LA CALABRIA È IN RITARDO CON IL PNRR
DEI 10.919 PROGETTI, VALIDATI SOLO 4.454

di ANTONIETTA MARIA STRATI – Quella del Pnrr è una sfida che la Calabria non può perdere. Ma come può farlo, se ci sono 10.919 progetti e, di questi, solo 4.454 risultano validati? Per la nostra regione, infatti, sono disponibili 9 miliardi e 900 milioni, distribuiti in questo modo: 1,8 mld per la Provincia di Cosenza, 701,2 mln nella Provincia di Crotone, 1,6 mld nella Provincia di Catanzaro, 823,7 milioni nella Provincia di Vibo e 1,7 mld per la Provincia di Reggio Calabria. Da sottolineare che, di questi 9 miliardi, 7 mld e 500 mln sono risorse del Pnrr, mentre 2 mld e 400 mln sono collocabili nella voce “altre risorse”.

Scendendo nel particolare dei progetti, quello che emerge è l’eccessiva parcellizzazione delle risorse indirizzate alla Calabria se confrontate con le altre regioni italiane, rispetto alle quali risulta di molto superiore. Sono, infatti, 10.175 i progetti che prevedono un importo uguale o inferiore a 1 milione di euro; 3300 quelli con importo uguale o inferiore a 20 mila euro; 4050 quelli che prevedono un importo uguale o inferiore a 30 mila euro (considerati anche quelli con importo riferito ai 20 mila euro); 5700 con importo uguale o inferiore a 50 mila euro (considerati anche quelli con importo riferito ai 30 mila euro) e 2050 quelli con importo uguale o inferiore a 10 mila euro. Controllando la piattaforma OpenPnrr, si evince che sono 4.454 i progetti non validati. Scendendo al dato provinciale possiamo evidenziare questi dati: Cosenza: 3977 progetti; Crotone: 950; progetti Catanzaro: 2054 progetti; Vibo Valentia: 1205 progetti e Reggio Calabria: 2729 progetti.

Sono questi i dati preoccupanti emersi nel report sullo Stato di attuazione del Pnrr in Calabria curato dalla Uil Calabria dalla Uil Fpl Calabria «che attesta – ha spiegato la segretaria generale della Uil Calabria, Mariaelena Senese – i notevoli ritardi nell’attuazione del Pnrr, delle incertezze nella pianificazione e mettiamo insieme appunto, questo binomio, quindi i ritardi che registriamo, che continuiamo a registrare, perché oggi siamo al 40,85 nell’attuazione del Pnrr rispetto ad un preventivo pari al 64%, è una Calabria che continua ad arretrare, dove la povertà continua a farla da padrone proprio in virtù dello spopolamento, di un’emigrazione continua e che non è più un’emigrazione solo di quantità, ma un’emigrazione di qualità».

«Mazzini diceva che l’Italia sarà quel che sarà il Mezzogiorno – ha aggiunto – noi diciamo che all’interno del Mezzogiorno esiste un Mezzogiorno qual è la Calabria, che è un mondo estremo dove si continua ad arrancare dove i diritti che dovrebbero essere costituzionalmente garantiti ai cittadini calabresi ma non lo sono».

Serve, dunque, verificare lo stato di attuazione del Pnrr in Calabria, cercando di mettere a fuoco tappe, strategie, messa a terra delle risorse finanziarie autorizzate. Quello che emerge è un quadro preoccupante per certi versi, che evidenzia criticità in termini di risposta da parte dei soggetti attuatori – non solo dell’amministrazione pubblica calabrese, con autorizzazioni lente e pagamenti in ritardo».

«La Calabria – dice il sindacato – ha spostato molti obiettivi nei prossimi anni: il rischio è che, dovendo realizzare troppi interventi entro il 2026, le attività si ingolfino e non riesca più a rispettare le scadenze stabilite da Bruxelles».

Il Pnrr, infatti, «rappresenta un’opportunità storica per la Calabria e per tutto il Mezzogiorno – si legge – finalizzata a superare le annose criticità strutturali e a promuovere uno sviluppo sostenibile e inclusivo. Il Pnrr, con un investimento complessivo di 221,1 miliardi di euro a livello nazionale, è stato elaborato in risposta alla crisi generata dalla pandemia di Covid-19, con l’obiettivo di rilanciare l’economia italiana e promuovere una trasformazione verde e digitale del Paese».

Infatti, se «passiamo a fare un controllo del dato generale sul sito della Regione Calabria – si legge – che si basa come fonte sul Regis e risulta aggiornato a febbraio del 2024, quello che balza subito agli occhi è la differenza dei numeri sugli investimenti e dei progetti. Per il sito della Regione Calabria, infatti, sarebbero stati previsti investimenti per 11 miliardi e 309 milioni di euro e 12.142 progetti, di cui 777 risulterebbero chiusi».

Nello specifico, per la digitalizzazione sono stati stanziati 1 mld e 100 milioni di euro, per la scuola circa 954 milioni, imprese e lavoro circa 295 mln, cultura e turismo circa 117 milioni, per l’inclusione sociale circa 482 mln, per le infrastrutture 5 mld e 200 milioni, per la transizione ecologica 1 mld e 100 milioni, per la salute circa 598 mln. Per quest’ultima, in particolare, la Uil ha lanciato una provocazione: «se solo si pensasse di destinare una parte dei fondi indirizzati a Rfi e Tim, che ricevono altri fondi dall’Fsc e, quindi, evidenziano una sorta di ipercapitalizzazione, all’interno del Pnrr alla sanità si potrebbero risolvere diversi dei problemi presenti nel settore».

Il finanziamento in infrastrutture (53% circa del totale) è indirizzato a grandi player del settore delle costruzioni e si riferisce, quasi interamente, ai lavori di potenziamento e realizzazione dell’Alta velocità nel tratto campano-calabrese. Un terzo dei finanziamenti complessivi del Pnrr è destinato alla copertura di circa 10 progetti nel settore infrastrutturale che vengono destinati in gestione a holding internazionali. Questi finanziamenti servono a colmare il divario infrastrutturale (reti materiali ed immateriali) che segna il futuro della Calabria ma, per noi, rappresentano l’ennesima sconfitta di uno Stato che, in questi anni, non è riuscito a colmare le distanze che allontanano, sempre di più, il Sud dal resto del Paese che queste infrastrutture (viarie, ferroviarie e tecnologiche) le possiede già. Desolante il fatto che, proprio sulla missione 3, che riguarda le infrastrutture, si 14 progetti, nessuno è stato concluso. Stesso discorso per istruzione e ricerca: su 2.687 finanziati, nessuno di questi è stato chiuso.

Per quanto la digitalizzazione, ai dati di febbraio 2024, attualmente sono 3 i progetti chiusi su 3.114; per la transizione ecologica su 4934 progetti finanziati solo 756 vengono segnalati come chiusi; per la salute, su 498 progetti solo 14 sono stati chiusi.

I fondi Pnrr per la Calabria comprendono, anche, interventi mirati all’efficienza delle reti idriche di distribuzione per 21 comuni, con una popolazione complessiva di circa 164.000 abitanti. Questi interventi sono cruciali per migliorare la gestione delle risorse idriche in un territorio caratterizzato da frequenti criticità nel settore. Inoltre, il Pnrr prevede finanziamenti per la sanità calabrese, volti a modernizzare le strutture ospedaliere e a potenziare le strutture di prossimità, con l’obiettivo di garantire una migliore qualità dei servizi sanitari. La rigenerazione urbana è un altro ambito di intervento rilevante, con progetti che puntano a rivitalizzare i piccoli borghi storici e a promuovere iniziative culturali e sociali. Tuttavia, la Calabria deve affrontare sfide significative nell’implementazione dei progetti del Piano nazionale di ripresa e resilienza.

La Corte dei Conti ha segnalato lentezze nella spesa pubblica e difficoltà nel rispettare i tempi previsti per l’attuazione delle misure. La recente rimodulazione delle risorse ha comportato uno spostamento di fondi da progetti infrastrutturali verso sussidi alle imprese, evidenziando la necessità di un rafforzamento delle capacità amministrative a livello locale.

Una lentezza dovuta anche alla carenza di personale specializzato presente negli enti locali per seguire l’iter progettuale, di realizzazione delle opere e di rendicontazione degli investimenti finisce per rallentare ancora di più questo processo.

«Il rischio concreto è quello di dover restituire il prestito all’Europa, indebitando la regione per diversi anni, senza riuscire a realizzare i progetti previsti e, quindi, trasformare la Calabria», ha denunciato la Uil, ribadendo la necessità di provvedimenti concreti per accelerare la messa a terra dei progetti, attraverso un piano di efficientamento della Pubblica Amministrazione, con assunzioni di qualità e piani di riqualificazione per il personale già in servizio. servono assunzioni a tempo indeterminato nella Pubblica Amministrazione centrale e locale; occorre rivedere le deroghe sulle assunzioni.

«Vi è la necessità – continua il sindacato – di un cambio di paradigma per il coinvolgimento delle parti sociali solco del dialogo sociale rafforzato per l’attuazione, monitoraggio e valutazione del Pnrr; investire circa il 3% delle risorse previste dal Piano nazionale di ripresa e resilienza riferito alla Calabria. Stiamo parlando di 300 milioni circa e di 30 milioni su base annua, per dare corso ad un nuovo piano occupazionale potrebbe, in parte, attenuare questi ritardi».

«Si tratterebbe – si legge – di coprire, per 10 anni, il costo di circa 850/900 impiegati fra istruttori (geometri e ragionieri) e funzionari di elevata qualificazione (ingegneri, architetti, avvocati, economisti). Naturalmente questo prevede, a monte, la previsione di una norma legislativa di carattere nazionale che consenta la deroga al tetto di spesa per le assunzioni».

Lo stato di avanzamento dei singoli interventi del Pnrr e la spesa effettivamente sostenuta per migliaia di progetti approvati è ancora scarsamente accessibile – ha denunciato il sindacato –. Nonostante le rassicurazioni pubblicate dal governo ad oggi queste informazioni non sono ancora pubbliche e accessibili a tutti. I dati del Pnrr restano carenti se non del tutto assenti. È necessario da parte del governo uno slancio decisivo di trasparenza su un programma di investimenti così importante per il Paese».

 

IL SUD NON È UN’AREA DA ABBANDONARE
MA OPPORTUNITÀ DI CRESCITA E SVILUPPO

di VINCENZO CASTELLANOHo avuto modo di apprezzare il recente rapporto Svimez 2023 che mette in luce un quadro interessante e promettente per il nostro Sud, indicando che quest’area non solo può crescere, ma in alcuni casi può farlo a ritmi superiori rispetto al Centro-Nord. Tra il 2019 e il 2023, la Puglia, pensate, si è affermata come la regione più dinamica del Paese, dimostrando che il Sud ha le potenzialità per attrarre investimenti e trattenere i giovani sul territorio.

Questo sviluppo rappresenta un segnale chiaro: il Sud non è una regione da abbandonare, ma un’opportunità di crescita e sviluppo.

Le politiche nazionali devono cogliere questo segnale e agire di conseguenza. Il governo deve promuovere il Sud come un’area di opportunità, incentivando gli investimenti e migliorando le infrastrutture. In questo contesto, il Pnrr gioca un ruolo cruciale. Tali risorse se utilizzate correttamente, possono evitare la recessione e stimolare la crescita economica del Mezzogiorno, portando benefici tangibili a lungo termine.

Tuttavia, la politica nazionale da sola non basta. Lo ripeto sempre, è indispensabile il coinvolgimento attivo delle comunità locali. Le amministrazioni locali devono collaborare strettamente con il mondo della ricerca, le università e il settore privato per creare un ecosistema favorevole all’innovazione e allo sviluppo. Questo implica non solo la valorizzazione dei talenti locali, ma anche la promozione dell’imprenditoria giovanile. Ritorno al caso della Puglia che ci dimostra come investimenti mirati possano portare a risultati significativi, un modello che altre regioni del Sud potrebbero seguire per migliorare le proprie condizioni socio-economiche.

L’industria meridionale, in particolare, deve essere al centro di questa strategia. Le transizioni digitali ed ecologiche rappresentano opportunità uniche per rilanciare il settore industriale del Sud. Le imprese devono essere supportate nell’adozione di tecnologie avanzate e pratiche sostenibili, attraverso incentivi e facilitazioni mirate. La cooperazione tra pubblico e privato è essenziale per creare un ambiente favorevole all’innovazione, che possa attrarre investimenti e creare posti di lavoro di qualità.

Nonostante questi segnali positivi, il rapporto Svimez evidenzia anche sfide significative, come il calo demografico e l’emigrazione giovanile. Tra il 2002 e il 2021, badate bene, oltre 2,5 milioni di persone hanno lasciato il Mezzogiorno, aggravando il problema della depopolazione. Per affrontare queste sfide, sono necessarie politiche mirate a migliorare la qualità della vita, aumentando i salari e riducendo la precarietà lavorativa.

Particolare attenzione deve essere posta sull’occupazione femminile, che rappresenta un elemento chiave per contrastare il declino demografico e stimolare la crescita economica. Investire nei servizi per l’infanzia e favorire un miglior equilibrio tra vita lavorativa e familiare può incentivare la partecipazione delle donne al mercato del lavoro.

Dunque, per trasformare il Sud in un motore di sviluppo, è necessario un approccio integrato che coinvolga tutti gli attori della società. La politica nazionale deve fornire le risorse e le condizioni necessarie, mentre le comunità locali devono attivarsi per valorizzare le proprie potenzialità. Solo attraverso una collaborazione stretta e continua tra pubblico e privato, istituzioni e cittadini, si potrà costruire un futuro prospero per il Mezzogiorno, rendendolo un’area di opportunità e crescita sostenibile. Il Sud ha dimostrato di poter essere dinamico e innovativo; ora spetta a tutti noi supportarlo nel suo percorso di sviluppo, trasformandolo in un modello di successo per l’intera nazione. (vc)

[Vincenzo Castellano è dottore commercialista]

NEL 2023 CRESCE IL PIL DELLA CALABRIA:
È +1,2% GRAZIE ANCHE ALLE COSTRUZIONI

di ANTONOIETTA MARIA STRATI – Il Pil della Calabria è cresciuto dello 1,2% nel 2023. È quanto ha rilevato la Svimez nel suo Rapporto Comunica, evidenziando come nella nostra regione «l’incremento di valore aggiunto delle costruzioni (+7,4%) ha sostenuto la crescita regionale insieme al terziario (+1,7%), nonostante il calo del settore industriale (-4,8%)».

Un’ottima notizia, in linea con il recente rapporto di Bankitalia sull’economia della Calabria, che aveva già rilevato una crescita della Calabria, anche se non in linea col resto del Paese. Ma in questo caso, il dato più sorprendente è che il Pil del Mezzogiorno è cresciuto oltre la media nazionale, registrando un +1,3% contro +1% del Nord-Ovest, +0.9% del Nord-Est e +0,4% del Centro. Il Sud non cresceva più del resto del Paese dal 2015 (+1,4% contro il +0,6% del Centro-Nord).

Altrettanto favorevole al Sud si è mostrata la dinamica occupazionale. Gli occupati nel Mezzogiorno sono aumentati del +2,6% su base annua, più che nelle altre macro-aree e a fronte di una media nazionale del +1,8%.

La crescita più accentuata del Pil meridionale è stata sostenuta soprattutto dalle costruzioni (+4,5%, quasi un punto percentuale in più della media del Centro-Nord), a fronte di una più contenuta contrazione del comparto industriale (-0,5%) e di una crescita dei servizi dell’1,8%.

La dinamica del PIL è stata debole nelle regioni del Centro (+0,4%), meno della metà della media nazionale. A determinare questo risultato hanno contribuito un calo del valore aggiunto industriale più che doppio rispetto alla media nazionale (-2,6%; -1,1% il dato Italia) e una crescita dei servizi che si è fermata al +1,1% (+1,6% la media nazionale), che hanno sterilizzato la buona dinamica delle costruzioni (+6,2%).

Nel Nord-Ovest la crescita del Pil, pari all’1%, è stata condizionata dal calo del valore aggiunto industriale (-1,4%) e dalla crescita molto più contenuta della media nazionale delle costruzioni (+2,5%). Nel Nord-Est, è stata soprattutto la dinamica piatta del valore aggiunto industriale a contenere la crescita del Pil al +0,9%.

I fattori climatici avversi che hanno caratterizzato gran parte dell’anno hanno penalizzato l’agricoltura. Il valore aggiunto del comparto è diminuito in tutte le ripartizioni del Paese, con l’eccezione del Nord-Ovest (+6,4% dopo la forte flessione del 2022): -6,1% nel Centro, -5,1% nel Nord-Est, -3,2% nel Mezzogiorno.

Il risultato delle due macroaree è anche dovuto al diverso contributo della domanda estera. Al Centro-Nord, lo stallo dell’export (-0,1% sul 2022) ha privato le economie locali di un tradizionale traino nelle fasi di ripesa ciclica. Al Sud, viceversa, l’incremento delle esportazioni di merci, al netto della componente energetica, si è portato al +14,2% (+16,7% i beni strumentali; +26,1% i beni non durevoli).

La congiuntura del 2023 si colloca nella fase di ripresa post-Covid iniziata nel 2021 che ha visto il Mezzogiorno partecipare attivamente alla crescita nazionale, collocandosi stabilmente al di sopra della crescita media dell’Ue (+0,4 nel 2023). Il dato di crescita cumulata del PIL 2019-2023 del +3,7% nel Mezzogiorno ha superato l’analogo dato del Nord-Ovest (+3,4%) e, soprattutto, quello delle regioni centrali (+1,7%). Ha contributo a scongiurare l’apertura del divario di crescita Nord-Sud osservato in precedenti fasi di ripresa ciclica l’inedita intonazione di segno marcatamente espansivo della politica di bilancio.

Sulla crescita del Pil del Mezzogiorno ha inciso in maniera rilevante l’avanzamento degli investimenti pubblici cresciuti, nel 2023, del 16,8% al Sud, contro il +7,2% del Centro-Nord. Nel complesso delle regioni meridionali gli investimenti in opere pubbliche sono cresciuti da 8,7 a 13 miliardi tra il 2022 e il 2023 (+50,1% contro il +37,6% nel Centro-Nord). Una dinamica sulla quale dovrebbe aver inciso significativamente il progressivo avanzamento degli investimenti del Pnrr e l’accelerazione della spesa dei fondi europei della coesione in fase di chiusura del ciclo di programmazione 2014-2020.

Intervenendo in un contesto nel quale le costruzioni contribuiscono in maniera significativamente più rilevante alla formazione del valore aggiunto, gli investimenti in opere pubbliche hanno generato effetti espansivi più intensi al Sud. La Svimez ha stimato, in particolare, un contributo della maggiore spesa in investimenti pubbliche (Pnrr e altri investimenti) alla crescita del Pil del Mezzogiorno del 2023 pari a circa mezzo punto percentuale (il 40% circa della crescita complessiva).
Viceversa, la spesa pubblica per incentivi alle imprese è cresciuta del 16% al Sud, dieci punti percentuali in meno rispetto al Centro-Nord (+26,4%).

Un differenziale che riflette la minore capacità del tessuto produttivo meridionale, caratterizzato da minore presenza di imprese di maggiore dimensione, di assorbire le misure “a domanda” di incentivo di ammodernamento tecnologico e digitale finanziate dal Pnrr.

Anche il terziario ha contribuito in maniera significativa alla crescita del Pil meridionale: +1,8% di incremento del valore aggiunto. Sul dato del Sud hanno inciso due fattori. In primo luogo, la crescita relativamente più sostenuta di alcune attività strettamente connesse all’espansione del ciclo economico quali trasporto e comunicazioni. Inoltre, nel 2023 la crescita delle presenze turistiche è risultata di circa un punto percentuale più accentuata nell’area centro-settentrionale (+8,5% nel Sud, + 9,7% nel Centro-Nord), ma nel Mezzogiorno si è mostrata più accentuata la crescita degli arrivi dell’estero, ai quali sono associati livelli di spesa turistica significativamente più elevati.

I dati delle regioni

Nelle regioni del Centro-Nord, si segnala la crescita diPiemonte (+1,2%) e Veneto (+1,6%). In Piemonte la crescita è stata trainata dall’andamento relativamente favorevole dell’industria in senso stretto (+1,7%) e dei servizi (+1,3%); buona in Veneto la crescita delle costruzioni (+4,7%) e dei servizi (+2,3%), trainati dal buon andamento del turismo (la regione ospita quasi il 16% delle presente turistiche nazionali).

Il dato della Lombardia (+0,9%) è stato influenzato dal calo registrato nel comparto industriale (-2,5%), uno dei più forti tra le regioni centro-settentrionali, sul quale ha inciso il dato deludente dell’export (+1,2%), una componente della domanda che in altre fasi di ripresa aveva sostenuto l’economia regionale. Anche un’altra “export-economy” del Paese, l’Emilia-Romagna, ha subìto la frenata del commercio estero e più in generale il rallentamento dell’economia tedesca, in stagnazione nel 2023; il Pil della regione è cresciuto nel 2023 del +0,6% per effetto della dinamica piatta dell’industria che ha scontato in negativo la forte integrazione con la manifattura tedesca. Da segnalare anche, in Emilia-Romagna, il  calo di oltre il 10% del valore aggiunto agricolo.

Tre regioni italiane registrano nel 2023 un dato negativo di andamento del Pil: Toscana (-0,4%), Marche e Friuli-Venezia Giulia (-0,2%). In Toscana è stato forte il calo dell’industria (-3,2%) e stagnante la dinamica delle costruzioni, in controtendenza rispetto al resto del Paese; nelle altre due regioni va segnalato l’andamento negativo dell’attività industriale (-1,5% nelle Marche e -1,9% in Friuli) non compensato dalla crescita del terziario. Da segnalare anche il calo a doppia cifra dell’export nelle Marche (-12,3%) e in Friuli-Venezia Giulia (-13,6%).

Positiva la dinamica del Pil in tutte le regioni meridionali, anche se in presenza di marcati differenziali di crescita. Emerge in particolare la variazione positiva del Pil siciliano (+2,2%). Hanno influito dinamiche ancor più favorevoli che nel resto del Mezzogiorno delle opere pubbliche (+60,4%) e più in generale degli investimenti pubblici (+26%); anche l’industria è cresciuta significativamente (+3,4%), arrestando una tendenza di medio periodo alla deindustrializzazione.

Piuttosto omogenea e sostenuta è stata la crescita del Pil in Abruzzo, Molise (+1,4%), Campania (1,3%) e Calabria (1,2%), con alcune differenze di carattere settoriale. In Abruzzo la crescita ha riguardato anche il settore industriale (+2%) che invece ha registrato una riduzione in Campania (-0,7%). Va segnalato, però, che la Campania risulta la regione italiana con la maggiore crescita delle esportazioni nel 2023 (+29%). In Calabria l’incremento di valore aggiunto delle costruzioni (+7,4%) ha sostenuto la crescita regionale insieme al terziario (+1,7%), nonostante il calo del settore industriale (-4,8%).

Più bassa la crescita in Basilicata (+0,9%) e Puglia (+0,7%). La Basilicata ha risentito di un calo dell’industria (-2,7%) più intenso di quello osservato per la media delle regioni del Mezzogiorno, compensato dalla buona performance del settore delle costruzioni (+8,4%, la crescita più intensa tra le regioni meridionali). La congiuntura dell’economia pugliese è stata segnata dalla forte caduta del valore aggiunto agricolo (-8,7%), che ha sottratto oltre tre decimi di punto percentuale alla crescita del Pil nel 2023, e dalla flessione del valore aggiunto industriale (-1,2%). Va tuttavia segnalato che la regione Puglia nel complesso del periodo 2019-2023 con una crescita del 6,1% è risultata la regione italiana più dinamica.

La crescita della Sardegna (+1,0%), infine, è stata stimolata dal settore delle costruzioni e soprattutto, data la sua diffusione e il maggior contenuto di valore aggiunto rispetto ad altre realtà meridionali, dai servizi (+1,9%). Molto negativo è risultato il dato dell’industria: -6,2% nel 2023. (ams)

AL SUD IN TROPPI “DISERTANO” IL VOTO E
I PARTITI PENSANO SOLO A PERCENTUALI

di DOMENICO TALIAIn un anno particolare nel quale una parte significativa della popolazione mondiale – quasi tutta quella che vive nei paesi democratici – viene chiamata alle urne, un tema non secondario che sembra interessare pochi è quello dell’ampio fenomeno dell’astensione dal voto.

In Italia e in diverse altre nazioni, il partito degli astenuti è sempre più forte e la democrazia rappresentativa diventa così sempre più debole. Meno rappresentativa e dunque meno democratica. Infatti, il distacco tra i cittadini e il potere si dilata sempre più e assume valori numerici da disastro sociale. Per i latini abstinere significava “tenersi lontano” da qualcosa, oggi il verbo astenersi è sempre più sinonimo di “non voto”, del tenersi lontani dalla politica, dalla democrazia che non si avverte come una forma di governo che risolve i problemi delle persone.

Percentuali di popolazione molti grandi vivono da separati in casa con coloro che li governano e decidono molte cose che li riguardano. Le parole dei politici sono sempre meno ascoltate dai cittadini. La sfiducia cresce sempre più e l’inutilità dell’espressione del voto conquista sempre più ampi settori di elettori che non sono interessati ad eleggere nessuno.

Se misuriamo la credibilità della classe politica con il termometro delle astensioni dobbiamo necessariamente concludere che è molto bassa. Enzo Jannacci cinquanta anni fa prendeva in giro quelli che votavano scheda bianca “per non sporcare”, oggi abbiamo tantissimi (la maggioranza) che non vota forse per non sporcarsi, perché non vuole avere a che fare con la politica e con i suoi rappresentanti. Senza fiducia non c’è voto e senza voto una società democratica va in frantumi.

Quest’anno l’affluenza alle elezioni per il parlamento europeo è stata complessivamente del 51% e in Italia si è attestata al 49,7%, cinque punti percentuali in meno rispetto alla precedente tornata elettorale del 2019, quando la partecipazione italiana al voto era stata del 54,5%. In questo dato complessivo molto negativo si notano situazioni ancora più preoccupanti. Al Sud, ad esempio, l’astensionismo ha toccato livelli di allarme grave. In Sardegna e in Sicilia, ad esempio, si è registrato una percentuale di votanti inferiore al 40%, mentre in Calabria è stato appena superato quel valore. Una grande maggioranza dei cittadini, che va oltre il 60%, decide di disertare il voto. Diverse decine di milioni di persone si tengono lontano dalla politica e sono indifferenti a chi li amministrerà, tanta è profonda la sfiducia nelle èlite politiche.

Siamo di fronte a un diritto, quello del voto, che si considera inutile e lo si rifiuta esercitando un altro diritto, concesso in democrazia, che è il diritto di non votare. Sono questi due diritti che hanno valenze diverse ma che quando si esercitano in quantità equivalenti generano un conflitto difficile da sanare, uno stato di grave fragilità per i fondamenti della democrazia. Le ragioni di questo scenario sono diverse (sociali, ideologiche, economiche, di scarsa autorevolezza, di corruzione politica), ma tutte insieme hanno aperto una voragine nel meccanismo della rappresentatività. 

Chi ha veramente a cuore la tenuta dei sistemi democratici e ha la voglia di recuperare alla democrazia questa grande massa di astenuti?

I partiti sembra non siano realmente interessati a farlo. Ma viene anche da chiedersi nel caso lo volessero, se sono in grado di farlo. C’è da essere molto scettici quando la Premier, a chi le ha chiesto le possibili ragioni dell’ultimo dato degli astenuti alle elezioni europee che ha superato il 50%, ha risposto che la colpa è dell’Europa che i cittadini sentono lontana. In realtà i cittadini sentono lontana la politica e questo arrampicarsi sugli specchi con una retorica sempre “pro domo mea” acuirà il problema invece di risolverlo, così alle prossime elezioni gli astenuti aumenteranno.

Viviamo ormai nella democrazia della minoranza. Sarebbe il caso di prenderne atto, far suonare le sirene di allarme e correre ai ripari. Avviare iniziative di ascolto, discussioni pubbliche, progetti di reale coinvolgimento dei cittadini, ma i partiti sembrano non avvertire questa necessità, preferiscono preoccuparsi soltanto delle loro percentuali (valori asettici che nascondono la realtà dei valori assoluti dei votanti che diminuiscono sempre più anche per tanti partiti le cui percentuali sono aumentate) e proseguire nelle loro polemiche, come fosse tutto nella normalità.

La democrazia così indebolita si estenua e si espone facilmente ad attacchi esterni (ad esempio dai regimi totalitari come quello di Putin). La democrazia reale rischia di diventare un guscio vuoto, pur essendo la forma di governo tra le migliori che gli esseri umani hanno saputo inventare. (dt)

[Courtesy il Quotidiano del Sud]

PNRR, LE SCELTE DELL’ALGORITMO HANNO DANNEGGIATO IL SUD: SOTTRATTI 25 MLD

di PIETRO MASSIMO BUSETTASolo un algoritmo! Nessun intervento particolare tanto che molti Paesi hanno avuto risorse maggiori rispetto all’Italia. Gli 800 miliardi di euro di fondi europei del Pnrr furono assegnati “in base a un algoritmo” e «non sono state negoziati dai Capi di  Governo». E anche sul “sacco di soldi” ricevuti «c’è un po’ di retorica italiana».

«L’Italia è il settimo Paese in termini di rapporto tra soldi ricevuti e Pil. Ci sono altri che in termini relativi hanno portato a casa molto di più, dalla Spagna alla Croazia. Sempre grazie all’algoritmo». 

Le dichiarazioni di Paolo Gentiloni innescano una polemica con il Movimento Cinque Stelle, che accusa il Commissario Europeo all’Economia di “riscrivere la storia” e di “manipolare la genesi” del Recovery Fund «provando a minimizzare il ruolo» del Governo guidato all’epoca da Giuseppe Conte

Ma cosi si parlò il Commissario Europeo, con una dichiarazione  tranciante rispetto al racconto dei Cinque Stelle, che attribuivano al loro leader, Giuseppe Conte, il merito di aver avuto risorse importanti per il nostro Paese. 

In realtà “secondo un algoritmo” sembra una cosa talmente complicata da non essere facilmente compresa. Invece è tutto molto semplice: le risorse sono state assegnate ai singoli Paesi in rapporto a tre variabili: il reddito pro capite, l’ampiezza demografica e il tasso di disoccupazione.

Una distribuzione in Europa fatta in base a un algoritmo, quindi senza alcuna possibilità di interferire con i numeri rispetto a contrattazioni o possibili pressioni.

Queste risorse in Italia, invece di essere redistribuite sui territori in funzione dello stesso algoritmo, come sarebbe sembrato logico, si cambia registro e si procede con sistemi differenti che alla fine della fiera portano al Sud un importo inferiore rispetto a quello che sarebbe stato dato con il calcolo effettuato in sede europea. 

Cioè se il Mezzogiorno fosse stato una delle nazioni dell’Europa, con i suoi 20 milioni di abitanti, con il suo tasso di disoccupazione e il suo reddito pro capite,  avrebbe avuto diritto a una percentuale maggiore delle risorse assegnate col Pnrr. 

La distribuzione delle risorse all’interno del Paese è stata distorta a favore della  sedicente locomotiva settentrionale, in una logica che avrebbe previsto importi rilevanti per una parte che, se fosse stata separata dal Sud, ne avrebbe usufruito in modo molto contenuto, come è successo a Germania e Francia.

L’Italia ha avuto 68,88 miliardi di euro a fondo perduto. Doveva averne invece in base alla popolazione 48,95. Vuol dire che ha avuto una differenza di 19,93 miliardi in più per l’esistenza del Mezzogiorno, considerato che gli altri due parametri sono stati il tasso di disoccupazione e il reddito pro-capite.

E allora siccome i fondi teorici erano 48,95 miliardi, il 33%, cioè 16,153, devono essere assegnati al Mezzogiorno in base alla popolazione, la differenza di 19,93 è dovuta al fatto che c’è un Mezzogiorno con i suoi pessimi parametri. Arriviamo a 36,08 su 68,88 assegnati che corrispondono al 53% del totale risorse a fondo perduto. Poiché il nostro Paese ha deciso di assegnare  al Mezzogiorno il 40%, vuol dire che ha sottratto, di ciò che l’Europa aveva destinato, il 13%. Se estendiamo la stessa percentuale anche ai fondi a prestito, su 191,5 miliardi il 13% sottratto corrisponde a 25 miliardi. Una bella cifra.

D’altra parte è la logica che in Italia è stata sempre sottostante alle risorse comunitarie che, invece di essere state aggiuntive rispetto a una distribuzione di risorse equa per la spesa ordinaria, sono andate a sostituire la stessa, ottenendo un risultato inaccettabile che, complessivamente, anche sommando quella che avrebbe dovuto essere la spesa straordinaria, ha portato a una spesa pro capite assolutamente differente tra Nord e Sud, con una prevalenza decisa di quella assegnata al Nord. 

Di tale devianza ha sofferto la distribuzione per anni, che si riassume nel riferimento alla spesa storica. Quindi prima distorsione nell’assegnazione delle risorse, ma sono  consapevole che tale fase  è solo un primo passo rispetto all’effettuazione della spesa. 

Per far sì che le risorse arrivino sui territori sono necessari tanti passaggi, che riguardano progetti adeguati, strutture che riescano ad assegnare, in tempi compatibili con le problematiche da affrontare, le risorse ai progetti che si presentano, e infine un monitoraggio dei lavori, che vengano completati nei tempi previsti.

Tutto questo al Sud non ha funzionato ed è probabile, al netto di interventi dirompenti, che continuerà a non funzionare, in particolare se le risorse vengono assegnate a bando, come nel caso degli asili nido, che solo recentemente hanno avuto una correzione, per cui i Comuni più attrezzati riuscivano ad avere le risorse, indipendentemente dalle effettive esigenze. 

A metà del cammino del Pnrr, mentre l’Europa continua a liquidare le tranche previste, asseverando un corretto funzionamento dello strumento, la sensazione invece è che nemmeno quel 40% previsto alla fine arriverà sui territori meridionali. 

 E se non si approfitta del Pnrr per estendere gli stessi diritti di cittadinanza, quelli che sono misurati dai livelli essenziali delle prestazioni, i cosiddetti Lep, prodromici all’attuazione delle autonomie differenziate chieste dalle regioni del Nord, come potranno livellarsi in futuro? Rimane una domanda senza risposta.

Ma al di là degli importi dovuti all’una e all’altra parte, in ogni caso quel 40% individuato vogliamo che arrivi sui territori?

Compito della struttura del ministro Raffaele Fitto è controllare che almeno questo avvenga. E di intervenire nel caso in cui i ritardi accumulati rischino di far perdere le risorse alla realtà del Sud. 

Mentre è chiaro che non è cosa semplice fare spendere risorse importanti a chi non ha alcuna struttura amministrativa non si può accettare il principio che hanno proposto Giuseppe Sala e Luca Zaia di trasferire i soldi a loro perché sono più bravi a spendere. 

Ma non solo perché sarebbe ingiusto ma perché non conviene al Paese, che oggi deve puntare tutto sulla carta vincente che ha a disposizione. Quel Sud che al di là delle iperboli sul fatto che sia diventato la locomotiva è necessario che venga adeguatamente sviluppato per contribuire allo sviluppo complessivo. (pmb)

[Courtesy Il Quotidiano del Sud – L’Altravoce dell’Italia]

Perciaccante (Confindustria CS): Solo il 29% dei cantieri al Sud è stato avviato

«Nel Mezzogiorno è solo il 29% dei cantieri ad essere stato avviato, un dato sensibilmente inferiore rispetto al 40% del Nord e al 36% del Centro. Per quanto riguarda la Calabria, pur se in linea con il dato territoriale relativo al numero dei cantieri avviati (29%), è molto al di sotto in termini di valore (18% contro il 46% del Mezzogiorno) a causa dell’assenza di grandi interventi infrastrutturali». È quanto ha denunciato Giovan Battista Perciaccante, presidente di Confindustria Cosenza, ribadendo la necessità di «concentrare le attenzioni della Pubblica Amministrazione sulla velocizzazione delle procedure e sulla necessità di rimuovere gli eventuali blocchi che ancora frenano l’esecuzione dei lavori di interesse per il settore delle costruzioni a valere sui fondi Pnrr».

Un allarme lanciato dopo che il presidente degli industriali cosentini ha analizzato i dati resi disponibili da un’attività di monitoraggio effettuata sulla fase realizzativa dei cantieri Pnrr a livello territoriale, grazie ad una collaborazione che l’Associazione Nazionale dei Costruttori Edili ha attivato con il sistema delle Casse Edili. Dall’analisi emergono evidenti ritardi soprattutto a carico delle regioni del Mezzogiorno: risultano aperti o conclusi i cantieri relativi a circa il 35% dei progetti e l’apertura degli stessi procede in modo differenziato a livello territoriale.

«Le difficoltà riscontrate nel Mezzogiorno – ha spiegato il leader dei costruttori del Sud e degli industriali cosentini – trovano spiegazione, in parte, nella maggiore presenza al Mezzogiorno di lavori di importo elevato, che richiedono tempi di avvio dei cantieri più lunghi. Basti considerare che il 75% del valore totale delle gare pubblicate riguarda progetti superiori ai 100 milioni di euro, a confronto con il 40% del Nord e il 22% del Centro».

«Inoltre – ha argomentato ancora Perciaccante – sulle tempistiche di inizio dei lavori incide anche la maggiore presenza di progetti del tutto nuovi, che necessitano di tempi più lunghi sia per la programmazione e ripartizione dei fondi, che per il completamento delle fasi di progettazione, affidamento e avvio dei cantieri. Tutte opere strategiche per i territori di cui non è possibile procrastinare oltre la realizzazione».

Per i vertici Ance, se si vuole davvero centrare l’obiettivo posto dal Piano di riuscire a ridurre il divario tra il Nord e il Sud del Paese, occorre prestare la massima attenzione alla fase di velocizzazione realizzativa delle opere.

«Il Mezzogiorno – ha concluso il vicepresidente di Ance con delega al Mezzogiorno e presidente di Confindustria Cosenza Giovan Battista Perciaccante – non può permettersi di perdere l’opportunità unica del Pnrr che consente di intervenire su tanti nodi storici del ritardo infrastrutturale di questa area del Paese, favorendo lo sviluppo sociale e la competitività economica, e accelerando i processi di transizione ecologica e digitale». (rcs)

 

Il sindaco di Bari Antonio Decaro a Reggio: Si parlerà del futuro del Mezzogiorno

Si parlerà dello sviluppo del Mezzogiorno nel corso dell’incontro, in programma domani sera, al CineTeatro Odeon di Reggio Calabria, alle 19, con Antonio Decaro, sindaco di Bari e presidente di Anci.

Ad accoglierlo ci sarà il sindaco della Città Metropolitana Giuseppe Falcomatà, insieme ad altri Sindaci ed amministratori del territorio metropolitano e calabrese, dirigenti del Partito Democratico e rappresentanti di associazioni, forze sindacali e associazioni di categoria.

Nel corso dell’incontro, dal titolo Portiamo il Sud in Europa, il sindaco Decaro  si soffermerà proprio sui temi legati alla coesione, alla perequazione delle risorse per il Mezzogiorno e sulle opportunità di sviluppo legate all’utilizzo da parte degli Enti locali dei fondi europei e del Pnrr.

Decaro, inoltre, è candidato capolista del Pd alle elezioni europee nella Circoscrizione Sud. Negli ultimi anni in più occasioni ha visitato la città di Reggio Calabria per incontri ufficiali. Da tempo è protagonista, insieme ad altri importanti sindaci italiani, della battaglia contro la legge sull’autonomia differenziata, che costituirebbe un colpo mortale all’economia delle regioni del Sud Italia. (rrc)

 

CALABRIA E MEZZOGIORNO: C’È IL RISCHIO
CHE VADANO SPRECATI I FONDI UE 2021-2027

di PAOLA LA SALVIA – Il complesso scenario economico italiano, aggravato dalle conseguenze dei vari conflitti in corso, pone ancora una volta in primo piano la questione di un Paese tuttora ancorato a due differenti velocità di sviluppo, come se il divario tra un Mezzogiorno in difficoltà e un Centro Nord in linea con l’Europa fosse ineluttabile.

Fin dall’Unità d’Italia si è cercato di porre rimedio a tale situazione sul piano Istituzionale attraverso ingenti stanziamenti di risorse pubbliche, tuttavia con risultati decisamente deludenti, difatti tuttora permane sia un divario tra le regioni settentrionali e quelle meridionali sia una diseguaglianza interna alle stesse aree del Mezzogiorno. L’analisi delle difficoltà strutturali che opprimono il Sud italiano, sia in termini di struttura produttiva che di assetto istituzionale, evidenzia una situazione complessiva di fragilità che impone la ricerca di radicali elementi di discontinuità nelle politiche di sviluppo.

 Per superare tale Gap è indispensabile disegnare nuove e più efficaci azioni che consentano al Mezzogiorno di intraprendere un percorso di sviluppo, autonomo e responsabile, in grado di valorizzare i tanti elementi positivi comunque presenti in questi territori. 

I Fondi che l’Unione Europea destina ai Paesi hanno lo scopo di aiutare le Regioni meno sviluppate ad avvicinarsi alla media europea e ridurre gli squilibri interni ai Paesi, a livello economico e sociale, per esempio attraverso un’omogenea crescita economica e il miglioramento della qualità della vita dei cittadini in tutte le regioni. Dunque, tempistiche più efficienti e una programmazione più coesa tra le regioni potrebbero aiutare nella spesa dei fondi. In particolare, considerato il delicato periodo che l’Italia sta attraversando, i fondi strutturali e quelli provenienti dal Piano Next Generation Eupotrebbero essere la chiave per una ripresa economica e sociale più rapida.

Al riguardo, purtroppo, sono preoccupanti gli ultimi dati pubblicati recentemente dal Sole24. Siamo giunti quasi a metà del periodo di programmazione 2021-2027 e la spesa italiana del Fondo europeo di sviluppo regionale e del Fondo sociale europeo è di appena 535 milioni di euro, meno dell’1% dell’ammontare complessivo delle risorse disponibili pari a 74 miliardi. Si tratta della spesa effettiva già realizzata e di cui si può quindi chiedere il rimborso a Bruxelles.

I progetti considerati ammissibili (quasi 35mila) e dunque in via di realizzazione assorbono quasi 4,8 miliardi (il 6,5 del totale) La Commissione Europea ha espresso le proprie preoccupazioni per una situazione definita “quasi bloccata” e ritiene molto difficile raggiungere l’obiettivo dei 7 miliardi di spesa a fine 2025. Una spinta alla spesa potrebbe arrivare dagli accordi per la coesione tra Regioni e Governo voluti dal Ministro Fitto. Tra le Regioni, sono riuscite a spendere qualche decina di milioni di euro solo le più sviluppate e la Calabria purtroppo non è ancora tra queste. È urgente accelerare i programmi, spendere bene le risorse, evitando sprechi e inefficienze. 

La competenza sui Fondi Europei è soprattutto delle Regioni ma molte di esse non hanno un apparato tecnico adeguato a produrre progetti sui fondi europei e poi per seguirli adeguatamente. La Commissione Europea è molto esigente per quello che riguarda la qualità dei Progetti, per il loro monitoraggio in corso di esecuzione e infine per la rendicontazione delle somme assegnate. Sarebbe necessario, a tal fine, favorire la formazione del personale in modo da avere, nelle strutture regionali, esperti nell’organizzazione europea.

Il monito, quindi, è di continuare a spendere, e inoltre di guardare molto di più rispetto al passato alla qualità della spesa. Come dire, spendere è una condizione necessaria, ma non sufficiente affinché un programma regionale riceva una valutazione positiva.

I Fondi Europei costituiscono per la Calabria e le Aree del Mezzogiorno un’importante occasione di crescita e sviluppo che non può andare sprecata. (pls)

 

SVIMEZ, DOVE VANNO LA CALABRIA E IL SUD
CRESCITA DEBOLE E DIVARIO IN AUMENTO

di ANTONIETTA MARIA STRATI – Dove andrà la Calabria, se continua a registrare numeri bassi e negativi? La domanda sorge spontanea, leggendo i dati del report Dove vanno le regioni italiane della Svimez, in cui è emerso come il Pil della nostra regione, nel triennio 2023-2025, crescerà solo dello 0,40%, portando un esiguo contributo alla crescita del Sud.

All’incontro hanno partecipato Luca Bianchi, direttore generale della Svimez, Fedele De Novellis, partner Ref, Stefano Prezioso, vicedirettore Svimez, Alessandro Fontana, direttore del Centro Studi di Confindustria, Alessandra Faggian, docente di Economia applicata al Gran Sasso Science Institute.

Un dato, quello presentato dall’Associazione, che non si discosta troppo dalle previsioni provvisorie dell’Istat, che indicava a dicembre 2023 una variazione del Pil calabrese del 3,2%. Guardando il dato del Mezzogiorno, secondo le stime della Svimez, la Calabria in sostanza nel prossimo triennio raggiungerebbe la stessa cifra del Sud, ossia il 3,5.

Un dato preoccupante, considerando che la nostra regione ha tutte le carte in regola per essere motore di sviluppo del Mezzogiorno. Eppure, secondo le stime di Svimez, il tasso di crescita sarà solo dello 0,8%, seguito da Basilicata (0,7%) e Molise (0,5). Andando più nello specifico, la Calabria, per il prossimo triennio, contribuirà alla crescita cumulata del Pil dello 0,25% per le spese Pa, dello 0,04% per l’export, dello 0,37% con la spesa delle famiglie e dello 0,10% con gli investimenti.

Preoccupano, poi, i dati relativi sul valore aggiunto delle imprese strutturate, ossia multinazionali estere e italiane, gruppi domestici italiani, con i dati del 2020: è solo del 39,8% contro il 44,9% del Mezzogiorno e del 57,3% dell’Italia.

Anche per quanto riguarda gli addetti alle unità locali per mille abitanti, in Calabria se ne registrano solo 152,9 contro i 194,1 del Mezzogiorno e i 292,2 dell’Italia. Preoccupano, infine, i dati riguardanti il bilancio della popolazione residente: Quello complessivo è -149.056, quello migratorio -94.892 e quello naturale -54.164.

«Nel corso degli ultimi anni – si legge nel Rapporto – l’economia italiana, al pari delle altre economie europee, è stata sottoposta a una serie di shock straordinari – legati alla pandemia e alla crisi energetica – cui sono corrisposte reazioni altrettanto eccezionali delle politiche, sia quella fiscale che quella monetaria. Ciascun territorio ha risentito di tale instabilità in maniera diversa, a seconda del grado di esposizione a tali shock della propria struttura produttiva».

«D’altra parte, i differenziali di crescita fra le diverse macroaree sono stati nel complesso contenuti – viene spiegato – un risultato che in parte deriva dal fatto che alcuni shock hanno colpito settori presenti, pur in maniera non uniforme, sull’intero territorio nazionale, ma che può essere spiegato anche con le misure compensative adottate dalla politica di bilancio per sostenere le imprese e le famiglie che di volta in volta sono state colpite nelle varie fasi della crisi. In definitiva, nel corso degli ultimi anni, nonostante le difficoltà che hanno attraversato il sistema economico, le politiche hanno avuto successo nel prevenire un ulteriore allargamento dei divari territoriali».

«Dalla pandemia – continua il Rapporto – sono derivati effetti differenziati sui settori manifatturieri. Alcune filiere hanno subito conseguenze permanenti, penalizzando soprattutto le regioni dell’Italia centrale. Anche i settori dei servizi privati sono stati caratterizzati da una elevata instabilità, in particolare nelle attività assoggettate alle misure di distanziamento sociale, quindi nei settori degli alberghi e ristoranti e negli spettacoli. Tali andamenti sono stati condivisi dalle diverse regioni, ma hanno naturalmente avuto impatti maggiori nei territori a vocazione turistica che, dopo essere stati più penalizzati dalle chiusure imposte a seguito della pandemia, hanno poi registrato una fase di recupero più vivace».

«Le risorse del Superbonus sono state assorbite in misura maggiore dalle regioni del Centro-Nord. Gli effetti del ciclo degli investimenti in costruzioni sulla crescita sono stati però maggiori al Sud, dato il peso più elevato delle costruzioni sull’economia. Un altro aspetto significativo delle tendenze recenti, a sua volta legato al ciclo delle costruzioni, è rappresentato dalla crescita dell’occupazione, che è rimasta vivace, nonostante la decelerazione dell’economia. Tale andamento ha caratterizzato tutte le aree del Paese, ma è risultato più intenso nelle regioni del Mezzogiorno. I rincari dei prezzi osservati nel 2022 e nel 2023 hanno interessato con particolare intensità alcune componenti del paniere dei prezzi, come l’energia e l’alimentare, che incidono in misura maggiore sulle fasce di reddito inferiori. Una conseguenza è stata l’impatto maggiore degli aumenti dei prezzi sul potere d’acquisto delle famiglie del Mezzogiorno. Dalla fine dello scorso anno le tensioni inflazionistiche hanno iniziato a rientrare. Nel 2024-25 la riduzione dell’inflazione avrà effetti di segno opposto a quelli osservati nel corso del passato biennio, restituendo potere d’acquisto in misura maggiore alle famiglie delle fasce di reddito inferiori e ai territori più deboli del Paese».

La Svimez, poi, ha evidenziato come «la recente revisione del Pnrr ha ridimensionato gli investimenti pubblici e incrementato i contributi alle imprese; tuttavia, l’apporto delle risorse messe in campo resta significativo, specie nel Sud dove queste da sole contribuiscono per quasi due terzi alla spesa complessiva prevista in investimenti pubblici nel biennio 2024-2025. Molto dipenderà dalla capacità delle amministrazioni di portare a termine i programmi di spesa».

«Le prospettive sono caratterizzate da una fase di crescita molto debole – viene spiegato – in parte spiegata proprio dal percorso di normalizzazione delle politiche, monetarie e fiscali, che sta orientando le scelte dei Governi europei. Il 2023 è stato per l’economia italiana un anno di decelerazione, con una variazione del Pil modesta, prevista intorno allo 0,7 per cento che si declina, a scala territoriale, in uno 0,9 per cento nelle regioni settentrionali, dello 0,6 per cento nelle regioni del Centro, e allo 0,4 per cento nel Mezzogiorno. Le tendenze per il 2024-25 sono segnate ancora da ampi margini di incertezza».

«In questo contesto, il 2024 dovrebbe far registrare, sempre a scala nazionale – si legge ancora – una live contrazione rispetto all’anno precedente (+0,6%), seguita l’anno successivo da una modesta accelerazione (+1,1%). Eppure, questa crescita relativamente contenuta in buona parte dipende dall’implementazione del Pnrr, specie al Sud. Ci attendiamo che le tendenze delle principali ripartizioni territoriali mantengano dei differenziali fra le macroaree relativamente contenuti, come già osservato negli anni scorsi. Ad ogni modo, anche se la tendenza generale è una relativa vicinanza tra le varie circoscrizioni, questo non elemina alcune differenze strutturali andate consolidandosi nel corso del tempo».

«Lombardia, Emilia-Romagna, Veneto, al Nord, dovrebbero crescere di più, in particolare queste tre regioni quando riparte la domanda estera “giocano un’altra partita” rispetto al resto del Paese. Toscana e Lazio continuano ad allontanarsi da Umbria e Marche al Centro; anche il Sud al suo interno vede percorsi differenziati. Per certi versi, è qui che risiede la vera sfida del Pnrr: aggredire nei territori più in difficoltà da tempo quei nodi che ne ostacolano la crescita a saggi comparabili con le regioni più dinamiche. Interrompendo, così, la frammentazione dei percorsi di sviluppo regionali che si è consolidata da inizio millennio fino alla pandemia».

«Emerge, come è normale aspettarsi, una correlazione negativa piuttosto netta tra il tasso di crescita del Pil e l’indice di precarietà. Nelle regioni in cui la crescita è stata relativamente più intensa (i.e. Trentino Alto-Adige, Lombardia, Emilia-Romagna, ecc.) l’indice di precarietà assume valori più contenuti, e viceversa (come in Calabria, Sicilia, Sardegna). La bassa crescita, quindi, agisce anche sulla qualità dell’occupazione, oltre che sulla quantità di lavoro attivata. A sua volta, ciò dà luogo a un feed-back sulla crescita stessa. In regioni nelle quali la domanda interna ha assunto un’importanza preminente nell’orientare la congiuntura, come quelle meridionali e/o del Centro, una maggiore quota di occupazione precaria implica una capacità reddituale aggregata anch’essa relativamente minore. La spinta sulla domanda, in definitiva, ne risulta depotenziata».

la Svimez, poi, ha voluto porre l’attenzione sul fattore demografico, «che ha acquisito un peso crescente nell’orientare la performance dei singoli territori, specie se valutata con l’indicatore Pil pro capite precedentemente richiamato. Questo indice, infatti, oltre a risentire della minore/maggiore capacità di produrre reddito è influenzato, per l’appunto, dalle fluttuazioni della popolazione, in particolare quella in età lavorativa». (ams)

 

ZES UNICA, UNA SVOLTA PER MEZZOGIORNO
TRA INNOVAZIONE E SVILUPPO SOSTENIBILE

di VINCENZO CASTELLANOL’importanza della Zona Economica Speciale (Zes) Unica nell’orizzonte economico e di sviluppo del Mezzogiorno è un tema che, negli ultimi giorni, ha catalizzato l’attenzione politica e mediatica, segnando un passo decisivo verso la concretizzazione di una visione di crescita e innovazione. La recente riunione della cabina di regia per la Zes Unica, presieduta dal Ministro Fitto e alla quale hanno partecipato Ministri e rappresentanti delle otto Regioni interessate (Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia, Sicilia e Sardegna), nonché l’Upi e l’Anci, rappresenta un momento di svolta nel percorso di attuazione di questa ambiziosa iniziativa.

Al centro dell’incontro, la predisposizione del Piano strategico triennale della Zes Unica, che si pone come obiettivo principale quello di definire una politica di sviluppo capace di integrarsi armoniosamente con il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (Pnrr) e con le programmazioni nazionali e regionali dei fondi strutturali europei. Questo piano strategico avrà il delicato compito di indicare gli investimenti e gli interventi prioritari, i settori da promuovere e quelli da rafforzare, applicando un regime semplificato dell’autorizzazione unica, con l’intento di rendere più agile e attrattivo il contesto imprenditoriale.

L’approccio adottato dalla cabina di regia, che prevede la convocazione di appositi tavoli tematici per avviare un confronto costruttivo con tutti i principali attori, pubblici e privati, inclusi le associazioni di categoria, sottolinea la volontà di un coinvolgimento trasversale e partecipativo. Questa metodologia di lavoro mira a garantire che il Piano strategico sia il risultato di un’analisi condivisa delle esigenze territoriali e delle potenzialità di sviluppo, nel rispetto delle specificità locali e delle vocazioni produttive delle regioni coinvolte.

La Zes Unica rappresenta, dunque, una leva strategica per il rilancio economico del Sud, offrendo un’opportunità unica di attrazione degli investimenti, di creazione di nuove opportunità di lavoro e di stimolo per l’innovazione e la competitività delle imprese. In questo contesto, la decisione di trasferire, a partire dal 1° marzo, le funzioni svolte dagli otto Commissari straordinari alla Struttura di missione Zes segna l’avvio di una nuova fase operativa, che vedrà l’implementazione concreta delle strategie e degli interventi previsti dal Piano.

L’attenzione rivolta alla semplificazione amministrativa, attraverso l’adozione dell’autorizzazione unica, è un aspetto fondamentale che può significativamente contribuire a ridurre i tempi e i costi per le imprese, incentivando così l’avvio di nuovi progetti e la realizzazione di investimenti in aree cruciali per lo sviluppo economico e sociale del Mezzogiorno.

In conclusione, l’impegno profuso nella realizzazione della Zes Unica e nel suo Piano strategico triennale si configura come un elemento chiave per il futuro delle regioni del Sud Italia, proiettando queste aree verso un orizzonte di crescita sostenibile e inclusiva. La sinergia tra governo, regioni, enti locali e parti sociali sarà determinante per trasformare le sfide in opportunità, assicurando che il Mezzogiorno possa giocare un ruolo di primo piano nello scenario economico nazionale ed europeo, valorizzando al meglio le sue risorse e le sue competenze. (vc)

[Vincenzo Castellano è dottore commercialista e Founder Zes Consulting]