Il Recovery Plan è una vera e propria scommessa non solo per l’Italia, ma sopratutto per il Sud. Un’occasione – più e più volte ribadita da Istituzioni, Enti, sindacati e politici – irripetibile, che potrebbe, finalmente, accorciare l’abisso che, negli anni, si è formato tra il Nord e il Sud sopratutto a livello infrastrutturale.
Gli economisti Luigi Paganetto, Adriano Giannola, presidente Svimez, Alessandro Corbino, Leandra D’Antone, Mario Panizza, Flavia Marzano, Giandomenico Magliano, Vincenzo Scott, in un documento inviato al premier Mario Draghi, sottolineano che «l’innovazione è la chiave per progettare e gestire l’unificazione del Paese: Nord e Sud».
«La crisi economica del 2008 – si legge nella lettera – e la drammatica pandemia non hanno messo solo il Mezzogiorno in gravi difficoltà ma, e in modo crescente, anche il Nord; le stesse regioni, cioè, che hanno costituito – nel passato – un ruolo di motrici dello sviluppo. Per questo, oggi, è necessario che il Nord e il Sud rilancino lo sviluppo dell’Italia e di ciascuna delle due aree con un disegno comune».
Il documento inviato, «che nasce anche dall’attività istituzionale condotta dai diversi Centri di ricerca e Universitari cui i firmatari fanno riferimento, possa fornire spunti utili per il progetto che il Governo sta definendo in relazione al Recovery Fund».
«Viviamo in una logica di grandi aree in competizione tra loro, per cui possiamo avvalerci della nostra collocazione nel Mediterraneo e mirare a politiche per l’innovazione e la transizione digitale e ambientale con essa compatibili e, allo stesso tempo, adottare, nella logica Ue, interventi su un sistema di infrastrutture, materiali e immateriali, che rilancino la nostra competitività, tanto del Mezzogiorno quanto del Nord che, da tempo, ha visto decrescere i vantaggi della cooperazione con i Paesi più sviluppati della Ue».
«Siamo certi – hanno scritto gli economisti– che l’effetto crescita degli investimenti da realizzare nel Mezzogiorno andranno a vantaggio dell’intero Paese. Il Mezzogiorno e il Mediterraneo diventano la leva per il Nord dell’Italia e per lo stesso Nord dell’Europa e aiutano a far argine a rivendicazioni corporative a sussidi stimolando invece l’impegno a raggiungere tappe coordinate di sviluppo che, nel dare al Sud lavoro e benessere e un definitivo ancoraggio ai valori costituzionali, arricchiscano l’Italia nel suo insieme».
Per la Svimez, dunque, «occorre inserire le proposte per il Mezzogiorno in una strategia di ricomposizione di sistema e, quindi, di sviluppo sostenibile, che trovi la sua collocazione nel quadro in cui oggi si muove l’Europa, in maniera non assistenziale e riducendo le diseguaglianze che impediscono livelli coerenti e omogenei, basilari per la qualità della vita».
«Occorre – si legge nel documento – rimettere in moto, attraverso il Recovery Plan, il Mezzogiorno in modo sinergico con il Centro-Nord e con una visione unitaria, indispensabile per il rilancio di entrambe le macro-aree e funzionale a un riequilibrio del Paese e a ristabilire la sua posizione in Europa e nel Mediterraneo, superando il dualismo storico dell’economia e della società italiana».
«Per farlo – si legge nel documento – occorre partire dal quadro competitivo in cui la stessa Europa si colloca, e le sfide che deve fronteggiare. Oggi siamo concentrati, come è giusto che sia, sulla pandemia e sulla crisi devastante che stiamo vivendo. Molto è stato fatto. L’abbandono delle regole di Maastricht, il cambio di rotta della politica monetaria della Bce e il programma d’intervento del Next Generation Eu ci assicurano un contesto in cui è possibile la ripresa. Ma non bisogna dimenticare che la Eu, nel momento in cui è impegnata a superare il quadro pandemico, si trova a fare i conti con lo straordinario cambiamento globale che si è prodotto in questi anni, a cui deve rispondere come già aveva cominciato a fare al momento dell’insediamento della nuova Commissione.
Due gli aspetti chiave individuati: il primo, «il mancato aumento della produttività (per il quale occupiamo gli ultimi posti) a dispetto dei grandi progressi della tecnologia e dell’aumento degli investimenti in intangibles, quali software e intelligenza artificiale», il secondo «la riduzione delle catene del valore collegata ai rischi e alle incertezze di un mondo dominato dalla pandemia che determina un nuovo assetto della competizione tra le diverse aree del mondo. Rispetto ad esso contano, perché influenzano la produttività, le tendenze di lungo periodo dell’invecchiamento della popolazione europea e le sue conseguenze rispetto a welfare e crescita, anche se esso potrebbe essere in parte bilanciato dagli effetti positivi di migrazioni ben regolate. Le questioni della transizione energetica e quella dei conflitti commerciali in corso per la supremazia tecnologica, sono aspetti importanti di questa competizione tra aree del mondo».
«La conclusione – si legge – è che ciò che sta accadendo dovrebbe spingere la Eu a crearsi nuovi spazi economici, a cominciare da quelli più immediatamente realizzabili, quelli della sponda Sud. Non solo. Nel momento in cui si dovesse abbracciare una prospettiva mediterranea, occorre che alla scelta di area si associno progetti d’investimento in grado di aumentare la produttività, sia che si tratti di progetti per la transizione ecologica che di scelte a favore di quella digitale».
Per la Svimez, infatti, «a livello del nostro territorio, la politica economica dovrebbe tenere conto, sia nelle sue linee generali che in quelle previste dal Pnrr, dell’esigenza di puntare sull’innovazione, prendendo in considerazione le opzioni d’investimento in infrastrutture e logistica coerenti con questa prospettiva, nel momento in cui, ad esempio, ecosostenibilità e tecnologie digitali si applicano alle scelte in materia portuale. Questa scelta strategica complessiva può avere grande effetto sullo sviluppo del Mezzogiorno, se si traduce in interventi che tengono adeguato conto dell’innovazione collegata con le nuove tecnologie che porta con sé aumenti di produttività».
«L’utilizzo delle risorse del Recovery Fund – ricorda la Svimez – impone di fissare precisi obiettivi, varare progetti, definire un percorso che impegni le risorse entro il 2023, da spendere entro il 2026. Per ottemperare al duplice vincolo delle condizionalità e della tempistica va esplicitata in primis una visione realistica, immediatamente operativa, capace di porre mano alla fondamentale esigenza di connettere il Paese e di ridurre, con la ripresa dello sviluppo, le disuguaglianze economiche e sociali che – come la Ue sottolinea – minano alla base il Sistema Italia».
Per la Svimez, dunque, «occorre definire un chiaro Progetto di Sistema che – per quanto attiene al ruolo che compete al settore pubblico – sia incardinato su interventi produttivi, non assistenziali, in conto capitale, organicamente finalizzati a sostenere e migliorare le performance delle imprese e a recuperare il contributo di quel 40% di territorio e di oltre il 30% di cittadini per rimettere in moto il Mezzogiorno nell’ottica nazionale euromediterranea. In questo spirito va colta l’opportunità (da decenni trascurata) di partecipare in posizione centrale al governo del Mediterraneo, il luogo che più radicalmente la globalizzazione ha investito e reso strategico e nel quale l’Unione e noi – unico grande Paese dell’Unione esclusivamente mediterraneo – siamo invece a rischio di una progressiva emarginazione».
«L’obiettivo è quello di consolidare un aspetto di cruciale rilevanza della politica euromediterranea, che è fondamentale per il nostro ruolo. L’upgrading del sistema portuale meridionale, l’effettiva operatività delle Zes consentono di strutturare in modo efficiente le funzioni logistiche dell’intermodalità e della trasversalità territoriale, a cui deve concorrere la progressiva, rapida attivazione di un sistema di Autostrade del Mare (da tempo annunciata e mai adeguatamente sviluppata), fattore di ulteriore nostro vantaggio, sul versante della transizione energetica e della sostenibilità ambientale. Sarà così realizzata la missione di fare del “nostro” Mediterraneo, la grande piazza di un mercato di scambio, riscattando le nostre inerzie strategiche che lo hanno reso, fino ad ora, un passivo mare di transito».
«Partendo, quindi, dal Piano del Sud, riteniamo opportuno ribadire – continua il documento – che una pianificazione dedicata al Mezzogiorno, o una lettura del Mezzogiorno come dimensione geografica a se stante, è un comportamento antitetico a ciò che invece riteniamo approccio di “sistema”. E l’approccio di “sistema” impone una lettura organica e unica dell’intero assetto Paese: sarebbe bene produrre subito un documento organico del rilancio ed dell’ottimizzazione della offerta infrastrutturale e logistica del Paese, in un’ottica di sviluppo sostenibile euromediterraneo».
L’Ente, poi, sottolinea l’urgenza di costituire una unica società per azioni «in grado di ottimizzare, al massimo, le singole potenzialità» dell’offerta portuale del Mezzogiorno, costituita da 13 impianti aeroportuali.
«Una unica Società – viene spiegato – oltre a contenere i costi di gestione, potrebbe anche dare vita ad una vera specializzazione dei singoli scali e, soprattutto, potrebbe attrezzare solo due di essi a un servizio cargo, in grado di rendere efficienti e funzionali i trasporti delle primizie del comparto agroalimentare».
Proposta, anche, una riforma organica dell’offerta portuale del Mezzogiorno, dove «basterebbe – scrivono gli economisti – dare vita ad una chiara distinzione tra la portualità finalizzata al transhipment e quella destinata ad altre attività e definire i porti di Cagliari, Augusta, Gioia Tauro e Taranto come gli unici Hub del Mezzogiorno preposti ad una simile attività, e trasferire la gestione di tali Hub ad unica Società per Azioni. Le altre realtà portuali rimarranno legate a quanto previsto dall’attuale normativa. Il porto di Napoli, di Salerno, di Catania, di Palermo continueranno ad essere all’interno delle Autorità di sistema portuale. Una riforma sostanziale nella offerta di trasporto pubblico locale nelle aree urbane del Mezzogiorno».
La Svimez, poi, ha sottolineato l’urgenza di affrontare alcune questioni che, «se non affrontate, rischiano di fluire negativamente sulle modalità e sui tempi che ci vengono dettati dalla Ue in questo programma di ripresa e di sviluppo sostenibile»: la prima, è quella di «definire un programma a 100 giorni, in cui sarà bene che l’intera compagine di Governo lavori in modo collegiale; è necessario evitare che i singoli Dicasteri lavorino autonomamente perché le interazioni e le interdipendenze tra i vari Dicasteri in questa delicata fase diventano la condizione essenziale per riuscire a ricomporre le tessere socio – economiche del mosaico Paese».
«È, infatti, impensabile – continuano gli economisti – che la ministra del Mezzogiorno, Mara Carfagna, possa produrre delle linee strategiche essenziali per la crescita del Sud senza lavorare, durante i primi 100 giorni, con la ministra degli Affari Regionali, con il ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, con il ministro dell’Economia e delle Finanze ecc. In realtà, siamo sempre più convinti che la caratteristica più forte di questo Governo debba essere proprio questa elevata carica di collegialità nel formulare le proposte, nel varare scelte».
La seconda questione, poi, riguarda la definizione delle riforme: «diventa necessario che si pervenga alla definizione delle riforme misurando, caso per caso, le ricadute che ogni riforma provoca in comparti diversi. Siamo sicuri, ad esempio, che la riforma della Giustizia civile dovrà necessariamente essere affrontata leggendo, in modo capillare, le ricadute che si generano nel comparto delle costruzioni. Analogamente, la riforma del trasporto pubblico locale dovrà essere definita non solo dal Dicastero delle Infrastrutture e dei Trasporti, ma anche dal Ministero dell’Ambiente, dal Ministero degli Affari Regionali e dal Ministero del Sud. Questa esigenza di complementarietà nasce proprio dalla esigenza di trasferire su mezzi pubblici la massima domanda di trasporto che invece usa ancora per oltre il 65% mezzi di trasporto privati».
«Occorre, quindi – scrivono ancora – rivedere le logiche con cui lo Stato, oggi, copre circa il 65% dei disavanzi delle società preposte alla gestione di una tale offerta di trasporto e forse occorre misurare quanto incida sulla produzione di CO2 e di polveri sottili tale trasporto e concordare con il Ministero dell’Ambiente la istituzione di un apposito Fondo rotativo capace di premiare le gestioni virtuose; tutto questo coinvolgendo le Regioni che, nel caso specifico, potrebbero concordare con lo Stato l’utilizzo delle risorse comunitarie (Pon e Por) per implementare al massimo la offerta di trasporto pubblico su guida vincolata (metropolitane pesanti e leggere)».
Un’altra questione, riguarda la «rivisitazione della fase autorizzativa delle proposte progettuali relative alle opere che si riterrà opportuno non solo inserire nel Recovery Plan, ma in quel Programma di opere che il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, dopo un aggiornamento del Programma delle Infrastrutture Strategiche di cui alla Legge Obiettivo, intenda confermare. Ebbene, la fase autorizzativa, che mediamente impiega oltre 30 mesi (con punte di 70 mesi), deve ridursi in un arco temporale di soli 90 giorni. Trattasi della riforma senza dubbio più rilevante ma possibile; perché le motivazioni dei tempi lunghi e delle scadenze temporali non rispettate è legata alla frantumazione dei pareri e alla disarticolata tempistica con cui questi vengono prodotti; è necessario effettuare l’esame di ogni proposta in una sede unica con la presenza dei vari Dicasteri competenti, con la emissione contestuale di tutti i pareri, con la partecipazione della Corte dei Conti e con un unico esame definitivo del Cipe».
«Un’azione del genere – continua il documento – è basilare per il Mezzogiorno dove dei 54 miliardi di risorse del Fondo di Coesione e Sviluppo, in sei anni, se ne sono impegnati solo 24 e spesi solo 7; dove su circa 26 miliardi di opere infrastrutturali approvate nel 2014 sono in corso di realizzazione solo interventi per un importo di circa 5 miliardi». (rrm)