Autonomie e pre-intese allargano il divario Nord-Sud

di ERNESTO MANCINI  – Il 18 e 19 novembre scorsi il Ministro Roberto Calderoli, regista dell’intero dossier sull’autonomia regionale differenziata, si è recato nei capoluoghi delle regioni Veneto, Lombardia, Piemonte e Liguria, per sottoscrivere, coi rispettivi Governatori, le cosiddette “preintese” su tale autonomia. A ciò è stato ufficialmente delegato dalla Presidente del Consiglio Meloni.

Si tratta di accordi che proseguono formalmente il percorso Governo/Regioni verso l’autonomia differenziata nonostante la sentenza della Corte Costituzionale n. 192/24 che ne aveva demolito la legge asseritamente regolatrice (legge n 86/2024).

La stampa e gli altri media hanno dato ampio risalto alle firme e agli incontri istituzionali senza tuttavia spiegare granché nel merito di questi accordi.

Le preintese sottoscritte, peraltro identiche nel contenuto per le quattro regioni, coinvolgono gran parte del Nord Italia, con l’eccezione del Friuli-Venezia Giulia e della Valle d’Aosta, estranee a questa procedura di autonomia differenziata perché in regime di autonomia speciale.

La Regione Emilia-Romagna, anche a seguito di pressione dei Comitati contro ogni autonomia differenziata, ha assunto, con la nuova amministrazione De Pascale, una posizione politica fortemente contraria al progetto governativo di Calderoli, revocando le pre-intese firmate durante l’amministrazione Bonaccini.

Dalle preintese ora sottoscritte risulta che il Governo e le regioni del nord mirano ad ampliare l’autonomia regionale rispetto allo Stato centrale in materia di protezione civile, ordinamento delle professioni, previdenza complementare e integrativa, nonché sanità.  Per le funzioni degli altri 12 settori, possibile oggetto di autonomia differenziata, si dovrà attendere la definizione dei L.e.p (livelli essenziali delle prestazioni).

Il caso della sanità regionale differenziata

Per quanto riguarda il settore sanitario, le preintese stabiliscono testualmente quanto segue: a) autonomia differenziata nella “gestione del sistema tariffario di rimborso, remunerazione e compartecipazione degli assistiti” (art. 3 allegato 2 lettera “a”).

Al riguardo gli accordi prevedono che le Regioni con autonomia differenziata possano gestire in modo indipendente il sistema tariffario di rimborso, remunerazione e compartecipazione degli assistiti. Ciò significa che tali Regioni potranno fissare autonomamente i corrispettivi per tutte le prestazioni sanitarie, pubbliche e private accreditate, svincolandosi dalle indicazioni statali che oggi garantiscono uniformità e congruità dei tariffari sul territorio nazionale.

Questa pretesa autonomia, incidendo direttamente sui valori economici delle prestazioni – fondamentali per i bilanci regionali e – delle aziende sanitarie – può generare un vantaggio significativo per le Regioni dotate di maggiori poteri e risorse, a scapito di quelle che restano vincolate ai parametri nazionali.

D’altra parte, la leva tariffaria può diventare uno strumento competitivo per attrarre operatori e investimenti sanitari, con il rischio di accentuare le disuguaglianze territoriali e compromettendo ulteriormente l’uniformità dei livelli essenziali di assistenza e perciò, in definitiva, del Servizio Sanitario Nazionale.

Ovviamente non va negata la capacità di maggiore attrazione che una Regione riesce ad ottenere rispetto ad altre ma ciò va fatto in condizioni di parità di poteri e non certo di differenziazione e privilegio.

b) Autonomia differenziata nella “programmazione degli interventi sul patrimonio edilizio e tecnologico delle aziende del sistema sanitario regionale” (art. 3 allegato 2 lettera “b”).

La disposizione attribuisce alle Regioni del Nord una piena autonomia nella pianificazione delle strutture sanitarie consentendo di operare in deroga agli standard nazionali che continuerebbero invece a vincolare le Regioni del Centro-Sud.

In pratica, le Regioni differenziate possono superare i parametri nazionali relativi a rapporto posti letto/abitanti, classificazione degli ospedali, dotazione tecnologica, indici di congruità ed ogni altro parametro.

Ciò conferirebbe a queste Regioni una libertà quasi totale nella configurazione della rete ospedaliera regionale, con conseguenze negative sulla uniformità dei livelli essenziali di assistenza (Lea), sull’equità nell’accesso ai servizi e sulla coerenza complessiva della programmazione sanitaria nazionale che, a questo punto, rischierebbe di perdere ogni reale carattere “nazionale”.

c) Autonomia differenziata nella “individuazione di sistemi di governance delle aziende sanitarie e degli enti del servizio sanitario regionale” (art. 3 allegato 2 lettera “c”).

La completa autonomia sui sistemi di governance consentirebbe alle Regioni del Nord di definire regole proprie e differenziate rispetto alle altre Regioni per l’organizzazione dei vertici direzionali aziendali, delle strutture interne (dipartimenti, strutture ospedaliere, distretti, presìdi), nonché per la pianificazione, programmazione, definizione di obiettivi strategici e piani annuali o pluriennali.

In pratica, questa autonomia creerebbe una diversificazione profonda tra Nord e Centro-Sud nell’insieme di regole, strutture, processi e strumenti con cui le aziende sanitarie (ASL, ASST, AO, IRCCS, ecc.) vengono dirette, controllate e rese responsabili del loro operato. Il risultato sarebbe un sistema frammentato, dove la gestione e la responsabilità delle aziende sanitarie non sarebbero più uniformi a livello nazionale né tra di loro confrontabili, mettendo a rischio la coerenza complessiva del Servizio sanitario e l’equità nell’accesso ai servizi su tutto il territorio.

c1) Autonomia differenziata nella “istituzione e gestione di fondi sanitari integrativi” (art. 3 allegato 2 lettera “c” seconda parte).

I fondi sanitari integrativi sono strumenti che si affiancano alle prestazioni garantite dal Servizio Sanitario Nazionale. Si tratta, in sostanza, di forme di assistenza sanitaria privata di tipo assicurativo, che copre prestazioni non erogate dal SSN ovvero erogate con tempi lunghi ed inaccettabili (visite specialistiche, diagnostica, odontoiatria, ricoveri, interventi chirurgici, ecc.). Ne beneficiano principalmente i cittadini che possono permettersi di sostenere i costi di adesione ed i premi assicurativi.

È vero che i fondi integrativi sono previsti dalla normativa nazionale (art. 9 del d.lgs. 502/1992), ma non certo per le Regioni. La legge infatti stabilisce che i fondi possono essere istituiti da enti, associazioni, società di mutuo soccorso, casse professionali o organismi di origine contrattuale o aziendale. L’istituzione diretta di tali fondi non rientra invece tra i compiti delle Regioni cui spetta garantire un servizio sanitario universale e pubblico, non certo un opposto sistema mutualistico-assicurativo.

d) Autonomia differenziata nella “allocazione delle risorse tra i diversi ambiti e finalità della spesa sanitaria, in deroga ai vincoli di spesa specifici per le politiche di gestione della spesa sanitaria”

art. 3 allegato 2 lettera “d”).

Le preintese attribuiscono alle Regioni con autonomia differenziata la possibilità di allocare liberamente le risorse sanitarie, derogando ai vincoli di spesa fissati dallo Stato.

Ciò aumenterebbe le disparità territoriali: le Regioni più ricche potrebbero investire in ospedali e tecnologie di eccellenza, mentre quelle più povere faticherebbero a garantire perfino i servizi essenziali.

Inoltre, la libertà di spesa potrebbe spingere alcune Regioni a privilegiare settori più redditizi, trascurando servizi fondamentali come prevenzione, assistenza territoriale e consultori.

Ne deriverebbe un rischio concreto di perdita dell’uniformità dei livelli essenziali di assistenza, con conseguente violazione del principio di uguaglianza garantito dalla Costituzione.

I profili di illegittimità

Tutte le funzioni sopra elencate sono particolarmente strategiche per la materia di rilievo costituzionale “sanità – tutela della salute ex art. 32 Cost.”.  Per le scelte di autonomia differenziata ad esse relative entrano in gioco i seguenti profili di illegittimità delle preintese sottoscritte.

2.1 Violazione dei princìpi cardine della Riforma Sanitaria sui rapporti Stato/Regioni

Le intese presuppongono che lo Stato possa perdere, per ciascuna delle funzioni indicate, le proprie prerogative di coordinamento e di garanzia dell’uniformità del Servizio sanitario nazionale. Ciò contraddice l’impianto complessivo della legge di riforma sanitaria istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale (legge 833/78 e successivo riordino ex D.lgs. 502/92) che di nazionale non avrebbe più nulla.  Il sistema risulterebbe infatti frammentato tra le Regioni del Nord e quelle del Centro-Sud, con una sostanziale estromissione dello Stato da ogni competenza relativa all’organizzazione sanitaria nel Nord.

Alla consueta obiezione secondo cui la sanità sarebbe già differenziata tra Nord e Sud, si può agevolmente rispondere che il modello proposto, lungi dal colmare tale divario, rischia di amplificarlo ulteriormente. Invece di promuovere politiche volte ad avvicinare le condizioni delle diverse aree del Paese, si adotta una logica che, di fatto, esaspera le disparità esistenti andando esattamente nella direzione opposta rispetto a quella che sarebbe dovuta.

Non va dimenticato, inoltre, che l’attuale maggiore efficienza complessiva delle regioni del nord-Italia rispetto alle altre è dovuta a maggiore capacità organizzative e di innovazione pur in un quadro di parità e non di disparità dei poteri con le regioni meno efficienti. Non è perciò con l’autonomia differenziata che si risolvono i problemi di diversa efficienza, che anzi li si aggrava.

2.2 Violazione dell’art.  32 Costituzione sui compiti della Repubblica per la tutela del diritto alla salute.

Ancora più grave è la contraddizione con l’art. 32 della Costituzione, che attribuisce alla Repubblica – e dunque a Stato, Regioni, Enti locali – oggi Asl del territorio locale) – la tutela del diritto fondamentale alla salute. Questo equilibrio istituzionale verrebbe seriamente compromesso se uno dei soggetti costituzionalmente titolari della materia, lo Stato, fosse escluso dall’esercizio del ruolo di sovraordinazione funzionale per una parte rilevante del Paese.

In altri termini, pur essendo contitolare insieme alle Regioni della materia “tutela della salute” ai sensi del nuovo Titolo V, lo Stato si troverebbe nell’impossibilità di esercitare poteri di indirizzo, coordinamento o pianificazione generale su una parte significativa del territorio nazionale. La sua contitolarità sarebbe solo formale, priva dei poteri necessari a garantire un indirizzo unitario sulle funzioni più rilevanti.

2.3 Violazione dell’art. 97 Costituzione sul buon andamento della Pubblica Amministrazione.

Il sistema differenziato nelle funzioni strategiche in sanità produce un’asimmetria istituzionale molto grave perché si avrebbe frammentazione normativa, caos amministrativo, ostacoli all’attività di cittadini, imprese e associazioni che si troverebbero diversi poteri sulla medesima funzione a seconda dei territori di riferimento.

Una simile disomogeneità contrasta con l’art. 97 Cost., che impone alla Pubblica Amministrazione di operare assicurando “buon andamento” mentre le soluzioni ora prospettate creano una situazione esattamente opposta di disordine e frammentazione.

2.4 Violazione del principio di unità ed indivisibilità della Repubblica, del regionalismo cooperativo e solidale a favore del regionalismo competitivo ed egoistico.

Le fratture sopra descritte causate dell’autonomia differenziata non verrebbero meno se anche fossero concesse a tutte le altre regioni del centro-sud i medesimi poteri ora riconosciuti alle regioni del nord; se, in altri termini, ci fosse un autonomismo spinto ma tuttavia paritario per ciascuna regione rispetto alle altre.

In primo luogo, infatti verrebbe comunque annullata la funzione statale di indirizzo, coordinamento e sovraordinazione (funzionale) rispetto al sistema sanitario complessivo. In secondo luogo, le regioni sarebbero l’una contro l’altra armata come piccole repubblichette del tutto svincolate da un sistema nazionale unico caratterizzato da cooperazione e solidarietà come vuole la Costituzione in ogni passo delle sue norme. Anche chi, come il sottoscritto, è per un’autonomia regionale ampia  non può che contrastare qualsiasi autonomismo che pur non differenziato eliminerebbe comunque la funzione statale di indirizzo e coordinamento ai fini dell’uniformità, quanto meno tendenziale, del sistema.

2.5 Violazione del principio di non frammentarietà

Nella nota sentenza n.192/24 la Corte Costituzionale ha avuto modo di riaffermare il c.d. “principio di non frammentarietà” , secondo cui “quando la funzione attiene agli interessi dell’intera comunità nazionale, la sua cura non può essere frammentata territorialmente senza compromettere la stessa esistenza di tale comunità, o comunque l’efficienza della funzione” (Sentenza Corte Costituzionale 192/24 in più passaggi ed in particolare al punto 4.2.1.).

Ciò significa che la funzione di sovraordinazione, coordinamento ed indirizzo dello Stato nella sanità, come del resto in ogni altra materia di pubblica amministrazione, non può valere per una parte del Paese (regioni del centro-sud) e non per un’altra (regioni del nord). Una simile concezione crea inefficienza e, come si diceva, disordine e caos.

Conclusioni

L’analisi critica fin qui condotta si è concentrata esclusivamente sull’autonomia regionale differenziata in ambito sanitario, evidenziando, pur in maniera sintetica e tutt’altro che esaustiva, gli effetti fortemente negativi che tale impostazione produrrebbe in questo specifico settore. Tuttavia, occorre considerare che il progetto Calderoli/regioni del Nord investe ben altri 12 settori di primaria rilevanza costituzionale – tra cui, ad esempio, istruzione, ambiente, trasporti ed infrastrutture, – il che amplificherebbe a dismisura le ripercussioni negative, rischiando di compromettere in modo irreversibile l’unità e l’indivisibilità della Repubblica e dunque l’esistenza della stessa.

Di conseguenza, appaiono fondate le preoccupazioni di chi da tempo denuncia il carattere profondamente eversivo di tale progetto che va pertanto contrastato con fermezza e con tutti gli strumenti a disposizione. Oltre che eversivo il sistema Calderoli è stato giustamente definito nel dibattito di questi anni “predatorio”, “secessionista”, “incostituzionale nell’anima”.

Non si tratta di esagerazioni retoriche; queste valutazioni corrispondono pienamente alla realtà dei fatti.

Stante lo spazio editoriale limitato ho potuto trattare, peraltro in sintesi e solo parzialmente, le preintese in materia sanitaria escludendo perciò ogni analisi critica sulle altre funzioni oggetto dei recenti accordi (protezione civile, professioni, previdenza complementare integrativa). Lo farò in altro momento avvertendo fin da ora che anche nelle altre funzioni le criticità sono altrettanto gravi e non meno dannose di quelle qui esposte per la sanità.

Autonomia: dove eravamo rimasti?
E c’è anche chi si ostina a ripresentarla

di MASSIMO MASTRUZZO – L’Autonomia Differenziata è al centro di un dibattito che, tuttavia, non sembra affrontare in maniera adeguata le sue implicazioni economiche e sociali. Nessun dibattito pubblico, infatti, mette in evidenza i rischi che questa riforma potrebbe comportare per il futuro del Paese, in particolare per le regioni meridionali. I temi sollevati da esperti, come i mancati finanziamenti dei Livelli Essenziali delle Prestazioni (Lep) e l’iniqua ripartizione dei fondi del Pnrr, dovrebbero essere al centro di una discussione seria, che purtroppo è sistematicamente evitata dai media nazionali.

La proposta di autonomia differenziata, voluta dal ministro Calderoli e sostenuta dal governo Meloni-Salvini-Tajani, non fa che consolidare il divario già esistente tra le regioni più ricche del Nord e quelle meno sviluppate del Sud. I rischi economici e sociali per le regioni meridionali sono evidenti, e vari studi lo confermano. Le ricerche condotte dal Cnr, dalla Svimez e dall’OCSE ci avvertono che l’autonomia fiscale potrebbe, sì, portare a un miglioramento per alcune regioni, ma con il pericolo di un’esacerbazione delle disuguaglianze. Le regioni più ricche potrebbero rafforzare la loro posizione, mentre quelle più povere potrebbero trovarsi a dover affrontare carenze di risorse, con un impatto devastante su servizi essenziali come sanità e istruzione.

Gli studi della Svimez parlano chiaro: l’autonomia differenziata potrebbe trasformarsi in una “secessione fiscale” che, se non accompagnata da adeguate politiche di redistribuzione e solidarietà, danneggerebbe irrimediabilmente il Sud. Le stesse previsioni Ocse confermano che una maggiore autonomia regionale rischia di rallentare la crescita complessiva del Paese, in quanto non tutte le regioni sarebbero in grado di sostenere finanziariamente politiche e infrastrutture adeguate.

Ma non si tratta solo di questioni economiche. Il rischio maggiore è che l’Italia, già oggi caratterizzata da disuguaglianze territoriali insostenibili, si avvii verso una divisione ancora più marcata. Un Paese che non riesce a garantire i Livelli Essenziali delle Prestazioni (Lep) a tutti i suoi cittadini, ma li fornisce solo ad una parte di essi, non è in grado di definirsi un “Paese Unito”. La Costituzione Italiana, che stabilisce l’uguaglianza di diritti e opportunità per tutti i cittadini, rischia di essere tradita.

«Un Paese, uno Stato, che garantisce i Livelli essenziali delle prestazioni (Lep) solo ad una parte dei suoi cittadini, disattendendo di fatto la sua stessa Costituzione, come può essere definito tale. Uno Stato dove la disomogeneità territoriale è talmente ampia dall’aver condizionato inequivocabilmente i criteri di ripartizione dei Recovery Fund a proprio favore, ricevendo per questa condizione la quota maggiore salvo poi, in merito alla coesione sociale, agire in controtendenza rispetto alle indicazioni di Bruxelles, che prospettive positive può immaginare rispetto alla proposta sul disegno di legge (DDL) sull’autonomia differenziata, ideato da Calderoli?».

Il Movimento Equità Territoriale, con convinzione, ritiene che il progetto di Autonomia Differenziata sia una minaccia alla coesione sociale e alla tenuta economica delle regioni del Mezzogiorno. La proposta avanzata da Calderoli è inadeguata rispetto alle reali necessità del Paese è mette pericolosamente a rischio i diritti costituzionali, già debolmente garantiti, dei cittadini del Sud-Italia.

La disomogeneità territoriale è già così ampia da condizionare la distribuzione dei fondi europei a favore delle regioni più ricche, ma non basta: oggi si vuole legittimare una legge che rischia di rendere ancora più evidente la disparità tra Nord e Sud e condurrebbe a un ulteriore svuotamento della capacità del Sud di sostenere il proprio sviluppo.

Per queste ragioni, ci opponiamo fermamente al Disegno di Legge sull’Autonomia Differenziata. Se vogliamo davvero ridurre le disuguaglianze e promuovere la crescita delle regioni del Sud-Italia, è necessario garantire gli investimenti per tutte quelle infrastrutture carenti nelle regioni meridionali: gli investimenti in infrastrutture hanno un impatto economico diretto e documentato. Creano occupazione nel breve periodo, stimolano l’indotto e, nel lungo termine, rafforzano la competitività del Paese intero. Gli economisti parlano di “effetto moltiplicatore”: ogni euro speso in infrastrutture genera una crescita del PIL superiore al valore iniziale dell’investimento. E questo effetto è ancora più forte nei territori che partono da una situazione di carenza

Difatti dimostrare che un’autostrada o una ferrovia è più utile lì dove mancano – e non dove già abbondano – non dovrebbe essere un esercizio difficile.

Così come non lo dovrebbe essere garantire le risorse adeguate per i Lea, Lep, Leps e assicurare che il sistema fiscale e redistributivo italiano funzioni in modo equo per tutti i cittadini, indipendentemente dalla loro provenienza geografica. (mma)

(Direttivo nazionale MET – Movimento Equità Territoriale)

CALDEROLI, IL DECRETO DELEGATO SUI LEP
È IL GRIMALDELLO CHE SPEZZA L’ITALIA

di ERNESTO MANCINIIl Ministro Calderoli ha proposto al Consiglio dei Ministri un disegno di legge per determinare i livelli essenziali delle prestazioni (Lep).

La proposta mira ad ottenere dal Parlamento la delega al Governo per definire questi livelli, adempimento preliminare per l’autonomia regionale differenziata. In pratica, è una delega che il Ministro richiede per se stesso, essendo lui il dominus del procedimento per giungere a tale deleteria autonomia differenziata.

Il Consiglio dei Ministri, stanti i patti di maggioranza per conseguire gli obbiettivi di ciascuna componente politica (premierato, separazione carriere magistrati, autonomia differenziata), ha approvato la proposta ed è molto probabile che il Parlamento, data la corrispondente maggioranza, delegherà il Governo a legiferare.

Sul disegno di legge possono farsi le seguenti osservazioni.

La legge delega ed il Decreto delegato

Seppure lo strumento del decreto delegato appaia formalmente legittimo – si tratta infatti di disciplinare una materia che presenta molti aspetti tecnici, giuridici e finanziari assai complessi – va detto che tale strumento legislativo nelle mani del Ministro Calderoli appare pericoloso e foriero di parecchie insidie per l’unità e l’indivisibilità della Repubblica nonché per l’uguaglianza dei cittadini (artt. 2, 3 e 5 della Costituzione).

Nel disegno di legge-delega, Calderoli prevede nove mesi per la determinazione dei Lep. Considerato che il Ministro utilizzerà il lavoro già svolto dalla Commissione per tali livelli (Clep – Commissione Cassese) c’è da credere che egli arriverà certamente a legiferare nel termine previsto.

Il Ministro non incontrerà al riguardo ostacoli significativi perché i pochi passaggi previsti dalla procedura sono congegnati in modo tale che gli organi preposti al controllo avranno scarsa capacità di incidere sul testo con efficaci emendamenti o con significative correzioni successive. Non lo potrà fare la Conferenza Unificata delle Regioni perché in essa predomina una maggioranza analoga a quella parlamentare; si è già visto come tale maggioranza è stata prona ai diktat di Calderoli al momento dei preliminari pareri sull’autonomia differenziata di fine anno 2023 – primi mesi 2024.

Non lo potranno fare, per gli stessi vincoli di maggioranza, le apposite Commissioni Parlamentari cui il decreto legislativo sarà sottoposto per la prevista valutazione; anche in questo caso si è già visto come la stragrande maggioranza delle qualificate audizioni in Commissione (costituzionalisti, amministrativisti, economisti, autorevoli istituzioni)  contrarie alla indicata prospettiva di autonomia differenziata siano state del tutto non considerate nel testo finale della legge Calderoli n. 86/2024.

Peraltro, in ogni caso, si tratta di valutazioni-pareri da esprimersi in tempi brevissimi (solo 30 giorni) e perciò inaccettabili data la complessità della materia e gli interessi pubblici in gioco. Per giunta si tratterà di pareri non vincolanti sicché il Ministro potrà proseguire disinvoltamente a prescindere dalle valutazioni eventualmente contrarie che, stanti i rapporti di forza politici, non saranno certo prevalenti.

Le materie, le funzioni ed i possibili trasferimenti dallo Stato alle Regioni

Ora va detto che nella bozza di legge-delega si prevedono quattordici “settori organici di materie” all’interno delle quali si intende individuare le “funzioni” ai fini della determinazione delle prestazioni.

Tale settori sono i seguenti: a)principi generali sull’istruzione; b) protezione dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali; c) sicurezza e tutela del lavoro; d) istruzione; e) ricerca scientifica e tecnologica e supporto all’innovazione nei settori produttivi; f) protezione della salute; g) nutrizione; h) organizzazione sportiva; i) pianificazione territoriale; l) porti e aeroporti civili; m) grandi infrastrutture di trasporto e navigazione; n) regolamentazione della comunicazione; o) produzione, trasporto e distribuzione dell’energia a livello nazionale; p) valorizzazione dei beni culturali e ambientali e organizzazione di attività culturali. Viene specificato che è esclusa la protezione della salute (lettera f) poiché i Lea (livelli essenziali di assistenza cioè il Lep della sanità) sono già vigenti.  

Si tratta di quattordici “settori organici di materie” (così li definisce la bozza del disegno legge delega) rispetto alle ventitré materie previste dall’art. 117 della Costituzione. Tuttavia, questa riduzione non è effettiva perché si tratta solo di una mera riclassificazione con altro criterio.

Al riguardo va ricordato che la Corte Costituzionale ha escluso il trasferimento di “materie” dallo Stato alla esclusiva competenza delle Regioni perché ciò è in palese contrasto con la Costituzione (art.117, 3° comma). Ha però ammesso che specifiche funzioni relative a tali materie possano essere trasferite alle regioni che ne facciano richiesta sempre che venga rispettato il principio di sussidiarietà cioè l’obbligo di collocare la funzione nel livello più adeguato (Europa, Stato, Regione, Comuni) secondo le caratteristiche della funzione medesima e le esigenze del “bene comune”.

Ora, siccome i quattordici settori organici si articolano ciascuno in molteplici funzioni e siccome queste possono essere oggetto di trasferimento, ne discende che l’autonomia differenziata può avere una dimensione eclatante fino al punto da privare lo Stato delle funzioni più importanti in favore delle Regioni che ne facciano richiesta.

Un esempio chiarirà meglio quanto andiamo dicendo: Con riguardo al solo settore “istruzione”, si contano nel disegno di legge ben quindici articolazioni (articoli da 4 a 19 tra cui le funzioni relative ai piani di studio, alla formazione delle classi, all’edilizia scolastica, alla formazione personale docente, al diritto allo studio, e molto altro). In ognuna di queste articolazioni sono indicate, a loro volta, decine e decine di funzioni facendo riferimento generico ai titoli delle numerose leggi che vengono richiamate (vedi comma due di ciascun articolo dedicato all’istruzione).

Ne consegue che il numero complessivo delle funzioni dei quattordici settori organici delle materie è amplissimo (oltre 500)sicché è amplissima la possibilità di trasferirle alle Regioni che intendono acquisirle quale forma particolare di autonomia ex art. 116. 3° comma del nuovo titolo V della Costituzione.

La realizzazione del “disegno spacca Italia”

Si potrebbe così realizzare il disegno “criminoso” di Calderoli & co, di spaccare l’Italia assegnando alle regioni del nord che ne fanno richiesta gran parte delle funzioni o comunque le più importanti per garantire loro maggiore potere politico, legislativo ed amministrativo rispetto alle altre Regioni ed allo stesso Stato.

Tutto ciò creerà disordine e caos nell’ordinamento pubblico perché i cittadini, le imprese e le altre organizzazioni sociali, dovranno rivolgersi per l’esercizio dei medesimi diritti civili e sociali o allo Stato o alla Regione a seconda del territorio dove risiedono o verso il quale, per mobilità od altro, intendono esercitare tali diritti. Con l’aggravante di diverse procedure, diversi presupposti  e diverse graduazioni dei diritti stanti le diverse capacità, anche finanziarie, delle regioni favorite con l’autonomia differenziata. Insomma, un ulteriore e distruttivo distacco delle regioni ricche del nord rispetto a quelle del sud. Lo Stato, peraltro, dovrà comunque mantenere gli apparati e le relative spese per gestire la funzioni in riferimento alle Regioni che non si differenziano ed in più perderà capacità imperativa o negoziale con qualsiasi interlocutore, pubblico o privato, interessato alla funzione (concessioni, contratti pubblici, economie di scala, ecc.).

Il decreto delegato come grimaldello per spezzare l’Italia

C’è da temere che nessuno spazio avrà l’applicazione obbiettiva del principio di sussidiarietà secondo cui bisogna valutare con la massima imparzialità a quale livello ottimale si può collocare ogni singola funzione (come si diceva: Europa, Stato, Regione, Comuni). Il Governo, stante la matrice secessionista del Ministro ed il pactum sceleris di cui si è detto, è del tutto sbilanciato verso le regioni (beninteso quelle del nord) e la maggioranza parlamentare, pur di evitare una crisi che porterebbe allo scioglimento anticipato delle Camere, sarà acquiescente al volere del ministro e del partito leghista.

Va pure detto che in astratto la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni è cosa buona perché consente di misurare quanto le autorità pubbliche siano obbligate a garantire in modo uniforme su tutto il territorio nazionale e quanto sia, regione per regione, il distacco o il superamento tra gli attuali livelli e quelli essenziali. Tuttavia, in concreto, nelle mani di un Ministro clamorosamente secessionista, tale determinazione diventa invece il grimaldello per il successivo passaggio alle intese con le regioni del Nord a danno di quelle del Sud notoriamente lontane da tali livelli.

Con l’aggravante che i finanziamenti che  il promesso legislatore prevede per eliminare il gap tra Nord e Sud sono solo teorici ed anzi assolutamente improbabili stante la insufficiente capacità finanziaria dello Stato già  gravemente indebitato; incapacità e debito che si aggraveranno ulteriormente se lo Stato dovrà lasciare gran parte delle entrate fiscali  alle Regioni che pretendono la  differenziazione (il Veneto dopo il referendum farsa del 2017 chiese addirittura l’80% delle entrate fiscali originate nel proprio territorio !!!).

Una battaglia durissima

Si prospetta pertanto una battaglia durissima nella quale si dovranno ancora fare valere nelle Piazze,  nel Parlamento e se del caso ancora davanti al Giudice delle Leggi  i principi costituzionali di unità, indivisibilità della Repubblica ed uguaglianza dei cittadini  e cioè, con espressione univoca e omnicomprensiva “il principio di non frammentarietà” , secondo cui  “quando la funzione attiene agli interessi dell’intera comunità nazionale, la sua cura  non può essere frammentata territorialmente senza compromettere la stessa esistenza di tale comunità, o comunque l’efficienza della funzione” (Sentenza Corte Costituzionale 192/24 in più passaggi ed in particolare al punto 4.2.1.). (em)

(Questo articolo è un contributo al Gruppo di Lavoro dei Comitati NO AD,Tavolo Tecnico NO AD per lo studio e l’approfondimento delle problematiche sui livelli essenziali delle prestazioni)

IL NO AL REFERENDUM, OCCASIONE PERSA
PER FAR PARLARE FINALMENTE IL SUD

di PIETRO MASSIMO BUSETTA  – «È sicuro che adesso il comitato referendario si scioglierà». Cosi il costituzionalista Massimo Villone, membro del comitato promotore del referendum per l’abolizione della legge Calderoli sull’autonomia differenziata. E continua sottolineando «la totale inerzia dimostrata da esso in questi mesi». 

Il suo giudizio è netto anche sulla inammissibilità dichiarata dalla Corte Costituzionale. Scelta che definisce «non condivisibile e un po’ cerchiobottista», e continua: «sarà ora essenziale mantenere una pressione sulle forze politiche nelle sedi istituzionali, e far emergere la contrarietà a una frammentazione del Paese».

Certamente, come peraltro sottolineato dai quotidiani vicini alla Lega e, in modo meno convinto, da quelli vicini al resto del Centro Destra, quello della non ammissibilità è una sconfitta per le forze che si sono opposte all’Autonomia Differenziata. 

 In particolare per i Movimenti Meridionalisti che si erano compattati, insieme ad alcuni sindacati e ai Partiti Progressisti, su un no deciso ad una legge che costituzionalizzava l’esistenza di cittadini di serie A e di serie B. 

Qualcuno sostiene che la decisione sia stata un’ancora di salvezza, perché una eventuale ammissibilità avrebbe portato ad una sonora sconfitta. Lo sosteneva  il Doge di Venezia, Luca  Zaia, che aveva detto «Il referendum è un istituto democratico. Se dovesse essere approvato anche dalla Corte costituzionale, decideremo che cosa fare. Ma credo che siano i promotori del referendum che dovrebbero preoccuparsi di più. Saranno loro a dover trovare i voti per abrogare la legge Calderoli». 

In realtà è evidente che sarebbe stato estremamente complicato portare a votare il 51% degli aventi diritto. Peraltro, su un tema di difficile comprensione, che rischiava di essere strumentalizzato da una propaganda da parte delle forze favorevoli all’autonomia molto decisa. Che avrebbero insistito sui temi a favore della legge, come la maggiore efficienza di un sistema che porta a decidere e operare coloro che sono più vicini ai territori e quindi conoscono meglio l’ esigenza delle realtà gestite. 

Altro tema sul quale avrebbero insistito è quello relativo all’evidenza che senza autonomia la realtà è pessima, e i diritti di cittadinanza sono assolutamente diversi tra una parte e l’altra del Paese. E che contro l’autonomia sono in realtà coloro che sono contro l’efficienza e la sana gestione delle risorse disponibili. 

Non sarebbe stato facile convincere i tifosi del centrodestra, anche meridionali, delle ingiustizie che con la legge sull’autonomia si sarebbero potute perpetrare, peggiorando addirittura la distribuzione che avviene oggi con la spesa storica che, come evidenziato nei Conti Pubblici Territoriali del Dipartimento per le Politiche di Coesione, registra una differenza, rispetto a una spesa pro capite uguale per tutti i cittadini italiani, di circa 60 miliardi a favore del Nord. 

  E se anche il voto favorevole alla abolizione fosse stato bulgaro, come qualcuno si attendeva, raggiungere la partecipazione al voto necessaria sarebbe stato se non impossibile, certamente complicato. 

Eppure, malgrado le motivazioni condivisibili, anche in presenza di un rischio elevato che il referendum non sarebbe passato, esso avrebbe rappresentato un momento importante per la battaglia che il Mezzogiorno sta conducendo per diventare parte attiva di un Paese con grandi disuguaglianze.  

Infatti la mobilitazione, indispensabile per diffondere l’informazione sull’oggetto della votazione, avrebbe rappresentato un momento importante per accrescere la consapevolezza di essere per molti aspetti una colonia interna. 

Si sarebbe replicato quello che è avvenuto con la raccolta delle firme per chiedere di poter celebrare la chiamata al voto dei cittadini. Che poi è quello di cui ha più bisogno un Sud disattento, che non si occupa adeguatamente dei problemi che lo riguardano. 

In particolare, quella borghesia che si è fatta convincere da una vulgata nazionale che le responsabilità del mancato sviluppo risiedono nell’incapacità di portare avanti le politiche che il Governo nazionale e l’Europa vorrebbero attuare.

Dimenticando l’esistenza di una classe dominante estrattiva locale, spesso collusa e funzionale al disegno di un Paese che si pone in modo estrattivo, sia per quanto riguarda le risorse umane che ogni anno vengono costrette a trasferirsi e che, pari a 100.000 individui, depauperano le regioni meridionali di oltre 20 miliardi; che rispetto al diritto alla sanità che viene realizzato attraverso i viaggi della speranza, che foraggiano il sistema sanitario del Nord. Oltreché sulla necessità per molti di studiare presso le università settentrionali, convinti che in tal modo la ricerca di un posto di lavoro sarà più facile. 

L’occasione mancata di una campagna referendaria, costringe tutti coloro che sono impegnati a diffondere consapevolezza ad immaginare nuove strategie. Perché il racconto, interessato, di un Sud sprecone, criminale, non in condizione di gestire le risorse comunitarie venga svelato nella sua realtà. 

 Adesso bisognerà fare i conti con la mancata accelerazione conseguente al giudizio di inammissibilità. Peraltro il ritorno in Parlamento della legge, non potrà che perseguire gli obiettivi che la Lega si è dati, prevalentemente quello della cristallizzazione della spesa storica, cercando di renderla compatibile con  le indicazioni provenienti dalla Consulta. 

Ma oggi  si dovrà capire, in assenza dell’ammissione del quesito referendario, come accelerare il processo di consapevolezza in assenza della mobilitazione. E come far capire alla borghesia colta meridionale, che si abbevera degli opinionisti nazionali, spesso interessati ad un mantra  ripetitivo sulle problematiche del Sud, di evitare l’autoflagellazione che porta inevitabilmente all’inazione conseguente al convincimento di colpevolezza. (pmb)

[Courtesy Il Quotidiano del Sud – L’Altravoce dell’Italia]

AUTONOMIA, DECISIONE DELLA CONSULTA
LASCIA PERPLESSI: QUALI LE PROSPETTIVE

di ERNESTO MANCINIIl 20 gennaio scorso la Corte Costituzionale ha dichiarato inammissibile il referendum abrogativo della legge Calderoli sull’autonomia differenziata. In attesa del deposito della sentenza la Corte ha emesso, come è prassi da qualche anno, un comunicato stampa che riassume i motivi principali di tale inammissibilità. 

Il quesito referendario, a dire del Giudice delle Leggi, non è chiaro e lo stesso referendum si trasformerebbe, se con esito abrogativo, in una sostanziale abrogazione dell’art. 116, terzo comma della Costituzione che ammette ulteriori forme di autonomia; il che, a dire della Consulta, non è ammissibile in quanto il referendum può avversare una legge ordinaria ma non una norma costituzionale.

1) I motivi su cui si fonda la decisione della Corte non convincono.

Quanto alla non chiarezza del quesito va detto che esso conteneva espressamente “l’abrogazione totale della legge” e cioè una formula chiarissima ed inequivocabile, peraltro emessa in data 13 dicembre 2024 dalla Corte di Cassazione competente a deliberare il testo definitivo del quesito anche ai fini di massima chiarezza.

Quanto all’implicita abrogazione dell’art. 116 terzo comma va detto che il quesito attaccava le modalità con le quali il “legislatore Calderoli” aveva inteso dare applicazione, ovviamente a modo suo, a tale parte della Costituzione. Ora, non è che avversando la legge ordinaria si avversa la Costituzione bensì si avversa il modo con il quale essa è stata attuata.

Si è trattato di un modo abusivo perché la legge avrebbe imposto un regionalismo competitivo ed egoistico in luogo di quello cooperativo e solidale, avrebbe creato ulteriori diseguaglianze tra i cittadini, spezzato l’unità della Repubblica, differenziato in modo ingiusto i vari territori. La legge inoltre avrebbe privato lo Stato di poteri sovraordinati in tema di istruzione, sanità, ambiente ed altre delicatissime materie, avrebbe frammentato in tante piccole repubbliche un ordinamento unitario creando caos istituzionale, avrebbe violato le prerogative del Parlamento. Ciò a tacer d’altro. 

L’elenco delle scelleratezze (più sobriamente dette “illegittimità costituzionali”) è ancora più lungo ed al riguardo basta leggere con un po’ di attenzione la sentenza n. 192 di novembre scorso con la quale la Corte Costituzionale aveva demolito tale normativa. Si è trattato di una “massiccia demolizione” come la stessa Corte di Cassazione del 13 dicembre scorso aveva espressamente detto alla pag. 32 della propria decisione in sede di definizione del quesito referendario.

Ora, in attesa del testo integrale della sentenza sull’inammissibilità del referendum, non è possibile fare ulteriori commenti. Si spera che il testo integrale fornisca motivazioni convincenti rispetto al recente comunicato.  Solo così i sostenitori del referendum potranno accettare l’esito con serenità. Altrimenti la delusione per la sentenza di gennaio sarà pari all’opposto entusiasmo per quella di novembre.

2) Le prospettive 

Bisogna ora chiedersi cosa farà il “legislatore Calderoli”. Egli è il dominus della partita in quanto finora Governo e maggioranza parlamentare gli hanno lasciato mano completamente libera. E così, stanti i patti della maggioranza (premierato, magistratura, autonomia differenziata), c’è da credere che ciò accadrà anche per il prossimo futuro.

Le ipotesi possono riassumersi come segue tenuto conto che la legge allo stato è inapplicabile perché svuotata dei suoi contenuti principali; tuttavia, rimane formalmente in piedi per le parti residue.

2.1) La revisione formale della legge e la revisione di fatto. 

Può darsi che Calderoli revisioni il testo della legge copiando materialmente i princìpi stabiliti dalla Corte Costituzionale ed incollandoli con destrezza giuridica nelle parti rimaste vuote per effetto del dictum della Corte medesima. 

Presenterà pertanto al Parlamento una legge revisionata perché purgata dalle illegittimità precedenti ed invece inclusiva dei princìpi dettati dalla Corte. Potrà dire che in questo modo ha dato perfetta applicazione al titolo V della Costituzione e che nessuna obbiezione può pertanto farsi al riguardo. 

Vi è però che il personaggio, così come ha violato la Costituzione con un’applicazione scellerata, eluderà la legge revisionata con la stessa attitudine. Ciò potrà fare proprio nella sede delle pre-intese con i Presidenti delle Regioni del Nord tuttora trattanti (Veneto, Lombardia, Piemonte e Liguria). Formalmente non trasferirà a queste Regioni intere materie ma solo funzioni (come vuole il Giudice delle leggi) salvo a farlo “a modo suo” e cioè trasferendo funzioni che di fatto equivalgono ad intere materie o alle parti principali di esse, funzioni non specifiche ma generali, non tipiche di un territorio ma comuni ad altri e così via. Insomma, un modo solo apparente di applicare i princìpi dettati dalla Corte Costituzionale.

Il nostro non è un processo alle intenzioni poiché il personaggio è recidivo ed è capacissimo di reiterare il malfatto. 

L’altra ipotesi è che il Calderoli lasci la legge così com’è per non avere ulteriori “fastidi” procedimentali e si presenti in Parlamento con un disegno di legge che approvi le pre-intese nel frattempo negoziate con le regioni del Nord. Egli potrà dire che le pre-intese sono il frutto del combinato disposto tra il testo residuo rimasto vigente della legge ed i princìpi stabiliti dalla Corte che costituiscono già diritto vigente. Giuridicamente ciò è possibile anche perché la sentenza della Corte Costituzionale in gran parte è autoapplicativa e cioè non necessità di altri interventi.

Anche qui non si tratta di un processo alle intenzioni visto che il personaggio ha candidamente dichiarato che va avanti lo stesso. 

Sulle capacità emendative o di rifiuto del Parlamento non c’è da aspettarsi nulla vista la schiacciante maggioranza fondata sui patti di cui si è detto. 

3) Cosa si potrà fare per opporsi ai possibili artifizi e raggiri?

Per fortuna i Comitati No AD contro l’autonomia differenziata di Calderoli e gli stessi partiti e formazioni sociali componenti il Comitato Promotore, continuano nella loro determinazione nonostante la botta subita dalla dichiarazione di inammissibilità del referendum. Essi faranno la dovuta vigilanza e le dovute pressioni per prevenire ulteriori abusi. Vigileranno sulle pre-intese e ne denunceranno le illegalità che già si prospettano.

Lo stesso Giudice delle Leggi nella sentenza n.192 del 2024, quasi prevedendo questo possibile contenzioso, si è “riservato il giudizio sulla legittimità costituzionale delle singole leggi attributive di maggiore autonomia a determinate regioni…”.  Tale giudizio di legittimità potrà attivarsi, come precisa la stessa Corte, in via principale od in via incidentale. Nel primo caso perché alcune Regioni faranno ricorso contro le leggi di approvazione delle intese; nel secondo caso perché davanti ad un Tribunale ordinario od amministrativo singoli cittadini o associazioni chiederanno che venga sollevata dal Giudice adìto questione di legittimità costituzionale per risolvere controversie cui hanno interesse.

Ne discende che dopo la clamorosa e tuttora preziosa vittoria dei Comitati contro l’Autonomia differenziata si prospetta ora una lunga e tormentata fase di resistenza contro questo disegno nelle piazze e se del caso nei tribunali perché c’è da credere che il dominus dell’abuso costituzionale continuerà imperterrito nel suo disegno “criminoso”. 

“Resistere, resistere, resistere !!” si è detto in altre occasioni. Ora si tratta della più dannosa e pericolosa legge di riforma dal 1948 ad oggi. (em)

 

AUTONOMIA, REFERENDUM QUASI INUTILE
PRESTO LA DECISIONE SULL’AMMISSIBILITÀ

di ERNESTO MANCINI –Ed ora cosa succede dopo che la Corte Costituzionale con sentenza n. 192 del 14 novembre 2024 ha dichiarato illegittime e perciò cancellato molte norme della legge Calderoli sull’autonomia regionale differenziata?

La stragrande maggioranza dei costituzionalisti parlano di avvenuta demolizione della legge nelle sue norme più significative al punto che ora si discute se ancora sia ammissibile svolgere il referendum per la sua abrogazione totale posto che la legge, nel suo impianto originario e nei suoi princìpi ispiratori, non esiste più. Sul punto si può osservare quanto segue.

1) L’iter per i giudizi di legittimità e ammissibilità del referendum.

Saranno la Corte di Cassazione e la Corte Costituzionale a decidere sul referendum, sia pure con due distinti ruoli: alla prima spetta un giudizio di legittimità, alla seconda un giudizio di ammissibilità. Vediamo in che senso.

1.1) Corte di Cassazione: giudizio di legittimità

Secondo l’art. 32 della legge n. 352 del 25.7.1970 che detta la disciplina dei referendum, la Corte di Cassazione, dopo avere accertato con propria ordinanza che le firme per la richiesta di referendum sono regolari per numero e conformità e dopo avere stabilito, sentiti i promotori, la denominazione del referendum da riprodurre nelle schede di votazione, trasmette il tutto alla Corte Costituzionale per il giudizio di ammissibilità.  Infatti, una richiesta di referendum potrebbe essere legittima sotto il profilo degli adempimenti di legge (regolarità di almeno 500 mila firme, presentazione entro i termini di legge della richiesta, ecc.) ma la sua ammissibilità, cioè il fatto che il referendum possa svolgersi, è affidata alla Corte Costituzionale.

L’ordinanza della Cassazione sulla legittimità del referendum dovrà essere trasmessa al Presidente della Corte Costituzionale entro il prossimo 15 dicembre c.a. e cioè nei prossimi giorni. Non vi sono dubbi che ciò avverrà.

1.2) Corte Costituzionale: giudizio di ammissibilità

Il Presidente della Corte Costituzionale, ricevuta l’ordinanza della Corte di Cassazione, fissa entro il 20 gennaio l’udienza per la deliberazione sulla ammissibilità nominando, tra i giudici costituzionali, un relatore. La sentenza che ammette o rigetta l’ammissibilità del referendum deve essere pubblicata entro il 10 febbraio successivo e deve essere formalmente trasmessa al Presidente della Repubblica, ai Presidenti delle due Camere, al Presidente del Consiglio dei Ministri ed all’Ufficio Centrale della Cassazione per il referendum. Si tratta di termini massimi sicché il procedimento può concludersi anche prima.

1.3) indizione del referendum con decreto Presidente della Repubblica previa deliberazione del Consiglio dei Ministri

Ricevuta la sentenza di ammissibilità pronunciata dalla Corte Costituzionale il Presidente della Repubblica indice il referendum sulla base di una deliberazione ad hoc adottata dal Consiglio dei Ministri. Da notare che la data del referendum deve essere fissata in una domenica compresa tra il 15 aprile ed il 15 giugno.

2) Le insidie per l’abrogazione totale della legge Calderoli

2.1) Il quorum per la validità del referendum abrogativo

Come è noto il quorum per la validità del referendum è costituito dalla metà più uno degli italiani aventi diritto al voto cioè iscritti formalmente nelle liste elettorali. Al riguardo va notato:

– che tale numero al momento può quantificarsi in 25.607.175 cioè la meta più uno di 51.214.348 (tali erano gli aventi diritto al voto alle recenti elezioni europee del 9 giugno 24 -vedi su Eligendo – Ministero Interno);

–  che alle recenti elezioni europee hanno votato solo il 48,31 % degli aventi diritto al voto e cioè 24.741.651 (ancora su Eligendo – Min. Interno);

– che ulteriori difficoltà per il quorum sono rappresentate dal fatto che si vota nel solo giorno di domenica mentre alle recenti elezioni europee si è votato dalle 14 alle 22 del sabato e alla domenica;

– che tra gli aventi diritto al voto per il referendum sono compresi anche gli italiani residenti all’estero (Aire) come specifica il Ministero dell’Interno sul proprio sito istituzionale. Al 1° gennaio 2023: erano iscritti all’AIRE circa 5.933.418 italiani;

– che il referendum possa essere considerato come uno scontro Nord-Sud anziché una battaglia per l’unità d’Italia contro ogni frammentazione;

È dunque di tutta evidenza che la battaglia dei referendari per il quorum sarà durissima atteso il diffuso astensionismo dalle urne degli italiani. Peraltro, all’astensionismo ormai consolidato si aggiungerà sicuramente l’astensionismo indotto dai partiti di governo che spingono per l’autonomia differenziata (Lega soprattutto ma anche gli altri, almeno esteriormente, stante il noto pactum sceleris sulle riforme programmate: autonomia differenziata, premierato, separazione carriere magistrati).

E tutto ciò sarà ancora più difficile se si dovesse votare in una domenica di giugno poichè moltissimi cittadini fissano per giugno le loro vacanze stanti i prezzi di soggiorno minori rispetto a luglio ed agosto. Il Comitato Referendario dovrà perciò rivendicare dal Governo una data giusta e non pregiudizievole.

Gioca invece a favore del quorum la circostanza che si voterà anche per altri referendum abrogativi di norme ingiuste (tra gli altri il referendum sulla cittadinanza, i quattro referendum Cgil sul lavoro – reintegro, licenziamenti, lavoro a termine, precarietà negli appalti).

2.2) sul giudizio di ammissibilità

Come si è detto il giudizio sull’ammissibilità del referendum è affidato alla Corte Costituzionale e ciò dà tutte le garanzie ai promotori per una decisione giusta ed equilibrata.

Il problema che la Corte dovrà risolvere è se possa svolgersi un referendum abrogativo su una legge che nel frattempo è stata, nelle parti più importanti, dichiarata illegittima e pertanto, nelle stesse parti, non più in vigore dal giorno successivo alla pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale.

Beninteso non si tratta solo di caducazione di norme per illegittimità costituzionale ma anche di correzione di norme che in alcuni casi è ancora più penetrante.  Infatti, stante il dictum della Corte, è già subentrato nell’ordinamento ed è perciò perfettamente vigente il principio per cui non possono trasferirsi alle regioni intere materie ma solo singole funzioni in relazione a specifiche esigenze, peraltro debitamente motivate e giustificate da una situazione peculiare della Regione e perciò da una situazione non comune alle altre. Con il contestuale obbligo che si applichi il principio di sussidiarietà che impone di svolgere la funzione al livello più adeguato. Tale livello, come ha insegnato la Corte, non è necessariamente quello regionale ma può essere quello statale e perfino europeo secondo il principio di efficienza, vincolanti direttive europee, ecc.ecc. Il tutto sulla base del “bene comune” e non certo del mero trasferimento di poteri per fini competitivi ed egoistici contrari ai princìpi costituzionali di cui agli artt. 3,5 e 7 Costituzione: solidarietà, uguaglianza, unità ed indivisibilità della Repubblica.

Sulla base del tassativo criterio così indicato dalla Corte non si vede come, ad esempio, nella sanità pubblica possano attribuirsi funzioni in via esclusiva (assistenza ospedaliera, medicina di base, specialistica, igiene pubblica, sistema di accreditamento sanità privata, ecc. ecc.) che non hanno la caratteristica di unicità e peculiarità delle singole regioni richiedenti bensì sono comuni a tutte. Per il trasferimento di istruzione, commercio estero, professioni, ambiente, energia, trasporti ed altro, la Corte ha già detto che di ulteriore devoluzione non se ne parla nemmeno (sia pure in modo più elegante rispetto a questo mio dire). Tutto ciò a tacer di molto altro che qui, per brevità non riportiamo avendone già trattato in recenti scritti (vedi su www.dirittoepersona.it ).

Ora va detto che sul tema dell’ammissibilità sembra prevalere da parte della dottrina costituzionale la tesi per cui, rimanendo comunque formalmente in piedi la legge sia pure assai rimaneggiata, il referendum è ammissibile. Sul punto si vedano i recentissimi interventi dei costituzionalisti De Minico, De Fiores, Iannello, Villone al Convegno sul Referendum (Napoli – 5 dicembre u.s. Istituto Studi Filosofici con registrazione audio-video di Radio Radicale https://www.radioradicale.it/scheda/745705/lammissibilita-del-referendum-sullautonomia-differenziata-dopo-i-rilievi-della-).

Per altra dottrina costituzionalista ugualmente autorevole (Ceccanti) ““sembrerebbe impossibile negare che siano cambiati i “principi ispiratori” e “i contenuti normativi essenziali” che sono le due condizioni che la Corte costituzionale nella sentenza 68/1978 riteneva necessari per considerare quesiti referendari superati, esauriti e quindi non più proponibili al voto degli elettori””.

Sarà il Giudice delle Leggi a decidere con sentenza non impugnabile.

2.3 Sulla inammissibilità del referendum per altre possibili cause

Si potrebbe mettere nel conto che nelle more della indizione del referendum il Governo approvi un decreto-legge (Calderoli bis) che modifichi ed integri ciò che è rimasto della legge n.86/2024 rendendola perciò superata e quindi non più soggetta a referendum. Ci sono precedenti al riguardo: referendum sulla procreazione assistita (2005); referendum sulla legge elettorale (2009): referendum sulle concessioni per l’estrazione di idrocarburi in mare (2016).

Nel caso dell’autonomia differenziata l’improvvido legislatore non potrebbe derogare ai princìpi sanciti dalla Consulta (come quello che nega la trasferibilità della materia e limita le funzioni a pochi e rarissimi casi) salvo a creare un conflitto istituzionale gravissimo che gli si ritorcerebbe contro. Queste eventuali nuove norme, sarebbero infatti clamorosamente in contrasto con la sentenza del novembre scorso e tornerebbero alla cognizione della Corte Costituzionale previo ricorso delle regioni interessate per un’ulteriore dichiarazione di illegittimità.

Dalla parte opposta i promotori referendari, nella difficile prospettiva di raggiungere il quorum (oltre 25 milioni di elettori) stante il diffuso e radicato astensionismo, potrebbero rinunciare al referendum avendo già ampiamente conseguito una netta vittoria sotto il profilo giuridico stante l’abbattimento della  legge nelle sue parti essenziali. Sul punto la dottrina è divisa: c’è chi ritiene che la rinuncia non sia possibile e chi all’opposto la ritiene possibile purché avvenga prima della indizione. Va da sé che il referendum con esito abrogativo più che una vittoria legale ormai già conseguita nella sede suprema della Corte Costituzionale, rappresenterebbe una vittoria politica affinché nessuno più ci provi a fare leggi così obbrobriose, palesemente incostituzionali e comunque spaccaitalia.

E ad una vittoria politica, dopo anni di bocconi amari per l’insipienza e l’incoscienza dei Governi Gentiloni e Conti che hanno sottoscritto le prime intese Stato/Regione, la prepotenza di Calderoli & co. dell’attuale maggioranza che se ne sono infischiati delle censure mosse dalla gran parte degli attori istituzionali, culturali, accademici e perfino ecclesiastici, è troppo importante per rinunciarvi(em)

 

La Corte Costituzionale boccia sette norme dell’autonomia

La Corte Costituzionale ha bocciato sette profili della legge dell’Autonomia differenziata, ossia dai Livelli Essenziali di Prestazione alle aliquote sui tributi.

«Secondo il Collegio – si legge nella nota della Corte Costituzionale – l’art. 116, terzo comma, della Costituzione (che disciplina l’attribuzione alle regioni ordinarie di forme e condizioni particolari di autonomia) deve essere interpretato nel contesto della forma di Stato italiana. Essa riconosce, insieme al ruolo fondamentale delle regioni e alla possibilità che esse ottengano forme particolari di autonomia, i principi dell’unità della Repubblica, della solidarietà tra le regioni, dell’eguaglianza e della garanzia dei diritti dei cittadini, dell’equilibrio di bilancio».

«I Giudici ritengono – si legge ancora – che la distribuzione delle funzioni legislative e amministrative tra i diversi livelli territoriali di governo, in attuazione dell’art. 116, terzo comma, non debba corrispondere all’esigenza di un riparto di potere tra i diversi segmenti del sistema politico, ma debba avvenire in funzione del bene comune della società e della tutela dei diritti garantiti dalla nostra Costituzione. A tal fine, è il principio costituzionale di sussidiarietà che regola la distribuzione delle funzioni tra Stato e regioni».

«In questo quadro – viene evidenziato – l’autonomia differenziata deve essere funzionale a migliorare l’efficienza degli apparati pubblici, ad assicurare una maggiore responsabilità politica e a meglio rispondere alle attese e ai bisogni dei cittadini».

La Corte, nell’esaminare i ricorsi delle Regioni Puglia, Toscana, Sardegna e Campania, le difese del Presidente del Consiglio dei ministri e gli atti di intervento ad opponendum delle Regioni Lombardia, Piemonte e Veneto, ha ravvisato l’incostituzionalità dei seguenti profili della legge:

«La possibilità che l’intesa tra lo Stato e la regione e la successiva legge di differenziazione trasferiscano materie o ambiti di materie, laddove la Corte ritiene che la devoluzione debba riguardare specifiche funzioni legislative e amministrative e debba essere giustificata, in relazione alla singola regione, alla luce del richiamato principio di sussidiarietà; – il conferimento di una delega legislativa per la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali (Lep) priva di idonei criteri direttivi, con la conseguenza che la decisione sostanziale viene rimessa nelle mani del Governo, limitando il ruolo costituzionale del Parlamento; – la previsione che sia un decreto del Presidente del Consiglio dei ministri (dPCm) a determinare l’aggiornamento dei Lep; – il ricorso alla procedura prevista dalla legge n. 197 del 2022 (legge di bilancio per il 2023) per la determinazione dei Lep con dPCm, sino all’entrata in vigore dei decreti legislativi previsti dalla stessa legge per definire i Lep; – la possibilità di modificare, con decreto interministeriale, le aliquote della compartecipazione al gettito dei tributi erariali, prevista per finanziare le funzioni trasferite, in caso di scostamento tra il fabbisogno di spesa e l’andamento dello stesso gettito; in base a tale previsione, potrebbero essere premiate proprio le regioni inefficienti, che – dopo aver ottenuto dallo Stato le risorse finalizzate all’esercizio delle funzioni trasferite – non sono in grado di assicurare con quelle risorse il compiuto adempimento delle stesse funzioni; – la facoltatività, piuttosto che la doverosità, per le regioni destinatarie della devoluzione, del concorso agli obiettivi di finanza pubblica, con conseguente indebolimento dei vincoli di solidarietà e unità della Repubblica; – l’estensione della legge n. 86 del 2024, e dunque dell’art. 116, terzo comma, Cost. alle regioni a statuto speciale, che invece, per ottenere maggiori forme di autonomia, possono ricorrere alle procedure previste dai loro statuti speciali».

Per la Corte, poi, interpretando in modo «costituzionalmente orientato» le altre previsioni della legge, ha evidenziato come «l’iniziativa legislativa relativa alla legge di differenziazione non va intesa come riservata unicamente al Governo; la legge di differenziazione non è di mera approvazione dell’intesa (“prendere o lasciare”) ma implica il potere di emendamento delle Camere; in tal caso l’intesa potrà essere eventualmente rinegoziata; la limitazione della necessità di predeterminare i Lep ad alcune materie (distinzione tra “materie Lep” e “materie-no Lep”) va intesa nel senso che, se il legislatore qualifica una materia come “no-Lep”, i relativi trasferimenti non potranno riguardare funzioni che attengono a prestazioni concernenti i diritti civili e sociali».

E, ancora, «l’individuazione, tramite compartecipazioni al gettito di tributi erariali, delle risorse destinate alle funzioni trasferite dovrà avvenire non sulla base della spesa storica, bensì prendendo a riferimento costi e fabbisogni standard e criteri di efficienza, liberando risorse da mantenere in capo allo Stato per la copertura delle spese che, nonostante la devoluzione, restano comunque a carico dello stesso; la clausola di invarianza finanziaria richiede – oltre a quanto precisato al punto precedente – che, al momento della conclusione dell’intesa e dell’individuazione delle relative risorse, si tenga conto del quadro generale della finanza pubblica, degli andamenti del ciclo economico, del rispetto degli obblighi comunitari».

La Corte Costituzionale conclude sottolineando come «spetta al Parlamento, nell’esercizio della sua discrezionalità, colmare i vuoti derivanti dall’accoglimento di alcune delle questioni sollevate dalle ricorrenti, nel rispetto dei principi costituzionali, in modo da assicurare la piena funzionalità della legge». (rrm)

Successo a Sellia Marina per l’incontro-dibattito sull’autonomia

È servito per confrontarsi su un tema cruciale per il futuro del nostro Paese, ovvero l’autonomia differenziata e le sue implicazioni per le regioni del Sud, l’incontro-dibattito dal titolo Autonomia Differenziata: un’opportunità per la rinascita del Sud o un Nord sempre più egoista?, svoltosi nei giorni scorsi a Sellia Marina, nel Salone Cultura del Resort Costa Blu.

Nel corso dell’evento, moderato dal giornalista Santo Strati, si sono analizzate le diverse prospettive e conseguenze di una maggiore autonomia per le regioni italiane, in particolare per quelle meridionali e in cui i partecipanti hanno manifestato l’intenzione di dare vita nelle prossime settimane ad un gruppo di lavoro incentrato proprio sull’autonomia differenziata.

«Ho già ricevuto l’adesione da parte di economisti, imprenditori, esperti e anche soggetti politici a formare un gruppo di lavoro che comprenda al suo interno più voci e pareri, così da confrontarci su un tema che è decisivo per il futuro della Calabria. Il gruppo di lavoro, infine, vuole proporsi anche come strumento utile agli enti e le istituzioni come soggetto terzo e imparziale rispetto ai numerosi approfondimenti e le innumerevoli tematiche che la legge Calderoli abbraccia», ha spiegato Giuseppe Nucera, fondatore del movimento La Calabria che vogliamo.

Il parere esperto e autorevole di Mario Tassone, già deputato e Sottosegretario, ha aperto la strada ad un dibattito plurale, che ha visto confrontarsi sul tema posizioni differenti rispetto all’Autonomia Differenziata.

«Sono contrario a posizioni a priori su una materia che è estremamente complessa – ha detto Tassone –. Io sono sempre stato contrario alle secessioni striscianti, e in questo caso credo che l’Autonomia Differenziata dia maggiore forza alle regioni ricche. È un problema culturale, di identità, che rischia di portare ad una ulteriore disgregazione un paese che già non è unitario».

«Con la legge Calderoli – il pensiero di Tassone – si configurerebbero una serie di piccoli stati, che in futuro potrebbe portare il nostro paese verso una strada sdrucciolevole. Il Parlamento è ormai diroccato e succube dei poteri forti che stanno fuori dalla politica, una prospettiva sempre più inquietante in ottica futura».

Giuseppe Mazzullo, presidente nazionale di Cicas, ha sottolineato l’importanza di capire le ripercussioni per le regioni del Sud legate all’autonomia differenziata. Nonostante ad oggi ancora non ci sia, lo sviluppo del sud è sempre più lento e le fughe dei giovani verso il nord in numeri sempre crescenti.

«Il Meridione – la certezza di Mazzullo – grazie alle energie rinnovabili e il turismo, potrebbe rappresentare un patrimonio nazionale. Ma se il Mezzogiorno non è in grado di elaborare una propria autonomia e aumentare in modo consistente il Pil, è evidente che si andrà sempre a peggiorare».

L’economista Matteo Olivieri ha passato in rassegna tutte le principali critiche e obiezioni mosse alle legge Calderoli, analizzando nel dettaglio i caratteri economici della riforma.

«Chi parla di secessione o del rischio che l’Italia diventi come l’Argentina – ha detto Olivieri – evidentemente non conosce bene la materia oggetto di questo dibattito. In realtà studi importanti e analisi di esperti dimostrano il contrario e concentrano l’attenzione sul riposizionamento e il nuovo equilibrio che con l’Autonomia Differenziata si andrebbe a creare tra le regioni a statuto ordinario e quelle a statuto speciale, con queste ultime che ricevono dallo Stato fondi maggiori rispetto alla propria capacità contributiva. L’intero meccanismo della finanza pubblica -ha evidenziato Olivieri- sarebbe più semplice e trasparente e meno opaco».

Giuseppe Nucera, fondatore del movimento ‘La Calabria che vogliamo’, ha parlato dell’Autonomia Differenziata come di una «sfida alla classe politica regionale calabrese. Chi vuole governare la Regione o le più grandi città calabresi, non può avere paura dell’Autonomia Differenziata».

«Mettere assieme imprenditori calabresi con chi ha avuto successo fuori dalla Calabria – ha suggerito – può essere una chiave di svolta, ma servono coraggio e scelte forti. Il Sud deve assolutamente recuperare il gap con il resto del paese, la legge Calderoli può offrire strumenti utili per prendere in mano il nostro destino».

«È necessario – ha concluso Nucera – guardare al futuro con entusiasmo e con la voglia di credere nelle proprie possibilità, senza andare più con il cappello in mano a Roma».

Decisamente contrario rispetto all’autonomia differenziata Domenico Tallini, già presidente del Consiglio Regionale, che ha parlato della Legge Caledroli come una riforma che allargherebbe ulteriormente il divario tra il Sud e il Nord, con la Calabria destinata a naufragare specie nel settore della sanità. (rcz)

 

SUD, LA VERGOGNA DELLA SPESA STORICA
E I LIVELLI DI PRESTAZIONE MAI UNIFORMI

di PIETRO MASSIMO BUSETTAL’acronimo Lep è ormai noto a tutti. I Livelli Essenziali delle Prestazioni sono quei livelli minimi che devono esistere in tutte le aree del Paese. È che condizionano qualunque forma di concessione di qualunque altra forma di autonomia delle Regioni che dovessero richiederla, in base alla legge recentemente voluta fortemente dalla Lega Nord e approvata dalla maggioranza di Governo. 

Forza Italia ne ha fatto un suo manifesto: starà attenta che le autonomie ulteriori alle Regioni non siano concesse se prima non si realizzino i Lep.  E non lo dice soltanto il Governatore della Regione Calabria, Roberto Occhiuto, ma anche il Presidente del Partito Antonio Tajani

In realtà recentemente anche Fratelli d’Italia si è schierata e afferma l’esigenza che si realizzino i livelli essenziali in tutto il Paese prima di procedere ad ulteriori concessioni di autonomia alle Regioni richiedenti. 

Sarà questa presa di distanza dalla posizione della Lega dei due grandi partiti della maggioranza di Governo, saranno le grandi quantità di firme raccolte dal raggruppamento delle sinistre, dai sindacati Cgil e Uil, anche nel Nord del Paese, che i maggiori sostenitori dell’autonomia sembrano pervasi da una crisi di nervi. 

Che li porta a un diluvio di interviste, ma anche a dichiarazioni risibili, che tentano di ribaltare responsabilità di una situazione che sta compattando il Sud, spaccando la maggioranza e, cosa più importante, consapevolizzando tanti di una condizione di minorità esistente, prevalentemente nelle aree meridionali del Paese.      

 Tale condizione è talmente radicata nella mente dei meridionali da far accettare qualcosa che non è stato particolarmente rilevato dalla politica, ma neanche dai maggiori opinionisti. È cioè che già nell’ accettare che nella legge sia previsto che alcune materie possano essere devolute solo in presenza in tutte le Regioni dei livelli essenziali delle prestazioni c’è un’accettazione del principio di essere figli di un dio minore.  

Perché la domanda che sorge spontanea è perché i meridionali chiedono, e non otterranno mai, visto che la legge non prevede quegli stanziamenti necessari, ma assolutamente improbabili e insostenibili, per attuarli di avere solo i livelli essenziali, invece di pretendere  che si abbiano i Lup? Cioè i livelli uniformi di prestazioni in tutto il Paese, da Bolzano a Lampedusa?

Qualcuno potrà dire che sarebbe già un miracolo riuscire ad ottenere che si abbiano i livelli essenziali. E ciò è certamente vero. Ma è proprio come principio che bisogna far capire, prima di tutto al Sud, che siccome non ha un livello di  tassazione diversa da quella che si applica al Nord, per un principio di uguaglianza sancito dalla nostra Costituzione, deve pretendere, ma perlomeno richiedere, livelli uniformi. 

Stesso trattamento da parte di uno Stato che si è dimostrato per una parte del Paese patrigno, e che ha permesso che per anni le risorse siano state distribuite secondo il principio della spesa storica. 

Il Dipartimento per le Politiche di coesione, contestato da alcuni centri di ricerca di vocazione nordista, fino a quando non è stato smantellato, calcolava in 60 miliardi la somma  sottratta al Sud se fosse stato adottato il principio della spesa pro capite uguale. 

Certo ci possono essere in Stati così grandi, come la Germania, la Francia e quindi anche l’Italia delle differenze tra le varie parti, ma l’obiettivo di rimuovere le differenze deve essere la stella polare che guida le azioni di tutti i Governi. Accettare invece che nella legislazione venga accettato che ad alcuni possano essere garantiti solo quelli essenziali é già una sconfitta. 

E tale accettazione riguarda anche i Livelli essenziali di assistenza (Lea), che sono le prestazioni e i servizi che il Servizio sanitario nazionale (SSN) è tenuto a fornire a tutti i cittadini. 

Ovviamente la conseguenza di tale condizione sono poi i viaggi della speranza, il trasferimento di risorse dalle regioni più povere a quelle più ricche, ma anche una vita media minore anche di tre anni rispetto alle realtà più ricche. Per cui lo Stato diventa anche “ladro di vita”. 

Obiettivo della legge sull’autonomia differenziata é mantenere invariata tale situazione, altro che costringere ad essere più efficienti le Regioni meridionali. Perché se è vero che vi possono essere forme di spreco, e certamente sacche, anche importanti, ce ne saranno, é anche vero che é difficile fare un matrimonio con i fichi secchi. 

L’autogol incredibile che ha messo a segno Roberto Calderoli con l’approvazione, di notte e in fretta, come dichiara Roberto Occhiuto «Mi sembra che per il modo in cui si è proceduto all’approvazione di questa riforma – di notte e di fretta – sia sempre più una bandierina da dare ad una forza politica che invece è una riforma capace di superare anche il divario fra le regioni del Sud e le regioni del Nord», è quello di aver aiutato l’accelerazione della consapevolezza. Finora la vulgata che è passata, diffusa dai media più titolati, è stata che la colpa del mancato sviluppo del Sud sia da ricercare nell’incapacità dei meridionali di utilizzare le enormi risorse destinata dal Paese. 

Mano mano ci si rende conto, analizzando in modo approfondito i dati, che il re è nudo. E che se il Mezzogiorno é rimasto indietro non serve domandare alla zingara, ma é scritto nelle politiche adottate fin dal 1860. Che plasticamente sono racchiuse nell’ aver fatto fermare l’Autostrada del Sole a Napoli e l’Alta Velocità Ferroviaria a Salerno. 

Qualcuno era così stupido da poter  pensare che il Sud potesse svilupparsi senza infrastrutture o invece si è pensato di tagliare lo Stivale e farlo affondare da solo? Che in molti si comincino a porre domande scomode é un risultato per il quale dobbiamo ringraziare Zaia e Calderoli. (pmb)

[Courtesy Il Quotidiano del Sud – L’Altravoce dell’Italia]

PUNTI DI VISTA / Aurelio Misiti: L’autonomia differenziata

di FRANCESCO RAOL’argomento ha polarizzato in modo particolare l’attenzione dei media e quindi degli italiani. La politica, nelle sue diverse compagini partitiche, si è frammentata: oltre ai sostenitori ci sono i contrari ed i parzialmente favorevoli. Seppur il provvedimento voluto dal Ministro Calderoli è già legge, con buona probabilità, essendo in fermento il desiderio di promuovere l’abrogazione della norma attraverso il ricorso all’Istituto del Referendum, abbiamo avuto modo di intervistare il prof. Aurelio Misiti, già Preside della Facoltà di Ingegneria presso la Sapienza di Roma, Presidente del Consiglio superiore dei lavori pubblici, vice ministro alle infrastrutture e trasporti,  il quale, con molta disponibilità, ha voluto condividere non solo il suo pensiero in merito ma ha  illustrato una proposta alternativa di riforma, rispetto alla norma recentemente approvata. 

-L’esperienza di 54 anni delle Regioni italiane mostra un bilancio chiarissimo. In questo periodo, il divario tra il (ricco) Nord e il (povero) Sud è aumentato?

La Costituzione italiana prevede che le Regioni debbano dedicarsi alla programmazione del territorio, mentre esse, oltre a programmare, si sono caricate di un’attività operativa tipica dei comuni. Tanto è vero che i Presidenti si autoproclamano governatori. Al Titolo V della nostra Carta costituzionale è prevista l’autonomia, che non va definita differenziata, in quanto ciò vuol che in Italia ci sarebbero Regioni ricche e regioni povere da assistere con una prevista solidarietà. Non basta affermare che, prima di attuare la legge approvata dal Parlamento, bisogna realizzare i Lep e mettere nelle stesse condizioni di partenza le regioni e addirittura le stesse persone. Ciò significherebbe che le Regioni del Nord aumenteranno la loro ricchezza e quelle del Sud la loro povertà. 

-In merito alla Legge Calderoli, indicata come spaccaitalia, il suo pensiero appare divergente. Può illustrarci la ragioni?

Vista nel suo complesso, la legge proposta dal Ministro Calderoli va abolita. In quanto va attuata l’autonomia prevista dalla Costituzione, ragion per cui le unità territoriali dovrebbero essere in grado di gestirsi autonomamente in tutto e senza ricorrere ad assistenza esterna. Per raggiungere questo risultato, sarebbe necessaria una profonda riforma costituzionale da realizzarsi nel prossimo decennio.

-Perché secondo lei è necessaria una profonda riforma alla Carta costituzionale? 

Come già anticipato, il regionalismo previsto dai costituenti, nel dare vita alla Costituzione più avanzata del mondo occidentale, aveva l’obiettivo di realizzare la parità tra le regioni del Mezzogiorno e le regioni del Nord. Di fatto, l’evolversi delle dinamiche post-belliche, con la ricostruzione dell’Italia, ha comportato l’affermazione del divario Nord-Sud. Bisogna ricorrere alla storia culturale, politica e costituzionale del nostro Paese, unificando le regioni, le quali, da sole non riescono a gestirsi e attraverso una riduzione del numero delle stesse, sarebbe necessario passare dalle attuali venti a quattro. Le attuali regioni saranno enti intermedi (tipo le vecchie province), operative e attuatori delle politiche decise e programmate dalle macroregioni. Nello specifico: nel Meridione otto regioni, unite in una macroregione, conterebbero circa 18 milioni di abitanti. Poi, Lazio, Umbria, Marche, Sardegna, Toscana, macroregione centrale, con oltre dieci milioni di abitanti; Emilia-Romagna, Veneto, Venezia Giulia, Alto Adige, con 13 milioni di abitanti, diverrebbe la macroregione nord-est e infine, Liguria, Piemonte, Lombardia e Val d’Aosta macroregione nord-ovest con circa 17 milioni di abitanti. Ciascuna delle macroregioni rappresenterebbe una entità statale con tutti i poteri e le strutture necessarie. L’Italia diventerebbe uno Stato con i poteri fondamentali: forze armate, economia, istruzione, sanità – che deve tornare allo Stato in quanto è necessario garantire a tutti le stesse opportunità prima di tutto in ambito sanitario. Questo modello è riconducibile al sistema federale già diffuso in Europa – Germania, Francia Spagna e Svizzera e il potere periferico viene esercitato attraverso la funzione decisionale dei rispettivi Länder oppure dei Cantoni.

-Attraverso questa proposta, non si potrebbe rischiare un ulteriore acuirsi delle cause che hanno generato gli attuali divari non solo tra Nord e Sud ma anche tra le diverse regioni d’Italia?

Prima di affermare che siamo autonomi dobbiamo pensare alle necessarie modifiche costituzionali. Non bisogna fare i Lep – livelli essenziali delle prestazioni –, bisogna fare il cambio della struttura regionale. Naturalmente, l’unificazione delle macroaree non dovrà far perdere la singola originalità delle regioni. 

-Secondo lei, i tempi sono maturi per attuare una riforma del genere?

Se questa riforma costituzionale venisse realizzata avremmo in Italia l’autonomia vera e propria, per intenderci, quella prevista dal Titolo V della Costituzione e, in tal modo, si potrebbe andare avanti tutti insieme. Naturalmente ci sarà qualcuno che andrà più veloce e qualcuno che andrà meno veloce. Ma la velocità di cui stiamo parlando non sarà tale perché prevista dalla Costituzione. I ritardi saranno generati dall’incapacità, mentre le azioni virtuose saranno frutto della capacità amministrativa e allora, i risultati, andranno ricercati tra le attività svolte tra le macroregioni e non tra le persone.

-Attraverso questo suo ultimo concetto ripone una forte aspettativa sulle persone. Quale sarebbe il loro ruolo secondo lei? 

In tali condizioni ci sarebbe il ritorno della gente nei luoghi di origine e tutto ciò significherebbe rinascita strutturale dei sistemi socioeconomici e produttivi. Basti pensare che i contratti nazionali di lavoro potranno essere stipulati nelle singole macroaree interessate, mentre la parte giuridica dovrà essere uguale in tutta Italia e la parte economica, contrariamente ad oggi, terrà in considerazione le esigenze locali. Vista la nostra condizione territoriale, può anche darsi che i contratti collettivi di lavoro potrebbero essere più vantaggiosi nell’area meridionale che nell’attuale Lombardia e quindi potremmo attirare nuovi investimenti e rendere possibili nuove opportunità di crescita socioeconomica. 

-Attraverso la realizzazione di questa riforma, il Meridione assumerebbe un ruolo fortemente strategico per il rilancio dell’intero Paese? 

Esatto. La visione di questa riforma, da attuare nel corso del prossimo decennio, potrebbe dare vita al progetto di sistema per il Sud dell’Italia e l’Europa, come a suo tempo illustrato con lungimiranza dallo studio pubblicato da Svimez nel 2021, creando quei presupposti di sviluppo per il corso dei prossimi cento anni attraverso un virtuoso processo di crescita e sviluppo. Si pensi infine al ruolo che potrebbe svolgere una Città Metropolitana dello Stretto, composta dalle due Città metropolitane di Reggio Calabria e Messina con circa 1,5 milioni di abitanti, il Porto di Gioia Tauro, l’aeroporto dello Stretto, l’Aspromonte, gli scavi archeologici di Locri, le Università e tutte le ricchezze afferenti alle risorse culturali della Magna Grecia, quest’ultimo autentico vettore di cultura e di attrazione turistica mondiale. La Città Metropolitana dello Stretto potrebbe superare definitivamente gli effetti della rivolta del 1970 che hanno portato alla suddivisione, proposta allora dal Governo nazionale, con l’istituzione dell’Università a Cosenza, il Capoluogo a Catanzaro e la sede del Consiglio regionale della Calabria a Reggio. 

Tutto ciò potrebbe dar vita ad una piccola Rio de Janeiro, naturalmente senza le favelas, divenendo oggettivamente la capitale del Mediterraneo. In sostanza, queste riforme potrebbero portare al superamento del Gap tra Sud e Nord attualmente esistente. (fr)