Soldi finti (a pochi) e per le tasse solo il rinvio
Siamo tutti più indebitati, la Calabria di più

di SANTO STRATI – Con individiabile ottimismo, il premier Conte ha presentato il decreto-monstre cosiddetto del rilancio: le bozze contano 464 pagine di azzardati accoppiamenti di leggi e successive modificazioni, secondo l’arzigogolato legiferare cui ci ha abituato la politica italiana. Non è un libro dei sogni e ahimé ne alimenta pochi: è un farraginoso quanto complesso, monumentale, decreto la cui corposità non si traduce in effetti immediati e decisivi per la vita dei cittadini e, soprattutto delle aziende. Non ha alcuna visione strategica che lasci immaginare un volano per la ripresa, è un progetto finanziario che tiene in poco conto l’economia reale e promette, ancora una volta, soldi alle aziende, con la segreta speranza di darne il meno possibile. Nel decreto di marzo Conte aveva annunciato trionfante 400 miliardi subito per le imprese: ma non erano soldi veri, bensì garanzie dello Stato per prestiti senza rischi per le banche. Abbiamo visto com’è andata a finire: le banche, anche per i “miserevoli” (ma importanti) prestiti fino a 25mila euro sono arrivate a chiedere alle imprese ben 19 documenti, neanche si trattasse di comprare un grattacielo a CityLife a Milano, per poi negare qualsiasi aiuto a chi aveva veramente bisogno, con i più banali pretesti. Bastano i numeri a raccontare la storia: al 12 maggio su una platea di quasi 4 milioni di potenziali beneficiari, i prestiti entro i 25mila li hanno richiesti (inguaribili sognatori) in 149.723 (lo 0,37%) per poco più di tre milioni di euro (in Calabria 4.738 le richieste per 85.292.564 euro). Una goccia vergognosa, alla faccia delle garanzie per 400 miliardi. Degli altri prestiti, quelli “importanti” fino a 800mila euro pensati per gli investimenti, gli istituti di credito «stanno ancora aspettando istruzioni dalla Sace». Campa cavallo…

Lo abbiamo scritto, chi ci legge, potrebbe averne a noia: se a marzo il Governo ha fatto l’errore di affidare alle banche la gestione del denaro destinato a ridare liquidità alle imprese, adesso che si accinge a “regalare” a fondo perduto qualche miseria sottopone il suo atto di liberalità a norme di attuazione di là da venire. In poche ed efficaci parole, non c’è trippa per gatti, ovvero non ci sono soldi per gli imprenditori che la pandemia (e i dovuti – per carità – provvedimenti di chiusura del Governo) hanno ridotto alla fame. Due mesi di blocco totale e si offre non denaro fresco per ripartire e alleggerire le perdite, no, si dispensano crediti d’imposta sugli affitti (perché non li hanno offerti proprietari anziché agli inquilini?) e contributi a fondo perduto basati su un perverso, quanto macchinoso, meccanismo di conteggi delle perdite o dei mancati guadagni.

Cosa significa questo “malloppone” di 255 articoli che a tutto pensa tranne che a ipotizzare una qualsiasi idea di rilancio? Del resto, è frutto delle continue liti tra cinquestelle e dem, protagonisti irresponsabili del più pasticciato governo della Repubblica che si tiene in piedi esclusivamente perché, in questa situazione, non ci sono né alternative né personalità con gli attributi pronte a rimettere mano al disastrato bilancio statale e all’infausta politica del non fare. Eppure stiamo parlando di 55 miliardi non di bruscolini, E se togliamo il provvedimento che ha fatto venire le lacrime alla ministra Bellanova per la regolarizzazione di migliaia tra braccianti e colf, non si capisce se siamo di fronte a un nuovo “milleproroghe” (il provvedimento di fine anno dove ci si mette dentro di tutto e di più) o una presunta manovra finanziaria che ci permetta di uscire dal guado (dove già eravamo) e nel quale la pandemia ci ha mandati ancora più a fondo. I numeri sono importanti: 25 miliardi destinati al lavoro (e intanto ci sono centinaia di migliaia di dipendenti che aspettano la cassa integrazione di marzo), 15 alle imprese. Nessun provvedimento atto a cancellare tasse e gabelle di questo anno di assoluta follia: solo un rinvio, a settembre. Da pagare tutto in una volta o in comode quattro rate. Con quali soldi, evidentemente, a Palazzo Chigi nessuno se l’è chiesto.

La maggioranza è nel pallone, i cinquestelle stanno a combattere la solita guerra fratricida su chi dovrà guidare il Movimento, sempre più in caduta libera e con frange di opposizione interna subito messe a tacere, e i dem scimmiottano Nanni Moretti quando diceva «mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente?».

Bene, anzi male. In questo scenario c’è solo una certezza, gli italiani, noi italiani siamo tutti indebitati a vita, con esclusione dei soliti ultramilionari che guarderanno con malcelato distacco l’esplodere delle prossime tensioni sociali. E il Mezzogiorno, come al solito, rischia di far tornare a galla tutte le contraddizioni a cui il divario Nord-Sud ci ha abituato.

E per la Calabria? Peggio mi sento. A fronte di una adeguata (e odiatissima) strategia di chiusura che ha funzionato nella lotta contro il virus, la Regione aveva intuito, prima degli altri, la necessità di fronteggiare l’altro temibile contagio, quello della crisi economica non meno letale per il territorio. Ma ha toppato grazie alla solerte incapacità dei burocrati di Germaneto. Annunciati gli aiuti alle imprese (un modesto contributo di 2.000 euro) sta ancora a discutere sul pre-avviso di bando, quando la Regione Piemonte, partita dopo la Calabria, tanto per fare un esempio,   ha già provevduto a versare denaro fresco sui conti correnti delle aziende.

“Riparti Calabria” è una bella invenzione, che andava gestita, però, da un paio di manager di provata capacità: due conti, due righe di decreto e soldi per ridare una minima boccata d’ossigeno ai piccoli imprenditori, quelli vilipesi (se non strozzati) dalle banche, quelli che non ce la fanno più. E un aiuto per mantenere l’occupazione, pagando i contributi di un lavoratore su tre a nome dell’impresa. E tutto questo in attesa di sbloccare risorse dal fondo di coesione che potrebbero – come ha detto la presidente Santelli – arrivare anche a 500 milioni da spendere subito.

Ecco, è quel “subito” che fa venire il sangue agli occhi di chi fa impresa. Quando c’è da pagare, bisogna mettere mano al portafogli, anche quando è vuoto perché i crediti verso la pubblica amministrazione stanno a languire senza nessuna certezza di pagamento; quando si tratta di ricevere si frappongono lacci e lacciuoli perché i soldi arrivino (se arrivano) il più tardi possibile. La Santelli aveva proprio specificato che non si dovevano richiedere scartoffie e documenti, prima si paga, poi si accerta. Bella dichiarazione d’intenti su cui è sicuramente d’accordo l’assessore al Lavoro Fausto Orsomarso, logorato ormai da mille incombenze quotidiane ma indomito lavoratore. Orsomarso ha detto che il decreto sarà cambiato, il vicepresidente Spirlì ha incontrato in Cittadella o per via telematica i rappresentanti delle piccole realtà economiche per conoscere criticità e bisogni. Il tempo però passa, nessuno vede il becco d’un quattrino.

E se lo Stato ci condanna al debito perenne, la regione deve supplire coi mezzi propri, raschiando risorse comunitarie, provvedendo direttamente a dare impulso alla cosiddetta ripartenza. La grande crisi del coronavirus offre l’opportunità di mostrare quanto può valere una politica regionale che vede il concorso di tutti (maggioranza e opposizione) per il raggiungimento del bene comune: sulle macerie si deve ricostruire.

In questa occasione, le parole non sono pietre (al contrario di quanto diceva Carlo Levi), sono solo fuffa che ci spinge inesorabilmente verso l’abisso. Servono fatti, mattoni reali a forma di euro per edificare la crescita, per costruire la ripartenza: risorse economiche senza risparmio e pugni battuti sui tavoli. Siamo calabresi, no? (s)