Giusy Staropoli Calafati / Se l’uomo è forte la donna è fortissima

di GIUSY STAROPOLI CALAFATI – “L’uomo è forte”. Con questa espressione potremmo ben cominciare il racconto della genesi del genere umano. Parafrasando una delle più belle opere di Corrado Alvaro, dove però, la forza del genio maschile è frutto dell’ostinazione e della resistenza umana in generale, e non della forza in quanto mezzo che consente di svolgere una certa azione, a un determinato elemento, di un certo sesso. 

‘L’uomo è forte’, è un’espressione antica e al contempo fortissima, che sentivo ripetere spesso a mia nonna quando ero bambina, nei racconti della sua giovinezza, nei tracciati che faceva delle guerre in cui l’uomo aveva sofferto, ma che grazie alla sua forza aveva superato. Lo sentii ribadire poi anche a mia madre, quando per esempio vi fu il primo sbarco sulla luna. ‘L’uomo è forte’, disse a gran voce. 

Tutti casi in cui con la parola ‘uomo’, banalmente nome comune di persona, viene indicato l’individuo di sesso maschile della specie umana. Nessuno, a ritroso nella storia, ha mai avuto il coraggio di dire che l’uomo è forte grazie alla donna che sin dalla genesi gli è stata posta accanto. E che la forza che esso, a tutt’oggi dispone, e che da essa gli proviene, è la sola in grado di modificare lo stato di quiete o di moto che lo interessano, e si chiama amore. O meglio ancora, dicasi più precisamente: individuo di sesso femminile della specie umana. Che sia essa sua madre o la sua amata. 

Dunque, l’uomo è forte, tradotto nella pratica quotidiana della sopravvivenza della specie, significa che “la donna è fortissima”. Secondo la più antica delle leggende bibliche, Dio si servì della costola dell’uomo per creare la donna. Una figura emergente destinata ad accompagnarlo nelle sue gioie e nelle sue peripezie. 

Finanche il Creatore avverte, dunque, la priorità di dare all’uomo una compagna. Mettergli accanto un altro essere vivente di sesso opposto al suo. E quindi completare la sua esistenza.

Dio avrebbe potuto fare la donna allo stesso modo di come aveva fatto l’uomo. Con lo stesso criterio e lo stesso mistero. Invece no. È da una costola di lui che plasma lei. E le dà vigore, e le concede bellezza. Mettendola in risalto sopra ogni cosa, all’interno del creato. Ma l’uomo, sempre così troppo autoritario ed ossessivo nel sentirsi ‘il primate’ tra i viventi, di questa identità che Dio concede, non come grazia ma naturale dono, alla donna, arriverà a vendicarsi crudelmente di lei. Tanto che aver dato per ella la sua costola, diverrà un fatto talmente distante, passato e sconclusionato, che della donna ne farà oggetto di bordello.

Passata la creazione, l’uomo, oramai in possesso delle sue piene virtù, figura indipendente dall’opera del Creatore, rompe e corrompe, con precise sciabole comportamentali, il mondo in cui opera, allestendolo di controfigure. E di quella creatura così bella e così audace, irresistibilmente attraente, che avrebbe dovuto sotto il suo braccio essere protetta, se ne approfitta. Ne abusa e la usa. Se ne serve e la sfrutta. La impiega e la comanda. La costringe a soggiacere a lui, arrendevolmente. La donna diventa improvvisamente un anello fragile della catena, e limita la sua presenza nella società a quel po’ di chiaranza in cui riesce ancora a vedersi viva. 

I ritratti che incorniciano le varie epoche storiche compiute e vissute dall’uomo, non mutano mai più la condizione della donna, anzi, la confinano in spazi sempre troppo piccoli, mai abbastanza ampi, e per nulla capienti. Come in una noce. Essa diventa una, nessuna e centomila. Vittima di una crisi identitaria in cui, pur rimando essa stessa l’unica figura della famiglia in cui accresce la fede, soggiace al volere del maschio, nella misura di padre e di padrone. Un destino alieno nelle cui membra imperfette le donne si scoprono mano mano perfettissime, e oltre il quale, rianimarsi diventa una scelta e un atto di coraggio.

Guardando mia nonna, ho sempre pensato che senza di lei, il nonno non valesse nulla. Un uomo bastardo e irregolare come tutti. Il valore di lui, era dato dalla forza di lei. Un teorema che conferma la precisa meccanica della vita. Ricompone il quadro originale del Creatore.

Osservando mio padre, ho sempre sostenuto che i suoi successi portavano, e per esteso, il nome di mia madre. La sua audacia, la sua profonda ribellione, il senso altissimo dell’onore che ella, per pudore, responsabilità e morale, non aveva mai tradito. 

Da mia nonna e da mia madre, ho capito quanto era valso essere nata donna anch’io. Ma al contempo, e sempre da loro, ho preso coscienza che la nostra posizione andava difesa. Che non era una squalifica essere nate donne, ma una condizione che aveva tutte le ragioni per metterci in discussione. 

Mia nonna aveva lavorato come un mulo, altro che uomini. Le mani le aveva aperte, spaccate per la fatica che avevano sopportato, e davanti alla quale non si erano mai ritratte.  Eppure la sua bocca non aveva mai osato parlare. Controbattere. Mai neppure un lamento. Solo e sempre muta sopportazione. Era stata una brava madre, mia nonna. Una perfetta moglie, un vero angelo del focolare domestico. Ma non aveva realizzato null’altro. I sogni erano impediti a quelle come lei. 

L’emancipazione femminile la considerava una frottola di quattro spostate rivoluzionarie. Ella il coraggio della rivoluzione non l’aveva mai avuto. Infatti morì con i piedi scavati nella terra. Con il voto dell’obbedienza a Dio e all’uomo che aveva sposato.

Mia madre ha rinunciato a sentirsi donna parecchie volte. Quando ancora ragazzina mio padre la portò via con lui e dovette lasciare la scuola. Che al primo anno di Segretario d’azienda, aveva già concluso la sua istruzione. Quando le offrirono il posto come segretaria nella scuola del paese, e mio padre rifiutò per lei.

Mia madre però, non ha mai pensato di dover morire con i piedi nella terra come la nonna. Anzi, quella morte così indegna, si era giurata di doverla riscattare. E così un pizzico di quella emancipazione farlocca, davanti alla quale la nonna, ignorando il suo ruolo reale, l’aveva sempre messa in guardia, lei la mise in atto sul serio. Prese la patente prestissimo, mia madre. E soprattutto acquisì la sua autonomia. 

Certo, era ancora tanta la strada da fare, ma le donne, in Italia, a partire dal 46, avevano fatto grandi passi in avanti. Da semplici individui di sesso femminile, erano diventate donne. Con una identità, e una precisa personalità. Lavoratrici riconosciute con i propri nomi e cognomi. Donne apprezzate e ammirate. Contemporaneamente simbolo del focolare domestico e madrine del grande progresso.

La donna esce dalla sua noce scura, con gradualità. Poco alla volta conquista la sua indipendenza. Senza però, mai riuscire del tutto, a porre fine alle annose differenze di genere.

Un retaggio antico ma di cui vittima è fondamentalmente l’uomo che, complessato per natura, sfoga su di essa le sue frustrazioni. I complessi atroci dell’inferiorità, di una forza sovrumana che la donna ha ma l’uomo non riesce a fronteggiare. 

La donna resta, infatti, il principio assoluto di ogni cosa. Contro ogni ostilità, essa è il battesimo e l’iniziazione. La concezione è tutta raccolta dentro al suo grembo. E fonda la terra e garantisce la vita. 

Si pensi alla madre di Gesù. Davvero è credibile che sia il Cristo, in quanto uomo, il vero protagonista della storia dell’umanità?

Sul palcoscenico c’è solo e sempre Maria. Ella comincia ed ella finisce. Da lei tutto parte e a lei tutto torna. L’angelo andò da lei; Ella concepì per opera dello Spirito Santo; a lei una spada trafiggerà l’anima. 

La verità è che la donna è l’unica vera generatrice del mistero. La donna è la radice. E alla radice non si fa torto. Se si maltratta la radice, l’albero muore. E se muore l’albero nessun fiore farà il frutto che darà il seme per far crescere l’albero per fare il tavolo attorno al quale radunare chiunque. La famiglia, le grandi nazioni, i potenti del mondo, il mondo intero.

E’ questione di attenzione e di sensibilità. Di analisi di pensiero. 

La donna senza l’uomo non può esistere. Ma laddove l’uomo è l’idea, ecco che la donna diventa progetto. E la contemplazione di entrambi dona vero compiacimento. C’è un comandamento che Dio dona all’uomo sin dalla sua creazione. “La tua libertà”, gli dice il Signore, “finisce dove incomincia quella della tua donna. Va e non sbagliare”. 

Nessuno lo scrive mai, nessun uomo lo cita. Ma basta ricordarsi che ogni cosa ha le sue regole da rispettare. Anche la vita. Che è straordinariamente donna. 

La Calabria narrata dai suoi scrittori, il film di Marcello Villari

Il Circolo del Cinema “Charlie Chaplin” di Reggio Calabria qualche giorno fa ha proiettato nell’ambito della sua rassegna il documentario Dopo il silenzio. Nuovi scrittori calabresi, prodotto da ManaFilm con la regia di Mario Canale. Al Cinema Teatro Metropolitano, nel corso della proiezione, era presente anche Marcello Villari, giornalista e scrittore, ideatore e curatore del documentario che, dopo il film, ha partecipato ad un dibattito sulla produzione letteraria calabrese degli ultimi anni, coordinato da Claudio Scarpelli presidente Circolo del Cinema “Charlie Chaplin”, con il contributo di Francesca Orefice di Lab Donne gruppo di lettura di Gioia Tauro, Angela Curatola presidente del Circolo Guglielmo Calarco e il magistrato Roberto Lucisano.

La letteratura contemporanea calabrese è il tema del documentario ‘Dopo il silenzio’, il cui titolo è emblematico nel sottolineare la presenza di un vuoto nella produzione letteraria regionale che è stato colmato solo negli ultimi anni. Dopo grandi scrittori come Corrado Alvaro, Leonida Repaci, Mario La Cava, Saverio Strati, Fortunato Seminara, la Calabria è rimasta silente per decenni, ma oggi nuovi interpreti si sono guadagnati meritati riconoscimenti. Carmine Abate, Gioacchino Criaco, Mimmo Gangemi, Annarosa Macrì, Domenico Dara, sono i protagonisti di questo film, che si presenta come una conversazione sulla Calabria e sulla letteratura. Ogni scrittore si riferisce alla sua storia e alla storia della sua terra, raccontando ognuno la propria Calabria, poiché non esiste una sola Calabria ma tante Calabrie quanti sono gli sguardi di chi la racconta.

«Mi sono ripreso il diritto di raccontare la mia terra» – afferma Gioacchino Criaco nel corso dell’intervista, sottolineando che la sua opera non è finalizzata alla costruzione di una bella cartolina, ma è la manifestazione della possibilità che ha un calabrese di raccontare, «noi possiamo raccontare il nostro mondo e lo possiamo fare in modo sincero e alla fine può darsi che sia utile più questo tipo di racconto rispetto a una narrazione, a una rappresentazione che è fatta da un punto di vista esterno».

La produzione letteraria calabrese servirebbe così ad allontanare il rischio che ha la Calabria di essere in un immaginario collettivo nazionale la terra degli ultimi, un luogo in cui vive gente che sta peggio, la cui idea diventa quasi consolatoria. Per uno scrittore calabrese produrre diventa una responsabilità e il dovere è quello di far emergere attraverso la narrazione la complessità di questa terra. «La Calabria è una terra bellissima, ma ferita» – sostiene Carmine Abate e prosegue dicendo che «le ferite le conosciamo tutti, a partire dalla ‘ndrangheta, però molto spesso ne ignoriamo le bellezze». E così nei suoi testi numerosi sono i personaggi non calabresi che rimangono ammaliati e incantati dalla Calabria e scelgono di rimanervi. La Calabria va difesa e la letteratura può servire a rinvigorire l’orgoglio dell’essere calabresi, allontanando gli stereotipi.

«La Calabria non è una specie di lontano West –  afferma Annarosa Macrì – in cui ogni giorno vengono combattuti i mafiosi. A prescindere dalle problematiche e dalle complessità di questa terra, va anche rivendicato il dovere di raccontare una normalità calabrese e dinamiche che pur ambientate in Calabria mantengano una universalità».

E così anche alcune scelte stilistiche, come quella di Domenico Dara di utilizzare per i suoi testi il dialetto, vanno interpretate come volontà di rendere il calabrese un linguaggio letterario e la Calabria metafora di un luogo che appartiene all’umanità, poiché in esso tutti i grandi sentimenti vengono messi in gioco. La speranza espressa da tutti gli scrittori protagonisti del documentario è quella che si crei un’inversione di tendenza che faccia tornare i tanti giovani emigrati e allontani l’idea della Calabria come ‘terra persa’.

«Più che la scrittura” – sostiene Mimmo – è la lettura che può influire sul cambiamento, poiché è la lettura che fa sorgere pensieri nuovi e permette alla cultura di fiorire abbattendo quelle forze che immobilizzano questa terra».

Non solo le idee e le opinioni degli autori che rappresentano la letteratura calabrese contemporanea, il documentario affianca alle parole immagini di una terra che incanta e luoghi spesso sconosciuti ai calabresi stessi. Dopo il silenzio è dunque un invito a rapportarsi alla Calabria senza pregiudizi o stereotipi, a scoprire le sue tante narrazioni e a coltivare uno sguardo personale su questa terra. (Martina Polimeni)