BASTA CON LA FALSA NARRAZIONE DEL SUD
LO SCENARIO DELLA CALABRIA È UN ALTRO

di MIMMO NUNNARI – Sin dall’inizio della vicenda storica italiana il racconto del Sud da parte dei giornali ha prodotto frutti avvelenati e contribuito a rinchiudere il Mezzogiorno dentro recinti in cui più facilmente si è sviluppato il male che, in alcuni ben determinati territori, ha impedito lo sviluppo e il prevalere del bene. In pochi altri paesi europei oltre che l’Italia il pregiudizio ha avuto la deleteria  funzione di rimozione della questione della divisione di un Paese in due territori, vizio d’origine causa della nascita  malcerta della  nazione: “Se lo stivale è spezzato, e soprattutto se è rimasto spezzato, non è un caso, ma frutto di scelte miopi, di interessi, di approssimazione e velleitarismo”, ha scritto il cardinale Matteo Maria Zuppi, presidente della Cei, nella prefazione al mio recente libro Lo Stivale spezzato (San Paolo edizioni).

Il pregiudizio (cit. diz. Oxford: “Opinione preconcetta, capace di fare assumere atteggiamenti ingiusti specialmente nell’ambito del giudizio o dei rapporti sociali”) è un fenomeno insopportabile, in quanto ha l’effetto perverso di generare avversione contro chi si ritiene sia diverso da noi. Lo hanno sperimentato sulla loro pelle i meridionali emigrati nel Nord Italia e all’estero, esclusi maltrattati, spesso costretti a vivere in condizioni disumane, animalesche. Nell’appendice a un’edizione speciale destinata alle scuole del famoso libro Se questo è un uomo, Primo Levi scriveva che “perché il fenomeno del pregiudizio insorga occorre che esistano differenze fisiche percettibili, come ad esempio tra i neri e i bianchi, i bruni e i biondi, ma – aggiungeva con amarezza – la nostra complicata civiltà ci ha resi sensibili a differenze più sottili, quali la lingua o il dialetto o addirittura l’accento. Lo sanno bene i meridionali costretti a lavorare al Nord”. Quello in particolare dei giornali, che ha alla base il pregiudizio, ma anche l’ignoranza, è una specie di antimeridionalismo che appare e scompare va e viene morde e fugge secondo le convenienze del momento.

C’è un tipo di giornalismo molto diffuso (che prevale) che ha creato artificiosamente l’immagine del Sud paradiso abitato da diavoli, di inferno da evitare e dal quale non si esce.  Questo regno di dannati meridionali lo ha raccontato decenni fa Giorgio Bocca nel molto discusso libro L’inferno, profondo Sud, male oscuro. Bocca è stato un grande cronista, ha scritto da tante periferie del mondo, e molto anche del Sud dell’Italia, tanto che poi ci ha fatto un libro. Voleva capire il giornalista, ma non c’è riuscito e tuttavia nel suo caso l’onestà professionale è sempre stata fuori discussione. Concludeva i suoi reportage, chiedendosi “per chissà mai quale peccato originale, quali orgogli, quale maledizione della storia, quale fatalità geografica, non si è mai riusciti a fare dell’Italia un paese veramente unito”.

La questione e non riguarda solo Giorgio Bocca, è che qualunque racconto del Sud non accompagnato da un’analisi attenta dei fattori degenerativi che si sono innestati nel tessuto sociale del Sud rischia di diventare se non proprio falso quantomeno qualcosa di non credibile. Generalmente – anche oggi –  dal bizzarro montaggio di parole e immagini dei giornali e delle televisioni emerge un paesaggio umano meridionale degradato e scomposto e affiora per automatismo  uno scenario falso, che oscura le qualità della gente, la natura e la bellezza dei luoghi. La tecnica di questo metodo mediatico odioso e discriminante l’ha spiegata Umberto Eco nel romanzo Numero Zero, libro nel quale fa dire ad uno dei personaggi, un giornalista:  “Lo so che si è sdottorato sul fatto che i giornali scrivono sempre operaio calabrese assale il compagno di lavoro, e che si tratta di razzismo, ma immaginate una pagina in cui si dicesse operaio cuneese eccetera eccetera, pensionato di Mestre uccide la moglie, edicolante di Bologna si uccide, muratore genovese firma un assegno a vuoto; che cosa gliene importa al lettore dove sono nati questi tizi? Mentre, se stiamo parlando di un operaio calabrese, di un pensionato di Matera, di un edicolante di Foggia, o di un muratore palermitano, allora si crea preoccupazione intorno alla malavita meridionale e questo fa notizia”. Anche in questo Eco ha dimostrato di essere maestro, spiegando a quali perversi metodi la stampa ricorre nella narrazione del Sud. (mn)

La Ndrangheta nelle ultime elezioni regionali?
Già “condannati” dai media i politici sott’accusa

di SANTO STRATI – Non si è ancora insediato il Consiglio regionale della Calabria e già cominciano le “assenze” forzate: gli arresti domiciliari che la Direzione Distrettuale Antimafia ha disposto per il neoconsigliere regionale Domenico Creazzo, di fatto, impediranno all’ex vicepresidente del Parco d’Aspromonte nonché sindaco (da oggi ex) di Sant’Eufemia d’Aspromonte di entrare a Palazzo Campanella. Entrare fisicamente, ovviamente, perché al momento l’accusa – pesantissima – di associazione mafiosa e scambio elettorale politico-mafioso non annulla il suo status di consigliere regionale. Una situazione che ricorda la dimora coatta inflitta al presidente Mario Oliverio che gli impedì per alcuni mesi di essere presente sia in Consiglio regionale che nel Palazzo della Giunta. Un provvedimento ai limiti della costituzionalità di cui non si parlava più fino ad oggi.

L’operazione coordinata dal procuratore Giovanni Bombardieri ha provocato 65 arresti, di cui 53 in carcere e 12 ai domiciliari, tra capi e gregari e il coinvolgimento di due politici molto conosciuti, con l’obiettivo di decimare la cosca Alvaro di Sinopoli. Un plauso senza riserve, come per tutte le iniziative giudiziarie contro la mafia e il malaffare. Però, l’arresto del neoconsigliere regionale Creazzo (8.033 voti il 26 gennaio scorso) e la clamorosa richiesta avanzata al Senato di autorizzare l’arresto del senatore villese Marco Siclari (eletto nel 2018 con 181.849 voti) per l’ipotesi di reato di scambio elettorale politico-mafioso, hanno reso l’inchiesta ancora più eclatante, con una risposta mediatica straordinaria. Che il pm Bombardieri – persona pacata e non in cerca di visibilità – probabilmente non cercava. I media sono invece alla ricerca della spettacolarizzazione continua, con buona pace della presunzione d’innocenza, e frullano tutto, senza alcun rispetto per le persone coinvolte. È il caso di domandarsi se il progresso dell’informazione (ormai immediata attraverso il web) debba passare per il trionfo dell’inciviltà, se il cinismo della cronaca debba prevalere sulla dignità degli accusati (su cui ancora non c’è un giudizio penale).

Premesso il massimo rispetto dovuto nei confronti di chi combatte tutti i giorni contro la ‘ndrangheta, il cancro più invincibile di questa terra, e che sulla legalità non ci possono essere né se né ma, qualche perplessità risulta, dunque, legittima sulla gogna mediatica cui vengono sottoposti gli indagati, già “condannati” dai magistrati inquirenti prima ancora di comparire davanti a un magistrato giudicante e prim’ancora che sia stata emessa una qualsiasi sentenza. I pm fanno il loro mestiere che è quello di condurre le indagini e sostenere la pubblica accusa, ma la reputazione di una persona perbene – non importa chi essa sia, semplice e anonimo cittadino, o rappresentante delle istituzioni – non può essere calpestata in questo modo dalla stampa e tv che infangano e “condannano” a priori chiunque vada sott’accusa. Non tocca alla stampa giudicare, quello è lavoro per i giudici, ma prima che ci sia una condanna la nostra Costituzione vuole che prevalga la presunzione d’innocenza.

Risulterà vero e dimostrato un ignobile scambio di voti col placet di una cosca mafiosa? Ben venga una condanna pesantissima ed esemplare, ma che ci sia una condanna. I processi non si fanno sui giornali o in tv e allo stesso modo non si presentano gli accusati – fatta salva l’eventuale flagranza del reato – come i “mostri” da sbattere in prima pagina. La storia degli ultimi 50 anni avrebbe dovuto insegnare qualcosa: ricordate il caso Tortora? molti giornali lo condannarono già dalla prima ignobile foto con i ferri ai polsi. Invece continua a crescere un’ansia giustizialista che mal si concilia col dettato costituzionale e i media, spesso, ci sguazzano dentro, pur con qualche eccezione. Basta guardare i titoli di qualche testata nazionale o di molte testate on line dedicati a questa vicenda che assegnano ai politici coinvolti la patente di mafiosità, senza alcuna riserva.

Giornali e tv, in gran parte, dimostrano infatti di cavalcare le motivazioni dei magistrati inquirenti “condannando” nei titoli gli indagati della procura antimafia. Esiste una notizia criminis e c’è un’indagine, ci sono arresti (i reati mafiosi non prevedono l’avviso di garanzia) e ci sono personaggi di conclamata personalità mafiosa. La notizia va data ovviamente con la dovuta evidenza senza nascondere nulla. Calabria.live non si occupa di cronaca nera o giudiziaria, quindi non troverete altri servizi sull’argomento, se non queste note contro il pessimo lavoro di gran parte dei media. Va informato giustamente e adeguatamente il lettore/spettatore/navigatore, però risulta prevalere sempre più di frequente il clamore e il sensazionalismo da sparare in prima pagina e chi se ne frega di mogli, figli, genitori che improvvisamente si ritrovano con la consapevolezza che niente sarà più come prima. Almeno ci fosse una giustizia veloce a condannare se colpevoli o assolvere se non colpevoli, invece ci sono tempi lunghi, lunghissimi e le esigenze di custodia cautelare (spesso legittime, qualche volta immotivate) servono solo a rovinare delle vite, indipendentemente se ci sia stato il reato o meno, se si è colpevoli o non colpevoli, se si è attori protagonisti o inconsapevoli comparse di un meccanismo giudiziario che prima stritola e poi non chiede nemmeno scusa.

La politica, purtroppo, continua non decidere di fare l’opportuna e adeguata operazione di pulizia nelle liste dei candidati, lasciando poi alla magistratura il compito di “stanare” le mele marce. E se poi qualcuno degli indagati, alla fine di un giudizio che non sarà rapido né immediato, dovesse risultare estraneo, ovvero “innocente” (o come recita il verdetto “non colpevole”), chi gli ridarà l’onore per la perduta reputazione? «La politica – ha fatto notare il consigliere regionale Pippo Callipo – deve svegliarsi e arrivare prima della magistratura: liberare le istituzioni dai tentacoli di ‘ndranghetisti e affaristi deve essere la madre di tutte le battaglie. La politica non può continuare a fare finta di niente. Lo abbiamo detto più volte in campagna elettorale: non si può essere disposti a tutto per vincere, è necessario che chi si candida ad amministrare la cosa pubblica faccia pulizia senza aspettare che arrivino le inchieste giudiziarie. Vigilare sulla composizione delle liste è possibile». Si dichiara garantista la neopresidente Jole Santelli: «La magistratura fa il suo lavoro e la politica non può che prenderne atto. Per quanto mi riguarda, sono garantista: ritengo che occorra estrema prudenza e, soprattutto, sia sempre necessario evitare condanne preventive. La lotta alla criminalità organizzata è una priorità nella nostra terra: bisogna evitare di sovrapporre i campi per non incorrere in strumentalizzazioni».

Non entriamo nel merito dell’inchiesta Eyphemos, non è mestiere nostro, ma un’accusa, ancor più infamante come quella di collusioni mafiose, dovrebbe basarsi su dati oggettivi (ci sarebbero molte inquietanti intercettazioni) e prove che, in questo caso, secondo molti giuristi, non nascondono problemi di dubbia costituzionalità: il voto è segreto, come si fa a stabilire che tot elettori hanno eseguito alla lettera l’ordine del mafioso di votare un candidato piuttosto che un altro? Come vengono contati o indicati i voti di scambio espressi in segreto all’interno di una cabina elettorale? Basandosi solo sulle percentuali dei consensi raccolti? La legge nell’accentuare le linee altamente punitive della norma precedente non ha dato risposte in questo senso.

Il reato di scambio elettorale politico-mafioso (art. 416 ter del Codice penale) è stato sostanzialmente modificato con la legge 21 maggio 2019 n. 43, entrata in vigore l’11 giugno dello scorso anno. Recita la nuova formulazione: «Chiunque accetta, direttamente o a mezzo di intermediari, la promessa di procurare voti da parte di soggetti appartenenti alle associazioni di cui all’articolo 416-bis o mediante le  modalità  di  cui  al  terzo comma  dell’articolo 416-bis in cambio dell’erogazione o della promessa di erogazione di denaro o di qualunque altra utilità o in cambio della disponibilità a soddisfare gli interessi o le esigenze dell’associazione mafiosa è punito con la pena stabilita nel primo comma dell’articolo 416-bis.

La stessa pena si applica a chi promette, direttamente o a mezzo di intermediari, di procurare voti nei casi di cui al primo comma.

Se colui che ha accettato la promessa di voti, a seguito dell’accordo di cui al primo comma, è risultato eletto nella relativa consultazione elettorale, si applica la pena prevista dal primo comma dell’articolo 416-bis aumentata della metà. [si arriva a 22 anni, ndr]

In caso di condanna per  i  reati  di  cui  al  presente  articolo consegue sempre l’interdizione perpetua dai pubblici uffici».

Probabilmente in tanti non conoscevano l’esatta formulazione del reato contestato ai due politici, su uno dei quali l’aula del Senato dovrà valutare l’eventuale fumus persecutionis. Se avete letto i tre commi che abbiamo riportato qualche riga su avrete le idee più chiare. O forse no.  (s)