Sanità: le Case di Comunità sono una sfida da affrontare per la Regione Calabria

di ANGELO PALMIERI – In Calabria parlare di sanità territoriale significa affrontare una sfida innanzitutto sociale. Le Case della Comunità non sono semplici edifici sanitari: rappresentano un cambio di paradigma che scalfisce il primato dell’ospedale come unico presidio di cura e restituisce al territorio la dignità di luogo terapeutico e relazionale.  La salute non è solo atto clinico: è relazione, intreccio di capitale sociale, appartenenze e memorie collettive. La CdC diventa così un’infrastruttura di legami, una piazza sanitaria dove la cura smette di essere gesto tecnico e diventa pratica di cittadinanza. Qui confluiscono fragilità individuali e responsabilità collettive, prossimità dei professionisti e autonomia dei cittadini.

Fratture storiche e nuove diseguaglianze

La Calabria vive da decenni forti squilibri tra costa e montagna, centri urbani e aree interne. Oltre il 30% della popolazione risiede in comuni sotto i 5.000 abitanti, spesso in zone montane o collinari, con viabilità fragile, trasporti intermittenti e una rete digitale discontinua. Queste condizioni creano una “doppia distanza”: fisica – perché i servizi sono lontani – e simbolica, perché chi vive nei piccoli centri sviluppa una percezione di esclusione e sfiducia verso le istituzioni. Il risultato è un ricorso massiccio alla mobilità sanitaria: nel 2022 la spesa per cure fuori regione ha raggiunto 304,8 milioni di euro, un esborso che non è più una libera scelta ma necessità imposta da carenze strutturali. In queste comunità un banale controllo medico può trasformarsi in un viaggio di ore, mentre per un anziano solo o una famiglia senza mezzi adeguati il diritto alla salute diventa un percorso a ostacoli. Qui le Case della Comunità devono nascere come presidi permanenti, non solo per garantire servizi di base ma per ricostruire fiducia e capitale sociale.

La cura che coinvolge

Il cuore del modello è la presa in carico proattiva: intercettare i bisogni prima che esplodano in emergenza. Il Punto Unico di Accesso (PUA) e l’Unità di Valutazione Multidimensionale (UVM) non sono sportelli burocratici, ma porte civiche della salute, dove la biografia della persona – clinica, economica e relazionale – viene ascoltata nella sua interezza. Da questo ascolto nasce il Piano Assistenziale Individualizzato (PAI) digitale, un patto di corresponsabilità che unisce istituzioni, operatori e cittadini. Così la cura diventa progetto di vita e il welfare si trasforma in pratica di co-produzione del benessere, rafforzando fiducia e legami di comunità.

Governance e partecipazione

In un territorio segnato da frammentazioni istituzionali, la Direzione di Distretto diventa cabina di regia per sanità e sociale, mentre il Comitato di Comunità apre le decisioni a cittadini, operatori e Terzo Settore.  La misurazione tramite indicatori pubblici – dalle ospedalizzazioni evitabili alla soddisfazione degli utenti – non è burocrazia: è atto di democrazia sanitaria, perché rende la comunità co-valutatrice delle politiche e riduce gli spazi di opacità.

Digital divide e nuove cittadinanze

Il potenziale della telemedicina e del PAI elettronico è enorme, ma rischia di restare privilegio urbano se non si interviene sul digital divide. In molte zone interne la connessione è instabile, le competenze digitali scarse, i dispositivi costosi. Servono quindi facilitatori di comunità e programmi di alfabetizzazione tecnologica, perché l’innovazione diventi infrastruttura di cittadinanza, capace di abbattere barriere e portare il sapere clinico fin dentro i borghi più remoti.

Oltre l’emergenza: salute mentale e minori

Fra le sfide più urgenti spicca la salute mentale, soprattutto quella giovanile. Dopo la pandemia disturbi d’ansia, depressione e dipendenze hanno conosciuto un incremento allarmante. Le Case della Comunità possono diventare centri di prevenzione e resilienza, ospitando neuropsichiatria infantile, servizi per le dipendenze (SERD) e centri di salute mentale (CSM). Portare questi servizi vicino alle famiglie significa intercettare precocemente il disagio, ridurre l’abbandono scolastico e rafforzare la capacità delle comunità di sostenere i più giovani. Significa anche promuovere programmi di alfabetizzazione emotiva e gruppi di sostegno a genitori e insegnanti, trasformando la cura in educazione civica e capitale sociale. La telepsichiatria, se ben integrata, può raggiungere le aree più isolate, riducendo lo stigma e le barriere geografiche. In questo senso la salute mentale non è un capitolo marginale: è fondamento di sviluppo comunitario, perché una regione che custodisce l’equilibrio emotivo delle nuove generazioni costruisce coesione e futuro.

Una sfida culturale e politica

Costruire una sanità di prossimità in Calabria significa riconoscere il territorio come risorsa e non come problema.

Le Case della Comunità possono diventare luoghi di ricomposizione delle disuguaglianze e di costruzione di capitale sociale, dando concretezza all’articolo 32 della Costituzione. Perché questa rivoluzione silenziosa si compia occorrono tre condizioni imprescindibili: presidi permanenti nelle aree interne, investimenti seri in infrastrutture materiali e digitali e una governance trasparente che metta al centro la partecipazione civica.

E qui il discorso si fa inevitabilmente politico. Il presidente della Regione non può limitarsi a enunciare buone intenzioni o a rincorrere slogan elettorali.

Le Case della Comunità richiedono visione, programmazione e capacità di misurare risultati, non annunci ad effetto. E occorre dirlo con chiarezza: gli interessi consolidati di alcune potenti famiglie calabresi che da anni prosperano sulla sanità privata, alimentando un “out of pocket” studiato a tavolino con complicità silenziose, continuano a drenare risorse e a indebolire il servizio pubblico. Senza un contrasto netto a queste logiche speculative, ogni piano di riforma rischia di restare lettera morta. Su questo terreno, quello della sanità territoriale e della giustizia sociale, si misurerà la credibilità della prossima guida regionale. La Calabria non ha bisogno di promesse, ma di scelte coraggiose: portare la cura dove oggi ci sono solo distanze, costruire fiducia dove oggi regna sfiducia, trasformare il Pnrr da occasione finanziaria a patto civico con le comunità.

Chi siede a Palazzo Campanella dovrà dimostrare che la salute non è merce elettorale ma diritto vivo e misurabile, capace di trasformare le aree interne da periferia dimenticata a cuore pulsante della rinascita calabrese.

[Courtesy OpenCalabria]

Intervenire per mancanza di farmaci e materiali sanitari all’Ospedale di Locri

di ANTONIO PIO CONDÒ – Una lunghissima attività nel Sindacato Uil, al servizio della sanità, per rivendicare un sacrosanto diritto sancito dalla Carta costituzionale: quello alla salute. Lui è Nicola Simone, ex sindacalista, già dirigente provinciale dellUIL, da sempre in prima linea nelle tante battaglie condotte per migliorare lofferta sanitaria nella Locride. Le ultime criticità riscontrate presso il presidio ospedaliero spoke di Locri, struttura cui afferisce una popolazione di circa 140 mila abitanti (in estate il doppio),  distante oltre 100 chilometri dalle città di Reggio Calabria  e di Catanzaro,  lhanno convinto a rompere un fisiologico silenzio per denunciare una situazione che ritiene non più sostenibile.

«L’Ospedale di Locri, scrive Simone in una propria nota stampa, continua a fatica a garantire i servizi essenziali agli ammalati a causa di una grave e diffusa carenza di farmaci, ausili e altri materiali sanitari. Situazione, questa, che sta mettendo a dura prova ogni reparto, rendendo difficile, se non impossibile, provvedere alle cure necessarie e urgenti ai pazienti».

Simone precisa che «denuncio questa macroscopica e drammatica criticità nella qualità di ex sindacalista provinciale di Reggio Calabria, dipendente dellAsp in quiescenza ed, altresì, paziente affetto da patologia che periodicamente deve rivolgersi al nosocomio di Locri per le cure necessarie!.

Riferendosi sommariamente alla sua ultradecennale attività sindacale, Simone sottolinea che «nel tempo ho denunciato  i problemi inerenti le deficitarie capacità delle strutture sanitarie presenti sul territorio Locrideo ad erogare prestazioni di qualità, oggi mi soffermo sul problema riguardante la insufficiente distribuzione dei farmaci e materiali sanitari da parte della Farmacia Ospedaliera. Struttura, questa, che non riesce a soddisfare il fabbisogno quotidiano dell’ospedale in quanto sprovvista e perennemente in attesa del dovuto approvvigionamento. I medici e il personale sanitario si trovano spesso a dover fronteggiare situazioni critiche, improvvisando e adattandosi per sopperire alla mancanza di risorse fondamentali. Non solo mancano farmaci essenziali e di uso comune, ma anche ausili e dispositivi per la somministrazione di farmaci, indispensabili a garantire gli interventi e le diagnosi».

Criticità, sottolinea ancora il firmatario della denuncia, che mettono «a serio rischio la salute e la vita dei pazienti e crea un ambiente di lavoro estremamente stressante e insidioso per il personale. Sebbene la dedizione e l’impegno di medici e infermieri siano notevoli, l’assenza continua di dispositivi adeguati, di farmaci indispensabili e di una organizzazione interna adeguata al bisogno giornaliero dei reparti, ostacola seriamente la loro capacità di operare al meglio».

A  causa di tutto ciò, aggiunge, «i pazienti spesso vengono inviati in altri Ospedali della regione per la somministrazioni di farmaci essenziali o per prestazioni specialistiche particolari aumentando considerevolmente i loro disagi e quello delle loro famiglie».

Simone evidenzia che le gravi difficoltà incidono sul trattamento «di pazienti oncologici o di rianimazione, piuttosto che di cardiologia, pronto soccorso, dialisi, ortopedia o ancora dei vari ambulatori (vedi oculistica ). Il clima di incertezza e frustrazione palpabile allinterno di questi reparti nonostante la dedizione e l’impegno costante di medici, infermieri e OSS, unitamente alla mancanza di risorse fondamentali, sta minando seriamente la loro capacità di operare al meglio, mettendo a dura prova la qualità dei servizi offerti. Quanto denunciato è un elemento evidente e facilmente riscontrabile da chiunque». Simone chiude la sua lunga denuncia/appello ribadendo che «l’’impegno e la dedizione dei professionisti sanitari, non potrà reggere oltre a garanzia di un’assistenza ottimale per i pazienti». Chi ha orecchie per sentire, nonché lautorità ed il potere per intervenire, questo il messaggio dellex dirigente provinciale dellUil, intervenga senza perdere altro tempo prezioso. (apc)

Vivere o morire: è questo il dilemma della Sanità in Calabria

di MIMMO NUNNARI – Va bene il Ponte, vanno bene le infrastrutture, va bene il lavoro, va bene la Calabria meravigliosa, e anche quella magica e straordinaria venduta alle fiere del turismo, ma i calabresi vogliono – e ne hanno tutto il diritto – sapere quando possono cominciare a vivere da cittadini normali senza correre il rischio di morire prima dei loro connazionali – come dicono studi e statistiche – a causa della carenza di servizi sanitari nella loro regione; dove ormai da tempo, molti, tra le fasce di popolazione più deboli,  rinunciano – sono costretti – alle cure essenziali. Perché, non possono attendere mesi o anni per una visita, o non possono permettersi di recarsi per le cure in altre regioni, o ricorrere alla sanità privata che offre assistenza naturalmente a pagamento. Il problema, come è facile intuire, non è di destra o di sinistra, con buona pace di chi, dall’opposizione, dopo anni di letargo in Consiglio regionale, si è svegliato solo adesso. È più semplicemente umano, civile, di coscienza e di giustizia sociale, il problema. Volere una buona sanità in Calabria significa volere pari opportunità, non privilegi. Significa, non essere più vittime di discriminazione, significa ricevere un trattamento equo, non essere costretti a emigrare, per curarsi – oltre che per cercare lavoro. Sappiamo, come sono stati affrontati questi problemi in passato, per cui poco oggi si può a imputare a Occhiuto, presidente dimissionario, autoricandidatosi a governare, che certamente avrebbe potuto fare meglio. Sappiamo, come sono stati affrontati dallo Stato prima, e dalla Regione dopo, e da entrambi nel presente, i problemi della Sanità. Col passaggio dei poteri dallo Stato alle Regioni avvenuto con la progressiva decentralizzazione del Servizio Sanitario Nazionale iniziata nel 1972 e perfezionata con la riforma (Titolo V) del 1992 è avvenuta la trasformazione della gestione da male in peggio. La Sanità è diventata business: un connubio tra malaffare, malaburocrazia e poteri poco trasparenti, da rabbrividire. Medici, infermieri, personale sanitario, che in condizioni normali dovrebbero fare solo il loro dovere di professionisti che col giuramento di Ippocrate hanno sottoscritto un codice etico fondamentale, sono stati costretti a trasformarsi in eroi per caso, come in guerra, o nelle peggiori calamità. Sono stati costretti a combattere, senza sosta, con gli unici strumenti che hanno a disposizione: il cuore, la mente e la  passione per un lavoro particolare. Solo Nostro Signore potrà un giorno giudicare come si deve i responsabili della sporca gestione della Sanità calabrese, e aprirgli le porte dell’Inferno. I tentacoli del malaffare hanno stretto in una morsa negli anni tutto ciò che hanno incontrato. E i commissari – generali, prefetti, manager – inviati dai Governi, per vigilare e risanare, o sono scappati, o sono rimasti a guardare impotenti, qualche volta cadendo nel ridicolo. Indimenticabile il manager emiliano che sosteneva come il Covid si diffondeva: solo baciandosi lingua in bocca, o il generale che firmava a sua insaputa, come nei film di Totò. Una minima parte di ciò che è accaduto, in questi anni di mala gestione della sanità l’ha raccontata il medico scrittore Santo Gioffrè in “Tutto pagato!” (Castelvecchi editore): racconto tragico dell’esperienza di commissario straordinario dell’Azienda Sanitaria di Reggio Calabria, istituzione dove le stesse fatture si pagavano più volte, e i bilanci si scrivevano su foglietti  somiglianti a pizzini. Nel libro, Gioffrè ha ricostruito i mesi di lavoro caratterizzati da “suggerimenti”, pressioni e delegittimazioni.

“Tutto pagato!”, è un libro-denuncia essenziale, per comprendere le cause del collasso della sanità calabrese, dove alligna il seme del malaffare, piantato da quell’aria grigia che in Calabria storicamente si sovrappone alla linea della legalità e della sana gestione. Chi mai potrà assolvere coloro che per lucrare, arricchirsi, hanno commesso illeciti e compiuto atti delittuosi? La corruzione, ha coinvolto diverse aree: dagli appalti e contratti pubblici, alle nomine dirigenziali, alle gestione delle risorse. La tolleranza, o il non aver vigilato, sono stati brodo di coltura di frodi e pratiche corruttive, di malagestione di reparti ospedalieri, di “favori” a pazienti, dietro pagamento. In questo scenario apocalittico, spiccano le figure della maggioranza dei medici, e del personale sanitario, che lavorano affrontando sfide quotidiane; fornendo cure immediate nei reparti e nel far west dei pronto soccorso, salvando vite. Di questo bisognerebbe discutere, in questa campagna elettorale, senza polemiche inutili, assumendosi responsabilità; e promettendo che il percorso di morte e distruzione sarà arrestato; che le azioni scellerate di chi ha malgestito la sanità in Calabria non saranno mai più ripetute e che non resteranno impuniti gli abusi, gli illeciti. Non si chiedono miracoli: è solo sufficiente che si mettano nelle migliori condizioni di operare coloro che – medici, personale sanitario tutto – salvaguardano i cittadini, e ne garantiscono la sicurezza e la salute. Ha ragione Occhiuto, a respingere le critiche di chi – partiti dormienti – non stava certo su Marte, quando lo scempio della sanità si consumava in Calabria. Tutti, manager, politici, prefetti, generali, non hanno visto o voluto vedere cosa accadeva, sotto i loro occhi. Sono rimasti zitti, impotenti, incapaci. Ha torto invece, Occhiuto, nel respingere le osservazioni e le critiche che vengono dai cittadini; a respingerle in maniera inelegante, e anche un po’ saccente, ostentando un atteggiamento di superiorità che un leader deve saper evitare. Dire che “in 4 anni lui ha fatto più che in 40 gli altri”, è  slogan, e basta. E non è vero. È solo atteggiamento da uomo solo al comando. La Politica vera è tale se è condivisione di idee e di responsabilità. Avrebbe potuto fare di più, Occhiuto, se avesse chiamato a raccolta – per un problema così grave, eccezionale e vitale come la Sanità – oltre che i politici non della sua parte, i calabresi delle associazioni, del volontariato, delle comunità cattoliche e sociali, e con loro medici, infermieri, sindaci. Al capezzale del malato servono tutti coloro che possono essere utili: questo, ragionevolmente, richiede la situazione drammatica della Calabria, regione che si sarebbe potuta risparmiare molti dei sacrifici oggi richiesti alla collettività, se solo fosse stata percorsa la strada dell’etica e dell’anticorruzione, dell’onestà, negli anni passati. Criticare però Occhiuto, senza motivare i rilievi, oggi, in campagna elettorale, è esercizio inutile. Servono proposte. E da Tridico, economista sociale di valore, uomo del popolo, i calabresi aspettano proposte concrete, ragionevoli. Il futuro della Calabria non può essere scritto privilegiando proposte di reddito di cittadinanza, di dubbia efficacia. Serve altro, serve una visione di Calabria, moderna, libera dalle mafie, dai sistemi corruttivi. Occhiuto e Tridico , per la Sanità, dovrebbero avvalersi dell’esperienza, della competenza, dell’azione trasparente di “Comunità Competente” – realtà associativa benemerita di cui è portavoce Rubens Curia – che da tempo supplisce, con pazienza,  virtù cristiana, passione civile, alla mediocritas di  istituzioni e politica. Molti, dei problemi della sanità calabrese, la Regione li ha risolti anche con la collaborazione di “Comunità Competente”, ma non tutte le proposte riassunte nel “Manifesto per la democrazia delle cure in Calabria”, sono state accolte. Chi ha frenato? Chi non ha avuto interesse a guardare con convinzione in direzione delle soluzioni concrete indicate da “Comunità competente”? Se i candidati presidenti vogliono una vera sanità in Calabria, a misura di persona, coinvolgano, già da adesso, in campagna elettorale, gli uomini e le donne di Comunità Competente, che avranno pure le loro appartenenze politiche e le loro convinzioni culturali o religiose, ma hanno dimostrato di operare nell’interesse esclusivo dei calabresi, che pretendono di sapere se, nel loro futuro, ci sarà più posto per vivere, che per morire, di sanità. (mnu)

Sposato (Opi): Dare importanza a servizio delle professioni sanitarie

Guardando i diversi atti aziendali, nelle varie aziende sanitarie, riteniamo che si continui a dare poca importanza a quello che è il servizio delle professioni sanitarie». È quanto ha detto Fausto Sposato, coordinatore regionale Opi che, assieme a tutti gli infermieri calabresi, chiedono e rivendicano spazi legittimi. «Potremmo fare tanti esempi – ha detto Sposato –. Il Gom di Reggio Calabria ha sintetizzato, con poche righe, un ufficio di gestione tanto importante quanto qualificato. Altro esempio, è rappresentato dal fatto che si continuano ad indire concorsi per tutte le categorie e per tutte le dirigenze, oltre che per tutti i profili, ma- ad oggi, a parte Crotone in attesa della pubblicazione ufficiale sul Burc- di un avviso, nessuna azienda ha bandito un concorso per le professioni sanitarie soprattutto per il ruolo di dirigente della professione infermieristica».

Cosa fare allora? Per Sposato e per gli infermieri calabresi è tempo di invertire il paradigma:«la sanità finora non è stata solo ospedalocentrica ma, negli ultimi decenni, medicocentrica e i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Oggi bisogna dare importanza a quei professionisti che hanno conseguito una formazione, che hanno studiato per poter gestire risorse umane per poter migliorare i servizi e i percorsi assistenziali. Compete loro la progettazione dei percorsi assistenziali, la gestione e la supervisione. Ecco l’importanza del servizio delle professioni sanitarie», la proposta di Sposato che cita gli esempi virtuosi di Emilia Romagna, Toscana, Veneto, Marche e via discorrendo su quello che è il management intermedio.

«In queste regioni – ha spiegato – si investe sulle professioni sanitarie, lasciando ad altre professioni fare ciò che devono fare”. Da qui l’appello al presidente Occhiuto da parte del coordinamento regionale “affinché possa insistere sui vari direttori generali e sui vari commissari delle aziende per la stesura e la pubblicazione dei bandi per le professioni sanitarie».

Sposato ha ricordato, anche, di aver plaudito alle scelte del commissario Occhiuto quando ha inserito, nelle linee guida, il servizio delle professioni sanitarie.

«Lo abbiamo fatto pubblicamente – ha ricordato – ma è tempo di dare seguito a quelle linee guida che non possono solo badare ad alcuni aspetti ed alcune professioni, mettendo da parte noi professionisti che siamo maggiormente rappresentativi, anche numericamente, all’interno di tutte le aziende sanitarie. Il nostro invito al presidente Occhiuto, alla struttura commissariale, è quello di sollecitare tali scelte».

«In altre regioni del Nord sono state addirittura introdotte delle nuove figure da supporto al management che sono i direttori socio sanitari e che sono professionisti sanitari, operatori e dirigenti delle professioni sanitarie che fanno da trait d’union tra aspetti ospedalieri e territoriali – ha concluso –. L’auspicio del coordinamento regionale è che questo avvenga nel più breve tempo possibile e che ci sia un intervento della struttura commissariale in questa direzione». (rcs)

SAN GIOVANNI IN FIORE (CS) – Torna il primario di Medicina

Dopo cinque anni, il Reparto di Medicina dell’Ospedale civile di San Giovanni in Fiore ha di nuovo il suo direttore: ha preso, infatti, servizio il dottore Vitaliano Spagnuolo, nominato Primario a seguito di apposito concorso. 

A darne notizia è l’Assessore comunale alla Salute, Claudia Loria, che esprime grande soddisfazione per «un traguardo atteso da tempo e finalmente raggiunto, a conferma dell’impegno concreto dell’Amministrazione guidata dalla Sindaca Rosaria Succurro nella difesa della sanità pubblica e nella valorizzazione dell’ospedale di San Giovanni in Fiore». 

«La presenza del Primario Spagnuolo – aggiunge l’assessore Loria – segna un balzo in avanti nel percorso di rafforzamento dell’organico e dei servizi ospedalieri, reso possibile anche grazie alla determinazione del Presidente della Regione Calabria, Roberto Occhiuto, e alla disponibilità del Direttore Generale dell’Asp di Cosenza, Antonello Graziano». 

Negli ultimi mesi, il Presidio sanitario di San Giovanni in Fiore ha visto un innegabile e visibile miglioramento: dall’arrivo dei medici cubani per rafforzare il Pronto soccorso e il Reparto di Medicina, all’attivazione dell’Elisoccorso; dal lavoro straordinario del dermatologo Pietro Morrone, con oltre 200 interventi eseguiti, alla presenza stabile del gastroenterologo, fino al potenziamento della Radiologia. 

«Questi risultati – conclude l’assessore Loria – dimostrano che, quando si lavora in sinergia tra istituzioni, la sanità può e deve tornare a essere un diritto garantito anche nei territori interni e montani come il nostro». (rcs)

Bruni (Pd): «Serve trasparenza sulla gestione delle risorse commissariali per sanità»

La consigliera regionale del PD, Amalia Bruni, ha presentato un’interrogazione urgente al presidente della Regione e commissario ad acta, Roberto Occhiuto, per fare chiarezza sulla reale disponibilità economica e sulle modalità di utilizzo delle risorse destinate al superamento dell’emergenza sanitaria e infrastrutturale in Calabria.

Il provvedimento, pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 19 marzo, attribuisce poteri speciali al presidente della Regione per la gestione della situazione emergenziale legata al rischio idrogeologico e allo stato critico del sistema ospedaliero calabrese. Tali poteri includono la possibilità di operare in deroga alla normativa vigente, pur nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento giuridico e delle direttive europee.

Secondo quanto riportato nell’interrogazione, l’ordinanza prevede che le risorse finanziarie utilizzabili provengano da una molteplicità di fonti, tra cui fondi previsti da leggi nazionali (come la Legge 67/1988 e la Legge 135/1990), misure straordinarie recenti (DL 132/2023) e bilanci statali pluriennali, nonché anticipazioni di cassa da parte dell’Inail.

«È essenziale che il Consiglio regionale e i cittadini siano messi a conoscenza – ha detto – delle somme effettivamente stanziate e disponibili, con indicazione chiara delle fonti di provenienza e delle finalità previste per ciascun intervento».

La consigliera regionale del Pd chiede quindi al Commissario straordinario: quali siano e a quanto ammontino le somme effettivamente rese disponibili ai sensi dell’articolo 6 dell’Ordinanza n. 1133/2025; quali interventi si intendano finanziare, su quali territori e con quali criteri di priorità; quali siano i soggetti attuatori eventualmente già individuati per la realizzazione delle opere; quali siano i contenuti dell’accordo con l’Inail per le anticipazioni di cassa, a partire dal ruolo dell’Istituto fino alle modalità con cui la Regione restituirà le somme ricevute.

«La trasparenza nell’impiego di risorse pubbliche – ha concluso Bruni – non è solo un dovere istituzionale, ma un prerequisito di legalità e responsabilità politica verso i calabresi. Ci auguriamo che il Presidente voglia rispondere in tempi rapidi e con puntualità alle nostre legittime domande». (rrc

IN CALABRIA IL DIRITTO ALLA SALUTE È LA
VERA EMERGENZA: CURARSI QUI È UN LUSSO

di FRANCESCO VILOTTA – C’è un dolore che non fa rumore. Non sanguina. Non grida. Non marcia. Non occupa le prime pagine, né i talk-show. È il dolore opaco, quotidiano, lento, di chi si sveglia ogni mattina con una diagnosi in tasca e una lista d’attesa in mano. È la malattia che diventa condizione sociale. È la salute che si arrende alla burocrazia, al mercato, alla solitudine.

L’Italia è diventata il Paese che rinuncia a guarire. Quattro milioni e mezzo di persone. Non sono numeri, sono vite. Madri che aspettano un esame che non arriverà mai. Anziani che smettono di curarsi perché l’autobus non passa più. Uomini e donne che hanno imparato a sopportare la malattia come si sopporta il caldo d’agosto: in silenzio, col sudore che scende e il fiato che stringe. Rinunciano. Rinunciano a vivere bene, che poi è il modo più silenzioso di cominciare a morire.

Nel 2024, il 7,6% della popolazione ha detto no alle cure, e nel 2025 la situazione sembra addirittura peggiorare. Non per scelta, ma per necessità. Perché non c’erano soldi, perché non c’era tempo, perché non c’era nessuno a rispondere al telefono del CUP. È un’Italia che sta male e si sente in colpa anche per questo. Che ha imparato a dire “tornerò quando peggiora”. Un’Italia che ha dimenticato il diritto alla salute e si è adattata all’elemosina del possibile.

Lo ha raccontato con dolore e lucidità qualche tempo fa anche Francesca Mannocchi, giornalista e malata di sclerosi multipla. «Le liste d’attesa», ha scritto, «non sono numeri. Sono sentenze». E ogni giorno in più in attesa è un giorno in meno di vita, un giorno in più di paura. Ma c’è un disegno. Non è un complotto, è una strategia.

Un disegno cominciato in sordina decenni fa, e che oggi si fa sempre più evidente: demolire la sanità pubblica per favorire quella privata. Ridurre le risorse, allungare le attese, scoraggiare le cure, per costringere sempre più persone a rivolgersi a cliniche, studi privati, assicurazioni. È un’economia della malattia, dove chi soffre è mercato, e la salute è un prodotto da acquistare. E chi non può, si arrangi.

E i dati lo confermano: nel 2022, la speranza di vita alla nascita nel Mezzogiorno era di 81,7 anni, circa un anno e mezzo in meno rispetto al Nord-Est. Le province con l’aspettativa di vita più bassa? Napoli e Siracusa. Quelle più alte? Treviso, Trento, Bolzano. Come se nascere a sud significasse, biologicamente, vivere meno. Un destino scritto nella carta d’identità.

Nel 2021, le risorse pro capite per la sanità erano in media oltre 800 euro più alte in Friuli-Venezia Giulia rispetto alla Calabria. Campania, Basilicata, Puglia e Sicilia seguono a ruota. E non per caso: fino al 2023, i fondi per la sanità venivano distribuiti in base alla dimensione e all’età della popolazione. Apparentemente logico. In realtà, un paradosso crudele: dove si vive meno, si riceve meno. È come dire a chi muore prima che non vale abbastanza.

A peggiorare tutto, c’è l’autonomia differenziata: un modello che permette alle Regioni più forti di gestire settori strategici come la formazione medica, le politiche tariffarie, i fondi sanitari integrativi. In un Paese già spaccato, diventa la pietra tombale dell’uguaglianza. Oggi, cinque Regioni del Sud su otto risultano inadempienti nei Livelli Essenziali di Assistenza (Lea). E la forbice si allarga. In silenzio.

Il risultato? La migrazione sanitaria. Nel 2022, il 44% dei pazienti che si sono spostati per curarsi proveniva dal Sud. Non sono viaggi della speranza: sono fughe. Fughe dal vuoto, dall’inefficienza, dall’abbandono. È la cartina geografica della disuguaglianza, dove la salute si misura in chilometri, e i chilometri si pagano con la fatica e con la pelle.

La sanità pubblica viene logorata come si logora una parete: un taglio di bilancio alla volta, un reparto che chiude, un pronto soccorso che scoppia. Intanto, il privato cresce. Le assicurazioni sanitarie – un tempo rare, oggi quasi indispensabili – aumentano i profitti e la presa sulla vita delle persone. Oggi, senza una polizza, curarsi bene è diventato un lusso.

È questo il nuovo volto della disuguaglianza: non si misura più soltanto con il reddito, ma con la possibilità di accedere a una terapia. Si è poveri anche quando si è malati e non si ha voce. Un esame urgente può costare quanto una mensilità. Una visita specialistica, se pagata privatamente, arriva prima di un referto del pronto soccorso. E mentre si aspetta, si peggiora. Lo Stato risparmia oggi e paga domani. Ma domani, forse, non ci sarà.

In Sardegna, in Calabria, in Abruzzo, si rinuncia a curarsi più che altrove. Non per superstizione, ma per geografia. Perché il diritto alla salute, in Italia, è un fatto di coordinate. In centro città, resistono le strutture. In periferia, si aspetta. In provincia, si rinuncia. Lo Stato – quello che dovrebbe esserci per tutti – lascia indietro proprio i più deboli.

Rinunciare alle cure significa molto più che trascurare il proprio corpo. Significa perdere fiducia. In sé stessi, negli altri, nelle istituzioni. Significa accettare che il dolore non è più una malattia, ma una condizione di classe. Le malattie diventano destino. Il diabete è un fardello dei poveri. L’ipertensione è il marchio di chi lavora troppo e dorme poco. Le patologie cardiovascolari si concentrano tra chi mangia male, vive male, si cura peggio. Il dolore si eredita, come una casa vecchia o un debito. È l’ereditarietà sociale del male.

E non finisce lì. Perché quando un genitore non si cura, chi lo assiste paga il prezzo emotivo ed economico della rinuncia. I caregiver, li chiamano. Sono figli, figlie, compagn   i, sorelle. Sono la stampella dello Stato. Quelli che rinunciano a lavorare per accompagnare un padre a fare una visita a 300 chilometri. Quelli che si indebitano per un farmaco, per una terapia, per una speranza. La salute non è solo una questione sanitaria. È politica. È civile. È culturale. Una nazione che consente – anzi, organizza – la rinuncia alla cura, è una nazione che ha deciso di smettere di essere comunità.

Ci siamo abituati a parlare di “emergenza sanitaria” solo quando arriva una pandemia. Ma l’emergenza vera è questa: il diritto alla salute è diventato un privilegio da meritarsi, un lusso da pagare, un caso fortunato. E allora mi domando: dov’è l’ indignazione? Dov’è la coscienza politica di fronte a questa ingiustizia strutturale? Dov’è il grido della sinistra, che nacque proprio per garantire il diritto alla vita, alla salute, alla dignità di chi non aveva voce? Dov’è la destra, che dice di difendere il popolo ma poi lo abbandona nelle sale d’attesa?

Non ci sarà futuro – né economico, né umano – se non si ricomincia da qui. Dalla salute come bene comune. Dalla sanità pubblica come investimento, non come spesa. Dall’idea che guarire non debba dipendere da quanto puoi spendere, da quanto puoi aspettare, da quanto sei fortunato. Guarire un Paese non è una metafora. È un dovere. E chi governa, chi amministra, chi scrive, chi racconta – deve scegliere da che parte stare: con chi rinuncia o con chi pretende. Con chi subisce o con chi lotta. Perché in fondo è questo che ci resta da fare: non rinunciare più a pretendere di essere curati. Di essere ascoltati. Di essere umani. (fv)

[Courtesy LaCNews24]

L’OPINIONE / Rubens Curia: Quando l’approvazione di un Decreto di Occhiuto non è un tecnicismo

di RUBENS CURIA – Al punto 4 del Manifesto ” Per una democrazia delle cure” di Comunità Competente proponevamo al Commissario Occhiuto l’abolizione del tetto di spesa, così come previsto dal Dca 82/2015, per la “Specialistica Ambulatoriale Interna”.

La nostra proposta, che condivideva quella del Segretario regionale del Sumai (Sindacato Medici Ambulatoriali Interni), si proponeva di ridurre le abnormi liste d’attesa esistenti in Calabria ed una utilizzazione a tempo pieno delle apparecchiature medicali acquistate dalle Aziende Sanitarie con i finanziamenti del Pnrr e della Delibera Cipe del luglio del 2019.
Con l’approvazione del Dca 227 del 20 maggio scorso dall’asettico titolo, per i non addetti,  “Determinazioni per la pubblicazione dei turni orari afferenti alla  Medicina Specialistica Ambulatoriale Interna”,  finalmente è abrogato il Dca 82/2015 nella parte che testualmente decretava: “L’incidenza della spesa sul bilancio aziendale della Specialistica Ambulatoriale Interna deve essere contenuta nei limiti della spesa… con riferimento al 31 Dicembre 2008 ai fini dell’autorizzazione della pubblicazione delle ore”; insomma prevaleva una visione economicista a discapito della tutela della salute dei calabresi, non è un caso che il nostro Manifesto s’intitola “Per una democrazia delle cure”, perché tutte le persone, aldilà della loro residenza devono avere eguaglianza nell’accesso alle cure!
Finalmente, dopo varie interlocuzioni con la Struttura Commissariale che ringraziamo, la richiesta di Comunità Competente e del  segretario regionale del Sumai, che teneva conto della della legge 107 del luglio 2024 attinente alla riduzione delle “Liste d’attesa”, è stata accolta!
Avevamo chiesto, inoltre, che il Dipartimento della salute rispondesse alle domande inoltrate dalle Aziende Sanitarie entro 30 giorni, ma su questo non siamo stati ascoltati come sui Piani Terapeutici su cui insisteremo perché i pazienti sono in primo luogo delle persone che non possono essere sottoposte a stress.
Sono consapevole, come più volte richiesto dagli specialisti ambulatoriali interni, che oltre ad apparecchiature medicali di ultima generazione sia importante avere ambulatori inclusivi con la presenza di personale infermieristico.
Il Dca 227/25 va nella giusta direzione, ma la strada da percorrere è ancora lunga perché le Aziende Sanitarie devono impegnarsi maggiormente, per valorizzare la Medicina Territoriale, a costruire le nuove Case della Comunità finanziate dal Pnrr entro il 31 marzo 2026. (rc)
[Rubens Curia è Portavoce Regionale di Comunità Competente]

UNA RETE CHE CURA: LA VERA MEDICINA
DI PROSSIMITÀ PARTE DAL TERRITORIO

di MARIAELENA SENESE E WALTER BLOISE – Nel dibattito sulla riorganizzazione della sanità regionale, il termine “medicina di prossimità” è ormai diventato una formula ricorrente, ma troppo spesso svuotata di significato. In Calabria, una regione con ampi divari territoriali e sociali, parlare di prossimità non può significare semplicemente costruire nuove strutture, come le Case della Comunità, se queste non sono accompagnate da servizi reali, professionisti presenti e una rete funzionante.

Come Uil Calabria e Uil Fpl Calabria, riteniamo fondamentale concentrare l’attenzione su ciò che davvero garantisce accesso, continuità e diritto alla salute nei territori: i medici di medicina generale, i consultori familiari, i poliambulatori territoriali e le guardie mediche. Questi presìdi, se messi in condizione di funzionare, sono il vero volto della medicina di prossimità.

Oggi però la realtà è diversa: la Uil Calabria e la Uil Fpl Calabria da tempo sostengono che, in Calabria la carenza di medici di medicina generale rispetto al fabbisogno stimato sia elevata, secondo i dati della Fondazione Gimbe in Calabria mancano oltre 350 medici di medicina generale, con una carenza destinata ad aggravarsi a causa del blocco del turnover, dei pensionamenti e della fuga verso l’estero nel corso del 2026.

I consultori familiari, che per legge dovrebbero essere presenti in rapporto di almeno 1 ogni 20.000 abitanti, ma in Calabria di fatto ve ne  è 1 ogni 35.000 abitanti. Questi presidi, poi, sono spesso sprovvisti delle figure previste per legge, come psicologi, assistenti sociali, ginecologi e ostetriche. I poliambulatori sono spesso ridotti a contenitori vuoti, privi di prestazioni specialistiche e con tempi di attesa inaccettabili anche per esami di base. Le guardie mediche, soprattutto nelle aree interne, soffrono di gravi carenze di personale, coperture a singhiozzo e condizioni logistiche precarie.

Il sistema sanitario regionale non può più essere pensato come una struttura esclusivamente “sanitaria”, concentrata su ospedali e reparti. È necessario superare questa visione per abbracciare una logica socio-sanitaria integrata, in cui la presa in carico della persona – anziana, fragile, cronica, disabile o in condizione di esclusione – sia condivisa tra diversi professionisti: medici, infermieri, Operatori socio sanitari, assistenti sociali, educatori, psicologi.

In questo senso, la carenza ormai strutturale di medici di base può e deve essere compensata con l’introduzione e la valorizzazione di figure paramediche e sociosanitarie, più rapidamente reperibili e in grado di assicurare una risposta operativa alle esigenze quotidiane dell’utenza. Non si tratta di sostituire i medici, ma di costruire équipe di prossimità che lavorino insieme, condividendo obiettivi e competenze.

Inoltre, la medicina territoriale deve essere anche un presidio di prevenzione e di giustizia sociale. Occorre rafforzare l’educazione alla salute, la prevenzione delle dipendenze, la salute mentale, la diagnosi precoce e il sostegno alle famiglie. Il tutto in stretta sinergia con i servizi sociali comunali, il terzo settore e la rete del volontariato.

In un contesto dove, secondo l’Agenas, il tasso di scopertura degli infermieri sul territorio calabrese supera il 30% rispetto agli standard previsti, è evidente che investire su figure sociosanitarie diventa non solo utile, ma urgente. A differenza dei medici di medicina generale, per i quali l’attuale sistema di reclutamento rende difficile il ricambio, molte figure paramediche e professioni sanitarie intermedie sono più facilmente reperibili e formabili, rappresentando una risorsa immediata per garantire continuità assistenziale, domiciliarità, prevenzione e supporto alle famiglie.

Rafforzare la medicina di prossimità in Calabria significa non solo evitare l’intasamento degli ospedali, ma soprattutto portare il sistema sanitario vicino alla vita delle persone. Significa investire nella salute mentale, nella prevenzione, nella riabilitazione, nella disabilità e nella non autosufficienza. E significa farlo con un’organizzazione integrata, territoriale e flessibile, in grado di rispondere alle esigenze delle comunità locali, con particolare attenzione ai contesti rurali e alle aree interne. Oggi tutto questo non è solo una proposta, ma una necessità. Lo dimostrano i dati, ma lo dicono anche i cittadini, ogni volta che si trovano soli di fronte a una malattia, a un bisogno o a una diagnosi che non arriva.

Per questo, come Uil Calabria e Uil Fpl Calabria, siamo convinti che serva una svolta vera: non una medicina di prossimità fatta di muri, ma una rete pubblica che funzioni davvero, con professionisti assunti, formati, presenti, valorizzati e meglio retribuiti. La sanità territoriale deve essere il cuore pulsante del sistema pubblico, e non un’appendice residuale. Ora servono scelte politiche concrete e investimenti mirati, altrimenti il diritto alla salute resterà, per troppi calabresi, solo sulla carta. (ms e wb)

[Mariaelena Senese e Walter Bloise sono rispettivamente segretaria generale Uil Calabria e segretario generale Fpl Calabria]

Sanità a Vibo, Mammoliti (PD): Un clima di tensione inaccettabile dopo gli ultimi gravi episodi

Il consigliere regionale del PD, Raffaele Mammoliti, ha evidenziato come «la drammatica situazione della sanità vibonese si ripercuote in modo inaccettabile sulla vita quotidiana degli operatori e dei cittadini, mentre chi possiede ruoli di governo e responsabilità continua con indolenza a governare in modo ordinario come se nulla fosse».

«Tutto ciò è assolutamente inaccettabile – ha detto –. Si stanno consumando drammi umani, professionali e familiari che diffondono sfiducia e preoccupazione favorendo un clima di inquietante allarme che non aiuta affatto. Con tutte le cautele dovute non si può restare, tuttavia, inermi ed in silenzio di fronte a quello che sta avvenendo nel Sistema sanitario e ospedaliero vibonese».

«In poco tempo abbiamo, purtroppo – ha proseguito – registrato una giovane vittima di 37 anni con il suo bambino mai nato di 7 mesi, un paziente che presso l’ospedale di Tropea non ha potuto ricevere le cure appropriate per l’assenza di uno strumento che era stato ripetutamente richiesto da medici e operatori agli organi competenti e per ultimo quanto avvenuto nei giorni scorsi dove una donna in gravidanza al settimo mese perde il suo bimbo».

«Il silenzio da parte di chi possiede responsabilità e ruoli di governo espone, prima di tutto – ha aggiunto – medici ed operatori sanitari al pubblico ludibrio che non meritano. Bisognerebbe, invece, farsi carico delle loro problematiche anche fornendo informazioni ufficiali e tempestive per fugare eventuali responsabilità. Nel caso di un distacco di placenta, così come risulta dalle informazioni assunte, non dovremmo trovarci davanti a un errore umano. Dunque, il silenzio degli amministratori non fa altro che alimentare i dubbi, anche legittimi, della popolazione. Un silenzio che, anzi, fa salire ancora la tensione come dimostrato anche dalle dimissioni del dottore Vincenzo Mangialavori dopo l’ultimo caso a Ginecologia».

«Bisognerebbe chiedere ai commissari come mai, dopo quasi un anno dal loro insediamento – ha continuato il dem – non abbiano ancora provveduto, dopo numerosi eventi sentinella, a predisporre un Piano organico di provvedimenti, a nominare un Direttore sanitario e un Dirigente di presidio ospedaliero, lasciando queste due cariche essenziali per il governo della sanità provinciale ed ospedaliera nell’assoluta precarietà».

«Ed ancora, non è dato sapere se abbiano avuto il tempo, nei pochi giorni di permanenza settimanali – ha detto ancora – di farsi un giro nella struttura ospedaliera per parlare con medici ed operatori sanitari per rendersi conto, direttamente, delle difficoltà quotidiane che affronta il personale e adoperarsi per risolverle, così come reiteratamente sollecitato anche dalle OO.SS. territoriali».

«Gli operatori ed i cittadini vibonesi non meritano di vivere questa emergenza – ha concluso – e di trovare come risposta soltanto giustificazioni burocratiche e comportamenti inconcludenti, invece di provvedimenti concreti ed operativi che continuerò a sollecitare a tutti i livelli». (rvv)