Manifesti funebri per il killer di Lea Garofalo, il sottosegretario Ferro: Iniziativa del sindaco inaccettabile

Il sottosegretario all’Interno, Wanda Ferro, ha evidenziato come «l’iniziativa del sindaco di Petilia Policastro di partecipare a nome dell’Amministrazione comunale al lutto per la morte di uno degli assassini di Lea Garofalo è inaccettabile».

«La mafia vive di simboli, e i manifesti funebri fatti affiggere dal sindaco – ha aggiunto – rappresentano un inchino delle istituzioni alla memoria di Rosario Curcio, condannato all’ergastolo in via definitiva per aver partecipato all’omicidio e alla distruzione del cadavere di Lea, punita per essersi ribellata ad un destino di ‘ndrangheta».

«No – ha concluso – Lea Garofalo e l’uomo che bruciò il suo corpo per farlo sparire non sono uguali, neppure davanti alla morte. Chi rappresenta le istituzioni deve scegliere sempre da quale parte stare. Il sindaco ha mostrato di scegliere la parte sbagliata».

Il presidente della Regione, Roberto Occhiuto, ha definito «indecente» l’iniziativa del primo cittadino.

«Le istituzioni non devono dimenticare, la ‘ndrangheta va sempre isolata», ha concluso.

Elisabetta Barbuto, coordinatore provinciale M5s di Crotone, interviene sulla vicenda del manifesto funebre per l’assassino di Lea Garofalo affisso dal Comune di Petilia Policastro.

«Sono due scatti fotografici. Il primo ritrae il sindaco di Petilia Policastro il giorno 24 novembre 2022, anniversario della morte di Lea, in occasione della cerimonia conclusiva del Premio nazionale “Lea Garofalo” che ha coinvolto istituti scolastici di tutta la provincia e non solo – dice la Barbuto – Basta andare a rivedere, inoltre, i servizi dell’epoca per ascoltare le parole del Sindaco che ricordava commosso la figura di Lea Garofalo, simbolo di chi non si sottomette alla mafia ed alle sue perverse logiche di potere e morte anche sacrificando la propria vita. Io c’ero quel giorno. Accompagnavo i miei studenti. Ero con loro tra il pubblico, con loro come ogni giorno a scuola dove, in una realtà difficile come la nostra, li accompagniamo non solo nella loro formazione professionale, ma in una costante opera di diffusione della cultura della legalità. E poi il secondo scatto».

Continua Barbuto: «Sono passati pochi mesi dal 24 novembre. Un manifesto di commossa partecipazione al lutto per la morte di uno degli assassini di Lea da parte della Amministrazione comunale di Petilia Policastro. Viene inevitabile chiedersi quale futuro attenda questi nostri giovani gravemente feriti dalla incoerenza di gesti che danno un duro colpo al lavoro di chi ogni giorno si batte per la legalità confondendoli sempre di più nel confronto tra quanto viene loro insegnato e quanto vedono concretamente praticato nella realtà. Viene inevitabile pensare che i ragazzi vengano utilizzati solo per fare “pubblico” in manifestazioni il cui alto contenuto valoriale viene poi calpestato disinvoltamente dagli stessi protagonisti delle stesse. Il futuro che ci attende, personalmente, lo vedo molto triste e poco rassicurante per i nostri giovani anche perché si inquadra in uno scenario più ampio che trascende e travalica i confini della nostra Provincia per estendersi all’Italia intera».

«Guardare, infatti, – continua Barbuto – solo alla scelta, a mio avviso, sciagurata del sindaco di Petilia e della sua Amministrazione, da condannare senza se e senza ma, significa solo mettere in atto l’ennesimo esercizio di stile puramente formale mentre , nel contempo, chi si straccia le vesti più di tutti sostiene esecrabili scelte in tema di amministrazione della Giustizia che tendono a demonizzare il lavoro della Magistratura in una opera che, peraltro, definirei di vero e proprio vilipendio nei confronti di Uomini e Donne valorosi che hanno sacrificato la loro vita nella lotta contro la mafia. Da ultimo in questi giorni, alla vigilia dell’attentato di Via D’Amelio, la discussione, a dir poco allucinante, sul concorso esterno in associazione mafiosa».

«In sostanza – conclude – mentre il Pnrr entra in una fase cruciale e si annunciano importanti investimenti nel Mezzogiorno, dal Ponte sullo Stretto alla istituzione di una Zes che ricomprenda tutta l’area sud del paese, si lavora per abbassare la guardia quasi a voler favorire il proliferare del fenomeno mafioso nella sua manifestazione più subdola e pericolosa. Quella imprenditoriale che ha sostituito negli anni la mafia che sparava, uccideva e si affermava con le armi mentre oggi si afferma e si consolida nei territori anche attraverso l’odioso fenomeno della corruzione e, quindi anche del concorso esterno all’associazione mafiosa, per arginare il quale le intercettazioni sono fondamentali, intercettazioni il cui uso si vuole a tutti i costi arginare. Mai come oggi la nostra voce si deve allora alzare sempre più forte per tutelare il futuro dei nostri giovani. Per dire No alla mafia in tutte le sue forme e le sue manifestazioni».

Il sindaco di Petilia Policastro, Simone Saporito, riporta l’Ansa, giustifica così l’iniziativa: «Da quando è scoppiata la pandemia, come Amministrazione comunale abbiamo fatto un accordo con le agenzie di pompe funebri per fare i manifesti di vicinanza per tutti i funerali che si celebrano in città».

«L’opportunità di fare il manifesto è in effetti opinabile – ha detto –, ma noi abbiamo fatto il manifesto a tutti. Perché a lui no? Davanti alla morte si è tutti uguali. Sarebbe stata una discriminazione al contrario non farlo».

Romano Pesavento, presidente del Coordinamento Nazionale dei Docenti della Disciplina dei Diritti Umani, ha ritenuto «gravissimo il gesto, in quanto in una terra difficile e martoriata in cui i giovani dovrebbero essere ispirati a modelli di comportamento civicamente irreprensibile, assistiamo, talvolta, ad esempi di condotta incomprensibili».

«È vero che davanti alla morte siamo tutti uguali – ha continuato – ma i gesti rimangono nella comunità ed assumono un valore paradigmatico spesso pervasivo. Bisogna sempre stare attenti alle comunicazioni e non lasciare adito a interpretazioni dubbie, specialmente quando sono le autorità pubbliche a intervenire».

«Nelle scuole della provincia di Crotone – ha proseguito – solitamente si svolgono tante iniziative sul tema della legalità e i giovani sono coinvolti spesso fin dalla più tenera età in attività finalizzate a consolidare il senso civico e il rispetto delle istituzioni. È importante che tali valori vengano divulgati sempre».

«Riteniamo importante l’intervento del Sottosegretario, on. Wanda Ferro – ha concluso – che ha rappresentato le nostre istituzioni in relazione a quanto è accaduto, affermando il valore della legalità. Notiamo che tanti esponenti politici sono intervenuti sulla vicenda. Auspichiamo che il tema della legalità diventi sempre più il collante della nostra società, soprattutto nelle aree territoriali più critiche». (rcz)

L’OPINIONE / Patrizia Oliverio: Perché dobbiamo ricordato Lea Garofalo

di PATRIZIA OLIVERIO – Torturata, uccisa e poi sciolta nell’acido. È questa la fine che merita una donna che si ribella alla ‘ndrangheta. Perché dobbiamo ricordare sempre Lea Garofalo? Perché ha alzato la testa e ha parlato rompendo schemi di omertà e anni di silenzio e sottomissione.

La vita di Lea Garofalo, uccisa dall’ex compagno Carlo Cosco il 24 novembre del 2009, è stata legata a doppio filo alla criminalità organizzata calabrese. A quella realtà di corruzione, omicidi e regolamenti di conti, con cui ancora bambina impara suo malgrado a familiarizzare. Lea diventa testimone di giustizia nel 2002 per evitare che anche sua figlia segua lo stesso destino di morte.

Nasce nel 1974 a Petilia Policastro, in provincia di Crotone, viene cresciuta da una nonna che le insegna che “il sangue si lava con il sangue”, perché quello è il diktat che la famiglia Garofalo segue da generazioni. Così, quando il padre di Lea viene ammazzato in una delle faide ‘ndranghetiste in cui sono coinvolti i Garofalo, a pareggiare i conti e vendicare l’omicidio sono il fratello di Lea e lo zio, i quali uccidono i fratelli Mirabelli. Lea intanto cresce, respirando l’odore di sangue e morte a cui molti anni dopo, ormai donna e madre, decide di ribellarsi. Anche a costo di non vedere crescere sua figlia. Anche a costo di farsi ammazzare.
A soli tredici anni, Lea si innamora di un giovane che ha quattro anni più di lei e decide di seguirlo a Milano. Lea cerca un riscatto, una redenzione forse. Ma non la trova. L’uomo al quale si è legata si chiama Carlo Cosco e a Milano gestisce insieme ai fratelli – e per conto della famiglia Garofalo – un traffico di droga. Durante questa relazione Lea rimane incinta di una bambina, Denise. Nel 1996 il fratello e il compagno di Lea vengono arrestati e lei, stanca di questa vita all’ombra della legge, decide di cambiare strada. La scelta fatta non viene accettata dal compagno che comincia ad assalirla con intimidazioni, così Lea decide di tornare nel paese di origine e diventare collaboratrice di giustizia.
È il 2002, e per Lea e Denise ha inizio un periodo molto duro. Inserite in un programma di protezione testimoni, vivono anni di anonimato spostandosi dalle Marche al Friuli, dalla Toscana al Molise. Finché, nel 2005, il fratello di Lea viene ucciso mentre Carlo Cosco torna in libertà e tenta in tutti i modi di scoprire dove vivono l’ex compagna e la figlia. A Lea viene tolta la scorta, poiché ritenuta testimone non attendibile. Impaurita, consapevole di essere bersaglio dei Cosco, la donna si rivolge a don Luigi Ciotti, che la mette in contatto con Enza Rando, avvocata che assisterà Lea fino agli ultimi giorni di vita.
Le due donne riescono a rientrare nel programma di protezione, ma Lea è ormai provata e versa in serie difficoltà economiche. Dopo un po’ di tempo la donna ricontatta Carlo Cosco: vuole infatti che contribuisca al mantenimento della figlia. L’uomo invita allora l’ex compagna ad andare a Milano, così che i due possano parlarne di persona. Sebbene l’avvocata Rando le sconsigli di partire, Lea parte per Milano insieme alla figlia. I primi giorni trascorrono sereni, le tensioni tra Lea e il suo ex sembrano essersi appianate, la donna inizia ad avere meno paura.
Ma il 24 novembre del 2009 Carlo Cosco riesce ad attuare quanto premeditato da anni. Accompagna Denise a far visita ad alcuni parenti che vivono a Milano, dicendo alla ragazza che lui deve parlare da solo con Lea. Poi fa salire la sua ex in un appartamento che Carlo Cosco si è fatto prestare ad hoc per ucciderla. Ad attendere Lea e Carlo in quella casa c’è Vito Cosco, fratello di Carlo. La donna viene brutalmente picchiata, torturata e infine uccisa.
Il suo cadavere è trasportato a bordo di un furgone dove vi è dell’acido, che servirà a cancellare ogni traccia di questa donna colpevole di troppo coraggio. Colpevole, soprattutto, di aver amato sua figlia al punto da volerla sottrarre all’ambiente, marcio e criminale, in cui lei stessa era vissuta e cresciuta. Sarà proprio la figlia Denise a imprimere un’importante svolta alle indagini in seguito alla scomparsa della madre. Quel 24 novembre infatti, quando Carlo Cosco va a prendere Denise, la ragazza gli chiede dove sia finita la madre. Cosco inventa una scusa: la donna gli avrebbe chiesto denaro, e per questa ragione lui avrebbe deciso di lasciarla sola e andarsene. Ma Denise non crede alla versione del padre e va a denunciare la scomparsa di Lea ai carabinieri.
Il corpo di Lea Garofalo non viene ritrovato per alcuni anni. Intanto le indagini proseguono portando, nel 2010, all’arresto di Carlo Cosco e dei suoi fratelli. A luglio 2011 inizia il processo, durante il quale Denise testimonia contro il padre. Il processo porta alla condanna alla pena dell’ergastolo, in primo grado, di Cosco Carlo e altri esponenti della famiglia. Sono proprio le rivelazioni dell’ex compagno che conducono al ritrovamento di migliaia di frammenti ossei e della collana della donna. La Corte d’assise di appello e la Cassazione confermano la condanna.
Dopo tre anni dalla scomparsa è possibile celebrare i funerali di Lea. Quel giorno Denise fa il suo personale ringraziamento alla madre, di fronte a una folla di persone accorsa per rendere omaggio a una donna uccisa per troppa dignità. Queste le parole di Denise: «Lea, la mia cara mamma, ha avuto il coraggio di ribellarsi alla cultura della mafia, la forza di non piegarsi alla rassegnazione e all’indifferenza. La vostra presenza è un segno di vicinanza non solo a lei, ma a tutte le donne e gli uomini che hanno rischiato e continuano a rischiare. Per me è un giorno molto difficile, ma la forza me l’hai data tu. Se è successo tutto questo è stato solo per il mio bene, e non smetterò mai di ringraziarti».
Oggi Denise è inserita in un programma di protezione e vive nel più completo anonimato, mentre Lea Garofalo, per lo Stato, continua a non essere una vittima di mafia; durante il processo infatti non è stata applicata l’aggravante dell’associazione di stampo mafioso. Ma il sangue di Lea non è stato versato invano. Oggi è giusto ricordare una donna andata incontro alla morte senza traccia di paura o di ripensamento, riuscita con il suo sacrificio a lasciare a sua figlia, come ultimo dono, un futuro lontano dalla mafia. La vita di Lea Garofalo è stata segnata da molta sofferenza e solitudine, prima e dopo il suo gesto di ribellione.
Poco tempo prima di morire, infatti, la donna aveva inviato una lettera al Presidente della Repubblica in cui denunciava le carenze del suo programma di protezione, rivelando di sentirsi abbandonata a se stessa e privata di un’esistenza vicina alla normalità. Il 24 novembre è una data simbolo che l’Associazione Libere Donne, sempre attenta e vicina alle donne vittime di violenza, ricorda.
La storia di Lea Garofalo è importante perché rappresenta anche le tante donne che si rivolgono ai tribunali dei minori per trovare, con l’aiuto delle istituzioni, percorsi di recupero per i figli. Queste donne sono dei veri e propri simboli della lotta antimafia e i loro gesti hanno assunto una testimonianza etica straordinaria nella società civile. (po)
[Patrizia Oliverio è criminologa dell’Associazione Libere Donne di Crotone]

CASSANO ALLO IONIO (CS) – Il Comune intitolerà il Parco Gioco a Lea Garofalo

Il Comune di Cassano allo Ionio, guidato dal sindaco Gianni Papasso, ha discusso e deliberato per l’intitolazione del Parco Giochi di Via San Nicola a Lea Garofalo, classe 1974, nata a Petilia Policastro, testimone di giustizia, vittima innocente di n’drangheta, scomparsa il 24 novembre 2009 a Milano.

Donna di grande coraggio, sebbene appartenente a una famiglia mafiosa, pur subendo tutta una serie di aggressioni fisiche e psicologiche, ebbe la forza di privilegiare la strada della giustizia, raccontando alla Procura della Repubblica di Catanzaro la verità sulla strage di Pagliarelle, sulla morte del padre, sugli affari illeciti della sua famiglia e di quelli dei Cosco e dei tanti traffici illegali che avvenivano a Milano. Lea Garofalo pagò con la vita la sua scelta di vita. Venne uccisa la sera del 24 novembre 2009 nella capitale lombarda da Carlo Cosco, suo compagno e padre di sua figlia Denise.

Il suo corpo, trasportato a Monza, venne sciolto nell’acido. La scelta dell’amministrazione comunale di proporre per la relativa autorizzazione da parte della Prefettura di Cosenza dell’intitolazione del Parco Giochi di Via San Nicola, perché privo ancora di denominazione, nonché per conservare il ricordo di una donna calabrese, che ha avuto il coraggio di sfidare la n’drangheta, di battersi per la verità, per riappropriarsi della sua dignità, del suo nome e di un futuro per lei e, soprattutto, per la propria figlia. L’atto deliberativo, reso immediatamente esecutivo, è stato trasmesso alla Prefettura per la prescritta autorizzazione e agli uffici Lavori Pubblici e Demografici per quanto di competenza.

L’ufficio tecnico dell’ente, è stato incaricato di apporre all’ingresso del Parco in questione, la targa segnaletica della denominazione. L’iniziativa, ha sottolineato il sindaco Gianni Papasso, «perché il suo esempio possa essere da stimolo per altre donne ad intraprendere percorsi di vera libertà, contro ogni forma di violenza, soprusi e prevaricazioni, al fine di costruire un mondo basato sulla pacifica convivenza e la tranquillità dell’ordine sociale». (rcs)