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Osvaldo Napoli

L’on. Osvaldo Napoli, cittadino onorario di Squillace, ricorda il fratello Vito

di PINO NANO – Da sabato sera l’on. Osvaldo Napoli è “Cittadino onorario” del Comune di Squillace, per via delle sue origini. Negli anni 40 la sua famiglia lasciò Squillace per emigrare a Torino, e oggi il parlamentare racconta per noi quegli anni, e soprattutto le mille mortificazioni subite in Piemonte dalla sua famiglia e da migliaia di altre famiglie come la sua.

Vigilia di Ferragosto davvero speciale a Squillace, dove nella suggestiva cornice medievale del Castello normanno è stata conferita la cittadinanza onoraria all’on. Osvaldo Napoli, per anni sindaco del comune di Giaveno e Valgioie in Piemonte, dove negli anni ’40 emigrò la sua famiglia, fratello dell’ex sottosegretario DC alle Attività Produtive Vito Napoli, e per lunghissimi anni ombra fedelissima e operativa di Silvio Berlusconi ancora premier.

Una cerimonia solenne, interamente dedicata alla riscoperta della memoria storica del paese, e che il sindaco-medico di Squillace, Pasquale Muccari, ha appositamente messo in piedi per celebrare le famiglie “eccellenti” della sua comunità. Tra queste “famiglie” così “speciali” ieri sera c’era anche la famiglia “Napoli”, emblematica storia – la loro – di emigrazione e di successo, di riscatto e di rivalsa,di abbandoni e di rientri, di delusioni e di malinconie senza tempo. Ma questa è la vera storia dell’emigrazione calabrese in giro per il mondo.

«Ringrazio il Sindaco Pasquale Muccari, l’Assessore Francesco Guerino Caccia e l’Amministrazione tutta per l’onore e la considerazione nei miei confronti. Sono cittadino onorario nel Comune dove sono nati e cresciuti i miei genitori, la mia famiglia. Era Vito Napoli, mio fratello, che per tutta la vita non ha fatto altro che parlare, a noi in famiglia, e a chiunque altro condividdesse con noi la nostra vita di piemontesi acquisiti, di Squillace, di questo nostro mare unico al mondo, di questa costa bellissima, e soprattutto di questa gente, degli squillacesi, che lui conosceva uno per uno, per averli frequentati e vissuti per lunghi anni, come un tempo faceva e sapeva fare la vecchia politica».

Osvaldo Napoli prende la parola per dire grazie al “piccolo mondo antico dei suoi genitori”, e lo fa alla sua maniera di sempre, confessando e dichiarando in pubblico che il suo legame vero con Squillace è sempre stato in realtà un legame “mediato” dal fratello deputato, Vito Napoli, e che una volta diventato deputato eletto inCalabria non ha mai smesso di frequentarla questa regione, e di attraversarla in lungo e in largo, mille volte diverse, paese per paese, comunità dopo comunità.

«Era Vito che, dopo la sua prima elezione al Parlamento, ogni qualvolta tornava a casa nostra da Roma a Torino, riempiva la nostra vita di aneddoti, di storie personali, di vicende vissute, di riferimenti fisici e di luoghi cari alla memoria storica di ognuno di noi, e tutti strettamente  e rigorosamente legati alla storia di Squillace. Sarebbe stato più giusto che questa sera, qui al mio posto, ci fosse stato lui, se non altro per il grande amore, palese e ostentato, che Vito aveva per tutti voi e per nostro paese di origine. Molti di voi, che lo hanno conosciuto personalmente e frequentato per anni, ne sono diretti testimoni».

Osvaldo Napoli è un fiume in piena, non conosce mediazioni, si intuisce perfettamente bene che è impastato di passione meridionale dalla testa ai piedi, e in nome del fratello più “famoso”, racconta quello che Vito aveva più volte confessato ai suoi amici più fidati prima di morire.

«Per mio fratello, Squillace era diventata la sua vera Itaca. Dove credo che Vito sarebbe tornato molto ben volentieri a vivere la sua vecchiaia, se ne avesse avuto il tempo. Lo avrebbe fatto soprattutto nel ricordo e nel nome di nostro padre, e della famiglia di origine, che negli anni 40 aveva lasciato Squillace per emigrare a Torino in cerca di fortuna.Soprattutto in cerca di pane e lavoro».

Ma dopo Squillace, grazie ai suoi racconti –aggiunge Osvaldo – veniva la Calabria.

«Vito aveva la Calabria nel cuore, l’aveva da ragazzo, l’ha conservata da grande, ed è morto con il desiderio di poter salutare in tempo tutti i suoi amici più cari, e la stragrande maggioranza dei suoi compagni di lotta – con cui per anni aveva condiviso le ragioni ideali e reali della Calabria – terra dove lui aveva di fatto trasferito la sua vera residenza. Vito Napoli e la Calabria, e questa sera aggiungo Vito Napoli e Squillace,  erano una cosa sola.Da deputato era stato educato a vivere per strada, quartiere dopo quartiere, periferia dopo periferia, e come globe trotter aveva dentro una insana passione per la gente comune e per i luoghi più tradizionali della gente comune. Allora, quando lui si candidò per la prima volta alla Camera dei Deputati, i voti si cercavano casa per casa, e in Calabria una campagna elettorale era davvero un’operazione pazzesca».

Lo era soprattutto per via della complessità orografica del territorio calabrese, per via delle dimensioni geografiche, allora delle tre province, oggi sono diventate cinque, ma lo era soprattutto per via della mancanza ancora di strade a scorrimento veloce.

«In quegli anni andare da Cosenza a Locri era davvero un viaggio senza fine, ma Vito era capace di ripartire da Locri alle cinque del pomeriggio per presiedere magari una riunione di gruppo a Cosenza alle dieci della sera. Aveva un grande difetto, è vero, e tutti quelli che lo hanno conosciuto personalmente lo hanno sempre saputo: arrivava dovunque lo invitassero, ma ci arrivava sempre in ritardo. Tutto questo dipendeva anche da questo suo rapporto viscerale che aveva con i suoi amici ed elettori. Che non riusciva mai a lasciare soli e delusi. Mi piace ricordare mio fratello questa sera, qui a Squillace, perché sono sicuro che dovunque egli sia, e ci stia a vedere, sarebbe fiero di sentire queste cose raccontate alla sua gente e al suo paese natale».

Rieccolo lo spirito del migrante: «Grazie caro sindaco per questo onore reso questa sera alla mia famiglia, ai “Napoli di Squillace”, a questi ex ragazzi di Calabria come me che poi nella vita hanno anche avuto successo, ma per tutta la vita ci siamo anche portati dentro il tarlo, pesante, della malinconia e della solitudine, che era la solitudine dei nostri genitori, e di chi per forza di cose era stato costretto e condannato all’emigrazione».

– Che ricordo ha Osvaldo Napoli delle sue origini torinesi?

«Complesso, articolato, difficile da comprendere fino in fondo. Vede, essendo io nato a Torino, avrei dovuto sentirmi torinese a tutti gli effetti, torinese tra torinesi, piemonte come gli altri, e invece no. Per tutta la vita i miei genitori mi hanno ripetuto che il mio paese di origine era Squillace. Che io fossi nato a Torino non gliene importava niente a nessuno in famiglia. Lo consideravano un incidente di percorso».

– Onorevole perché questa sera ha parlato solo di suo fratello Vito più che di lei?

«Vito era, dei “Napoli di Squillace”, la punta di diamante. Lo resterà  per me fino all’utimo giorno della mia vita. Vito era un uomo politico d’altri tempi, erudito, profondo conoscitore dei problemi del Sud, uomo di una modestia senza pari, senza grilli per la testa, e solo di rado, e a tratti, ma lo faceva per difendersi, sapeva anche essere altero e fiero delle sue e delle nostre origini. Sin da bambino Torino lo aveva educato al lavoro duro, è stato così anche per me e per le mie sorelle, e la nostra famiglia ha fatto di tutto per aiutarci. Eravamo tutti  sempre insieme, a superare le mille difficoltà che ogni nucleo emigrato viveva in quegli anni sulla propria pelle in Nord Italia».

– Alla fine il vostro bilancio è pieno di successi personali importanti, non crede?

«Dipende da come si guarda al problema.Della mia parentesi a Torino ricordo mille umiliazioni pesanti. La Torino della nostra infanzia – mi creda– non era solo la bellezza della Mole Antonelliana, o la magia della Sindone. Torino, per noi, è stata anche la città delle mille privazioni, delle grandi lotte operaie e sindacali, e noi ci stavamo in mezzo, ma anche delle grandi sconfitte di noi meridionali. Mi creda, Torino era per antonomasia in quegli anni la città insensibile nei riguardi di noi cafoni del Sud. Ricordo quando arrivammo a Torino, i cartelli davanti ai ristoranti o agli alberghi del centro, “No meridionali”».

– Quindi è tutto vero quello che si dice sul “razzismo” dei torinesi di quegli anni?

«E me lo chiede anche? Negli ’50 e ’60, noi meridionali eravamo considerati la feccia del mondo. Venivamo trattati come schiavi deportati. Venivamo giudicati dal colore della pelle, che era meno chiara forse di quella dei piemontesi doc».

Addirittura?

«Ieri sera a Squillace io ho raccontato un dettaglio privato dei “Napoli di Squillace” a Torino, e che mio fratello Vito – se fosse ancora vivo – si sarebbe vergognato di ricordare. Ogni mattina, ricordo, mia madre mi mandava dal lattaio a prendere il latte per la colazione, e oni qualvolta arrivavo davanti al bancone da dove questo vecchio piemontese mi porgeva la bottiglia di vetro piena di latte, davanti a tutti non faceva altro che gridarmi sempre lo stesso ritornello: “Dì a tua madre che, o domani mi paga il latte che ti dò oggi, o non farti più vedere nel mio negozio”. Tutto questo davanti a tutti. Ero ancora un bambino. Immagini la mia vergogna, che restava però intima. Avrei pagato chissà che cosa per non rivedere mai più quell’omone che ogni mattina mi mortificava in quella maniera, ma non avevamo altra scelta».

– Vedo che si porta ancora tutto dentro…

«Non è facile dimenticare quegli anni. È stata dura davvero. A Torino noi calabresi abbiamo imparato a subire, anche i ricatti morali più squallidi e più impietosi. Soprattutto, abbiamo imparato a non reagire. A rimanere in silenzio. A credere che alla fine ce l’avremmo fatta da soli, e che un giorno avremmo anche anche potuto comprare il negozio del lattaio.Tutto questo è andato avanti per anni, per troppi lunghi anni. Quasi un tormento. Una sera Vito tornò a casa che era distrutto: era raro vederlo così triste e così abbattuto. Gli chiesi cosa fosse successo, e solo dopo mille insistenze si aprì e ci raccontò del suo “sogno mancato”.

– Una delusione d’amore?

«Macchè, nessuna delusione d’amore. Lui amava cosi tanto la politica da essersi preparato a lungo a fare il consigliere comunale a Torino, ma quando si trattò di chiudere le liste, e le candidature, i suoi punti di riferimento, intendo i leader del suo gruppo, Carlo Donat Cattin e Guido Bodrato, gli fecero capire che “Torino sarebbe stata una impresa per lui”. Vito chiese: “Perché?”. E Guido Bodrato, con la sua lucidità di sempre, molto candidamente, ma probabilmente anche da grande conoscitore della realtà piemontese di quegli anni, gli disse: “Vedi Vito, tu sei di origini meridionali, vieni da un paesino lontano della Calabria, il tuo stesso cognome, “Napoli”, potrebbe ingenerare nei nostri elettori più tradizionali qualche reazione negativa. È meglio candidarti per la prima volta al comune di Grugliasco”. Questa è la storia vera dei “Napoli di Squillace” a Torino».

– Ma suo fratello, poi, andò avanti per la sua strada…

«Come un panzer inarrestabile. Diventato deputato, il venerdì sera lasciava Roma, e la sua famiglia, per tornare a casa, lui chiamava la Calabria la sua casa, e per tre giorni consecutivi, settimana dopo settimana, mese dopo mese, anno dopo anno, riattraversava la Calabria da cima a fondo, alla ricerca di nuove pulsioni e di nuove idee. Vito non conosceva sosta. Lo sapevano davvero tutti. E anche per questo, il mondo politico di allora lo temeva, e lo guardava con diffidenza. Lui non si fermava mai. Non conosceva mai intervalli di tempo. A Roma viveva praticamente in Parlamento. Ci stava dalla mattina alla sera. A Montecitorio riusciva anche a trovare il tempo per studiare, per approfondire i temi economici che tanto lo intrigavano e che per anni anche in Calabria lo hanno visto protagonista assoluto di un dibattito culturale che non aveva allora molte voci e molti protagonisti. Continuamente in giro per i vari ministeri a pietire  e a raccattare quel poco che poteva bastare alla sua gente e alla terra che lo aveva eletto deputato della Repubblica».

– Dopo di lui è però arrivato lei in Parlamento.

«Non è stata la stessa cosa. Erano tempi diversi i suoi dai miei. Io, da deputato, ho provato in mille modi e mille volte diverse ad emularlo e a seguire le sue tracce, ma non mi è mai stato facile. Lui era lui, e basta. In Calabria, molti se lo ricordano ancora bene, Vito dormiva spesso in macchina, tra un trasferimento e l’altro, e la macchina era diventata alla fine la sua vera casa fisica. In ogni paese aveva un amico, un punto di riferimento, una persona che in qualche modo su quel territorio parlava e pensava al suo posto, e per anni tutta la sua vita è stata un folle girovagare da Nord a Sud di questa regione così complessa già allora e così lontana dal resto del mondo politico che allora più contava. Quanti congressi! Quante campagne elettorali! Quanti incontri e quante illusioni. Diventato sottosegretario di Stato gli pareva di aver svoltato, di essere ormai in grado di stravolgere il destino della Calabria e dei calabresi, ma presto si rese conto che le logiche del potere erano ben diverse dalle aspettative e dai sogni di un folle romantico come lui. Una cosa sono i sogni e le attese del popolo, altra cosa è la gestione del governo del Paese».

– Lei crede che lui sia morto soddisfatto del suo impegno politico in favore del Sud?

«Quando Vito fu chiamato al governo fu un’esperienza esaltante per lui quella alle attività produttive la sua, ma anche insidiosa, come insidiosa era già allora la vita di ogni politico, costretto dalle abitudini del tempo e dalle attese dei propri elettori a frequentare non solo i salotti buoni del tempo, ma anche le retrovie. Bastava capitare al matrimonio sbagliato, al funerale sbagliato, al battesimo sbagliato, e bastava che qualcuno ti fotografasse per compromettere anni di impegno duro e di lavoro politivo onesto.Lui lo sapeva bene, ma aveva accettato fino in fondo anche questi rischi. In Calabria Vito voleva lasciare il segno. E lo voleva fare in nome della sua famiglia, i “Napoli di Squillace”».

– Ricorda un momento davvero felice di suo fratello?

«E come no! Un giorno Vito chiese ad uno dei suoi amici più fidati, ma anche più cari, che era Albertino De Maio e che allora era consigliere economico di un grande ministro come Siro Lombardini, ma anche amico di un grande economista come Angelo Detragiacche, di voler fondare un giornale economico. Albertino lo prese per pazzo. Detragiacche si mise a ridere. Ma la sua cocciutaggine produsse alla fine un mensile economico che lui chiamò Economia Calabria, che arrivava a Roma e che faceva discutere molto, perché per la prima volta in Italia finalmente un periodico patinato si ero preso la briga di raccontare finalmente la Calabria in maniera diversa e disgiunta dai soliti temi della criminalità organizzata. Pensi soltanto che il primo numero della rivista uscì con in copertina un primo piano di Gianni Agnelli, e dentro una lunga intervista di Agnelli,che allora era la FIAT, sulla crescita possibile del Mezzogiorno».

– Praticamente la riscoperta di un vecchio amore per il giornalismo?

«Proprio così. Da deputato Vito ridiventava in questo modo giornalista ed editorialista, ma era stata questa la vera grande passione della sua vita, perché anche da deputato lui continuava a vivere la dimensione del grande inviato-giornalista. Lui scriveva e viveva, scriveva e rinasceva, scriveva e sognava.Spero sia bello ricordarlo in questo modo, ma credetemi: a noi in famiglia questo suo carattere effervescente, estroso, elitario, eccentrico, esuberante e avvolgente ci serviva e ci aiutava ad andare avanti, in maniera più serena di come avveniva in migliaia di altre famiglie calabresi arrivate in Piemonte dalla Calabria per fame di lavoro».

– Ieri sera lei ha avuto momenti di grande commozione…

«Vuole la verità? La manifestazione di ieri sera non poteva avere sede migliore di quella che ha avuto. Per Vito Napoli il Castello di Squillace era davvero il cuore del suo mondo. Quello che noi non abbiamo mai trovato a Torino, lo abbiamo poi ritrovato in Calabria attraverso i racconti di Vito. A Torino la mia famiglia ha penato duro. Ma era il destino comune della gente del Sud. Mio padre lasciò Squillace agli inizi degli anni ’40, ma per lunghi anni ancora Torino ci guardò e ci giudicò come appestati. Noi meridionali eravamo la volgare mano d’opera, che serviva ai piemontesi, per costruire le loro infrastrutture e le loro città».

– Qual era la verità?

«E me lo chiede? Noi meridionali siamo poi stati i veri grandi artefici dello sviluppo piemontese, e della crescita industrriale di tutto il Nord Italia. E come i “Napoli di Squillace”, migliaia e migliaia di altre famiglie calabresi e meridionali. Guai a dimenticarlo. Le dò un dettaglio privato della nostra famiglia emigrata a Torino e che mio padre ci ha ripetuto fino all’ultimo giorno della sua esistenza. Quando noi siamo arrivati a Torino, avevamo solo poche cose in una valigia di cartone, qualcuno potrebbe anche sorridere, ma era questa la realtà di quegli anni e della nostra esistenza. Poche cose, in una valigia di cartone legata con la corda per evitare di perdere per strada quel poco che c’èra dentro. Arrivati a Torino non avevamo dove andare. Non sapevamo dove andare. Una casa? Vorrete dire una stanza? Con un letto che bastasse per tutti? Senza bagno?».

– E allora?

“Allora, ci pensarono gli squillacesi, che a Torino erano arrivati prima di noi, e che prima di noi avevano già trovato lavoro e certezze. Gli squillacesi di Torino ci ospitarono, ci diedero conforto, ci aiutarono a capire che sarebbe stata una lotta quotidiana difficile, con un popolo che non sapeva nulla di noi,e soprattutto gli squillacesi ci diedero la certezza della famiglia e del paese ombra lasciato alle nostre spalle. Il paese di Squillace che avevamo lasciato in Calabria, noi lo avevamo finalmente ritrovato in Piemonte. Gli stessi sorrisi, gli stessi abbracci, le stesse strette di mano, la stessa complicità e lo stesso amor proprio. Sa cosa ho detto ieri sera al sindaco di Squillace? Che Dio benedica per sempre, dovunque essi siano, gli squillacesi che allora ci accolsero e ci aiutarono a credere di potercela fare».

— Da oggi dunque lei è cittadino onorario di Squillace, ma ieri sera ha dedicato questa sua pergamena a suo fratello Vito Napoli: perché?

«Perché Vito e Squillace, non io, erano una cosa sola davvero. Io credo che in cuor suo mio fratello avesse sperato fino all’ultimo di essere sepolto qui, tra quella che lui considerava la sua gente, gente che lo ha molto amato davvero, ma non ha avuto la forza e il tempo di programmare i dettagli del suo lungo letargo. Perché la storia dei “Napoli di Squillace” inizia con mio padre, ma finisce con lui. Vede, la mia parentesi di deputato del Parlamento, e ancora prima di sindaco di Giaveno e di Belgioie, rispetto alle cose fatte da mio fratello è ben poco cosa. E non avrebbe avuto nessun senso arrivare qui a Squillace la vigila di Ferragosto per non dire a me stesso la verità. Sa cosa ho detto ieri sera in pubblico? Grazie Squillace! Grazie sindaco! Grazie squillacesi, per aver riaperto per un giorno il grande romanzo della nostra vita di famiglia.Il giudizio politico su di noi appartiene invece ad ognuno di noi, e ad ognuno di voi. In America direbbero molto più semplicemente: “Che Dio benedica Squillace e la sua gente! Bello non crede?». (pn)