L’Italia del paradosso: ci sono più occupati ma anche più poveri. L’obiettivo del salario minimo

di SALVATORE BARRESI – Il lavoro è tornato al centro del dibattito pubblico, ma spesso come una “parola d’ordine” piuttosto che come un impegno concreto per affrontare le sfide attuali. In un Paese come l’Italia, segnato da disuguaglianze, salari stagnanti e precarietà diffusa, la vera sfida va oltre la semplice creazione di posti di lavoro: si tratta di restituire senso e dignità all’occupazione. La “piena e buona occupazione” si delinea così come il vero banco di prova per la giustizia sociale e la tenuta democratica del Paese.

Il Paradosso dell’Occupazione Povera

Dopo decenni di neoliberismo e flessibilità spinta, il mercato italiano è oggi caratterizzato da un’occupazione spesso povera e instabile, incapace di garantire sicurezza e prospettive. Ci troviamo di fronte a un paradosso evidente: ci sono più occupati, ma sono anche più poveri. La crescita quantitativa, infatti, non è bastata a garantire stabilità e prospettive di sicurezza.

Milioni di persone vivono con redditi inferiori alla soglia di dignità, spesso con contratti a termine o part-time involontari. Questo nonostante l’Articolo 36 della Costituzione sancisca in modo inequivocabile che “ogni lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata e sufficiente ad assicurare un’esistenza libera e dignitosa”.

Salario Minimo e Dignità Salariale

È in questo contesto che emerge l’urgenza dell’introduzione di un salario minimo legale, già in vigore in ventuno Paesi dell’Unione Europea. In Italia, circa il 12% dei lavoratori percepisce meno di 9 euro lordi l’ora. Un minimo salariale non sarebbe solo una soglia di tutela, ma rappresenterebbe anche un argine contro la concorrenza al ribasso tra le imprese.

Emergenza Demografica e Competenze

Accanto alla piaga dei salari bassi, l’Italia deve affrontare anche un’emergenza demografica: entro il 2034, la popolazione in età lavorativa è prevista calare di quasi tre milioni di unità, una riduzione del 7,8%. Questo declino rischia di compromettere la crescita economica e la sostenibilità del sistema previdenziale.

Si verifica un altro paradosso cruciale: da un lato le imprese faticano a reperire figure professionali adeguate, dall’altro mancano competenze qualificate. La ragione è duplice: gli stipendi troppo bassi non incentivano né l’ingresso né la permanenza nel mercato del lavoro.

Tecnologia e Formazione Continua

Non meno cruciale è il rapporto tra lavoro e tecnologia. La rivoluzione digitale, accelerata dall’Intelligenza Artificiale, sta trasformando radicalmente i processi produttivi e la domanda di competenze. È necessario costruire un ecosistema formativo che accompagni i lavoratori per l’intero arco della vita, investendo in competenze digitali, green e relazionali.La digitalizzazione, però, non deve diventare una nuova linea di frattura. Oggi circa la metà degli utenti dei servizi pubblici per l’impiego ha difficoltà a utilizzare strumenti digitali complessi. È fondamentale intervenire con l’alfabetizzazione tecnologica diffusa e il rafforzamento del personale pubblico, affinché gli algoritmi facilitino l’incontro tra domanda e offerta, anziché generare nuove esclusioni.

Oltre i Numeri: Il Lavoro come Fondamento della Società

Non bastano i numeri dell’occupazione: servono contratti stabili, percorsi formativi, possibilità di carriera e una regia pubblica capace di orientare gli investimenti. La povertà lavorativa interessa quasi due milioni di persone, mentre l’inflazione continua ad erodere il reddito reale delle famiglie a basso reddito.

La politica deve tornare protagonista: gli investimenti pubblici (sanità, istruzione, rigenerazione urbana) sono una leva per la crescita più elevata delle riduzioni fiscali. Le disuguaglianze si colmano con lavoro di qualità: servono contratti stabili, percorsi di carriera e valorizzazione della contrattazione collettiva.

In definitiva, “rimettere il lavoro al centro” significa restituirgli la sua dignità, non come una mera variabile economica, ma come il cuore della cittadinanza democratica. È attraverso un’occupazione dignitosa che le persone costruiscono identità, relazioni e senso di appartenenza. Significa garantire a ogni cittadino la possibilità di vivere del proprio lavoro, di formarsi e di contribuire al bene comune, eliminando precarietà e povertà. (sb)

(Economista e sociologo)

IL “RITORNO DEI “CERVELLI” È CRUCIALE
PER FUTURO E RINASCITA DELLA CALABRIA

di MARIAELENA SENESELa Calabria, da decenni, è teatro di un preoccupante esodo giovanile: negli ultimi vent’anni, circa 162.000 giovani hanno abbandonato la regione, alla ricerca di opportunità lavorative e formative assenti sul territorio. Questo fenomeno, spesso definito “fuga dei cervelli”, rappresenta non solo una perdita demografica, ma soprattutto un impoverimento in termini di capitale umano, ricchezza economica, dinamismo sociale e vitalità culturale.

Eppure, la Calabria dispone di risorse ambientali, culturali, imprenditoriali e umane che, se opportunamente valorizzate, possono diventare leve potenti di sviluppo sostenibile e inclusivo. La sfida oggi non è soltanto fermare l’emorragia giovanile, ma piuttosto creare le condizioni per attrarre e trattenere talenti, offrendo concrete possibilità di crescita professionale e personale. 

 Il Fondo proposto dalla Uil  prevede un pacchetto integrato di misure economiche, fiscali e sociali che mirano a creare le condizioni affinché i giovani calabresi possano progettare e costruire un futuro nella loro terra.

Sebbene il Programma Regionale Calabria Fesr-Fse 2021-2027 non preveda esplicitamente il finanziamento diretto per l’acquisto della prima casa, è strategicamente possibile inserire tale misura all’interno dell’Obiettivo di Policy OP4 – “Una Calabria più sociale e inclusiva”, in particolare nell’Obiettivo Specifico OS 3 Azione 4.3.1, che dispone di oltre 56 milioni di euro per infrastrutture abitative e interventi di housing sociale.

Perché il “ritorno” diventi permanente e produttivo, è indispensabile creare un contesto favorevole all’imprenditorialità giovanile, con particolare attenzione a settori strategici come: Energia rinnovabile/Turismo sostenibile/Blue economy/Digitalizzazione e industria 4.0.

A tal fine, il progetto si inserisce in piena coerenza con l’Obiettivo di Policy OP1 – “Una Calabria più competitiva e intelligente”, e in particolare con l’Azione 1.1.2 dell’OS1.1, che sostiene: La creazione e il consolidamento di start-up innovative, spin-off universitari e PMI ad alto contenuto tecnologico; Programmi integrati di formazione, orientamento, tutoraggio e incentivazione; Investimenti iniziali e di espansione, nonché la realizzazione di hub e acceleratori d’impresa.

A queste misure si aggiungono le opportunità offerte dall’Obiettivo di Policy OP4, tramite: L’Azione 4.aa.1 (oltre 31 milioni di euro), dedicata a migliorare l’accesso al lavoro e promuovere l’occupazione giovanile; L’Azione 4.a.2 (quasi 11 milioni di euro), rivolta alla promozione del lavoro autonomo e dell’economia sociale.

Il rilancio del territorio passa anche da un deciso investimento sul capitale umano. Il progetto prevede, infatti, lo sviluppo di percorsi formativi avanzati, costruiti in stretta collaborazione tra università, centri di ricerca e imprese locali, per generare figure professionali altamente qualificate, in grado di guidare la transizione ecologica e digitale della regione nonché capace di attrarre ulteriori investimenti pubblici e privati. L’obiettivo è trasformare la Calabria da terra di emigrazione a laboratorio di innovazione e crescita sostenibile.

“Il progetto “Ritorno dei Cervelli” non è soltanto un insieme di misure tecniche, ma un vero e proprio investimento strategico sul futuro della Calabria. È molto più di un piano di rientro: è un atto d’amore verso una terra che ha bisogno dei suoi figli migliori per rinascere. È un impegno concreto per dare voce e spazio ai sogni di migliaia di giovani che, pur lontani, non hanno mai smesso di portare la Calabria nel cuore.

I giovani non sono solo il futuro: sono il presente che dobbiamo sostenere, l’energia viva che può trasformare questa regione in un luogo dove valga la pena restare, tornare, costruire. Offrire loro le condizioni per farlo significa scegliere di credere nella Calabria e nella sua capacità di cambiare. (ms)

[Mariaelena Senese, segretaria generale Uil Calabria]

L’ECONOMIA CALABRESE E LA NATURA E I
PERSISTENTI RITARDI NEL SUO SVILUPPO

di FRANCESCO AIELLO

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rent’anni rappresentano un orizzonte temporale sufficientemente ampio per valutare l’evoluzione strutturale di un sistema economico. Utilizzando dati macroeconomici a partire dal 1995, è possibile cogliere non solo gli effetti di lungo periodo dei mutamenti demografici e produttivi, ma anche la capacità dell’economia calabrese di reagire agli shock esogeni e ai cambiamenti del contesto nazionale. In questa prospettiva, il posizionamento della Calabria rispetto al Mezzogiorno, al Centro-Nord e all’Italia offre una chiave di lettura utile per comprendere meglio la natura e la persistenza dei ritardi che caratterizzano il modello di sviluppo dell’economia calabrese.

Il Pil pro capite: la sintesi del divario

Il Pil pro capite rappresenta una sintesi delle dinamiche demografiche e della capacità di generare valore economico. Nel 2023, il reddito per abitante a prezzi costanti 2015 si attesta in Calabria a 17.235 euro, in aumento rispetto ai 15.435 euro del 1995. La variazione, pari all’11,7%, è più bassa di quella del Centro-Nord (+14%) e con la media nazionale (+14,9%). Anche il Mezzogiorno, con un incremento dell’11,3% (da 17.814 a 19.824 euro), mantiene un livello di reddito pro capite più elevato di quello calabrese. Il PIL pro capite si può scomporre nel prodotto tra il tasso di occupazione e la produttività del lavoro (produzione per occupato). In Calabria, entrambi questi fattori hanno mostrato segnali di debolezza lungo tutto il trentennio: il tasso di occupazione è rimasto sistematicamente inferiore rispetto alle altre macroaree e la produttività ha registrato un andamento altalenante, spesso sostenuto da una riduzione del numero di occupati più che da una reale crescita della produzione.

Per comprendere meglio la traiettoria dello sviluppo della nostra regione, analizzeremo questi due elementi in dettaglio nei paragrafi 3-6. Ora, al fine di avere un ordine di grandezza dei divari territoriali, confrontiamo la Calabria con il Centro-Nord. Nonostante la crescita dell’11,7% che abbiamo osservato del Pil pro-capite calabrese, negli ultimi 30 anni il ritardo della Calabria si è ampliato: nel 1995 il Pilpro-capite regionale rappresentava il 58,5% di quello del Centro-Nord; nel 2023 tale rapporto scende al 48,4%. Si tratta di un indicatore chiaro dell’aggravarsi del divario territoriale. I dati consentono anche di osservare se in specifici sotto-periodi si sia avuta convergenza. Emerge che nonostante una moderata crescita fino al 2007, la dinamica del PIL pro-capite calabrese si appiattisce nella fase successiva. Nel decennio 2010–2019, il livello si stabilizza intorno ai 16.500–17.000 euro, mentre il Centro-Nord supera stabilmente i 34.000 euro. La crisi pandemica del 2020 accentua la fragilità del sistema regionale, con una caduta sotto i 16.000 euro, seguita da un recupero molto lento.

In estrema sintesi si può affermare che, rispetto ad altre macroaree, la Calabria ha beneficiato in misura marginale delle fasi di crescita e ha invece subito più duramente gli effetti degli shock. L’evidenza indica che il basso reddito pro capite è il risultato di una combinazione sfavorevole di crescita economica, produttività e demografia, ma rappresenta anche un freno allo sviluppo: limita gli investimenti, riduce i consumi e incentiva la migrazione di capitale umano.

Demografia e popolazione attiva: un declino strutturale

Il livello e l’andamento del Pil pro capite sono anche il riflesso delle dinamiche demografiche, che in Calabria appaiono particolarmente sfavorevoli. Nel periodo 1995–2023, la popolazione residente in Calabria si è ridotta da 2.063.300 unità nel 1995 a 1.850.366 nel 2023, registrando una flessione del 10,3%. La variazione negativa si distingue nettamente dal dato nazionale (+3,8%) e ancor più da quello del Centro-Nord, dove si è osservato un incremento dell’8,1%. Anche rispetto al Mezzogiorno, che nello stesso periodo ha perso il 3,8% della popolazione, la Calabria mostra più criticità.

Il declino demografico calabrese è continuo e privo di fasi di stabilizzazione significative.  A partire dal 2000, l’indice relativo della popolazione scende costantemente, con un’accelerazione tra il 2003 e il 2005 e poi, in misura ancora più marcata, dal 2014 in avanti. Tra il 2014 e il 2023 il calo è di quasi 6 punti percentuali, segno di un processo di spopolamento intenso e strutturale. Nel frattempo, il Centro-Nord raggiunge un picco massimo nel 2017, mentre la Calabria continua a decrescere. A partire dal 2020 anche la popolazione italiana inizia a contrarsi, pur restando ben distante dalla dinamica negativa della Calabria. Nel complesso, la regione si caratterizza per una traiettoria divergente non solo rispetto al Centro-Nord, ma anche rispetto al resto del Mezzogiorno, configurandosi come una delle aree a maggiore contrazione demografica del Paese.

Lo spopolamento ha impatti rilevanti sull’offerta di lavoro, sulla domanda interna e sulla tenuta del sistema territoriale nel medio-lungo periodo. Per esempio, la popolazione in età lavorativa (15–64 anni) nel trentennio 1995–2024 ha sperimentato in Calabria una progressiva riduzione, passando da oltre 1.296.000 persone nel 1995 a circa 1.163.000 nel 2024. Si tratta di una perdita netta di circa 133.000 individui, pari a un calo del 10,3%. A titolo di confronto, la popolazione in età lavorativa si è ridotta del 4,2% in Italia, dell’1,6% nel Centro-Nord e dell’8,8% nel Mezzogiorno. La Calabria, con il suo -10,3%, si conferma come una delle regioni in cui la fragilità della popolazione in età lavorativa si è si è espressa in modo più netto.

Tutto ciò è l’esito di due fattori: da un lato l’invecchiamento della popolazione e il calo delle nascite, dall’altro i saldi migratori negativi, in particolare di giovani e adulti in età da lavoro. Il risultato è una riduzione non solo del numero di potenziali partecipanti al mercato del lavoro, ma anche della qualità della forza lavoro disponibile.

Partecipazione e occupazione: bassa l’aderenza al mercato del lavoro.

Nel 2024, la forza lavoro calabrese ammonta a 601.755 persone, mentre gli inattivi tra i 15 e i 64 anni sono 561.170. Su una popolazione complessiva in età lavorativa di circa 1.163.000 persone, quasi il 48% risulta inattiva. Un valore molto elevato per un’economia avanzata, che riflette una persistente difficoltà di attivazione del capitale umano. La configurazione attuale non rappresenta una novità: nel 1995 la forza lavoro era pari a 656.905 persone e gli inattivi 639.138, con un tasso di inattività del 49,3%. Dopo un parziale miglioramento tra il 1997 e il 2002, le due dinamiche si invertono e, con la crisi del 2008, gli inattivi sono di più della forza lavoro.

Lo stesso problema si può guardare dal lato del tasso di attività. Nel 1995, la Calabria registrava un valore del 50,7%, in linea con il dato medio del Mezzogiorno (50,8%), ma ben al di sotto del Centro-Nord (66,2%). L’indicatore cresce lentamente fino al 2008 (54,6%) per poi stabilizzarsi e tornare su valori simili a quelli di partenza. Nel 2024 è pari al 51,7%, appena un punto percentuale sopra il livello di trent’anni prima, mentre nel Centro-Nord si mantiene stabilmente oltre il 70%.

In altri termini, la Calabria fatica da tre decenni a coinvolgere stabilmente la propria popolazione attiva nel mercato del lavoro. Il dato riflette non solo una più debole partecipazione femminile, ma anche una radicata sfiducia nella possibilità di accesso al mercato del lavoro. La presenza di migliaia di persone in età attiva disimpegnate dalla partecipazione economica rappresenta uno dei principali vincoli allo sviluppo della regione.

Passando dal potenziale alla concreta utilizzazione della forza lavoro, la dinamica dell’occupazione rafforza la lettura “declinista” dell’economia calabrese. Nel trentennio si osserva una contrazione del numero di occupati da 559.000 nel 1995 a 540.000 nel 2024 (-19.000 unità). A differenza di quanto avviene nel resto del Paese, dove gli occupati aumentano (+4,7% in Italia, +10,3% nel Centro-Nord), in Calabria si registra una riduzione, che risulta particolarmente significativa tra il 2008 e il 2014 e nel biennio pandemico 2020–2021. Il picco massimo di occupazione si osserva nel 2008 con oltre 595.000 occupati. Il minimo è 510.000 unità riferito al 2014. Dopo una parziale ripresa, la crisi pandemica del 2020 determina un nuovo arretramento. Solo nel biennio 2022–2023 si osserva una certa stabilizzazione, ma i livelli restano inferiori a quelli di inizio periodo.

La dinamica calabrese si distingue da quella nazionale anche per una minore capacità di creare nuova occupazione in fase espansiva e per una maggiore vulnerabilità nei momenti di crisi. Questa evoluzione occupazionale, unitamente alla stagnazione della partecipazione, offre un quadro di persistente debolezza del mercato del lavoro calabrese. Più in generale, la traiettoria dell’occupazione in Calabria suggerisce una debolezza strutturale del sistema economico regionale, incapace di assorbire in modo stabile e crescente la forza lavoro disponibile. Il confronto con le altre aree del Paese evidenzia un ulteriore elemento di fragilità: la distanza tra la Calabria e il Centro-Nord in termini di tasso di occupazione è passata da 21 punti percentuali nel 1995 a 23 nel 2024, confermando l’assenza di processi di convergenza. In trent’anni, la Calabria ha sperimentato una delle peggiori performance occupazionali d’Italia, con effetti evidenti sulla coesione sociale e sulla capacità di attivare dinamiche di sviluppo.

Disoccupazione: livelli elevati e miglioramenti solo apparenti

Nel trentennio 1995–2024, la disoccupazione in Calabria si è attestata su livelli persistentemente elevati, rappresentando uno degli aspetti più problematici del mercato del lavoro regionale. Calcolato come rapporto tra disoccupati e forza lavoro, il tasso di disoccupazione segue tre fasi distinte.

La prima fase (1995–2007) è caratterizzata da un picco iniziale del 22,2% nel 1999, seguito da una graduale discesa fino al 10,8% nel 2007. Questo calo riflette un lento miglioramento della domanda di lavoro, ma anche un progressivo scoraggiamento che riduce la dimensione della forza lavoro. Nella seconda fase (2008–2014), coincidente con la crisi economico-finanziaria globale e la recessione europea, la disoccupazione cresce rapidamente: dal 12,1% nel 2008 si arriva al 24,2% nel 2014, valore massimo della serie. Un dato che evidenzia la drastica perdita di occupati e l’incapacità del sistema produttivo di assorbire l’eccesso di offerta di lavoro. La terza fase (2015–2024) mostra un miglioramento apparente: il tasso scende progressivamente dal 23,2% al 13,3%. Tuttavia, questa riduzione è in larga parte attribuibile al ritiro dal mercato del lavoro di molte persone occupabili. Tra il 2014 e il 2024, gli occupati aumentano di appena 11.000 unità, mentre la forza lavoro si riduce di oltre 40.000. Una parte dei disoccupati ha dunque smesso di cercare lavoro, determinando una flessione del tasso di disoccupazione non accompagnata da una vera ripresa occupazionale.

In valore assoluto, i disoccupati erano poco meno di 100.000 nel 1995, superano i 135.000 nel 2014 e scendono a circa 80.000 nel 2024. Anche qui, il minor numero di disoccupati non riflette un’espansione occupazionale robusta, ma piuttosto una contrazione della partecipazione economica.

Il confronto con il resto del Paese conferma l’anomalia calabrese. Nel 1995, il tasso di disoccupazione in Calabria era al 15%, contro l’11% dell’Italia e l’8% del Centro-Nord. Nel 2014, la Calabria raggiunge il 24,2%, mentre l’Italia si ferma al 13% e il Centro-Nord al 10%. Nel 2024, il tasso calabrese è ancora al 13,3%, a fronte dell’8% nazionale, del 4% nel Centro-Nord e del 12% nel Mezzogiorno. Il divario con il Centro-Nord è oggi di quasi 10 punti percentuali.

Si ha, quindi, qualche conferma che la riduzione della disoccupazione, quando si manifesta, non segnala un miglioramento strutturale, ma riflette fenomeni di scoraggiamento e fuoriuscita dal mercato del lavoro, che impoveriscono ulteriormente il tessuto produttivo e limitano le prospettive di sviluppo regionale.

Valore aggiunto aggregato: una crescita discontinua e debole

Espresso a prezzi costanti 2015, il valore aggiunto della Calabria passa da 28,6 miliardi di euro nel 1995 a 29 miliardi nel 2023, con un incremento cumulato del +1,7%. Si tratta di una crescita molto contenuta, soprattutto se confrontata con l’aumento osservato a livello nazionale (+21%), nel Mezzogiorno (+8,7%) e, in misura ancora più marcata, nel Centro-Nord (+25%). Questo divario evidenzia la bassa capacità del sistema produttivo regionale di generare espansione economica nel lungo periodo, anche in un contesto di stabilità macroeconomica.

L’evoluzione temporale consente di distinguere diverse fasi. Tra il 1995 e il 2007, la Calabria registra una crescita in linea con le altre macroaree: nel 2007 l’indice supera quota 115, poco al di sotto della media nazionale. Tuttavia, la crisi del 2008–2009 rappresenta un primo punto di discontinuità. Mentre il Centro-Nord recupera rapidamente (superando quota 120 già nel 2010), la Calabria entra in una fase di stagnazione e poi di declino. Un secondo momento di frattura si osserva a partire dal 2012: mentre l’Italia e il Centro-Nord riprendono gradualmente a crescere, la Calabria e l’intero Mezzogiorno seguono una traiettoria divergente. Il valore aggiunto della Calabria si contrae quasi ininterrottamente fino al 2020, anno della pandemia, in cui tocca il minimo relativo (indice intorno a 87). In nessun’altra area del Paese si osserva una caduta così profonda. La ripresa successiva, pur visibile, è più contenuta: nel 2023 l’indice calabrese è ancora al di sotto del livello del 2007 e poco al di sopra del valore del 1995.

I dati del valore aggiunto aggregato segnalano la fragilità della struttura produttiva regionale, incapace di resistere agli shock esogeni e poco reattiva nelle fasi di espansione. In questo contesto, la distanza accumulata rispetto al Centro-Nord e al dato nazionale assume una valenza strutturale, non più solo congiunturale.

La produttività del lavoro: una crescita senza convergenza

Ulteriori importanti elementi di valutazione sono forniti dalla produttività del lavoro, espressa come valore aggiunto per occupato a prezzi costanti 2015. Questo indicatore mostra che l’Italia è un paese a bassa crescita e che i divari territoriali di sviluppo rimangono ampi, senza alcun significativo segnale di convergenza.

Nel 2023, la produttività del lavoro in Calabria è pari a 55.882 euro, nettamente inferiore a quella del Centro-Nord (75.071 euro), del dato nazionale (70.786 euro) e del Mezzogiorno (58.854 euro). Il divario con il Centro-Nord rimane ampio: nel 1995 la produttività calabrese era il 73,2% di quella settentrionale; nel 2023 è al 74,4%. Questo andamento conferma nuovamente che, in trent’anni, nessuna vera convergenza si è realizzata.

Anche il tasso medio annuo di crescita della produttività conferma la stagnazione: in Calabria è pari a +0,31%, poco sopra il dato nazionale (+0,26%) e superiore a quello del Centro-Nord (+0,25%) e del Mezzogiorno (+0,22%). Tuttavia, si tratta di un incremento debole, privo di un rafforzamento strutturale: la Calabria parte da livelli molto più bassi e non riesce a ridurre significativamente i divari.

Le traiettorie temporali confermano questa lettura. Tra il 2015 e il 2020 la produttività del lavoro in Calabria si contrae da un massimo di 58.493 euro a un minimo di 52.743 euro, con un calo di circa il 10% in cinque anni. Questo arretramento precede l’impatto pandemico, che nel 2020 ha ulteriormente aggravato la situazione. Solo dal 2021 si osserva una parziale ripresa, ma i livelli del 2023 restano inferiori a quelli del 2015. L’analisi comparata evidenzia come le fluttuazioni calabresi riflettano una struttura economica esposta a shock esterni, con bassa capacità di adattamento e scarsa resilienza. È anche utile osservare che le dinamiche della produttività sono spesso l’esito di una contrazione dell’input lavoro piuttosto che di un’espansione reale dell’output. In più fasi – come tra il 2008 e il 2014 e tra il 2016 e il 2019 – la produttività appare sostenuta da una riduzione degli occupati, non da un rafforzamento del valore aggiunto aggregato. Nel confronto con il Centro-Nord, emerge con estrema chiarezza questa differenza: in Calabria la produttività cresce, quando cresce, “per sottrazione”, ossia in presenza di un calo dell’occupazione; al contrario, nel Centro-Nord la crescita è più stabile e coerente con una dinamica di lungo periodo sostenuta da investimenti, innovazione e capacità di adattamento. In sintesi, in Calabria la produttività rimane fragile, discontinua e incapace di contribuire a una crescita duratura.

Le cause strutturali del declino: una specializzazione poco orientata alla crescita

L’analisi della struttura economica regionale evidenzia una specializzazione settoriale che non favorisce la crescita. In Calabria, dominano ancora comparti a bassa produttività come i servizi tradizionali, la pubblica amministrazione e l’agricoltura, mentre risultano sottodimensionati i settori più dinamici, come la manifattura in senso stretto e i servizi ad alta intensità di conoscenza. Nel 2022, l’industria manifatturiera rappresenta solo il 3,8% del valore aggiunto regionale, una quota significativamente inferiore rispetto a quella del Centro-Nord, dove i valori sono più che tripli. Questo comparto ha subito una marcata contrazione: per esempio tra il 2010 e il 2021, il numero di imprese manifatturiere si è ridotto di circa 1.400 unità, mentre gli investimenti si sono contratti del 41%. La marginalità della manifattura compromette la capacità della regione di partecipare alla produzione di beni a domanda globale e ai processi di innovazione industriale. A ciò si aggiunge il peso relativamente elevato dell’agricoltura, che in Calabria rappresenta il 4,4% del valore aggiunto, contro una media nazionale molto più bassa. Anche il settore pubblico incide in modo rilevante: amministrazione pubblica, difesa e istruzione generano il 21,7% del valore aggiunto, a fronte del 14,9% nel Centro-Nord. Analogamente, il terziario tradizionale (commercio, alloggio, ristorazione, trasporti e servizi alla persona) incide per il 32,4%, rispetto al 25,6% del Centro-Nord.

Questa configurazione settoriale penalizza la capacità di crescita: le attività più presenti in Calabria sono, per struttura e dinamica, meno esposte alla concorrenza e meno connesse con le catene globali del valore. La scarsa presenza della manifattura – il comparto che più di altri contribuisce all’innovazione e all’export – è un limite storico e strategico. Le imprese industriali, quando presenti, sono di piccola dimensione, scarsamente capitalizzate e poco orientate ai mercati esterni. Nel complesso, la specializzazione produttiva della Calabria non si è tradotta in vantaggi competitivi né in dinamiche espansive. Al contrario, ha reso il sistema economico più vulnerabile alle crisi e meno reattivo nelle fasi di ripresa. Il risultato è un equilibrio di lungo periodo caratterizzato da bassa produttività, crescita modesta e debole domanda interna, alimentando una spirale negativa difficile da invertire.

Alcune conclusioni

L’analisi dell’evoluzione macroeconomica della Calabria negli ultimi trent’anni restituisce l’immagine di una regione che ha faticato a mantenere il passo con il resto del Paese. Il calo demografico, la stagnazione dell’occupazione e la debolezza della partecipazione al mercato del lavoro si combinano con una crescita del valore aggiunto modesta e una produttività del lavoro instabile, spesso sostenuta da dinamiche legate al ridimensionamento della base occupazionale più che da trasformazioni strutturali.

Il divario rispetto al Centro-Nord non si è ridotto, anzi in alcune dimensioni si è ampliato. L’assenza di processi di convergenza dipende in misura prevalente da una composizione strutturale in cui il settore manifatturiero in senso stretto contribuisce con una quota irrisoria alla creazione del valore aggiunto aggregato, mentre dominano i settori a bassa produttività (agricoltura, servizi maturi, pubblica amministrazione): si tratta di un modello di specializzazione che, evidentemente, non ha saputo assorbire adeguatamente la forza lavoro disponibile, non è stato in grado di adottare o produrre innovazione e, quindi, non ha generato crescita sostenibile.

L’analisi degli ultimi 30 anni suggerisce che la debolezza del sistema economico calabrese ha radici profonde e richiede interventi mirati non solo sul lato delle politiche pubbliche, ma anche su quello dell’organizzazione produttiva e di scelte industriali selettive. In un contesto di persistente fragilità demografica e occupazionale, l’attrazione di investimenti extraregionali e la valorizzazione del capitale umano appaiono condizioni necessarie per favorire un cambiamento strutturale dell’economia calabrese. Per interrompere la spirale regressiva che ha segnato la storia della regione, sarà indispensabile puntare sulla produzione di beni a domanda globale e ad alto contenuto tecnologico e su servizi ad elevata professionalizzazione. In assenza di questa “rivoluzione” del modello di sviluppo dell’economia calabrese, tra trent’anni ci ritroveremo a commentare i dati macroeconomici di una regione ancora più piccola, più povera e più assistita. (fa)

[Courtesy il Quotidiano del Sud  – L’Altra Voce]

IN CALABRIA AUMENTANO VOLI E TURISTI
MA SI RIDUCE L’OCCUPAZIONE GIOVANILE

di BRUNO MIRANTE – È un economia regionale che cresce debolmente quella descritta dal rapporto annuale di Bankitalia presentato nella filiale regionale di Catanzaro. Tra i vari dati contenuti nel rapporto anche le analisi sul comparto turistico e sulla tenuta del sistema aeroportuale. «In base ai dati provvisori dell’Osservatorio sul turismo della Regione Calabria, nel 2024 le presenze turistiche sono aumentate di circa il 3 per cento – si legge nel rapporto – in misura inferiore rispetto all’anno precedente. I maggiori flussi hanno interessato in particolare la componente straniera, cresciuta di oltre il 10 per cento. Le presenze rimangono, tuttavia, ancora inferiori ai livelli prepandemici. L’unica provincia ad aver recuperato quasi del tutto i valori del 2019 è quella di Vibo Valentia, dove si concentra quasi un terzo dei flussi regionali (oltre la metà di quelli dall’estero)».

«I passeggeri transitati dagli aeroporti regionali – aggiungono da Bankitalia – sono cresciuti del 7,5 per cento, superando per la prima volta i livelli pre-pandemici; l’espansione ha riguardato soprattutto i transiti internazionali, aumentati di un quarto. Vi ha influito l’incremento del numero di voli, che è stato favorito anche dagli interventi regionali a sostegno del settore. Alla crescita degli scali di Crotone e Reggio Calabria, tuttavia, si è contrapposto il calo di Lamezia Terme, sia in termini di numero di viaggiatori che di movimenti aerei (rispettivamente -4,4 e -4,7 per cento). Nei primi quattro mesi dell’anno è proseguita la crescita dei passeggeri, aumentati di circa un terzo rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente (di oltre il doppio quelli internazionali)».

Il mercato del lavoro e le famiglie

«Nel 2024 il lavoro autonomo è diminuito mentre quello alle dipendenze ha continuato ad aumentare, ancora sospinto dalle posizioni a tempo indeterminato. L’occupazione giovanile, strutturalmente bassa, si è ridotta rispetto al 2023. Dopo l’aumento registrato nell’anno precedente, anche la partecipazione al mercato del lavoro è diminuita, con una popolazione di inattivi caratterizzata – più che nel resto del Paese – da un basso livello di istruzione e da un’età mediamente elevata. Il reddito nominale delle famiglie calabresi è cresciuto, beneficiando dell’aumento delle retribuzioni nominali e del miglioramento dei livelli occupazionali. È tornato a crescere anche in termini reali, favorito dal rallentamento dei prezzi. La perdita di potere d’acquisto accumulata nel biennio 2022-23 non risulterebbe però ancora del tutto recuperata. Nonostante l’aumento del reddito disponibile, la dinamica della spesa per beni e servizi è rimasta debole, ancora sostenuta da un ampio ricorso al credito al consumo. Dopo il deciso calo del 2023, la domanda di mutui per l’acquisto di abitazioni è aumentata, favorita anche dalla riduzione dei tassi di interesse».

Le imprese

«Nel terziario – si legge ancora nel rapporto – la crescita è proseguita in misura meno intensa rispetto all’anno precedente. Anche nelle costruzioni l’espansione ha perso intensità, a causa del ridimensionamento delle agevolazioni fiscali connesse con gli interventi di ristrutturazione edilizia; l’attività del settore ha tratto ancora beneficio dalla prosecuzione dei lavori relativi alle opere pubbliche.

La produzione nell’industria regionale si è stabilizzata, dopo il calo del biennio precedente. In presenza di un favorevole quadro di misure di sostegno pubblico, sia nazionale che locale, l’attività di investimento è rimasta stabile nell’industria, mentre è aumentata nei servizi; rimane molto contenuta la spesa in ricerca e sviluppo e quella rivolta all’utilizzo delle tecnologie avanzate e dell’intelligenza artificiale. Il rallentamento congiunturale ha inciso sulla redditività aziendale, che aveva registrato una crescita nell’anno precedente. La liquidità è rimasta elevata nel confronto storico, con una netta prevalenza dei depositi in conto corrente rispetto alle altre forme di impiego. In un contesto di tassi di interesse in calo, la dinamica dei prestiti è stata debole, in particolare per le imprese piccole, per effetto di una domanda ancora contenuta e di politiche di offerta improntate alla prudenza».

Innovazione: l’esempio del polo informatico di Cosenza

Al rallentamento dell’economia regionale, secondo Bankitalia, ha contribuito soprattutto il calo demografico che ha prevalso sugli effetti positivi derivanti dall’aumento della produttività del lavoro. Sui divari continuano a pesare le criticità del contesto istituzionale, che però ha mostrato segnali di miglioramento, anche grazie ai recenti progressi nel processo di digitalizzazione delle amministrazioni locali. «In presenza di un tasso di innovazione del tessuto produttivo ancora contenuto, risulta fondamentale il contributo del sistema universitario nel trasferimento delle conoscenze scientifiche. In particolare, il polo informatico di Cosenza, che negli ultimi anni ha registrato un rilevante sviluppo, può consentire di cogliere le opportunità derivanti dall’intelligenza artificiale». (bm)

[Courtesy LaCNews24]

L’AGRIFOOD RAPPRESENTA UN SETTORE
VITALE PER L’ECONOMIA DELLA CALABRIA

di BRUNO MIRANTENegli ultimi anni, il settore farmaceutico ha assunto un ruolo sempre più rilevante nell’economia del Sud Italia. Questa tendenza è confermata dai dati sull’export: le prime 4 regioni italiane per crescita dell’export farmaceutico tra il 2019 e il 2024 sono tutte meridionali. In testa il Molise, con un incremento pari a +1315,5%, seguito da Calabria (+989,8%), Abruzzo (+446,5%) e Campania (+385,8%).

Sono questi alcuni di dati contenuti nel Libro Bianco presentato nel corso della quarta edizione del Forum “Verso Sud: La strategia europea per una nuova stagione geopolitica, economica e socio-culturale del Mediterraneo”, organizzato nei giorni scorsi da The European House – Ambrosetti (TEHA) a Sorrento. L›export farmaceutico del Sud Italia – si legge nel report – rappresenta attualmente il 16,1% del totale dell’export manifatturiero meridionale, con un aumento di 9,5 punti percentuali rispetto al 2019 (quando era pari al 6,6%). In termini di incidenza sul totale nazionale, l’export farmaceutico del Sud Italia vale oggi il 19,5% del totale italiano, con un incremento di +9,8 punti percentuali negli ultimi 5 anni.

Sebbene in valori assoluti le quote maggiori restino attribuite al Centro (51,9%) e al Nord (28,6%), il Sud registra la crescita più sostenuta a livello nazionale: +221,3% tra il 2019 e il 2024, contro il+47,1% del Centro e il +34,3% del Nord. All’interno del Sud, la Campania si afferma come Regione leader, con un export farmaceutico pari a 5.458,1 milioni di Euro nel 2024, seguito da Abruzzo (1.163,4 milioni di euro) e Puglia (595,7 milioni di euro) mentre l’incidenza del settore in Calabria in rapporto al totale del manifatturiero è di 6,3 milioni di euro.

Agrifood, un settore in crescita

Altro settore crescita è quello Agrifood. Nel 2022, le Regioni meridionali hanno generato il 31,0% del Valore Aggiunto complessivo della filiera agroalimentare nazionale. In particolare, Campania (5,2 miliardi di Euro), Sicilia (5,0 miliardi di euro) e Puglia (4,0 miliardi di euro) guidano la classifica delle Regioni meridionali per Valore Aggiunto. Questi dati posizionano le 3 Regioni tra le prime 8 in Italia. Accanto a queste realtà consolidate, si registrano trend di crescita molto significativi anche in territori più piccoli ma dinamici: la Basilicata ha fatto segnare un incremento del +14,8% rispetto al 2021, seguita dal Molise con +6,2% e dalla Calabria con +6,7%.

Tali dati – si legge nel report – indicano una diffusione territoriale sempre più ampia della crescita agrifood nel Sud Italia, non più concentrata solo in pochi poli d’eccellenza ma estesa a una rete di Regioni in grado di attivare valore e occupazione. A conferma della centralità del Mezzogiorno nella filiera agroalimentare nazionale, il Sud Italia concentra il 44,5% degli occupati del settore, con Puglia (157 mila) e Sicilia (151 mila) ai primi 2 posti per numero di addetti, superando anche Regioni storicamente forti come Lombardia ed Emilia-Romagna. La Campania, con 115 mila occupati, si posiziona anch’essa tra le prime 6 Regioni italiane. Mentre gli addetti di settore impiegati in Calabria sono 84mila. (bm)

[CourtesyLaCNews24]

L’OPINIONE / Davide Tavernise: Altro che boom occupazionale: i giovani fuggono, il lavoro è nero e precario

di DAVIDE TAVERNISE – Nei giorni scorsi, il presidente della Regione Calabria, Roberto Occhiuto, ha celebrato sui suoi canali social un presunto “sprint” dell’occupazione: 45.930 assunzioni previste tra maggio e luglio 2025 secondo il Bollettino Excelsior. Insieme a lui anche l’assessore regionale al Lavoro, Calabrese, prendeva parte ai festeggiamenti. Peccato che dietro questi numeri si nasconda una realtà ben diversa, fatta di precarietà, sfruttamento e desertificazione imprenditoriale giovanile.

I dati reali – quelli che emergono da Confesercenti e dalle camere di commercio – raccontano un’altra storia: in Calabria, negli ultimi cinque anni, le imprese giovanili “under 35” sono crollate del 38%. Non solo: dal 2019 al 2024 sono scomparse oltre 35.600 attività guidate da giovani nei settori del commercio, della ristorazione e dell’accoglienza. Una flessione del -22,9%, quattro volte superiore a quella delle imprese over 35. Un dato devastante che smentisce ogni trionfalismo.

L’Italia non è più un Paese per giovani imprenditori? In Calabria la risposta è chiara: solo 1 impresa su 10 è oggi guidata da giovani, contro il 12% di appena cinque anni fa. L’età media di chi ancora resiste alla guida di un’attività supera ormai i 51 anni. Un quadro che conferma il fallimento delle politiche regionali per l’autoimpiego e l’imprenditoria giovanile.

Ma non basta. Lo stesso Bollettino Excelsior citato da Occhiuto certifica che il 40% del lavoro nel turismo in Calabria è sommerso. Lo denuncia il segretario regionale della Filcams Cgil, Giuseppe Valentino: mancano i camerieri, ma non per carenza di domanda, bensì per salari da fame, contratti truccati e precarietà cronica.

A fronte di questa emergenza sociale, i bandi regionali Dunamis e Kaire sono poco più che operazioni di facciata. Kaire stanzia appena 7 milioni di euro per il turismo, mentre Dunamis interviene solo per contratti a tempo indeterminato, quindi non interessa il lavoro stagionale da giugno a settembre che continua a manifestarsi in un contesto di assoluta sofferenza economica.

Il Movimento 5 Stelle propone una misura strutturale e di civiltà: il salario minimo legale a 9 euro l’ora. Una riforma necessaria per restituire dignità al lavoro e frenare l’emorragia di giovani e competenze che sta svuotando il Sud.

Occhiuto porti avanti questa battaglia, invece di continuare a snocciolare numeri propagandistici sui social. Il lavoro non si misura con le assunzioni stagionali, ma con la qualità della vita delle persone. I calabresi hanno bisogno di contratti veri, stipendi giusti e una prospettiva. Non di like su Facebook. (dt)

[Davide Tavernise è consigliere regionale del M5S]

IN CALABRIA IL LAVORO NON MANCA, MA C’È
MOLTA FATICA A TROVARE LE COMPETENZE

di ANTONIETTA MARIA STRATI – «In Calabria il lavoro non manca, ma mancano le competenze». Così Roberto Matragrano, presidente di Confartigianato Calabria, commenta i dati dell’Osservatorio Mpi  (Micro e Piccole Imprese) che fotografano la realtà occupazionale calabrese: un settore che tiene e crea lavoro, ma che fatica sempre più a trovare le competenze necessarie per affrontare le sfide della doppia transizione digitale ed ecologica.

In Calabria, gli occupati dell’artigianato sono 53.301, equamente distribuiti tra lavoratori dipendenti (26.646) e indipendenti (26.655). Gli artigiani rappresentano quasi un quinto (18,7%) dell’intera forza lavoro regionale e contribuiscono al 6,4% del valore aggiunto della Calabria e all’1,8% di quello nazionale: un comparto vitale per l’economia del territorio.

Il 2024 si apre con un timido ma significativo +0,4% nell’occupazione regionale (+2.000 unità), trainato esclusivamente dai lavoratori dipendenti (+8.000), mentre gli indipendenti segnano un calo (-7.000). Il dato si inserisce in un trend triennale (2021-2024) che, nonostante i forti contraccolpi globali – dalla guerra in Ucraina allo shock energetico, fino alla crisi in Medio Oriente – ha visto un aumento dell’occupazione del 3,9% (+20.000 unità), contribuendo alla crescita del Mezzogiorno (+8%).

Il tessuto delle micro e piccole imprese si conferma uno dei principali canali d’accesso al lavoro per i giovani calabresi. Nelle imprese fino a 49 addetti (tra cui rientra l’intero comparto artigiano), la quota di dipendenti under 30 è del 20,1%, contro il 10% delle medie e grandi imprese. Nelle micro imprese con meno di 9 dipendenti la percentuale sale addirittura al 22,9%.

La crescita dell’occupazione si associa ad un rilevante e crescente mismatch tra domanda ed offerta di lavoro, soprattutto se qualificato. Da una analisi dei dati annuali dal Sistema informativo Excelsior di Unioncamere e Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali (2025), nel 2024 nell’artigianato la difficoltà di reperimento arriva al 52,9%, quota superiore di 7,7 punti percentuali alla media delle imprese del 45,2% e in aumento 6 punti percentuali rispetto al 46,9% del 2023. Mentre la difficoltà di reperimento delle micro e piccole imprese si attesta al 47,8% (2,6 punti in più rispetto alla media).

I 10 profili più difficili da trovare per le MPI calabresi- I 10 profili più ricercati (con oltre 200 entrate programmate nel 2024) e più difficili da reperire per le micro -piccole imprese con 1-49 dipendenti tra Professioni tecniche, Impiegati, Professioni qualificate nelle attività commerciali e nei servizi, Operai specializzati e Conduttori impianti, operai di macchinari fissi e mobili, conducenti di veicoli, sono: Tecnici programmatori (75,0%), Montatori di carpenteria metallica (72,9%), Disegnatori industriali (71,4%), Falegnami ed attrezzisti di macchine per la lavorazione del legno (71,1%), Idraulici e posatori di tubazioni idrauliche e di gas (69,0%), Pasticcieri, gelatai e conservieri artigianali (65,6%), Elettricisti nelle costruzioni civili (64,2%), Carpentieri e falegnami nell’edilizia (esclusi i parchettisti) (64,2%), Panettieri e pastai artigianali (63,9%) e Autisti taxi, conduttori automobili, furgoni, altri veicoli trasporto persone (63,9%).

La rivoluzione digitale e la transizione green pongono sfide ancora più complesse. Nel 2024, le MPI calabresi prevedono 13.000 ingressi con richieste di competenze digitali avanzate (cloud computing, big data, intelligenza artificiale, blockchain, IoT), ma quasi la metà di questi profili (47,7%) è difficilmente reperibile. Ancora più critica la situazione nel comparto artigiano, dove il tasso di difficoltà sale al 50,8%.

Sul fronte ambientale, sono 49.000 i lavoratori richiesti dalle MPI con competenze green, ma per oltre 26.000 di queste posizioni (52,6%) non si riesce a trovare personale adeguato. Nell’artigianato, delle 7.100 figure attese con competenze ecologiche, il 56,8% è considerato di difficile reperimento.

Alla luce di questi dati, per Matragrano «se vogliamo rendere le nostre imprese protagoniste della nuova economia, servono investimenti massicci e strutturati nella formazione tecnica e professionale. È fondamentale rafforzare il legame tra scuola, università, enti di formazione e imprese per colmare il divario tra domanda e offerta».

1° MAGGIO, MA NON TUTTI FESTEGGIANO
IL LAVORO NON C’È, I GIOVANI SONO TRADITI

di PINO APRILE – Buon Primo Maggio, Sud. Buon Primo Maggio ai nostri ragazzi costretti a emigrare come i loro padre e i nonni, dopo aver studiato, conquistato livelli di sapere e saper fare che avrebbero dovuto metterli al riparo da quella sorte e invece, paradossalmente, sono diventati una ragione in più per andare via.

Questo non era mai accaduto, al Sud, in tutta la storia dell’umanità, da Neanderthal a Garibaldi e i Savoia. L’emigrazione, prima di allora settentrionale e soprattutto piemontese e veneta, passò al Sud, nella direzione inversa delle risorse meridionali che andavano a finanziare lavoro e infrastrutture in casa dei vincitori della guerra civile.

E non Buon Primo Maggio agli ascari che, nelle università, nei libri di scuola, nei giornali, nelle istituzioni, nei partiti, non spiegano perché i terroni sono costretti a emigrare da quando vennero imprigionati nell’Italia unificata (che andava fatta, non così), come una colonia interna, senza diritto a quanto, a loro spese, era garantito agli altri.

Buon Primo Maggio a quelli che hanno deciso di restare al Sud, nonostante sia più difficile fare le cose facilitate altrove, pure con i soldi rubati al Mezzogiorno dallo Stato e dall’economia razzista del Nord, d’intesa con governi succubi e parlamentari e classe dirigente complice meridionale. Pur senza i trasporti pubblici del Nord (strade, treni, aerei, porti iper-finanziati persino a perdere), fanno lo stesso e spesso anche più e meglio, questi meraviglioso “rimanenti”.

E son sempre di più, perché non vogliono rinunciare al bello e ai sentimenti di casa, del paese, della radice che li rende come sono. Sono quel movimento sociale ed economico che l’etnografo Vito Teti ha definito “Restanza”, una nuova branca dell’antropologia.

E non Buon Primo Maggio a quei meschini che, dalle istituzioni al crimine organizzato, all’invidia per quel che questi eroi civili riescono a realizzare, mettono loro i bastoni fra le ruote, mirano a strappare parte dei meriti e degli utili così miracolosamente prodotti.

Buon Primo Maggio a quelli che, andati via, tornano per nostalgia, per calcolo intelligente (visto cosa c’è “fuori”, scoprono quanto si può “a casa”). E fanno. Non sono un grande flusso, ma sono un fenomeno che non c’era e cresce, mentre diminuisce l’età di quelli che rientrano. Una volta erano professionisti a fine carriera, pensionati che ridavano vita alla casa ormai vuota dei genitori. Oggi sono giovani determinati, che hanno visto mondo e questo ha ridato valore al loro paese, da cui alcuni, magari, erano fuggiti maledicendolo, per le possibilità negate. Adesso, sono loro a dare al paese quelle possibilità.

E non Buon Primo Maggio a chi, alla guida della “Nazione” (ma mi faccia il piacere!, direbbe Totò), vede i dati della disoccupazione al Sud che sono i peggiori d’Europa; della povertà, che è la più profonda e diffusa d’Europa, con le regioni meridionali tutte prime nella classifica di chi sta peggio; vede i dati dello spopolamento massiccio delle città e dei borghi del Sud, anche perché non ci sono le strade, chiudono gli ospedali, le scuole e, “per rimediare”, toglie il reddito di cittadinanza, non incentiva la formazione delle famiglie, non combatte il crollo delle nascite, addirittura finanzia, pure con i soldi dei meridionali, l’emigrazione dei nostri giovani, garantendo loro facilitazioni per l’affitto di casa, sconti e altro, ma al Nord.

Buon Primo Maggio ai tarantini che si sono ribellati alla complicità dei sindacati con i padroni delle acciaierie (tacquero persino sulla Palazzina Laf, dove i “disturbatori” venivano isolati, indotti alla malattia mentale e qualcuno al suicidio). Buon Primo Maggio alla memoria a Massimo Battista, il saggio e coraggioso operaio che non lo accettò, protestò, divulgò, seppe raccogliere intorno a sé altri lavoratori “liberi e pensanti” che non vendettero la dignità e i diritti conquistati con le lotte di tanti prima di loro, a prezzi altissimi.

E Buon Primo a Michele Riondino, che su “La Palazzina Laf” ha fatto un grande film che ci ha reso giustizia; e che con Antonio Diodato e Roy Paci anche quest’anno organizza il Primo Maggio di Taranto, dedicando il concerto a Massimo Battista, ora morto di cancro (Taranto è “terra sacrificale”, nelle mappe dell’Onu). Ricordo quando nacque il Primo Maggio della mia città: ero con Massimo e gli altri, accompagnato dal collega Gianluca Coviello, li intervistavo per scrivere “Il Sud puzza”, in cui li racconto.

E non Buon Primo Maggio ai sindacalisti che si vendettero la storia del sindacato, le vite e i diritti dei loro compagni di lavoro; i politici che sapevano della “Palazzina Laf” e non mossero un dito; i giornalisti, gli amministratori, i sindacalisti che erano a libro paga dell’acciaieria o ponevano la vita degli altri al disotto dei loro vantaggi personali o di fazione o “per quieto vivere” (non dei sacrificati, ovvio).

Trovo inutile continuare, perché penso che ci siamo capiti.

Io credevo di sapere cosa fosse il Primo Maggio, giovane presuntuosello perché giornalista di vent’anni (modestamente, capisciammè). E invece, me lo spiegò un fattorino precario, occasionale e semianalfabeta della Gazzetta del Mezzogiorno, in cui lavoravo (ero stato trasferito da Taranto a Bari). Era cresciuto senza famiglia, orfano, e appena fisicamente in grado, se ne fece una, sfornando figli e campandoli di mille lavoretti, elemosina e tanta Divina Provvidenza. Lo chiamavano, per questo, Gesù. Molto anziano. Io i giorni in cui i giornali chiudono, vedi il Primo Maggio, lavoravo sempre, perché pagavano tre volte tanto e avevo molte cambiali da pagare (mobili, macchina…).

E Gesù venne al giornale anche il Primo Maggio, passava per un saluto, un caffè, una mancia. Era un narratore straordinario, intelligente e arguto.

«Gesù, ma sotto il fascismo?»

«Il Primo Maggio lo festeggiavamo lo stesso. Non potevi in piazza, il comizio… Così, andavamo a Torre a Mare (un borghetto marino alle porte di Bari) e mangiavano le sardine fritte tutti insieme. Se non avevamo i soldi (cioè quasi sempre…), ce li facevamo prestare, ma il Primo Maggio doveva essere festa. Quelli del fascio, vedendo questa gente tutta insieme a far festa, venivano a chiedere: “Beh, come si sta con il Duce?”. “Non ci possiamo lamentare”, rispondevamo noi: infatti, se ti lamentavi, la pagavi cara. “E che state festeggiando: il Primo Maggio dei lavoratori?”. “No”, dicevo e loro restavano disorientati, perché la frase non coincideva con quella “proibita”, “festeggiamo quelli che vivono del lavoro”. Non sapevano che fare e andavano via, con una mezza minaccia e mezza raccomandazione: “Non fate casini, se no…”. Manganello».

«Gesù, ma se t’avessero preso, con tutti quei figli… rischiavi!»

«Sì, lo sapevamo. Ma noi volevamo essere liberi».

E io che credevo di sapere, perché scrivevo, leggevo tanti libri e a vent’anni ero giornalista.

Grazie, Gesù. E Buon Primo Maggio, ma non a tutti, solo a chi vuol essere libero, ma soprattutto vuole che anche gli altri lo siano. E la prima libertà è quella dal bisogno. (pa)

NON SI FERMA L’ESODO DEI GIOVANI DALLA
CALABRIA: CERCANO LAVORO ALL’ESTERO

di BRUNO MIRANTE – La valigia di cartone ha rappresentato un simbolo per tutti quei cittadini che nel secolo scorso hanno deciso di cercare la propria realizzazione umana e professionale lontano dalla propria terra. Poche competenze e tanta voglia di mettersi in gioco per costruire un futuro migliore per sé stessi e per la propria famiglia. Al giorno d’oggi, i giovani hanno ripreso a partire ma a differenza dei loro predecessori, si tratta di profili con un alto grado d’istruzione.

Un’Italia che fatica sempre di più ad essere competitiva – perché terzultima in Europa per percentuale di laureati – li spinge altrove, verso altri Paesi del Continente. Nel 2024 le emigrazioni verso l’estero, con un aumento del 20%, hanno fatto registrare il valore più elevato finora osservato negli anni Duemila: si è passati da 158mila del 2023 a poco meno di 191mila nel 2024. I dati emergono dall’ultimo rapporto Istat sulla popolazione italiana.

Germania, Spagna e Regno Unito le mete preferite

Ma l’aumento delle migrazioni verso l’estero è dovuto esclusivamente all’impennata di espatri di cittadini italiani (156mila, +36,5% rispetto al 2023) che si dirigono prevalentemente in Germania (12,8%), Spagna (12,1%) e Regno Unito (11,9%), mentre circa il 23% delle emigrazioni dei cittadini stranieri è riconducibile al rientro in patria dei cittadini romeni.

Il saldo migratorio con l’estero complessivo – spiega Istat – pari a +244mila unità, è frutto di due dinamiche opposte: da un lato, l’immigrazione straniera, ampiamente positiva (382mila), controbilanciata da un numero di partenze esiguo (35mila); dall’altro, il flusso con l’estero dei cittadini italiani caratterizzato da un numero di espatri (156mila) che non viene rimpiazzato da altrettanti rimpatri (53mila). Il risultato è un guadagno di popolazione di cittadinanza straniera (+347mila) e una perdita di cittadini italiani (-103mila).

Bolzano in testa per le partenze, Taranto la città meno abbandonata

La quota di espatri ogni mille residenti più alta risulta essere nel Nord-est e nelle zone di confine. Tra le prime 40 province per migrazioni figurano due grandi città come Milano e Bologna e solo nove territori del Mezzogiorno: Campobasso, Vibo Valentia, Cosenza, Ragusa, Teramo, Pescara, Chieti, Isernia e Reggio Calabria. Le province del Sud, infatti, si concentrano per lo più nella parte di classifica, dove si trovano i territori che pochi lasciano per andare oltre confine. La città meno abbandonata risulta essere Taranto con 4,4 emigrati ogni mille abitanti pur essendo una delle province italiane con i numeri peggiori in termini di occupazione. Di converso, a riprova che la partenza verso altri paesi non è sempre il risultato di una situazione economica depressa, in cima alla classifica figura Bolzano, una delle città che vantano un’alta qualità della vita nonché il primato nazionale in termini di natalità.

In Calabria le città si ripopolano durante le festività

Nel 2024 gli emigrati all’estero cosentini sono stati 800 in più rispetto all’anno prima e quasi 1200 in più se si prende in considerazione il 2022. L’incidenza pari a 10 emigrati ogni 1000 residenti è speculare al dato di Vibo Valentia, leggermente inferiore a Reggio Calabria. Ma la caratteristica comune delle città calabresi e del Mezzogiorno è il fenomeno che si manifesta a ridosso di festività o ponti lunghi. Le città si ripopolano di giovani assumendo un volto effervescente seppur temporaneo.

Fecondità al minimo storico

La fecondità, nel 2024, è stimata in 1,18 figli per donna, sotto quindi il valore osservato nel 2023 (1,20) e inferiore al precedente minimo storico di 1,19 figli per donna registrato nel 1995. La contrazione della fecondità riguarda in particolar modo il Nord e il Mezzogiorno. Infatti, mentre nel Centro il numero medio di figli per donna si mantiene stabile (pari a 1,12), nel Nord scende a 1,19 (da 1,21 del 2023) e nel Mezzogiorno a 1,20 (da 1,24). Per ciò che concerne la Calabria, il dato si attesta leggermente al di sopra della media nazionale all’1,25%. Mentre l’età media al parto è di 32,4 anni. Il primato della fecondità più elevata continua a essere detenuto dal Trentino-Alto Adige, con un numero medio di figli per donna pari a 1,39 nel 2024, comunque in diminuzione rispetto al 2023 (1,43). Come lo scorso anno seguono Sicilia e Campania. Per la prima, il numero medio di figli per donna scende a 1,27 (contro 1,32 del 2023), mentre in Campania la fecondità passa da 1,29 a 1,26. In queste regioni le madri sono mediamente più giovani: l’età media al parto è pari a 31,7 anni in Sicilia e a 32,3 in Trentino-Alto Adige e Campania.

Nel Mezzogiorno coesistono regioni che registrano la più alta fecondità nel contesto nazionale (Sicilia, Campania e Calabria) e regioni caratterizzate da livelli minimi (Sardegna, Molise e Basilicata). Tra le province, quella in cui si registra il più alto numero medio di figli per donna è la Provincia Autonoma di Bolzano (1,51 contro 1,57 del 2023). Seguono le province calabresi di Crotone (1,36) e Reggio Calabria (1,34) e quelle siciliane di Ragusa, Agrigento (entrambe 1,34) e Catania (1,33). (bm)

[Courtesy LaCNews24]

LA PRECARIETÀ È UN PROBLEMA DIFFUSO IN
CALABRIA: BASTA LAVORATORI “INVISIBILI”

di ANTONIETTA MARIA STRATI – «Chiedete ai vostri figli, ai vostri nipoti, quanti hanno una stabilità lavorativa. C’è una situazione di precariato diffuso. Non è solo la quantità, ma la qualità dell’occupazione». Sono dure le parole di Pierpaolo Bombardieri, segretario nazionale di Uil Calabria, nel corso della Carovana Uil, l’iniziativa del sindacato che ha gremito piazza dei Bruzi a Cosenza.

Una vera e propria ondata azzurra che ha colorato la piazza cosentina per sensibilizzare sul tema dei lavoratori fantasma: «Con questa nostra iniziativa in giro per l’Italia, vogliamo richiamare la politica, l’opinione pubblica e gli imprenditori sulla necessità di affrontare il tema della precarietà, perché occorrono decisioni e scelte che facciano diventare queste ragazze e questi ragazzi delle persone in grado di rivendicare ed esercitare diritti e tutele come chiunque altro», ha spiegato Bombardieri nel corso della manifestazione di Pescara dello scorso 3 aprile, sottolineando come «nonostante  record sbandierati dal governo sull’occupazione, la vita quotidiana ci dimostra tutt’altro: ancora troppi sono i precari e i lavoratori in nero, persone ridotte a fantasmi per la società, perché chi non ha un contratto a tempo indeterminato non può rivolgersi a una banca per un mutuo, non può comprare una macchina, non può acquistare un cellulare, ma soprattutto non può programmare la propria vita».

«Chi ha un lavoro precario è un fantasma – ha tuonato il sindacalista a Cosenza – non lo vede nessuno, soprattutto le banche e chi deve vendergli le case. Allora è necessario fare degli interventi per dare a questi ragazzi e a queste ragazze la possibilità di diventare persone».

«Per l’Istat – ha proseguito – 6 milioni di persone sono povere e 7 si avvicinano alla povertà assoluta. Ed è ovvio che chi guadagna 20-24 mila euro lordi l’anno, anche se ha un lavoro, non è in grado di vivere dignitosamente».

«Il Senato stima una perdita di 50.000 posti di lavoro. Ci dicono “niente panico”, ma provate a dirlo a chi rischia di non pagare il mutuo o la rata dell’auto. Per loro è una catastrofe reale, non una crisi astratta», ha proseguito Bombardieri, per poi parlare del tema dei dazi: «il governo parla solo con le imprese. Ma se le aziende chiudono, chi perde il lavoro sono i lavoratori. Chiediamo che al tavolo siedano anche i sindacati, non solo una parte del Paese».

«Ci sono 400.000 lavoratori e lavoratrici in aziende che producono servizi e beni esportati soprattutto negli Stati Uniti d’America, per quasi 70 miliardi: in particolare il settore meccanico, con 11 miliardi e mezzo, quello della moda, con 5 miliardi e quello agroalimentare, con 7,8 miliardi», aveva spiegato Bombardieri a Napoli, nel corso del convegno organizzato dalla Uil Polizia sul tema della sicurezza.

«Se i dazi – ha precisato il leader della Uil – producono un ridimensionamento delle attività almeno del 10%, rischiamo decine di migliaia di posti di lavoro. È necessario intervenire subito differenziando i mercati: dobbiamo trovare altre zone dove poter esportare. E, poi, bisogna favorire i consumi nel nostro Paese: ecco perché rilanciamo l’idea di detassare gli aumenti contrattuali e di rinnovare i contratti. Serve, infine, che l’Europa dia una risposta chiara e non che a trattare sia ogni singolo Stato, perché questo ci renderebbe più deboli.

«In tale quadro – ha detto Bombardieri – ribadiamo anche che il Patto di stabilità è un errore dal punto di vista economico: finalmente anche la Presidente del consiglio ha assunto questa posizione».

Le soluzioni ci sono, secondo Bombardieri, e ne suggerisce alcune: diversificare i mercati, affidare all’Europa le trattative, aumentare i salati per rilanciare i consumi e sbloccare i contratti scaduti dei metalmeccanici e del pubblico impiego.

«Serve una svolta sul precariato: la Spagna ha limitato i contratti a termine e l’occupazione è cresciuta», ha detto ancora Bombardieri, passando poi sul tema della Questione Meridionale, «scomparsa dai radar».

«Ma senza il Sud, l’Italia non riparte – ha ribadito –. Il Mezzogiorno ha bisogno di infrastrutture, investimenti e attenzione reale. Chi vive lì ha la stessa dignità di chi vive altrove».

«Basta lavoratori invisibili. È il momento di scelte coraggiose per un’Italia più giusta, più inclusiva, più vera», ha concluso Bombardieri.

Mariaelena Senese, segretaria generale Uil Calabria, sa bene qual è la situazione regionale, a livello occupazionale: «il 61% dei giovani calabresi è assunto con contratti atipici o a tempo determinato».

«Noi oggi vogliamo parlare di lavoro stabile», ha detto Senese, sottolineando «la lungimiranza di questa iniziativa dedicata al precariato, che è una piaga che affligge in modo particolare questa regione. C’è un effetto di scoraggiamento evidente».

«Il Governo continua a mentire sull’occupazione, dicendo che la percentuale degli occupati è aumentata e siamo a livelli record. La maggior parte di questi occupati, però, sono precari o a tempo determinato. Di questi, tanti sono giovani: come si può pensare a un futuro se non si ha la certezza del lavoro?», ha chiesto la sindacalista.

Tanti, sul palco della Uil, a riflettere sul tema del lavoro: Emanuele Ronzoni, segretario organizzativo della Uil, la vicesindaca di Cosenza, Maria Locanto, che ha parlato dell’importanza di «parlare di lavoro oggi» e di come «il precariato è la vera piaga del lavoro di oggi. La parola sfruttato e la parola lavoro non possono stare insieme».

«Ogni testimonianza è importante e insieme abbiamo messo in luce le problematiche reali che meritano di essere ascoltate e affrontate. Come sempre porteremo ai tavoli del governo proposte concrete per costruire un futuro più giusto e equo per tutti», dice il sindacato in una nota.

La due giorni della carovana della Uil è stata, dunque, un’occasione di confronto e crescita «in una piazza, quella di Cosenza, piena di giovani che rappresentano il nostro futuro». (ams)