di ALDO MARIA MORACE – Non si finisce mai di imparare.
Ho scritto su Alvaro una ventina di saggi accademici di ampio respiro e una decina di volumi, o forse più, fra monografie e curatele, pubblicate tutte con editori di medio o alto prestigio. Enuncio questi dati non per narcisismo ma per farvi comprendere tutta la mia disperazione quando sono venuto a contatto, casualmente, con una scoperta che ha annientato tutta la mia vita di studioso alvariano. Perché era a me sconosciuta.
Mi è stato inviato un video in cui, sotto l’egida dell’associazione culturale Anassilaos (che mi aveva dichiarato, attraverso il suo presidente, di non essere interessata alle celebrazioni alvariane), un curatore illustrava una mostra di foto alvariane, montata frettolosamente in occasione del 130° anniversario della nascita dello scrittore di San Luca.
Ma il punto non è questo.
Venuto a una foto scattata a Stoccolma, in occasione di un viaggio che Alvaro aveva effettuato da inviato per conto di un grande quotidiano, ma che era divenuto anche una promozione della candidatura al Nobel (che effettivamente ci fu, ma che rimase infruttuosa), il facondo illustratore rivelò a coloro che lo ascoltavano in video che tutto questo era avvenuto nel 1958.
Peccato, però, che Alvaro è morto nel 1956, a Roma, come tutti sanno.
È lo scrittore più iconico della Calabria, il più conosciuto nel mondo della nostra letteratura novecentesca, malgrado abbia avuto il torto di nascere a San Luca. Come ho scritto altre volte, nella sua opera si coagula tutta una linea di tradizione culturale e di civiltà che va dalle radici magnogreche a Gioacchino da Fiore, da Campanella a Padula. Ed è stato un impareggiabile testimone della fenomenologia e della patologia della civiltà a lui contemporanea.
È uno scrittore di respiro mondiale. E non merita di essere usato malamente per dimostrare (???) che la Fondazione Alvaro è viva e vegeta, dopo l’ormai notissimo subentro di un Commissario straordinario (il magistrato Luciano Gerardis) alla deposta governance per effetto di un incauto decreto prefettizio, che ha di fatto demolito la possibilità di ripensare criticamente la sua opera e di riproporla e di valorizzarla a livello nazionale e internazionale (ma tutto questo è trascurabile, anzi infimo, nell’ottica della predetta istituzione).
Salviamo non il soldato Ryan ma il nostro maggiore scrittore del Novecento da improvvisazioni (vedi la recentissima mostra sul sacro), da strumentalizzazioni, da incompetenze, da penose provincializzazioni, da appropriazioni colonizzanti (perché non togliere a San Luca anche questo?) e da immiserimenti immeritati e colpevoli.
Non ci si improvvisa. Altrimenti si scade e si cade nella gaffe che causa ilarità e pena. Il sapere scaturisce da una lunga consuetudine, da anni e anni di letture, di accertamenti filologici, di acquisizioni critiche. Prima di parlarne, o di operare nel suo nome, studiamolo. O, almeno, facciamo un corso accelerato.
È chiedere troppo? (amm)