Commosso commiato per Antonio Catricalà, ma dalla Calabria non va nessuno

di SANTO STRATI – Una grande folla ha tributato a Roma l’ultimo saluto ad Antonio Catricalà: un grande dolore, tantissima commozione. Persino Gianni Letta, inappuntabile e inossidabile cerimoniere di Stato, ha dovuto chiudere con un groppo in gola un bellissimo discorso di commiato, abbracciando non solo idealmente, a nome di tutti i presenti, la moglie Diana e le figlie Michela e Giulia e il nipotino Edoardo: «dovete essere orgogliose del nostro grande Antonio».

Personalmente, ho avuto il piacere e il privilegio di conoscere e apprezzare Antonio Catricalà e la cosa che mi colpì al primo incontro, oltre al suo coinvolgente sorriso, fu l’assoluta mancanza di alterigia o di quell’algido snobismo, spesso presente nei boiardi di Stato, tipico del potente di turno. No, al contrario, il prof. Catricalà usava il suo radioso sorriso per mettere a proprio agio l’interlocutore: era una persona cordialissima che usava lo stesso metro di rispetto sia di fronte a un ministro sia all’ultimo degli impiegati che si rivolgevano a lui certi di risolvere in fretta un qualsivoglia problema. Non a caso correva spesso l’etichetta, per lui, di instant manager, con l’aggiunta di legal problem solving perché conoscendo a menadito la legge e i suoi anfratti era in grado di trovare la “corretta” e legittima soluzione a qualsiasi questione. 

La passione per le discipline giuridiche l’aveva presa a casa sin da ragazzo, da papà Celestino, avvocato, e non l’avrebbe mai più abbandonata. Anche quando uscì dal Consiglio di Stato, deluso dopo la mancata nomina a giudice costituzionale cui teneva molto, disse che lasciava il ruolo, ma non cambiava abito. La sua cordialità era contagiosa, ascoltava chiunque e parlava con chiunque. Per questo nella chiesa di San Roberto Bellarmino, ai Parioli, lo hanno pianto in tantissimi, giovani, donne, potenti: dai suoi studenti della Luiss al Presidente del Consiglio di Stato, Filippo Patroni Griffi, alle molte autorità presenti (il vicepresidente del Senato Maurizio Gasparri, il vicepresidente di Forza Italia Antonio Tajani, l’ex presidente della Regione Calabria Pino Nisticò, il senatore Marco Siclari, la deputata Maria Tripodi, il giurista e poeta Corrado Calabrò, l’ex ragioniere generale dello Stato Andrea Monorchio, il cardiochirurgo Franco Romeo, l’ex deputato Pino Soriero, l’ex ministro Claudio De Vincenti, il fondatore della Comunità di Sant’Egidio Andrea Riccardi e l’ex rettrice della Luiss ed ex ministra Paola Severino. E inoltre un lunghissimo elenco di personalità, molte delle quali rappresentano la Calabria che conta a Roma. 

Dalla Calabria, però, non è venuto nessuno alle esequie: né Sergio Abramo, il sindaco di Catanzaro di cui Catricalà era sicuramente uno dei figli più illustri (poteva almeno mandare il gonfalone della Città), né – tantomeno – il presidente ff della Giunta regionale Nino Spirlì o qualcuno del Consiglio regionale. Nemo propheta in patria, dicevano gli antichi, ma qui non si tratta solo di galateo istituzionale di cui la nostra attuale classe politica ignora bellamente l’esistenza, è la mancanza di sensibilità e di rispetto verso un calabrese di cui essere orgogliosi e che ha sempre reso lustro alla propria terra. 

Catricalà, del resto, conosceva bene i suoi conterranei: innamoratissimo della sua Calabria, ha dovuto subire anche questo vergognoso torto, al quale qualcuno – speriamo – vorrà rimediare con qualche iniziativa locale per onorare la sua memoria. 

Potere – diceva di frequente Catricalà – è una parola che non mi appartiene: era questa la cifra del suo essere civil servant dello Stato. Una vita spesa per le istituzioni, sempre nel rigore e nel rispetto dello Stato. La Calabria ha perso un grande calabrese. Mancherà a molti, caro prof Catricalà, il suo sorriso e la sua ammirevole saggezza, ma non si perderanno i suoi insegnamenti e il suo modo di servire lealmente e sempre con il massimo impegno il proprio Paese. Un esempio incancellabile. (s)