e riappropriarci di quei principi fondamentali richiamati dalla nostra Costituzione che devono declinarsi innanzitutto nella centralità della dignità della persona, nella giustizia sociale, nel rispetto dell’ambiente quale parte integrante del nostro vivere quotidiano, nel ripudio della guerra. Un ripudio da riaffermare sempre con grande forza, correlato alla solidarietà verso la resistenza della popolazione ucraina e il sostegno al diritto alla pace di tutti i popoli del mondo che, contro la loro volontà, subiscono la violenza e l’ingiustizia della guerra. Si pensi alla guerra civile in Siria che perdura da dodici anni, al conflitto israeliano-palestinese, alla guerra, che in queste ultime ore sta insanguinando il Sudan.
Il 25 Aprile non sia solo un esercizio di memoria, ma concretamente, con i nostri comportamenti, improntati alla pace, al rispetto delle diversità, all’accoglienza, all’inclusione rendiamo omaggio a chi si è battuto per la libertà a costo della propria vita. Rendiamo ancor più nostro il concetto della Liberazione, figlia della Resistenza e madre della Costituzione repubblicana.
Certamente un contributo molto interessante, per evidenziare anche il ruolo di assoluto primo piano delle donne nel cammino democratico del nostro Paese è fornito da Nella Matta con il libro In cammino verso i diritti, che racconta le tappe salienti delle leggi che hanno cambiato la vita delle donne e creato condizioni di uguaglianza e parità. Il libro contiene anche le biografie delle ventuno Madri Costituenti. Il volume, edito da Jonia Editrice e promosso dalla sede di Cosenza dell’AiParC – Associazione Italiana Parchi Culturali, è stato presentato anche a Roma, a Palazzo Giustiniani, Sala Zuccari, il 16 Settembre 2022.
Dei Padri Costituenti, mi piace raccontare, in occasione di questo 25 Aprile, con ricordi personali, il calabrese Fausto Gullo, certamente uno degli uomini più importanti e rappresentativi del panorama politico e culturale della storia dell’Italia repubblicana. Grande figlio di Calabria, fu uomo politico eccezionale, dotato di grande sensibilità e cultura, aperto ai problemi e ai bisogni della sua gente e protagonista di primo piano della storia d’Italia, dagli anni del fascismo, di cui fu strenuo oppositore a quelli della nascita della Repubblica, della quale fu Padre Costituente, Ministro per ben due volte e Deputato dal 1948 al 1972, nelle fila del Partito comunista, fino a pochi anni prima della morte.
Nacque a Catanzaro, dove il padre, ingegnere, si era trasferito per ragioni di lavoro, il 1887. Ma ben presto, divenuto orfano, si trasferì a Cosenza, non mancando, però, di trascorrere lunghi periodi dell’anno nel paese d’origine della sua famiglia, Macchia di Spezzano piccolo, oggi Macchia di Casali del Manco. È qui che conobbe il terribile stato di miseria e soggezione in cui vivevano i contadini, per i cui diritti si batterà per tutta la vita. Grazie ai suoi decreti, viene ricordato come “Ministro dei contadini”. E’ qui che morì nel 1974, circondato dall’affetto della sua gente. La sua azione politica rilevante e incisiva appartiene ormai alla storia.
Quello che mi preme ricordare è la sua umanità, sarebbe meglio dire, la sua humanitas. A pochi, infatti, come a lui, si adatta meglio il termine latino, nell’accezione ciceroniana. Pochi, infatti, come lui, seppero realizzare il proprio miglioramento attraverso la cultura e l’applicazione di essa nella vita pratica e nell’azione politica. Un’altra definizione che, a parer mio, ben gli si addice è quella dell’orator di Quintiliano “vir bonus dicendi peritus”. “Bonus” lo fu senz’altro, provvisto com’era di tante virtù morali: onestà intellettuale, saggezza, altruismo, umiltà e “dicendi peritus” esperto del dire, affascinante oratore, dotato di eloquenza limpida e chiara, arricchita da ideali, valori, amore per la sua gente, quella dei paesi della “fascia silana” dove, ancora oggi, il suo nome suscita emozioni e ricordi di momenti edificanti. Forse il più bello è quello del suo ultimo comizio, con il quale si accomiatò dalla vita politica, ormai in età avanzata, ma ancora integro e forte nella mente e nel cuore. “Vado via con le mani pulite” fu una delle sue affermazioni. Come risultò significativa quella frase, dopo Tangentopoli, il crollo della prima repubblica e la corruzione che, purtroppo, ancora dilaga in vasti settori della vita pubblica e amministrativa del nostro paese. Soprattutto della nostra Calabria.
Sono tanti i ricordi della sua vita che si affacciano alla mia memoria, quasi tutti legati a Macchia di Casali Del Manco, antico borgo dalla bellezza suggestiva, ricordi legati al tempo della mia infanzia e adolescenza. Sono ancora impressi dentro di me i suoni, i profumi antichi, i muri delle case e gli orti, i canti che accompagnavano le processioni della Madonna in festa, la laboriosità della gente, la quotidianità semplice, il lento, ma mai banale trascorrere del tempo, le voci gioiose dei bambini, che riempivano la piccola piazza e le vie del borgo.
Quei bambini sono diventati uomini e donne, che sentono fortemente l’amore, l’orgoglio e il senso di appartenenza a Macchia, custodendo, come in uno scrigno prezioso, quanto di bello e di importante hanno ricevuto in eredità: valori puri, preziose tradizioni, una innata propensione verso la cultura, una particolare spiritualità, che ha contagiato tutti coloro che hanno avuto la fortuna e il privilegio di nascere o vivere, se pure per un tempo breve, in questo luogo, che, ormai per molti è un luogo dell’anima. Proprio queste persone hanno fondato l’Associazione culturale M.A.B. Macchia Antico Borgo, perché sono convinti che facendo conoscere la bellezza di questo borgo senza tempo, la sua storia, le sue tradizioni, la sua vita vera, autentica, i suoi valori condivisi, si possa offrire agli uomini di oggi, disorientati e in cerca di identità, un’opportunità e un modello di esistenza altamente valida.
A questo mondo è appartenuto Fausto Gullo, che è vissuto in simbiosi con Macchia.
Il paese si illuminava, si risvegliava dal torpore dell’inverno, quando, all’inizio dell’estate, si aprivano le finestre di casa Gullo, per fare entrare la luce e l’aria in quelle stanze, che dovevano accogliere la famiglia per le ferie estive. Per noi bambini era la novità dell’estate, per la gente del paese un rito, che si ripeteva ogni anno. “Questa sera arriva Don Fausto” erano le parole che venivano ripetute di bocca in bocca. E i vecchi non si ritiravano nelle loro case, le donne rimanevano affacciate alle finestre, i bambini continuavano a far festa nella piccola piazza, finché, verso le “nove” di sera arrivava la macchina che conduceva Don Fausto e la moglie Donna Dora.
Subito una piccola folla di uomini si avvicinava a lui, che salutava tutti, sorridendo. Ricordo ancora l’impressione che suscitava in me bambina, la sua alta statura, la sua testa fiera, piegata leggermente da un lato, le sue mani tese a salutare.
Chiamava tutti per nome, uomini, donne, bambini del piccolo paese, riconoscendoli ad uno ad uno. Quello era il suo regno di cui non si sentiva affatto il re, ma un suddito fra tanti. Il portone dell’enorme casa rimaneva sempre aperto a tutti, la gente accorreva dai paesi vicini, a chiedere consigli, aiuto, o semplicemente a salutarlo. Egli accoglieva sempre tutti, per tutti aveva una parola affettuosa, a tutti dava un aiuto concreto.
Mi capitava spesso di andare in quella casa, dal momento che mio padre era per lui quasi un figlio, ed io amica d’infanzia delle sue nipoti. Lo trovavo sempre chino sulla scrivania, intento a leggere, a scrivere, in quello studio, dove il figlio Luigi avrebbe poi ambientato la famosa “Conversazione a Macchia”.
La sera, il salotto della sua casa si riempiva di tante persone: intellettuali, avvocati, uomini politici, ma anche di tanti paesani, semplici amici. Si conversava, si discuteva dei grandi temi, che caratterizzavano i dibattiti culturali e politici di quegli anni, in cui il mondo era diviso in due e, a meno che non si fosse destinati all’antinferno dantesco, bisognava stare da una parte o dall’altra. Ognuno esprimeva le ragioni della propria appartenenza, spiegandole a se stesso, prima che agli altri, cercando di fare chiarezza, di dare risposta a dubbi, qualora ce ne fossero stati, nel dialogo, nel confronto delle idee, nel rispetto e nella tolleranza delle opinioni altrui. Nel salotto di quel “palazzo” si dava un contributo alla storia, se è vero che essa si attua con le idee, prima che con le azioni, criticando, se è necessario, senza subire passivamente le decisioni altrui, vedendo in che direzione va il mondo e seguendola, se è quella giusta, altrimenti tornando al punto di partenza, se ci si accorge che occorre ricominciare. Ricominciare a sperare, per costruire, crescere, progredire! Si faceva quasi l’alba, le conversazioni si interrompevano, come per incanto la gente si dileguava, per tornare a riunirsi la volta successiva e continuare a discutere dal punto in cui il discorso era stato interrotto.
Così finiva l’estate, le finestre e il portone della grande casa si richiudevano, il silenzio ritornava nel piccolo paese. Era sorprendente l’alchimia, che si era venuta a creare, fra la vita di Fausto Gullo e quella del paese. Quando morì, fu come se morisse anche quella piccolissima parte di mondo, che nel giorno del suo funerale si riempì, per l’ultima volta, di gente, tanta, importante ed umile, che le stradine e la piccola piazza non potevano contenere tutta. Ora egli riposa nel cimitero di Spezzano Piccolo insieme a tanti che l’hanno amato, ma il suo ricordo è sempre vivo in tanti che lo amano ancora. (amv)