SVIMEZ: SVILUPPO, L’ITALIA DELLE REGIONI
PERCHÉ IL MEZZOGIORNO CRESCE DI MENO

di ANTONIETTA MARIA STRATI – Dal 2025 il Sud torna a crescere meno del Nord. È quanto emerso dal Rapporto della Svimez in collaborazione con Ref Ricerche dal titolo “Dove vanno le regioni italiane. Le previsioni regionali 2024-2026”,  che ha rilevato come, di fronte a una crescita nazionale del Pil a +0,7% nel 2025 e dello 0,9% nel 2026, la Calabria – ma in generale il Sud – non cresce anzi, subisce una brusca frenata.

Un quadro sconcertante, considerando che, nel 2024, il Sud era un passo avanti rispetto al Nord ma, secondo le stime Svimez, il Pil del Mezzogiorno nel 2025 sarà + 5,4% e, nel 2026, + 0,68% contro il +1,04 del Nord-Est per il 2025 e 0,91% del Nord-Ovest. Ovviamente, anche la Calabria subirà questo brusco stop: se la differenza tra il 2024 e il 2025 è solo di qualche punto (nel 2024 era +0,62 e nel 2025 si stima sia allo 0,57), per il 2026 ci sarà un vero crollo: sarà al 0,54.

Per la Svimez «il rallentamento della crescita è la conseguenza di fattori comuni all’area euro, come il ripristino dal 2024 dei vincoli del Patto di Stabilità europeo, la recessione dell’industria dovuta a calo della domanda per beni durevoli, con la crisi di settori traino come l’automotive, la debolezza del commercio internazionale, l’aumento dei costi dell’energia».

Ma sono anche i fattori specifici del contesto italiano a incidere: un quadro di finanza pubblica nazionale che concentra la contrazione del deficit nel 2024-2025; un peso rilevante del settore automotive e un ruolo decisivo della domanda estera, con una forte interdipendenza con l’industria tedesca. Da sottolineare tuttavia, che le previsioni non tengono in considerazione la grande incertezza «Trump», provocata dalle ipotesi di inasprimento dei dazi sulle esportazioni verso gli Stati Uniti.

Per quanto riguarda le singole regioni italiane nel 2025 si prevede per il Veneto una crescita dell’1,2%, dell’1,1%, per la Lombardia, dell’1% per l’Emilia Romagna, regioni più strutturate capaci di compensare la debolezza dell’export con la tenuta della domanda interna, mentre arrancano l’Umbria con lo 0,2%, la Liguria 0,4%, Puglia e il Molise con lo 0,5% regioni meno esposte al rallentamento del commercio estero ma con meno elementi capaci di far decollare la crescita.

Il 2024 si dovrebbe chiudere con una crescita maggiore nel Mezzogiorno: 0,8% vs. 0,6% nelle regioni centro-settentrionali. Per il secondo anno consecutivo il Sud si muoverebbe così più velocemente del resto del Paese, anche se con un differenziale notevolmente ridotto (da un punto percentuale a due decimi). Sono due i principali elementi che concorrono al risultato previsto.

Nel 2024 l’evoluzione congiunturale risulta fortemente influenzata, in parte come l’anno precedente, dalla dinamica degli investimenti in costruzioni che verrebbero a confermarsi come una delle componenti più dinamiche della domanda. Per capire cosa ha significato negli anni recenti il boom osservato nel comparto immobiliare, si tenga presente che tra il 2021 e il 2023 la crescita registrata negli investimenti in costruzioni è stata di entità più che doppia rispetto a quella avvenuta nei dodici anni che vanno dal 1995 al 2007.

Dal lato dell’offerta, le nostre previsioni indicano un contributo negativo dell’industria in senso stretto alla dinamica del prodotto in entrambe le macroaree nell’intero periodo di previsione (con la parziale eccezione del Sud nel 2026). In primo luogo, ciò è riconducibile alla inusuale debolezza della domanda estera, che oramai influisce per circa la metà dell’intero output industriale delle regioni centrosettentrionali (specie in Lombardia, Emilia-Romagna, Veneto), dove si concentra quasi il 70% del valore industriale nazionale. A ciò si aggiunge una congiuntura complessivamente debole unitamente alle molteplici “crisi” aziendali indotte dai cambiamenti strutturali in atto (transizione ecologica e digitale su tutte) in assenza, anche a livello sovranazionale, di un quadro strategico e normativo certo, condizione imprescindibile per introdurre i necessari adeguamenti.

Con riferimento al biennio 2025-2026, l’evoluzione del Pil italiano è prevista permanere al di sotto dell’uno per cento, con un profilo in lieve espansione: +0,7% nel 2025; +0,9% nel 2026. In questo biennio il Centro-Nord dovrebbe risultare l’area più dinamica, con un differenziale di circa tre decimi di punto rispetto al Sud in entrambi gli anni. Sul piano estero, il tasso di crescita del Prodotto italiano nel biennio 2025-2026 verrebbe di nuovo a collocarsi nella fascia inferiore rispetto ai principali avanzati. Per crescita del Pil l’Italia scivolerebbe in fondo alla classifica europea, insieme alla Germania.

«Una decisa inversione di tendenza rispetto agli anni post Covid – ha rilevato la Svimez – quando la ripresa è stata sostenuta da politiche di bilancio dall’intonazione straordinariamente espansiva. Sul fronte interno, lo scenario previsivo ipotizza che dal 2025 si arresti il biennio di crescita più intensa, 2023-2024, sperimentato dal Sud, di per sé una circostanza abbastanza inusuale. Il differenziale Nord/Sud dovrebbe comunque mantenersi su valori molto più contenuti rispetto al ventennio pre-Covid: Centro-Nord +0,8%, Mezzogiorno +0,5% nel 2025; Centro-Nord +1%, Mezzogiorno +0,7% nel 2026. Le due aree dovrebbero perciò continuare a crescere a velocità simile come nella ripartenza post pandemica».

A contenere il differenziale di crescita Nord/Sud contribuisce in maniera decisiva il Pnrr i cui investimenti valgono il sessanta per cento della crescita del Mezzogiorno nel biennio 2025-2026. Se, quindi, la completa implementazione del Pnrr è un obiettivo nazionale, la realizzazione degli investimenti finanziati dal Piano sono decisivi per tenere il Sud agganciato al resto del Paese.

La spesa delle famiglie dovrebbe crescere a un saggio di entità quasi doppia al Centro-Nord rispetto al Mezzogiorno in virtù di una analoga evoluzione del potere d’acquisto. Oltre che un differenziale di inflazione sfavorevole al Mezzogiorno, incidono su questo risultato alcuni provvedimenti governativi: l’indebolimento delle politiche a sostegno delle famiglie che impattano più pesantemente al Sud; l’intervento sul cuneo fiscale e la riforma dell’Irpef che favoriscono consumi soprattutto al Centro-Nord dove si concentrano i redditi da lavoro dipendente.

La crescita del Pil verrebbe a essere prevalentemente sostenuta dai servizi di mercato (market services) e, in misura inferiore, da quelli della PA. Con riferimento ai market services, nel Report si portano evidenze relative al fatto che: a) la quota dei servizi con un elevato contenuto di conoscenza (KIS) è modesta in entrambe le macroaree (di poco superiore al 20 per cento); b) le restanti attività, prevalenti, presentano un gap di produttività significativo, più marcato al Sud.

Tale circostanza, in primo luogo, limita le potenzialità di sviluppo delle due macroaree, specie nell’attuale congiuntura quando sono proprio i market services nel loro insieme a crescere di più; vincolo maggiormente ostativo nel Sud. Inoltre, questo primo fattore si incrocia con una delle grandi “questioni” del nostro Paese, quella salariale, intesa come livello e dinamica più contenuta delle retribuzioni nazionali nel confronto europeo. Precisamente, i minori salari unitari che si riscontrano nel nostro Paese, in misura maggiore al Sud, svolgono, sempre nel confronto internazionale, un ruolo “equilibratore” al ribasso dell’equilibrio economico delle imprese.

A livello regionale, relativamente al biennio 2025-2026, dovrebbero mostrare una crescita più vivace le economie dalla base produttiva più ampia, strutturata e diversificata, più pronte a intercettare le opportunità derivanti da un rafforzamento della domanda interna. Prevarranno sentieri di crescita regionale più differenziati al Nord e al Centro, più omogenei nel Mezzogiorno.

Tra le diverse ripartizioni emerge nel Nord-Ovest il traino della Lombardia; nel Nord-Est, le regioni più dinamiche sono Veneto e Emilia dove, nonostante debolezza dell’export, la crescita è sostenuta dalla domanda interna; si conferma la divaricazione interna al Centro: da un lato, più dinamiche la Toscana, per la maggiore presenza di imprese strutturate, e il Lazio, trainata da Giubileo e service economy; dall’altro, Umbria e Marche, alle prese con crisi settoriali di lungo periodo e alla ricerca di un nuovo modello di specializzazione; il Mezzogiorno risulta un’area in rallentamento ma compatta, meno esposta al rallentamento del commercio estero ma dove mancano elementi che accelerano il cambiamento strutturale, nonostante il Pnrr che sostiene la dinamica del Pil nel 2025-2026.

Il ciclo dell’export si presenterebbe debole rispetto ad altre fasi di ripresa: pochissime regioni arriverebbero nel biennio 20252026 a cumulare incrementi dell’export di una certa consistenza. Fra i territori a maggiore vocazione all’export solo Emilia-Romagna e Toscana arriverebbero a superare una crescita del 3 per cento in termini cumulati nel biennio. Guardando alla dinamica della spesa delle famiglie nelle diverse regioni, il biennio 2025-2026 dovrebbe essere segnato da una relativa divergenza fra le regioni del Nord e quelle del Mezzogiorno.

La differenza è riconducibile a due aspetti: gli effetti indotti dagli interventi fiscali in grado, almeno nel breve periodo, di salvaguardare maggiormente il potere d’acquisto delle regioni del Nord; la crescita dei consumi interni rifletterebbe anche l’evoluzione della spesa dei non residenti, con effetti positivi sul Lazio nel 2025 per effetto del Giubileo, e Lombardia, Veneto e Trentino Aldo-Adige per i giochi olimpici invernali. Infine, le regioni del Mezzogiorno, che negli anni scorsi avevano beneficiato del sostegno della politica fiscale, vedranno progressivamente inaridirsi il supporto del bilancio pubblico.

Questo cambiamento nelle politiche potrebbe ritardarne il recupero. Tuttavia, sempre le regioni del Sud risentirebbero maggiormente dell’effetto positivo degli investimenti del Pnrr. Grazie, soprattutto, al contributo delle opere pubbliche, il divario territoriale di crescita degli investimenti risulterebbe quindi contenuto.

IL PARADOSSO DEL SUD CHE MIGLIORA IN
REPUTAZIONE MA LA CRESCITA È BLOCCATA

di ERCOLE INCALZA – Una serie di comunicati stampa ha fatto presente un dato senza dubbio noto ma che non immaginavamo così preoccupante, mi riferisco alla sostanziale crescita del nord rispetto ad una stasi del Sud. Riporto sinteticamente il dato: il Mezzogiorno tra il 2007 ed oggi ha cumulato un differenziale negativo di crescita rispetto al Nord di 9 punti e questo ha fatto sì che il Prodotto Interno Lordo del Sud è ancora 7 punti sotto rispetto ai livelli che precedono la crisi del debito pubblico scoperta nel 2008. E, cosa ancora più preoccupante, è da ricercarsi nel fatto che il recupero integrale dello shock subito dal Paese sempre nel 2008 avvenuto con un ritardo di oltre dieci anni nel nostro Paese rispetto alla Germania e alla Francia riguarda solo il Nord.

Eppure in questi ultimi anni gli indicatori sulla occupazione nel Sud, sulle eccellenze imprenditoriali del Sud, sulla serie di interventi infrastrutturali attivati proprio nell’ultimo biennio dopo dieci anni di stasi, sulla crescita rilevante del comparto turistico e sulla forte impennata della produzione agro alimentare, lasciavano ben sperare.

D’altra parte questa nuova narrazione positiva del Sud era emersa in occasione del Festival Euromediterraneo di Napoli sia del 2023 che del 2024 e, senza dubbio, era ed è una narrazione vera in quanto questa serie di fattori aveva prodotto un aumento sostanziale della occupazione ma non aveva, in nessun modo, incrementato la partecipazione alla formazione del PIL da parte delle singole Regioni. Infatti, come ho ricordato più volte:

Le otto Regioni del Sud sono tutte all’interno dell’Obiettivo Uno della Unione Europea, cioè tutte hanno un PIL pro capite inferiore al 75% della media europea

Nessuna delle otto Regioni supera la soglia del 5% nella formazione del Pil nazionale. Il Pil pro capite nelle otto Regioni non supera la soglia dei 22 mila euro e addirittura in alcune si attesta su un valore di 17 mila euro; al Centro Nord si parte da una soglia di 26 mila euro per arrivare addirittura ad 40 mila euro.

Ma allora sicuramente ci sono delle cause o delle condizioni che bloccano la crescita del Mezzogiorno, cause che da sempre abbiamo cercato di scoprire ma che in modo quasi paradossale sono rimaste sempre rimaste all’interno di interessanti ricerche, di interessanti approfondimenti ma mai siamo stati capaci di misurare e, soprattutto, di leggere in modo trasparente; come ho ribadito più volte, dopo una diagnosi superficiale, abbiamo fatto sempre ricorso ad una terapia ridicola: quella basata su una assegnazione percentuale elevata, almeno il 30%, delle risorse assegnate dallo Stato per interventi infrastrutturali. Invece stiamo solo oggi capendo che questo assurdo paradosso: si cresce su alcuni comparti ma non si implementa il Pil, è legato ad una serie di elementi che questo Governo, proprio perché ha tutte le caratteristiche di essere un Governo di Legislatura, deve necessariamente affrontare; mi riferisco in particolare a: I Livelli Essenziali delle Prestazioni (LEP) all’interno delle otto Regioni sono indifendibili; per la offerta di servizi socio – assistenziali si passa da 22 euro pro capite in Calabria ai 540 euro nella Provincia di Bolzano. La spesa sociale del Sud è di 58 euro pro capite, mentre la media nazionale è di 124 euro.

Il livello di infrastrutturazione del Sud produce un danno annuale nella organizzazione dei processi logistici superiore a 58 miliardi di euro. Nelle otto Regioni esiste solo un interporto quello di Nola – Marcianise, nel Centro Nord ne esistono sette (interporti veri, vere eccellenze logistiche); Nelle otto Regioni esiste solo un porto transhipment, quello di Gioia Tauro, con una rilevante movimentazione di container; La distanza dell’intero Mezzogiorno dai mercati del Nord d’Italia e del centro Europa è un vincolo alla crescita per tutte le otto Regioni.

Di questi punti il primo, a mio avviso, rappresenta quello che sicuramente rappresenta la causa più incisiva di ciò che prima ho definito un folle paradosso perché, in realtà, i consumi delle famiglie del Sud e le attività legate anche a forme di risparmio sempre delle famiglie, sono sempre più limitati perché nelle varie attività i margini prodotti sono limitati ed inoltre questa crescita della produttività, non trovando adeguati Hub logistici, viene gestita da imprenditori del Nord veri attori chiave nella gestione delle attività logistiche ed in questo caso il Prodotto Interno Lordo (Pil) del Sud si trasforma in Prodotto Esterno Lordo (Pel), come ho ricordato spesso, del sistema imprenditoriale del Nord.

Ma, insisto, quei dati relativi alla offerta di servizi socio – assistenziali che in Calabria non supera pro capite la soglia di 22 euro pro capite e che nella Provincia di Bolzano si attesta su un valore di 540 euro o il dato relativo alla spesa sociale del Sud di 58 euro pro capite contro una media nazionale di 124 euro, producono un dato che rimane quasi fisso dal dopo guerra ad oggi (sì da oltre settanta anni): il reddito pro capite medio del Sud si attesta su un valore medio di 21.000 euro (negli anni sessanta era di17.000 euro) mentre nel Nord si attesta su un valore medio di 39.000 euro con soglie superiori ai 42.000 euro.

Di fronte a queste banali considerazioni ho più volte proposto che le otto Regioni del Sud utilizzino il comma 8 dell’articolo 117 della Costituzione che consente il ricorso a forme federative e chiedano, in modo coeso ed unitario, con la massima urgenza al Governo di affrontare e risolvere questa assurda discrasia che, da sempre, penalizza la crescita del Sud e, cosa ancor più strana, offre una immagine falsa dello stato socio economico del Mezzogiorno: di un Mezzogiorno che da settanta anni assicura una crescita di altre realtà del Paese. Con questo non voglio assolutamente denunciare il settentrione del Paese di “parassitismo”, voglio solo però fare presente che le azioni del Governo devono essere capillari e devono essere caratterizzate da un vero Action Plan, cioè da uno strumento che affronti contestualmente sia le carenze legate ai servizi offerti, sia la costruzione organica di reti e nodi capaci di ridimensionare la distanza dell’intero Mezzogiorno dai mercati del Nord e del centro Europa.

Lavorando in tal modo molti, in modo critico, diranno che si ricreano le condizioni definite da Gabriele Pescatore e da Pasquale Saraceno attraverso la istituzione della Cassa del Mezzogiorno, io ritengo che aver spento un simile strumento è stato a tutti gli effetti un atto incomprensibile ed irresponsabile che, a mio avviso, ha danneggiato molto di più lo stesso sistema economico ed imprenditoriale del settentrione del Paese. (ei)

L’OPINIONE / Francesco Napoli: Investimento di Baker Hughes opportunità unica di crescita

di FRANCESCO NAPOLI – L’investimento di Baker Hughes rappresenta un’opportunità unica per la crescita e lo sviluppo di questo territorio per l’indotto che questo genererà anche a beneficio delle piccole e medie imprese.

La  confederazione della piccola e media industria privata è pienamente cosciente delle peculiarità e delle caratteristiche del tessuto imprenditoriale regionale, ecco perchè l’investimento di Baker Hughes rappresenta un volano per la crescita e lo sviluppo del territorio calabrese per l’indotto che questo genererà anche a beneficio delle piccole e medie imprese. Da poco si è riunita proprio in Calabria la Giunta nazionale della Confapi, preceduta da un importante e proficuo incontro con il Governatore Roberto Occhiuto.

Un segnale di grande interesse per la nostra regione ma è fondamentale creare le condizioni per rendere conveniente investire sul nostro territorio. Il rispetto delle regole è alla base di un qualsiasi programma di investimenti che richiedono però tempi certi della burocrazia e l’apertura delle amministrazioni comunali ad ogni possibilità di crescita e sviluppo.

La storia di Confapi Calabria dimostra come l’obiettivo precipuo della confederazione sia sempre stato quello di attirare investimenti per attuare un cambio di paradigma, per cambiare la storia economica e sociale della Calabria.

È impossibile pensare di colmare il gap tra la nostra regione e il resto dell’Italia in termini di Pil, reddito procapite e di livelli occupazionali solo con l’assistenzialismo. Lavoro e occupazione  sono elementi chiave per contrastare anche il dramma dello spopolamento. La Calabria ha bisogno di investimenti come quello della Baker Hughes per curare la sua malattia strutturale, il divario di produttività, restituire fiducia e ridare slancio alle sue energie vitali a partire dal capitale umano.

È difficile ipotizzare un rilancio effettivo dell’economia del paese senza focalizzare l’attenzione sulle strategie e le politiche che stimolano gli investimenti pubblici e privati. Ma per il rilancio degli investimenti siamo consapevoli della necessità di fare sistema lavorando soprattutto per risolvere quei problemi e quelle resistenze che non rendono conveniente l’attenzione delle multinazionali verso una determinata area geografica.

La nostra confederazione sosterrà il progetto della Baker Hughes, perché siamo convinti che aprirà la strada ad ulteriori investimenti. Siamo e saremo sempre dalla parte di chi produce. (fn)

[Francesco Napoli è presidente di Confapi Calabria]

IL SUD NON È UN’AREA DA ABBANDONARE
MA OPPORTUNITÀ DI CRESCITA E SVILUPPO

di VINCENZO CASTELLANOHo avuto modo di apprezzare il recente rapporto Svimez 2023 che mette in luce un quadro interessante e promettente per il nostro Sud, indicando che quest’area non solo può crescere, ma in alcuni casi può farlo a ritmi superiori rispetto al Centro-Nord. Tra il 2019 e il 2023, la Puglia, pensate, si è affermata come la regione più dinamica del Paese, dimostrando che il Sud ha le potenzialità per attrarre investimenti e trattenere i giovani sul territorio.

Questo sviluppo rappresenta un segnale chiaro: il Sud non è una regione da abbandonare, ma un’opportunità di crescita e sviluppo.

Le politiche nazionali devono cogliere questo segnale e agire di conseguenza. Il governo deve promuovere il Sud come un’area di opportunità, incentivando gli investimenti e migliorando le infrastrutture. In questo contesto, il Pnrr gioca un ruolo cruciale. Tali risorse se utilizzate correttamente, possono evitare la recessione e stimolare la crescita economica del Mezzogiorno, portando benefici tangibili a lungo termine.

Tuttavia, la politica nazionale da sola non basta. Lo ripeto sempre, è indispensabile il coinvolgimento attivo delle comunità locali. Le amministrazioni locali devono collaborare strettamente con il mondo della ricerca, le università e il settore privato per creare un ecosistema favorevole all’innovazione e allo sviluppo. Questo implica non solo la valorizzazione dei talenti locali, ma anche la promozione dell’imprenditoria giovanile. Ritorno al caso della Puglia che ci dimostra come investimenti mirati possano portare a risultati significativi, un modello che altre regioni del Sud potrebbero seguire per migliorare le proprie condizioni socio-economiche.

L’industria meridionale, in particolare, deve essere al centro di questa strategia. Le transizioni digitali ed ecologiche rappresentano opportunità uniche per rilanciare il settore industriale del Sud. Le imprese devono essere supportate nell’adozione di tecnologie avanzate e pratiche sostenibili, attraverso incentivi e facilitazioni mirate. La cooperazione tra pubblico e privato è essenziale per creare un ambiente favorevole all’innovazione, che possa attrarre investimenti e creare posti di lavoro di qualità.

Nonostante questi segnali positivi, il rapporto Svimez evidenzia anche sfide significative, come il calo demografico e l’emigrazione giovanile. Tra il 2002 e il 2021, badate bene, oltre 2,5 milioni di persone hanno lasciato il Mezzogiorno, aggravando il problema della depopolazione. Per affrontare queste sfide, sono necessarie politiche mirate a migliorare la qualità della vita, aumentando i salari e riducendo la precarietà lavorativa.

Particolare attenzione deve essere posta sull’occupazione femminile, che rappresenta un elemento chiave per contrastare il declino demografico e stimolare la crescita economica. Investire nei servizi per l’infanzia e favorire un miglior equilibrio tra vita lavorativa e familiare può incentivare la partecipazione delle donne al mercato del lavoro.

Dunque, per trasformare il Sud in un motore di sviluppo, è necessario un approccio integrato che coinvolga tutti gli attori della società. La politica nazionale deve fornire le risorse e le condizioni necessarie, mentre le comunità locali devono attivarsi per valorizzare le proprie potenzialità. Solo attraverso una collaborazione stretta e continua tra pubblico e privato, istituzioni e cittadini, si potrà costruire un futuro prospero per il Mezzogiorno, rendendolo un’area di opportunità e crescita sostenibile. Il Sud ha dimostrato di poter essere dinamico e innovativo; ora spetta a tutti noi supportarlo nel suo percorso di sviluppo, trasformandolo in un modello di successo per l’intera nazione. (vc)

[Vincenzo Castellano è dottore commercialista]

IL MEZZOGIORNO MAI PIÙ “PALLA AL PIEDE”
PER LA CRESCITA E LO SVILUPPO DEL PAESE

di PIETRO MASSIMO BUSETTA –  Questo stato di cose non durerà; la nostra amministrazione nuova, agile, moderna cambierà tutto. Così Chevalley si rivolge al Principe di Salina Don Fabrizio, che non vuole accettare l’offerta del Regno di diventare senatore e che manifesta tutte le sue perplessità sul nuovo corso prospettato dai nuovi regnanti.

Era il 1860 e da poco i mille garibaldini, aiutati dalle baronie che volevano liberarsi dai Borbone e dagli Inglesi che non volevano competitori nel Mediterraneo, avevano “liberato” il Meridione d’Italia. Vi credevano invece i “ picciotti” e i “cafoni” che rimarranno delusi da promesse che non si avvereranno. 

Dopo la seconda guerra mondiale, con la sconfitta e la distruzione di molte parti del Paese e  qualche dubbio sulla correttezza della conta del verdetto, si ha la Repubblica. Un ragazzo napoletano, dopo le votazioni, chiedeva al nonno, noto monarchico borbonico, come mai avesse votato per la Repubblica. E il nonno rispose deciso: cosi ci siamo liberati dai Savoia.  

E nasce quella Repubblica fondata su una Costituzione che afferma nel suo incipit: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”. 

Sappiamo come è andata. Potremmo dire che tale assunto é simile a quello della pasta con le sarde dei poveri di Palermo. Chiamata pasta con le sarde …a mare. Nel senso che le sarde non le potevano comprare e mettevano lo stesso condimento nella pasta senza le sarde. L’Italia diventa una repubblica fondata sul lavoro… all’Estero o al Nord per quanto attiene il Sud.  

Ma il discorso è analogo per tutti i diritti di cittadinanza. L’unificazione politica risale al 1860, quella economica non è ancora avvenuta. E l’approccio più recente di chi ci governa è quello di statuire che tutto questo si può costituzionalizzare con l’autonomia differenziata, che in realtà si potrebbe chiamare “chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato”.  

Perché la teoria del mantenere le risorse nelle Regioni che le incassano presenta molti limiti. A parte tutta la problematica del soggetto che alla fine paga le tasse vi è il grande contributo dato dal Sud alla cosiddetta locomotiva, dal piano Marshall in poi.  

In termini di risorse, concentrate tutte in una parte, destinataria di grandi interventi per esempio per l’Autostrada del Sole e l’Alta Velocità Ferroviaria, al grande apporto di 100.000 persone all’anno formate trasferite al Nord, con un costo per le Regioni di provenienza di 20 miliardi l’anno. Alla spesa storica che prevede ogni anno un trasferimento dal Sud verso Nord di oltre 60 miliardi, se l’attribuzione pro capite fosse uguale. E al contributo culturale a un Paese repubblicano che diventava protagonista della nuova Europa, voluta da Spinelli, rilanciata da Ventotene.  

Non si sono fatti tanti sacrifici, anche umani, per consentire a pochi furbetti del quartierino senza visione  di spaccare il Paese tenendo il malloppo accumulato negli anni, investito nei grandi trafori, nel Mose di Venezia, nella Tav da completare, nella infrastrutturazione complessiva fatta per consentire alla locomotiva di correre con le risorse della fiscalità generale.       

Che tanto, era nella convinzione di molti, avrebbe trainato tutto il resto. Adesso che la locomotiva si é fermata e accumula ritardi incredibili rispetto ai grandi Paesi europei qualcuno ha pensato bene di sganciare i vagoni, perché ritiene che sono quelli che rallentano la corsa, non capendo che invece serve una seconda locomotiva che spinga da dietro tutto il convoglio.  

Solo degli inadeguati possono pensare che un Paese possa competere lasciando il 40% del territorio e il 33 % della popolazione fuori dal circuito produttivo. Lo ha capito così bene la Germania che ha riversato un mare di marchi nella ex Ddr, da avviare a soluzione un problema incancrenito da decenni di comunismo. 

Lo avevano capito prima gli Stati Uniti d’America che hanno fatto diventare la California una realtà produttiva importante. E invece noi ci accontentiamo di avere una colonia interna, che poco produce e poco dà a tutto il Paese, lasciandola nella mani di una classe dominante estrattiva locale, con la quale si è stabilito un accordo scellerato che tiene il Sud in una condizione di sottosviluppo.  

Per questo la Repubblica è stata tradita, per questo i meridionali sono stati gabbati con la promessa di uno Stato nel quale essere cittadini alla pari di tutti gli altri.

Per questo è necessario un cambio di passo per completare l’unificazione del nostro Paese. Il Presidente della Repubblica, che rappresenta l’unità nazionale, queste cose le ha dette nell’ultimo periodo molto decisamente. Ma bisogna che se ne rendano conto anche i Ministri che spesso più che giocatori della squadra Italia sembrano appartenere a un un team virtuale che si chiama Nord. 

Adesso che il Mediterraneo è ridiventato sempre più centrale, ci si rende conto che una parte ha bisogno dell’altra, così come l’Europa ha bisogno dell’Africa. Ma non in termini estrattivi, ma per moltiplicare con la collaborazione i risultati desiderati. Riuscire a capire che il gioco può prevedere che si perda tutti o che si vinca la battaglia insieme non è né semplice né scontato, ma è assolutamente necessario. (pmb)

[Courtesy Il Quotidiano del Sud – L’Altravoce dell’Italia]

TROPPE IMPOSTE FRENANO LO SVILUPPO
LA CALABRIA RIPARTE SE CALANO LE TASSE

di FRANCO RUBINO – Il primo tassello, da cui partire per la realizzazione di un “progetto integrato”, finalizzato a risollevare la Calabria dalla condizione di abbandono in cui si trova, è senza dubbio la riduzione del carico fiscale che grava sui cittadini. Troppe imposte frenano lo sviluppo della nostra Regione come quello dell’intero Paese.

Lo studio dell’economia ci insegna che, oltre un certo livello di tassazione, le persone preferiranno non lavorare più. I modelli teorici ci dicono che nella scelta tra “lavoro” e “tempo libero” in funzione delle aliquote fiscali, il lavoratore avrà come sua scelta ottimale, discendente anche da calcoli matematici, quella di rinunciare ad incrementare le ore di lavoro ed aumentare quelle del suo tempo libero.

Basti anche pensare alla nota Curva di Laffer, per quanto nella letteratura economica da alcuni criticata, perché non poggerebbe su un costrutto teorico, ma esclusivamente sull’osservazione ed elaborazione di dati empirici.

Le imposte sono veramente tante: dirette (esempio IRPEF, IRES) e indirette (esempio IVA, Tassa di Registro).  Si consideri, inoltre, che in una Regione come la Calabria, dove i Comuni sono per lo più in uno stato di dissesto o predissesto, anche le aliquote delle tasse comunali, che possono essere fissate dall’Ente tra un minimo ed un massimo, si trovano al livello più elevato.

Le stesse addizionali comunali IRPEF sono elevate, e  la stessa addizionale regionale IRPEF è alta, per non parlare, poi, di tante altre imposte che franano lo sviluppo (esempio, tassa di soggiorno). L’eccessivo carico fiscale da un lato porta spesso ad un’evasione, in tutto o in parte, del versamento delle imposte e dall’altro porta l’italico ingegno (che non manca mai!) a cercare in qualche modo di eludere la tassazione. Anche, però, per chi regolarmente paga le imposte, livelli di tassazione elevata, come abbiamo detto, inducono a rinunciare ad ulteriori ore di lavoro, specie se il compenso aggiuntivo fa scattare una aliquota marginale più alta, e, quindi, viene meno una contribuzione in termini valore di beni e servizi al Prodotto Interno Lordo (PIL).

Ridurre il carico fiscale, pertanto, darebbe indubbiamente liquidità alle imprese e alle famiglie, e, ciò, ipotizzando una propensione marginale al consumo pari all’unità, comporterebbe un aumento più che proporzionale nella domanda globale di beni e servizi.

Se la domanda globale aumenta, le imprese sono incentivate a produrre e ad assumere persone disoccupate, e, così facendo, distribuiranno altri redditi, i quali a loro volta si tradurrebbero in ulteriore domanda ed in ulteriore occupazione: è il virtuoso meccanismo del Moltiplicatore, di cui J.M. Keynes tratta nella sua opera principale, ovvero Teoria generale dell’interesse, dell’occupazione e della moneta. Aumentando il reddito globale, soggetto a tassazione, aumenterebbe anche il gettito fiscale in valore assoluto per quanto le aliquote fiscali siano state diminuite. Si consideri, poi, che ridurre le tasse significa beneficio immediato per i cittadini, aiuto concreto senza dover passare per contributi statali, che sarebbero soggetti ai pericoli della burocrazia, dei quali vi è intenzione di trattare in altro contributo.

A questo punto, però, il quesito sorge spontaneo: ma se è tutto così semplice, perché non è stato fatto e non si fa? Risposta: non è tutto così semplice! Il presupposto, affinchè il processo si avvii, è che il risparmio di liquidità, dovuto alla minor tassazione, venga speso dai cittadini, ovvero si traduca in domanda di beni e servizi.

In realtà, in una situazione economica e sociale così incerta come quella attuale, chi ha liquidità tende a risparmiarla, non a spenderla o investirla, in quanto, come sempre la teorica economica ci insegna, gli individui sono mediamente avversi al rischio. E i dati ci dicono proprio questo!

In base ad uno studio condotto di recente dall’ABI, sui conti correnti degli italiani ci sono circa 1.682 miliardi di euro, ovvero una montagna di risparmi uguale al PIL del 2020! E allora? Se non si spende, la macchina dello sviluppo non parte. Lo stesso Keynes ce lo dice, quando afferma che il livello di investimenti delle imprese non dipende solo dal tasso dell’interesse, ma anche dall’Efficienza Marginale del Capitale (EMC), ovvero dalle prospettive future di rendimento. Che fare?

Risulta evidente che una semplice rivoluzione fiscale non basta, ed è lo Stato che si deve far carico di avviare il processo di sviluppo: deve immettere liquidità nel sistema, deve spendere e fare in modo che questa liquidità arrivi celermente ai cittadini, che a loro volta devono essere incentivati ad incrementare la loro domanda di consumo. Keynes avrebbe detto: bisogna far lavorare la gente e distribuire reddito, a costo di prendere dei lavoratori disoccupati, far loro scavare delle buche e, poi, fargliele riempire nuovamente, pagandoli per questa prestazione!

Il motore della crescita deve essere acceso a tutti i costi, e si deve fare subito: non si può aspettare che “nel lungo termine” le forze di mercato aggiustino tutto, bisogna fare tutto nel breve, anzi brevissimo, termine, perché nel lungo termine saremo tutti morti!

In questo non si può perdere l’enorme opportunità che il Recovery Fund può offrire, anche per abbassare le tasse, ma soprattutto per ristabilire un clima di fiducia nelle persone, senza il quale la ripresa sarà difficilissima, se non impossibile.

Non basta una Politica Fiscale adeguata, ma è necessaria una attenta Politica Economica che la deve accompagnare.

Se l’economia si riprende, aumenterà il PIL e, pertanto, anche l’indebitamento diverrà sostenibile, ovvero si avrà la capacità di ripagarlo.

Ci vuole il solito Progetto Integrato, di cui una Rivoluzione Fiscale è un tassello, che è solo una piccola parte di tutto il  mosaico.

Nel suo insieme per un progetto integrato di sviluppo, ci vuole una Rivoluzione Culturale ad ogni livello, e di questa Rivoluzione illustreremo un altro tassello in un prossimo intervento.

*[Il prof. Rubino è docente all’Unical]

INDUSTRIALI DUBBIOSI SULLA RIPARTENZA
IN CALABRIA CRESCITA SOLTANTO DELL’1%

Il 2020 è stato un anno difficile per il Mezzogiorno, sopratutto per la Calabria che, nell’anno della pandemia, ha ‘collezionato’ dati davvero preoccupanti, tratteggiando un quadro desolante, che dovrebbe far capire che è necessaria una svolta per far ripartire la regione e una terra che deve essere valorizzata, non distrutta.

A chiudere questo 2020, sono i dati di Confindustria con il Check-up Mezzogiorno sulla congiuntura del 2020 elaborato con il Centro studi Srm (Intesa Sanpaolo), che indicano, per il Mezzogiorno, per il 2021-2020, una ripresa debole (+1,2% e +1,4%) contro il +4,5% e +5,3% del Centro Nord; mentre gli effetti della pandemia sul Pil – Prodotto Interno Lordo sono meno pronunciati (-9%) contro il -9,8% del Centro Nord.

«Alcune variabili evidenziano, però – si legge nel rapporto – anche una capacità di “resilienza” dell’economia meridionale, sulla quale puntare la ripresa, accelerando l’impiego delle risorse Ue già disponibili e di quelle programmate già dall’anno prossimo».

Per quanto riguarda l’andamento dell’occupazione, è stato riportato che «la ripresa produttiva del terzo trimestre 2020 non è riuscita a compensare il calo rispetto allo stesso periodo del 2019, diffuso in tutta la Penisola ma particolarmente significativo al Sud (-2,2% ovvero 135 mila occupati in meno), con variazioni negative più consistenti in Calabria (-7,8%) e Sardegna (-7,5%)».

DatiIn Calabria, infatti, per quanto riguarda le imprese attive per settore di attività, il settore manifatturiero registra un calo (-0,8%) insieme alla Sardegna (-0,7%).

Nonostante le misure adottato dal Governo abbiano migliorato la liquidità, invertendo la tendenza regressiva in atto fino a dicembre 2019 degli impieghi creditizi, riportandoli a giugno 2020 ai livelli di un anno prima, si registra un peggioramento nel ritardo dei pagamenti delle Pmi delle imprese nel Mezzogiorno, dove la Calabria registra la percentuale più alta (15%), seguita dalla Sicilia (18%). Il ritardo dei pagamenti delle Pmi delle imprese del Mezzogiorno, infatti, «che nel terzo trimestre 2020 raggiunge un livello quasi doppio del dato medio nazionale rispetto allo stesso periodo del 2019, con un incremento della quota di imprese del Sud che superano i 60 giorni di ritardo di oltre il 50% rispetto al dato di un anno prima (dall’8% al 12,4%)».

«Sulle politiche di coesione – si legge nel Rapporto – si registra un risultato positivo sulla certificazione della spesa dei Fondi strutturali, necessaria per scongiurare il rischio di disimpegno automatico e, quindi, la perdita delle risorse impegnate. A ottobre, l’Italia ha certificato 16,3 miliardi, pari al 90% delle risorse da spendere; il Sud c’è andato vicino, certificando l’87% delle risorse dei Por, con risultati migliori sul Fesr di Abruzzo e Campania e sul Fse di Basilicata, seguite dalla Calabria, che per l’emergenza sanitaria ha stanziato 140 milioni di euro per l’emergenza sanitaria; 45 per istruzione e formazione; 180 milioni per le attività economiche; 100 milioni per il lavoro, 35 milioni per il sociale, per un totale di 500 milioni di euro.

«La riallocazione delle risorse sui Por – si legge nel Rapporto – del Mezzogiorno non ha penalizzato gli interventi a sostegno delle imprese, tuttavia quella finalizzata a fronteggiare l’emergenza sanitaria è stata meno consistente nel Mezzogiorno e, pur essendo coerente con il minore impatto della pandemia all’atto della sua definizione, questa scelta ma non si è dimostrata previdente rispetto ai suoi successivi sviluppi».

«Tuttavia – si legge ancora – c’è la possibilità concreta e immediata di intervenire sull’emergenza sanitaria, sui suoi impatti indotti dalla nuova fase pandemica e sul sostegno alla transizione delle imprese per una nuova politica di sviluppo del Mezzogiorno. Oltre alla prospettiva del Pnrr e all’avvio del nuovo ciclo di programmazione 2021-2027, l’iniziativa React Eu, con i suoi circa 10 miliardi già disponibili per il 2021 e la possibilità di compensare spese fino al 100% sostenute a partire da febbraio 2020, rappresenta un’occasione da non perdere».

«A tal fine – conclude il rapporto di Confinfustria e Srm – occorre accelerare il processo di programmazione, coinvolgendo il partenariato economico e sociale a livello nazionale e regionale, operando in continuità coi Programmi operativi 2014-2020 e privilegiando i Por rispetto ai Pon, per rafforzare l’azione di resilienza e di ripresa a livello territoriale».

A ribadire che quello presentato dal rapporto Check Up Mezzogiorno è un quadro preoccupante, è l’eurodeputato Vincenzo Sofo, che ha sottolineato che «il prezzo più alto di questa crisi sanitaria, come si evince dal calo nel 2020 delle esportazioni del Mezzogiorno del 15,6% (contro il 12,2% del Nord) e dalle previsioni di crescita per il 2021 e il 2022 che per il Nord saranno approssimativamente del 4-5% mentre per il Sud soltanto di circa l’1%».

«Ma – ha aggiunto – il dato più agghiacciante riguarda la Calabria che quest’anno a causa della pandemia è stata vittima di un crollo dell’occupazione di quasi l’8%, peggior dato d’Italia. Ecco perché è assolutamente necessario convincere il premier Giuseppe Conte ad aumentare la quota di investimenti del Recovery Fund destinata al Sud e in particolare al territorio calabrese, che già prima del Covid era tra quelli con più disoccupazione d’Europa».

«Mi rivolgo, dunque – ha concluso Sofo – ai governatori meridionali e in particolar modo al presidente f.f. Nino Spirlì, affinché ingaggino con forza questa battaglia che è sì territoriale ma per il futuro di tutta la Nazione».

«Se crolla il Sud – avverte l’ex assessore regionale al Bilancio Mariateresa Fragomeni, oggi candidata sindaca a Siderno – crolla il Paese. Il PIL che precipita del 9%, e una previsione di ripresa nel 2021-2022 del +1,2% e +1,4%, molto al di sotto delle regioni del centro-Nord; una contrazione dell’export del -15,6%; 135mila posti di lavoro in meno: questa fotografia del Mezzogiorno e della sua economia evidenzia la gravità degli effetti recessivi della pandemia su un territorio già storicamente debole, da tutti i punti di vista». La Fragomeni sottolinea quanto sia importante, praticamente vitale per il futuro del Sud, agganciare l’occasione delle risorse previste dal piano Next Generation Eu, che dall’Europa arriveranno all’Italia, e della scelta dei progetti prioritari da realizzare. Un’occasione unica, che il Sud non può perdere e la possibilità concreta di colmare il gap che esiste da sempre con il resto del Paese, intervenendo non soltanto sull’emergenza sanitaria, ma anche su infrastrutture, tecnologia, istruzione, sostegno alle imprese. Per raggiungere finalmente una nuova politica di sviluppo del Mezzogiorno che faccia da volano anche per il futuro dell’intero Paese.

«Per questo – ha concluso – confidiamo che si raggiunga al più presto l’accordo su un’equa distribuzione delle risorse del piano Next Generation Eu, riguardo alle quali è già in moto e da tempo, un acceso e duro confronto. E che siano soltanto “voci di corridoio” quelle che riguardano l’eventuale sottrazione di parte dei fondi, diversamente distribuiti, che la cosiddetta “decontribuzione Sud”, introdotta in via sperimentale da ottobre a dicembre dal decreto Agosto e fino al 2029, destina invece al sostegno delle imprese e dell’occupazione nel Mezzogiorno.
Sarebbe un grave danno non solo per il Sud, ma per l’Italia tutta, poiché la questione meridionale rappresenta una priorità per l’intero Paese». (rrm)

IL REPORT DI CONFINDUSTRIA-SRM