INVECCHIAMENTO E LONGEVITÀ: WELFARE
E OPPORTUNITÀ COME LEVA DI SVILUPPO

di ANTONIETTA MARIA STRATI – Come aiutiamo i giovani a fare famiglia” e “come trasformare l’invecchiamento della popolazione da un onere percepito a una leva positiva per il Paese, stimolando la ‘silver economy’ e creando nuove opportunità economiche e sociali a beneficio di tutte le generazioni? L’Italia, d’altronde, è un laboratorio globale per l’invecchiamento, con sfide uniche legate allo spopolamento dei territori e alla necessità di ripensare il welfare. Nel nostro Paese si fanno sempre meno figli, per una serie di fattori interconnessi tra loro; e il Mezzogiorno, da questo punto di vista, vive la più grande fragilità. È fondamentale, quindi, capire come gestire un fenomeno ormai in divenire e cambiare la narrativa ponendosi domande diverse. Le “risposte”, se così le vogliamo chiamare, le hanno suggerite gli esperti, gli economisti, gli specialisti del terzo settore, mondo sanitario, ma anche esponenti del mondo culturale e digitale che si sono confrontati al secondo Focus Sud e Futuri, organizzato dalla Fondazione Magna Grecia a Scilla. Una due giorni iniziata col dibattito “Generazioni in mutamento”, in cui si è cercato di capire come l’innovazione, in particolare la salute digitale e l’intelligenza artificiale, possano garantire una “longevità in salute”.

«La sfida della denatalità e quindi le politiche per la longevità chiedono grande innovazione e creatività, ma si fondano anche sul rinnovamento di un patto di solidarietà intergenerazionale. In questo, i territori sono ovviamente al centro, e quelli del nostro Mezzogiorno, che si contraddistinguono per una particolare forza e solidità delle reti informali, lo sono ancora di più», ha commentato, aprendo i lavori, Fiammetta Pilozzi, responsabile del Centro di Ricerca di Fondazione Magna Grecia. Come “sfruttare questa positività?” Lo spunto viene da Fabio Miraglia, imprenditore e presidente Giomi Rsa: «possiamo usare un milione di metri quadri di borghi che le persone stanno abbandonando per creare veri e propri villaggi, sul modello anglosassone».

Luoghi che possono essere incubatori di modelli di silver economy unici in grado di attrarre anziani di tutto il Paese. «Un sistema – ha aggiunto – che non sia basato solo sul volontariato e che sia in grado di creare anche occupazione, grazie anche alla rivoluzione del digitale». Il risultato sarebbe ‘esplosivo’ con conseguenze a cascata: porterebbe una riqualificazione dei territori e soprattutto il consolidarsi della domiciliazione dei servizi, in spazi abitativi personalizzati, monitorati dal digitale e sostenibili economicamente. L’idea è configurare nuovi modelli dell’abitare in cui unire le dimensioni della condivisione a quello della preservazione della privacy e della personalizzazione degli spazi, il tutto in luoghi densi di storia e di bellezza. Guardando così ai bisogni della persona che, spesso, nelle strutture RSA si perde. «“La tecnologia, inoltre, aiuterebbe ad avvicinare figli e nipoti: nuovi care giver nati con la tecnologia, e in grado di assumere il ruolo di veri e propri alfabetizzatori», ha concluso Miraglia.

Un approccio condiviso da Rocco Mammoliti, responsabile Sicurezza informatica di Poste italiane che ha raccontato come le Poste non abbiano abbandonato nessun borgo «perché crediamo sia nel mondo fisico che nel mondo digitale, che però vanno connessi». Tanto che Poste italiane ha avviato un progetto – Police – che porta dentro l’ufficio postale la garanzia di avere, oltre a quelli già inclusi, l’erogazione di tutti i servizi della Pubblica amministrazione compresi quelli legati al sistema sanitario, «creando, così, un unico punto di accentramento di prenotazione e consegna dei referti, per esempio. L’ufficio postale resta quindi vivo e integrato, sede di una rete di relazioni di cui gli anziani hanno bisogno».

In Italia, 14 milioni di persone oggi sono over 65, il 24% della popolazione totale. E il trend è in crescita. Con esso aumenteranno anche i problemi di salute correlati all’invecchiamento. Non solo, dobbiamo considerare che oggi di questi over 65, il 42% vive in coppia senza figli, il 31% è solo e un esiguo 13% vive con i figli. Più del 70% del totale quindi è rappresentato da anziani soli. Come aiutarli allora nella loro reale esigenze di salute? Una delle  soluzioni viene proposta da Pietro Rossi, cardiologo, co-founder di Policardio una startup che produce il primo device patch in grado di fare ECG e holter a casa con la qualità ospedaliera: «abbiamo pensato ad una piattaforma che monitora, analizza dati e mette in comunicazione in modo automatico l’anziano e il medico. E, nel caso di necessità, contatti il figlio o chi per lui». Un sistema totalmente automatizzato, interconnesso e attento alla parte sanitaria ma anche a quella psicologica. «Abbiamo previsto infatti la possibilità di avere consulti veloci e sempre disponibili, superando il problema che il medico non risponda al telefono con il conseguente senso di abbandono nell’anziano».

Ma la digitalizzazione può cambiare l’assistenza sanitaria e andare verso la silver economy anche nel sistema assicurativo e finanziario, «che sta ripensando prodotti e servizi centrati sempre più sulla prevenzione, con app per i vari monitoraggi, e incentivi economici per chi aderisce a stili di vita sani. Va promossa una trasformazione assicurativa che finanzi, per esempio, l’assistenza domiciliare continuativa e la gestione dei farmaci. Insieme ad una educazione finanziaria per una longevità consapevole tramite l’erogazione di corsi per over 60 su come gestire patrimoni, pensioni e tecnologie per una connessione diretta con i servizi sociali», ha detto Alberto Polverino, Direttivo cluster C.H.I.C.O.

«Non va dimenticato che qualsiasi processo di sviluppo sostenibile deve essere equo, in particolare in un’ottica di genere, e ancor di più se si parla di silver economy». Le donne sono più longeve degli uomini, ma sono anche quelle che soffrono maggiormente il rischio di trovarsi in condizione di fragilità, soprattutto sotto il profilo economico. Il monito, che arriva dalla voce autorevole e appassionata di Rossana Oliva De Conciliis, Presidente onoraria della Rete per la Parità, ha l’obiettivo di sensibilizzare politica, mondo economico e società a puntare su misure che pongano al centro il principio di garantire parità di diritti e opportunità, anche in età anziana, e anche nei processi di progettazione di politiche di sviluppo di prodotti e servizi che guardino a un pubblico “silver”.

L’intera due giorni ha preso spunto da una ricerca promossa da Fondazione Magna Grecia e curata dai sociologi Emiliana Mangone e Giuseppe Masullo, che ha mostrato come, fra le varie preoccupazioni che “bloccano” i giovani nello sviluppare la propensione alla genitorialità, vi sia il timore «di perdere occasioni, non solo professionali, ma di vita e culturali».

Il patrimonio culturale, del resto, è uno strumento potentissimo attraverso cui generare identità, ma anche apprendimento, sviluppare categorie di interpretazione della realtà, e quindi imparare anche la cittadinanza. Da qui la necessità che il nostro patrimonio culturale sia “family friendly”, fruibile da genitori e figli.

«Pensiamo ai bambini – ha detto Francesco Pisani, professore di Neuropsichiatria infantile, Dipartimento di Neuroscienze umane della Sapienza di Roma – a quanto in loro la cultura, come la visita in un museo o di un sito archeologico, stimoli la meraviglia che a sua volta spinge alla voglia di conoscere. Le neuroscienze ci dicono che in un museo il bimbo impara a guardare, a interpretare, anche a stare fermo. E la stessa cosa vale per i genitori. Dobbiamo tenere presente che anche solo una singola esperienza culturale è fondamentale per essere educati al bello».

Daniele Carnovale è Ceo e fondatore di Guides4You, stratup che nasce sul territorio calabrese: un esempio di come i temi dell’accessibilità, del “design for all”, della necessità di rendere i beni del nostro patrimonio “per tutti”, a volte sia una necessità che nasce dal mercato in modo potente.

«Avevamo pensato ad un dispositivo che servisse per ‘leggere’ le opere e le strutture museali. Spinti dalla richiesta di mercato, ad oggi abbiamo funzioni per non vedenti e ipovedenti, per bambini ancora piccoli».

Non da meno l’esperienza della “Fondazione Medicina a misura di donna” che ha creato forse lo strumento più simbolico che sia stato ideato in Italia per costruire un patto inscindibile fra i nuovi nati, le famiglie, e il patrimonio culturale: un passaporto della cultura. «L’idea ci è venuta partendo dalla consapevolezza che la cultura aiuta a vivere di più e soprattutto meglio, come dimostrano anche numerosi studi», ha detto Chiara Benedetto, presidentessa della Fondazione.

«Il passaporto è stato tradotto in diverse lingue, viene dato alle mamme che hanno appena partorito ed e dedicato al nuovo nato e alle mamme al terzo mese di gravidanza. Offre la possibilità a tutto il nucleo famigliare di vistare gratuitamente i 48 musei della rete piemontese ed è diffuso in tutti i presidi ospedalieri dell’area metropolitana di Torino». Nel 2024 sono stati scaricati dal sito 15mila passaporti e la best practice oggi è stata adottata anche a Brescia, Pavia e Val Canonica

«Affrontare oggi la denatalità – ha concluso Nino Foti, presidente della Fondazione Magna Grecia – significa ripensare l’intero sistema Paese alla luce dell’invecchiamento, delle nuove insicurezze sociali e del bisogno di dare ai giovani un futuro desiderabile. Con questa iniziativa, pertanto, vogliamo rimettere al centro le persone, i territori e le connessioni tra le generazioni. La genitorialità si sostiene con politiche abilitanti, e il calo demografico si affronta anche guardando al nostro Mezzogiorno come a una piattaforma di sperimentazione per uno sviluppo inclusivo».

«Parlare di cultura inclusiva, significa anche capire che il nostro patrimonio – ha sottolineato – è il più potente strumento di legame intergenerazionale. Ogni museo o sito storico va reso davvero fruibile per famiglie, anziani e bambini, è così che si diventa realmente attrattivi e si costruiscono fiducia nel futuro e coesione tra generazioni. La Fondazione Magna Grecia lavora perché Sud e futuro non siano più due parole in contrasto, ma una sola visione condivisa». (ams)

PONTE E OPERE COMPLEMENTARI: SISTEMA
INTEGRATO PER LO SVILUPPO DEL SUD

di MASSIMO MASTRUZZOTra le critiche più ricorrenti al progetto del Ponte sullo Stretto di Messina c’è quella secondo cui ci sarebbero “altre opere più urgenti o utili” da realizzare prima.

Ma questa argomentazione, pur legittima nel merito, rischia di semplificare e distorcere la realtà: il Ponte non è un’opera isolata, ma il fulcro di un sistema infrastrutturale molto più ampio e strategico, fatto di strade, ferrovie, interconnessioni e interventi di riqualificazione territoriale. Un insieme organico di opere complementari già programmate, molte delle quali già finanziate e in corso di realizzazione, che diventano davvero funzionali e sostenibili proprio grazie alla presenza del Ponte.

Le opere complementari: ferrovia e intermodalità

Il Ponte non porterà solo auto da una sponda all’altra dello Stretto: collegherà due sistemi ferroviari oggi disallineati, restituendo continuità alla dorsale Palermo-Catania-Messina-Villa San Giovanni-Salerno. In particolare:

Il potenziamento dell’asse ferroviario Palermo–Catania–Messina, con investimenti superiori agli 11 miliardi di euro, finanziati in parte dal PNRR e dal programma TEN-T dell’Unione Europea. Tra i cantieri più rilevanti: il raddoppio della tratta Fiumefreddo-Giampilieri (oltre 2 miliardi), e la tratta Bicocca-Catenanuova (circa 600 milioni).

Il nodo intermodale di Messina e Villa San Giovanni, pensato per connettere passeggeri e merci in modo fluido, diminuendo drasticamente i tempi di attraversamento e i costi logistici.

Senza il Ponte, molte di queste tratte perderebbero parte della loro funzionalità sistemica e rischierebbero di rimanere infrastrutture isolate.

La viabilità stradale: integrazione e fluidità

Anche per la viabilità su gomma è previsto un ampio piano di opere complementari:

L’adeguamento dell’Autostrada A2 “del Mediterraneo” sul versante calabrese, per gestire in modo efficiente i nuovi flussi veicolari.

La Tangenziale Nord di Messina, indispensabile per liberare la città dal traffico urbano e raccordare il ponte alla rete autostradale.

L’ammodernamento delle Strade Statali 113 e 114, con rampe e viabilità secondaria che garantiranno accessibilità capillare al territorio.

Nessun conflitto tra il Ponte e le “opere utili”

È importante chiarire un punto: le risorse destinate al Ponte e alle sue opere complementari provengono da fonti specifiche, tra cui fondi europei (TEN-T), PNRR e stanziamenti pluriennali del Mit. Non sono alternative agli investimenti su sanità o istruzione. Non esiste, dunque, un “conflitto di priorita” fra la realizzazione del Ponte e la costruzione di scuole o ospedali. Anzi, molte delle opere complementari sono state sbloccate proprio perché rese più urgenti e strategiche dal progetto del Ponte.

Un’opera sistemica per superare l’isolamento infrastrutturale

Il Sud Italia soffre da decenni un deficit infrastrutturale che penalizza mobilità, investimenti e competitività. Il Ponte, insieme alle opere complementari, non è solo una risposta ingegneristica, ma un cambio di paradigma: integrazione reale tra Sicilia e continente, accessibilità, continuità logistica, attrazione di capitali e imprese. In una parola: sviluppo.

Un’opera da valutare non isolatamente, ma come parte di una visione più ampia, moderna e responsabile. (mm)

 

[Massimo Mastruzzo, direttivo nazionale MET – Movimento Equità Territoriale]

AL SUD C’È UN “CAMBIO DI PARADIGMA”
COSA SIGNIFICA E LE SUE CONSEGUENZE

di ERCOLE INCALZA – Ricordo spesso la delusione di Pasquale Saraceno, consigliere di Amministrazione della Cassa del Mezzogiorno, fondatore dello Svimez e grande meridionalista, quando nel 1973, dopo praticamente 23 anni di attività della Cassa del Mezzogiorno, precisò che, purtroppo, non era cambiato praticamente nulla e ricordò gli indicatori che erano rimasti quasi identici a quelli del 1950 e cioè: Il reddito pro capite; Il tasso di occupazione; Il costo del denaro e l’accesso al prestito.

Ma, sempre Saraceno, ricordò che il Mezzogiorno possedeva tutte le condizioni per “cambiare paradigma”; si usò proprio la frase “cambiare paradigma” e portò come riferimento, in difesa di questo suo “ottimismo della ragione”, alcuni punti chiave come: La portualità campana ed il suo retroporto ricco di attività commerciali; La elevata produzione agricola della Regione Calabria e la rilevante potenzialità industriale di Gioia Tauro (allora si pensava di realizzare un secondo centro siderurgico); La elevata capacità produttiva della Regione Sicilia e degli hub portuali di Catania e di Palermo; L’avvio dei lavori di costruzione del porto canale di Cagliari, determinante piastra logistica all’interno del bacino del Mediterraneo; La rilevanza strategica del porto di Taranto e del nuovo centro siderurgico; La grande produzione agro alimentare presente nelle Regioni Basilicata, Molise ed Abruzzo.

Sono passati più di cinquanta anni, sì sono passati un numero enorme di anni, però oggi finalmente stiamo misurando davvero un cambiamento di paradigma sostanziale. Tre anni fa, al primo Festival Euromediterraneo svoltosi a Napoli, nelle conclusioni dei lavori fu prodotta la “Carta di Napoli” in cui venne chiaramente denunciato il cambiamento della narrazione del Mezzogiorno ed emersero subito le conferme ed i dati che confermavano un simile cambiamento, emersero i dati che davano ragione alle previsioni di Saraceno e cioè: Il Mezzogiorno stava diventando un riferimento determinante della ricerca, stava diventando un polmone di eccellenze tutte comparabili con analoghe realtà a scala comunitaria ed internazionale; Il Mezzogiorno, anno dopo anno, si confermava come elemento determinante del sistema agro alimentare, un sistema che incideva per oltre il 25% nella formazione del Pil nazionale e che in tale percentuale il Sud era presente con oltre il 50%; Gli Hub portuali ed in modo particolare Gioia Tauro diventava sempre più il porto transhipment più strategico dell’intero Mediterraneo; La Regione Campania aveva al suo interno un Hub logistico, formato dai porti di Napoli e di Salerno e dagli interporti di Nola, Marcianise e di Battipaglia, che lo rendevano, in termini di movimentazione, paragonabile ai grandi Hub comunitari; Crescevano sempre più, proprio nelle attività commerciali e produttive, le Regioni Basilicata, Puglia, Molise ed Abruzzo; Il Mezzogiorno diventava in modo inequivocabile un teatro di crescita del turismo, una crescita testimoniata dalla vera esplosione della domanda passeggeri negli aeroporti del Sud: oltre 50 milioni di passeggeri (un aumento del 30% in soli dieci anni).

Ebbene, questo cambio di paradigma si è ulteriormente consolidato sicuramente grazie anche alla istituzione della Zona Economica Speciale Unica e si potrà ulteriormente rafforzare se le 8 Regioni del Sud cercheranno, in modo sinergico, di: Utilizzare in modo organico ed in tempi certi le risorse già assegnate e disponibili dal Pnrr; Utilizzare le risorse del Fondo di Sviluppo e Coesione 2021 – 2027. Più Istituti di ricerca hanno in più occasioni anticipato che se a questo cambiamento di paradigma facesse seguito anche una misurabile capacità della spesa allora la incidenza del Mezzogiorno nella formazione del Pil del Paese passerebbe dall’attuale soglia del 22% ad oltre il 30 – 32% ed una simile percentuale non rappresenterebbe un dato sporadico di una felice annualità ma diventerebbe un riferimento stabile. (ei)

Abruzzese (Terranostra): L’Agriturismo straordinaria opportunità per la Calabria

«Lo sviluppo del fenomeno agriturismo rappresenta una straordinaria opportunità per la Calabria, non solo sul piano turistico ma anche per l’incremento economico e sociale delle aree interne». È quanto ha detto Vincenzo Abruzzese, presidente dell’Associazione agrituristica Terranostra Calabria, evidenziando come «questo modello di ospitalità è un motore di rinascita per i piccoli borghi e le campagne, perché crea occupazione, valorizza le eccellenze locali e custodisce la biodiversità, contrastando lo spopolamento».

«Oggi, più che mai – ha sottolineato – l’agriturismo è simbolo di un turismo sostenibile, consapevole e identitario, capace di raccontare una Calabria vera. Sono sempre più convinto che dobbiamo continuare a raccontare il profondo legame che c’è tra agricoltura e turismo in tutte le sue forme».

La Pasqua 2025 con il lungo periodo di stop tra Pasqua e 25 aprile, infatti, si preannuncia con ottime prospettive per la vacanza in agriturismo in Calabria, tra pernottamenti, pranzi e visite giornaliere, per una crescita vicina al +8% rispetto allo scorso anno.

«Non male anche la prevista presenza di italiani. Quindi le prenotazioni ci sono e sono buone – ha  spiegato Abbruzzese – anche se tutti noi sappiamo che dobbiamo fare i conti con due variabili fondamentali. La prima è che sempre di più i viaggiatori adottano sistemi di prenotazione elastici, cioè con possibilità di disdire anche all’ultimo, e poi c’è il fattore meteo che può cambiare le stime».

«Quello che sta emergendo di importante – ha evidenziato – è che in Calabria i turisti non vengono solo per il mare e le attività ad esso legate ma stanno prendendo piede le esperienze che gli agriturismi offrono e che si uniscono al cibo e al pernottamento. Questi nuovi trend aiutano a destagionalizzare i movimenti turistici sul nostro territorio».

«La forza degli agriturismi – ha proseguito – è quella di poter collegare il mondo agricolo alle esperienze da offrire ai turisti, molti dei nostri soci lo stanno facendo e questo fa emergere anche una mappa ricca di attività tra loro diverse”.A trainare la crescita è anche il crescente interesse verso forme di turismo esperienziale, che vanno oltre la semplice ospitalità».

L’enoturismo registra un netto incremento delle presenze, ma si evidenziano anche importanti segnali di crescita per birraturismo o turismo brassicolo, oleoturismo e turismo caseario, con visitatori sempre più curiosi di scoprire i segreti delle produzioni tipiche direttamente dai produttori e di immergersi in attività originali che vanno dal wellness alle attività sportive come yoga o pilates, fino ai corsi di cucina. L’agriturismo calabrese, in costante crescita qualitativa, si conferma così non solo una scelta di relax e gusto, ma anche un’esperienza culturale e sensoriale a tutto tondo, capace di raccontare una terra autentica, promuovendo le produzioni locali e sostenere l’economia dei territori. (rcz)

 

GUARDANDO AL NORD-EST, C’È L’AMAREZZA
DI UNA CALABRIA INCAPACE DI AFFERMARSI

di SANTO GIOFFRÈ  – Nei giorni scorsi sono stato in Friuli Venezia Giulia e Veneto. Ne ho apprezzato il perfetto ordine regnante. Sanità pubblica al 70%, in grado di affrontare e risolvere tutte le esigenze/emergenze sanitarie della loro gente. Le strade tutte asfaltate, nemmeno una buca a cercarla pedissequamente. Non una busta di spazzatura lanciata o lasciata ai margini. Paesi pieni e curatissimi.

Ricchezze che sbucavano da tutti i vicoli non asfaltati, per sciccheria e trend, dei griffati, ricchissimi vigneti. Eppure, all’inizio del ‘900, per fame, i Veneti emigrarono il doppio dei calabresi, fino al fascismo. La bonifica delle paludi pontine la fecero con i sudori e le vite dei Veneti. Bene, mentre dopo la guerra coloro che governarono il Veneto, pure se fottevano, le cose le facevano, in Calabria, fottevano pure le cose che dovevano fare.

I poteri palesi e oscuri dello Stato, qui, s’inventarono la ‘Ndrangheta, suo vero braccio violento, con l’obiettivo di arricchirsi reciprocamente attraverso il dominio delle risorse che vennero trasformate in economia criminale.
Nel farlo, hanno sospeso la Costituzione e istituzionalizzato, elevandola a governo della Cosa Pubblica, la cromosomica incapacità di elaborazione minima delle dinamiche reali dei processi sociali, approfittando, anche, dell’atavica propensione al servilismo dei calabresi. Trasformandoli in emigranti-schiavi col doppio risultato: manodopera a gogò, con bassi diritti e salari da fame, funzionale solo allo sviluppo economico e industriale del Nord; tenere la Calabria in uno stato di perenne instabilità sociale.

Creando un enorme sottoproletariato di funzione e, per generazioni, eternamente trattenuto dentro una situazione di equilibrio precario a disposizione dello stato dei bisogni di scopo del Potere. Qualsiasi colore assuma quel Potere.

Il Nord-Est ha visto e intrapreso la sua strada. Noi, abbiamo subìto un processo, all’inverso: una perenne sperimentazione su come auto-allevarci vitelli per ogni macello. C’è un articolato piano e processo a monte. Persino il PCI ne uscì, storicamente, strumentalizzato, tanto che non pensò mai a feroci campagne di irregimentazione ideologica delle masse con fasi di lotta armata per l’equilibrio territoriale.

Ora, abbiamo, tenendo conto dell’autonomia differenziata già in vigore, solo due strade da intraprendere: o ci rassegniamo e andiamo verso l’estinzione antropologica dei calabresi, al di là delle battute georgiche come la cosiddetta”restanza” che non ho mai capito cosa sia, se non una banale parola senza un’anima che includa una ricercata prassi sociologica e storica, o passiamo a fasi politiche che portino all’espulsione totale di questa classe dirigente, la qualunque classe dirigente, impadronendoci del nostro destino, gestendolo e sottomettendolo ai bisogni.

Iniziando ad imporre un modo rivoluzionario nella gestione della Cosa Pubblica. Senza accettare nessun mediazione. Decidetevi altrimenti, non vedremo, mai, le bellezze del Nord-Est. (sg)

LA CALABRIA ADOTTI IL PORTO DI GIOIA: È
UN’ESSENZIALE OPPORTUNITÀ PER FUTURO

di SANTO STRATI – La Calabria adotti il Porto di Gioia Tauro: non è una preghiera o un’invocazione, quella lanciata da Pino Soriero a San Ferdinando di Rosarno nel bel convegno promosso dal PD e dal sindaco Luca Gaetano.

È un auspicio e, insieme, la constatazione di come ancora oggi manchi la giusta sensibilità nei confronti di un “gioiello” in grado di trasformare radicalmente, anche in termini occupazionali, l’economia e lo sviluppo non solo del territorio della Piana o dell’intera Calabria, ma anche del Paese.

Il Porto di Gioia Tauro è diventato il numero uno nel transhipment, che sarebbe la movimentazione dei container che arrivano da tutto il mondo e la loro veicolazione con consegna tramite gomma o ferrovia. E Gioia Tauro ambisce a fare molto di più, punta a “lavorare” i contenuti dei container attraverso processi di lavorazione e trasformazione industriale che possono trovare ampio spazio nell’immensa area del retroporto, pressoché inutilizzata. Perché ciò si realizzi occorre una visione industriale di tutta l’area portuale con lo sviluppo delle relative competenze di lavoro.

A cominciare  da quella che si chiama “piastra del freddo”. L’esempio più concreto lo porta il “re del tonno” Pippo Callipo che ha superato i 100 milioni di fatturato annuo, il quale, a San Ferdinando di Rosarno ha spiegato come lo stoccaggio della materia prima proveniente da tutto il mondo nel Porto, negli appositi capannoni industriali che l’azienda ha realizzato, ha permesso di incrementare la produzione e ottimizzare i tempi di lavorazione, con il conseguente incremento della manodopera e dell’occupazione.

Il Porto va considerato, dunque, come un’essenziale opportunità per la sua centralità nel Mediterraneo che andrebbe ulteriormente valorizzata mediante interventi strutturali che, ad oggi, sono stati realizzati solo con investimenti dell’Autorità di Sistema Portuale. Il suo presidente, ammiraglio Andrea Agostinelli, ha raccontato con sanguigna e autentica passione cosa ha trovato quando arrivò da Commissario a Gioia Tauro e cosa lascia, al termine del suo mandato (che sarebbe auspicabile venisse rinnovato senza alcuna perplessità, visto l’ottimo lavoro e i risultati ottenuti).

Da una situazione fallimentare con centinaia di operai mandati a casa dalla sera alla mattina e prospettive più che cupe, a uno straordinario rilancio di tutta l’attività portuale, con investimenti milionari da parte dei concessionari subentrati (MSC e Automar-Grimaldi) e una rivitalizzazione straordinaria di tutte le potenzialità Porto. I numeri parlano da soli. siamo arrivati a quasi 4 milioni di teus nel 2024 (l’unità di misura dei container) e nuovi record di preannunciano anche per quest’anno. Consideriamo che il Porto, nato sulle ceneri di quello che avrebbe dovuto servire il mancato V Centro Siderurgico (del famigerato pacchetto Colombo che avrebbe dovuto pacificare i rivoltosi reggini del 1970) ha un pescaggio così ampio da avere superato come operatività persino Genova: possono attraccare le gigantesche supernavi portacontainer la cui altezza richiede grandi profondità che solo Gioia, nel versante italiano del Mediterraneo, è in grado di offrire. Solo che, mentre per Genova vengono stanziati e messi a disposizione centinaia di milioni, al Porto di Gioia, fino a oggi sono state destinate soltanto briciole.

Per questa ragione, Soriero, che è stato sottosegretario nel Governo Prodi proprio ai trasporti e che conosce perfettamente le problematiche del Porto di Gioia ha lanciato l’appello perché la Regione si faccia portavoce delle esigenze di sviluppo del suo Porto, il più grande del Mediterraneo. Un Porto che potrebbe attivare migliaia di nuovi posti di lavoro, al pari di quello che è successo a Tangeri, a Port Said (sulle coste dell’Africa) o addirittura nella spagnola Algesiras. Soriero, che alla realtà di Gioia ha dedicato un corposo e documentato libro (Andata in Porto, Rubbettino), ha vissuto da esponente del Governo tutte le problematiche del Porto di Gioia, attivandosi, in maniera intelligente e con larga visione, affinché le soluzioni arrivassero nei tempi giusti (per esempio l’istituzione della Capitaneria) e tante altre soluzioni ottimali per rendere lo scalo attrattivo e funzionale.

Adesso è una realtà che identifica un’idea di sviluppo che ancora non ha raggiunto il suo traguardo immaginato, ma esistono tutte le condizioni perché questo “gioiello” possa costituire il volano di rilancio del Mezzogiorno, sfruttando la sua posizione nel Mediterraneo. Sono, in realtà, poche ma impegnative le cose da realizzare: ci scapperebbe da ridere se non fosse una vicenda grottesca, la mancanza della necessaria illuminazione per ampliare le movimentazioni anche di notte. Sono lavori di poco conto, ma il Governo centrale (quello che destina grandi risorse a Genova) fa orecchie da mercante.

E poi c’è la ferrovia: un tratto di pochi chilometri che ha dovuto aspettare vent’anni per vedere realizzato il collegamento diretto con il Porto. Il Presidente Agostinelli è uno che non le manda a dire: «I maggiori porti italiani – ha evidenziato – hanno un grave problema per mancanza di aree di stoccaggio, mentre Gioia Tauro ha dietro di sé ben 477 ettari: a fronte delle opportunità di sviluppo del Porto per il quale basterebbero forse solo 150 milioni, lo Stato destina appena 50 milioni riservando un miliardo e mezzo a Genova».

Non servono commenti, è necessaria la non più rinviabile e netta presa di posizione della Regione sul Porto di Gioia. Un investimento sul futuro dei giovani, sul futuro dell’area ma anche di tutta la Calabria.

Il Mediterraneo è il nuovo protagonista dell’economia e il Porto di Gioia, come la Calabria, ne sono al centro. Occhiuto non se lo dimentichi. (s)

SVIMEZ: SVILUPPO, L’ITALIA DELLE REGIONI
PERCHÉ IL MEZZOGIORNO CRESCE DI MENO

di ANTONIETTA MARIA STRATI – Dal 2025 il Sud torna a crescere meno del Nord. È quanto emerso dal Rapporto della Svimez in collaborazione con Ref Ricerche dal titolo “Dove vanno le regioni italiane. Le previsioni regionali 2024-2026”,  che ha rilevato come, di fronte a una crescita nazionale del Pil a +0,7% nel 2025 e dello 0,9% nel 2026, la Calabria – ma in generale il Sud – non cresce anzi, subisce una brusca frenata.

Un quadro sconcertante, considerando che, nel 2024, il Sud era un passo avanti rispetto al Nord ma, secondo le stime Svimez, il Pil del Mezzogiorno nel 2025 sarà + 5,4% e, nel 2026, + 0,68% contro il +1,04 del Nord-Est per il 2025 e 0,91% del Nord-Ovest. Ovviamente, anche la Calabria subirà questo brusco stop: se la differenza tra il 2024 e il 2025 è solo di qualche punto (nel 2024 era +0,62 e nel 2025 si stima sia allo 0,57), per il 2026 ci sarà un vero crollo: sarà al 0,54.

Per la Svimez «il rallentamento della crescita è la conseguenza di fattori comuni all’area euro, come il ripristino dal 2024 dei vincoli del Patto di Stabilità europeo, la recessione dell’industria dovuta a calo della domanda per beni durevoli, con la crisi di settori traino come l’automotive, la debolezza del commercio internazionale, l’aumento dei costi dell’energia».

Ma sono anche i fattori specifici del contesto italiano a incidere: un quadro di finanza pubblica nazionale che concentra la contrazione del deficit nel 2024-2025; un peso rilevante del settore automotive e un ruolo decisivo della domanda estera, con una forte interdipendenza con l’industria tedesca. Da sottolineare tuttavia, che le previsioni non tengono in considerazione la grande incertezza «Trump», provocata dalle ipotesi di inasprimento dei dazi sulle esportazioni verso gli Stati Uniti.

Per quanto riguarda le singole regioni italiane nel 2025 si prevede per il Veneto una crescita dell’1,2%, dell’1,1%, per la Lombardia, dell’1% per l’Emilia Romagna, regioni più strutturate capaci di compensare la debolezza dell’export con la tenuta della domanda interna, mentre arrancano l’Umbria con lo 0,2%, la Liguria 0,4%, Puglia e il Molise con lo 0,5% regioni meno esposte al rallentamento del commercio estero ma con meno elementi capaci di far decollare la crescita.

Il 2024 si dovrebbe chiudere con una crescita maggiore nel Mezzogiorno: 0,8% vs. 0,6% nelle regioni centro-settentrionali. Per il secondo anno consecutivo il Sud si muoverebbe così più velocemente del resto del Paese, anche se con un differenziale notevolmente ridotto (da un punto percentuale a due decimi). Sono due i principali elementi che concorrono al risultato previsto.

Nel 2024 l’evoluzione congiunturale risulta fortemente influenzata, in parte come l’anno precedente, dalla dinamica degli investimenti in costruzioni che verrebbero a confermarsi come una delle componenti più dinamiche della domanda. Per capire cosa ha significato negli anni recenti il boom osservato nel comparto immobiliare, si tenga presente che tra il 2021 e il 2023 la crescita registrata negli investimenti in costruzioni è stata di entità più che doppia rispetto a quella avvenuta nei dodici anni che vanno dal 1995 al 2007.

Dal lato dell’offerta, le nostre previsioni indicano un contributo negativo dell’industria in senso stretto alla dinamica del prodotto in entrambe le macroaree nell’intero periodo di previsione (con la parziale eccezione del Sud nel 2026). In primo luogo, ciò è riconducibile alla inusuale debolezza della domanda estera, che oramai influisce per circa la metà dell’intero output industriale delle regioni centrosettentrionali (specie in Lombardia, Emilia-Romagna, Veneto), dove si concentra quasi il 70% del valore industriale nazionale. A ciò si aggiunge una congiuntura complessivamente debole unitamente alle molteplici “crisi” aziendali indotte dai cambiamenti strutturali in atto (transizione ecologica e digitale su tutte) in assenza, anche a livello sovranazionale, di un quadro strategico e normativo certo, condizione imprescindibile per introdurre i necessari adeguamenti.

Con riferimento al biennio 2025-2026, l’evoluzione del Pil italiano è prevista permanere al di sotto dell’uno per cento, con un profilo in lieve espansione: +0,7% nel 2025; +0,9% nel 2026. In questo biennio il Centro-Nord dovrebbe risultare l’area più dinamica, con un differenziale di circa tre decimi di punto rispetto al Sud in entrambi gli anni. Sul piano estero, il tasso di crescita del Prodotto italiano nel biennio 2025-2026 verrebbe di nuovo a collocarsi nella fascia inferiore rispetto ai principali avanzati. Per crescita del Pil l’Italia scivolerebbe in fondo alla classifica europea, insieme alla Germania.

«Una decisa inversione di tendenza rispetto agli anni post Covid – ha rilevato la Svimez – quando la ripresa è stata sostenuta da politiche di bilancio dall’intonazione straordinariamente espansiva. Sul fronte interno, lo scenario previsivo ipotizza che dal 2025 si arresti il biennio di crescita più intensa, 2023-2024, sperimentato dal Sud, di per sé una circostanza abbastanza inusuale. Il differenziale Nord/Sud dovrebbe comunque mantenersi su valori molto più contenuti rispetto al ventennio pre-Covid: Centro-Nord +0,8%, Mezzogiorno +0,5% nel 2025; Centro-Nord +1%, Mezzogiorno +0,7% nel 2026. Le due aree dovrebbero perciò continuare a crescere a velocità simile come nella ripartenza post pandemica».

A contenere il differenziale di crescita Nord/Sud contribuisce in maniera decisiva il Pnrr i cui investimenti valgono il sessanta per cento della crescita del Mezzogiorno nel biennio 2025-2026. Se, quindi, la completa implementazione del Pnrr è un obiettivo nazionale, la realizzazione degli investimenti finanziati dal Piano sono decisivi per tenere il Sud agganciato al resto del Paese.

La spesa delle famiglie dovrebbe crescere a un saggio di entità quasi doppia al Centro-Nord rispetto al Mezzogiorno in virtù di una analoga evoluzione del potere d’acquisto. Oltre che un differenziale di inflazione sfavorevole al Mezzogiorno, incidono su questo risultato alcuni provvedimenti governativi: l’indebolimento delle politiche a sostegno delle famiglie che impattano più pesantemente al Sud; l’intervento sul cuneo fiscale e la riforma dell’Irpef che favoriscono consumi soprattutto al Centro-Nord dove si concentrano i redditi da lavoro dipendente.

La crescita del Pil verrebbe a essere prevalentemente sostenuta dai servizi di mercato (market services) e, in misura inferiore, da quelli della PA. Con riferimento ai market services, nel Report si portano evidenze relative al fatto che: a) la quota dei servizi con un elevato contenuto di conoscenza (KIS) è modesta in entrambe le macroaree (di poco superiore al 20 per cento); b) le restanti attività, prevalenti, presentano un gap di produttività significativo, più marcato al Sud.

Tale circostanza, in primo luogo, limita le potenzialità di sviluppo delle due macroaree, specie nell’attuale congiuntura quando sono proprio i market services nel loro insieme a crescere di più; vincolo maggiormente ostativo nel Sud. Inoltre, questo primo fattore si incrocia con una delle grandi “questioni” del nostro Paese, quella salariale, intesa come livello e dinamica più contenuta delle retribuzioni nazionali nel confronto europeo. Precisamente, i minori salari unitari che si riscontrano nel nostro Paese, in misura maggiore al Sud, svolgono, sempre nel confronto internazionale, un ruolo “equilibratore” al ribasso dell’equilibrio economico delle imprese.

A livello regionale, relativamente al biennio 2025-2026, dovrebbero mostrare una crescita più vivace le economie dalla base produttiva più ampia, strutturata e diversificata, più pronte a intercettare le opportunità derivanti da un rafforzamento della domanda interna. Prevarranno sentieri di crescita regionale più differenziati al Nord e al Centro, più omogenei nel Mezzogiorno.

Tra le diverse ripartizioni emerge nel Nord-Ovest il traino della Lombardia; nel Nord-Est, le regioni più dinamiche sono Veneto e Emilia dove, nonostante debolezza dell’export, la crescita è sostenuta dalla domanda interna; si conferma la divaricazione interna al Centro: da un lato, più dinamiche la Toscana, per la maggiore presenza di imprese strutturate, e il Lazio, trainata da Giubileo e service economy; dall’altro, Umbria e Marche, alle prese con crisi settoriali di lungo periodo e alla ricerca di un nuovo modello di specializzazione; il Mezzogiorno risulta un’area in rallentamento ma compatta, meno esposta al rallentamento del commercio estero ma dove mancano elementi che accelerano il cambiamento strutturale, nonostante il Pnrr che sostiene la dinamica del Pil nel 2025-2026.

Il ciclo dell’export si presenterebbe debole rispetto ad altre fasi di ripresa: pochissime regioni arriverebbero nel biennio 20252026 a cumulare incrementi dell’export di una certa consistenza. Fra i territori a maggiore vocazione all’export solo Emilia-Romagna e Toscana arriverebbero a superare una crescita del 3 per cento in termini cumulati nel biennio. Guardando alla dinamica della spesa delle famiglie nelle diverse regioni, il biennio 2025-2026 dovrebbe essere segnato da una relativa divergenza fra le regioni del Nord e quelle del Mezzogiorno.

La differenza è riconducibile a due aspetti: gli effetti indotti dagli interventi fiscali in grado, almeno nel breve periodo, di salvaguardare maggiormente il potere d’acquisto delle regioni del Nord; la crescita dei consumi interni rifletterebbe anche l’evoluzione della spesa dei non residenti, con effetti positivi sul Lazio nel 2025 per effetto del Giubileo, e Lombardia, Veneto e Trentino Aldo-Adige per i giochi olimpici invernali. Infine, le regioni del Mezzogiorno, che negli anni scorsi avevano beneficiato del sostegno della politica fiscale, vedranno progressivamente inaridirsi il supporto del bilancio pubblico.

Questo cambiamento nelle politiche potrebbe ritardarne il recupero. Tuttavia, sempre le regioni del Sud risentirebbero maggiormente dell’effetto positivo degli investimenti del Pnrr. Grazie, soprattutto, al contributo delle opere pubbliche, il divario territoriale di crescita degli investimenti risulterebbe quindi contenuto.

L’OPINIONE / Sasha Sorgonà: Progetto di Falduto non può lasciare indifferenti

di SASHA SORGONÀIl progetto “Sette Fiumare per Sette Funivie”, lanciato dall’imprenditore Pino Falduto non può lasciare indifferente chi vuole credere nella crescita sociale ed economica di Reggio Calabria. L’idea è potenzialmente una svolta epocale, con un impatto diretto su turismo, economia locale e occupazione giovanile.

Rilanciamola con tutte le nostre forze. Questa infrastruttura potrebbe essere un tassello importante per trasformare Reggio da città di passaggio a destinazione turistica di livello internazionale.

I dati sono chiari: La Calabria ha registrato 9 milioni di presenze turistiche nel 2023, ma secondo i dati della Regione Calabria i visitatori si fermano in media solo 2,8 giorni. L’occupazione nel settore turistico è ferma al 9%, contro il 15% della media nazionale, segno di un potenziale inespresso.

La nostra terra ha un potenziale straordinario, e un progetto del genere è concreto e utile per trattenere i giovani e attrarre investimenti.

Le funivie non sarebbero solo un’attrazione turistica: rappresenterebbero un’opportunità per decine di imprese e per migliaia di giovani che oggi sono costretti a lasciare la Calabria in cerca di lavoro.

Facendo una stima sulle ricadute economiche, la realizzazione delle funivie potrebbe portare sicuramente ad un aumento del flusso turistico annuo, con una crescita dell’indotto locale. Un’Incremento nelle prenotazioni alberghiere nelle zone connesse al circuito delle funivie, Apertura di nuove attività come ristoranti, guide turistiche e servizi outdoor.

Un’infrastruttura come questa catalizzerebbe investimenti privati e potrebbe essere sostenuta da fondi europei. Reggio Calabria deve smettere di inseguire le opportunità perse: servono scelte coraggiose per costruire un futuro sostenibile e attrattivo per chi oggi è costretto a partire. Insomma un’opera sostenibile da concretizzare per non rimanere solo spettatori mentre le altre città italiane e del Mediterraneo investono in progetti innovativi. (ss)

[Sasha Sorgonà è founder di Spinoza – La Fabbrica del Futuro e Presidente di Reggio Impresa]

ZES UNICA, UNA OPPORTUNITÀ DIMEZZATA
SE MANCANO ANCORA LE INFRASTRUTTURE

di MARIAELENA SENESE – La Zes Unica potrebbe rappresentare un volano di sviluppo per la Calabria, ma senza un adeguato potenziamento infrastrutturale il rischio è che resti un’opportunità dimezzata.

Non si può parlare di attrattività per le imprese se la Regione continua a essere tagliata fuori dai grandi assi di collegamento ferroviario e stradale. I dati, infatti, evidenziano che questa potenzialità è ancora frenata da ritardi e carenze strutturali. Con sole 24 autorizzazioni uniche rilasciate, rispetto alle 221 della Campania e alle 75 della Puglia, è chiaro che il nostro territorio non sta sfruttando appieno le possibilità offerte da questo strumento.

L’ennesima dimostrazione di questa logica penalizzante è il divario negli investimenti sull’Alta Velocità: il governo ha stanziato 8 miliardi di euro per il Nord e solo 3,8 miliardi per il Sud, escludendo di fatto la Calabria.

Se per Alta Velocità in Calabria si intende il solo tratto fino a Praia a Mare, allora stiamo parlando del nulla. Rete ferroviaria italiana ha annunciato che la progettazione dei lotti da Praia fino a Reggio è in itinere, ma senza l’affiancamento delle risorse necessarie questa fase resta solo un esercizio tecnico senza prospettiva concreta.

Oltre, poi, a garantire il finanziamento dell’Alta Velocità fino a Reggio Calabria, è essenziale valutare con attenzione il tracciato della linea AV, in particolare il passaggio da Tarsia. Se non si considera una connessione efficace tra la nuova linea ad alta velocità e l’area jonica cosentina, si rischia di investire risorse senza garantire uno sviluppo equilibrato del territorio.

Escludere dalla rete AV la parte jonica cosentina significa condannarla a un isolamento infrastrutturale perpetuo, con il rischio di aggravare le disuguaglianze già esistenti tra i diversi territori della Calabria.

È fondamentale che le istituzioni regionali e nazionali tengano conto di questa criticità, assicurando collegamenti efficienti tra la linea AV e la fascia jonica, affinché l’alta velocità diventi davvero uno strumento di crescita per tutta la regione e non solo per una parte di essa.

La Calabria sconta decenni di ritardi e mancati investimenti, con un gap infrastrutturale evidente rispetto al Centro-Nord e perfino rispetto ad altre regioni del Mezzogiorno. Non bastano fondi ordinari, servono risorse straordinarie, superiori a quelle destinate altrove, perché qui il ritardo accumulato è enorme. Servono certezze sui finanziamenti, non solo progetti sulla carta.

La Calabria ha bisogno di risorse straordinarie, superiori a quelle destinate ad altre regioni, perché i ritardi infrastrutturali accumulati in decenni di disinteresse sono enormi. Senza un piano serio per il potenziamento della rete ferroviaria e stradale, si condannerà la regione all’isolamento. Senza le risorse economiche necessarie questa progettazione resta solo un esercizio di stile.

Non si può ignorare  la situazione della Strada Statale 106 relativamente alla quale siamo ancora in attesa del decreto di nomina del commissario straordinario!!!!

Senza collegamenti moderni ed efficienti, la Zes rischia di rimanere un’operazione di facciata. Le imprese non investono in territori isolati, privi di connessioni rapide con il resto d’Italia e d’Europa. Il porto di Gioia Tauro, principale hub del Mediterraneo, può diventare un volano per l’economia regionale solo se supportato da una rete ferroviaria e stradale all’altezza delle esigenze produttive.

La Uil Calabria chiede con forza che si metta fine alla logica delle promesse. Se vogliamo che la Zes Unica diventi un vero attrattore di investimenti e non solo un’etichetta vuota, bisogna garantire alle imprese collegamenti efficienti e competitivi. Non si può parlare di sviluppo senza infrastrutture.

La Calabria non può permettersi di marciare con il freno a mano tirato. La Zes Unica, se accompagnata da un serio piano di potenziamento infrastrutturale, può diventare il motore di sviluppo che questa regione attende da anni. È tempo di abbandonare l’immobilismo e dare alla Calabria la dignità infrastrutturale che merita. (ms)

[Mariaelena Senese è segretaria generale Uil Calabria]

LEGGE DI BILANCIO 2025, C’È UN GRANDE
ASSSENTE: NON SI PARLA DI MEZZOGIORNO

di ERCOLE INCALZA – Leggendo il Disegno di Legge di Stabilità 2025 nasce spontaneo un interrogativo: e il Mezzogiorno? Cioè quali siano o quali possano essere le risorse che il Governo intenda assegnare, sotto varie forme (in conto esercizio e in conto capitale) alla infrastrutturazione del Sud?

Io, in modo forse ripetitivo, ricordo sempre che la legge 27 febbraio 2017, n. 18, dispone che la quota delle risorse ordinarie delle spese in conto capitale a favore delle otto regioni del Mezzogiorno non sia inferiore al 34% del totale nazionale. Quest’ultimo valore non è casuale, in quanto è analogo al peso che la popolazione del Meridione ha sull’intero aggregato nazionale. Inoltre nella legge Finanziaria del 2005, era stato precisato che le Amministrazioni centrali si dovevano conformare all’obiettivo di destinare al Mezzogiorno almeno il 30% della spesa ordinaria in conto capitale.

Ma dal 2018 al 2022, se andiamo a leggere le dichiarazioni di Ministri del Mezzogiorno come Barbara Lezzi o Giuseppe Provenzano o Mara Carfagna e di Ministri delle Infrastrutture e dei Trasporti come Danilo Toninelli o Paola De Micheli o Enrico Giovannini, scopriamo che era davvero scandaloso assegnare solo il 34%; una percentuale ridicola che non avrebbe mai incrinato il gap tra Sud e resto del Paese; almeno bisognava assegnare il 50% e il Ministro Giovannini dichiarò, addirittura, la soglia del 60%.

Appare evidente che allo stato attuale le risorse assegnate per interventi infrastrutturali rilevanti, sì per le cosiddette “opere strategiche”, nel Mezzogiorno dal 2015 ad oggi non superano, come preciserò dopo, il 6,5% del valore globale degli interventi infrastrutturali del Paese.

Ritengo opportuno precisare che in tale analisi non ho ritenuto opportuno inserire le risorse destinate al Ponte sullo Stretto di Messina perché non ho, in tale indagine, inserito gli interventi relativi al nuovo valico Torino – Lione, al Terzo Valico dei Giovi ed al Brennero; infatti ho sempre ritenuto questi quattro interventi come scelte mirate a realizzare i quattro anelli mancanti in grado di integrare il nostro impianto trasportistico con l’intero impianto comunitario.

Per questo motivo le opere infrastrutturali ubicate nel Mezzogiorno per le quali ci sono apposite risorse e sono in corso iniziative progettuali e realizzative sono: Un primo lotto dell’asse ferroviario ad alta velocità – alta capacità Salerno – Reggio Calabria per un importo di circa 2,2 miliardi di euro; Il collegamento ad alta velocità – alta capacità Napoli – Bari per un importo di circa 5,8 miliardi di euro; Alcuni lotti funzionali degli assi ad alta velocità – alta capacità Palermo – Messina e Messina – Catania per un valore globale di circa 3,8 miliardi di euro; Alcuni lotti (uno in costruzione altri in fase di appalto) della Strada Statale 106 Jonica che collega Taranto con Reggio Calabria per un valore globale di 4,3 miliardi di euro; Alcuni lotti dell’asse viario Palermo – Agrigento – Caltanissetta per un valore globale di circa 700 milioni di euro; Asse ferroviario ad alta velocità Taranto – Potenza – Battipaglia per un valore di circa 500 milioni di euro; Reti metropolitane e ferroviarie urbane di Napoli, Palermo e Catania per un valore globale di circa 900 milioni di euro.

Il valore globale di queste assegnazioni si attesta su un valore di 18,2 miliardi di euro e tutte sono opere previste nel Programma delle Infrastrutture Strategiche della Legge Obiettivo, opere che fino al 2022, escluso l’asse ad alta velocità Napoli – Bari, erano praticamente rimaste bloccate per scelta dei Governi Renzi, Gentiloni, Conte 1 e 2 e Draghi. Il valore del Programma della Legge Obiettivo era pari a circa 277 miliardi di euro (valore questo che non tiene conto, come detto prima, del valore dei valichi e del Ponte sullo Stretto) per cui i 18,3 miliardi di euro rappresentano appena il 6,5%.

Ma questa mia denuncia è davvero ridicola perché basata sulla logica delle risorse assegnate al Sud, una logica che, purtroppo, dopo molto tempo, ho capito che è solo un atto mediatico utile per testimoniare la esistenza di una volontà che si è trasformata in atti concreti solo con la Legge Obiettivo, dopo, invece, è rimasta solo una dichiarazione di buone intenzioni.

Pochi mesi fa ho fatto presente, in alcune mie note, che forse l’attuazione dei Livelli Essenziali delle Prestazioni (Lep) possono essere invece una prima misurabile occasione per uscire da questo equivoco e, soprattutto, un simile approccio ci farebbe scoprire che sarebbe necessario disporre per azioni infrastrutturali e servizi al Sud pari ad un valore di circa 14 miliardi di euro all’anno per un arco temporale di almeno dieci anni.

In realtà, quindi, la misura di un vero cambiamento dell’azione del  Governo nei confronti del Mezzogiorno non dovremmo più misurarla solo con queste percentuali inutili sul valore globale degli investimenti ma dovremmo convincerci, una volta per tutte, che l’unico modo per tentare di abbattere il gap del Sud nei confronti del Centro Nord, l’unico modo per evitare che il reddito pro capite medio si attesti sempre su un valore di 21 mila euro contro i 40 mila del Nord, l’unico modo per riconoscere al Mezzogiorno il suo ruolo chiave nel contesto nazionale e comunitario, l’unico modo per non rimanere, all’interno della Unione Europea, insieme alla Germania dell’Est la realtà economica incapace di crescere, l’unico modo è solo legato ad una azione organica nella omogenizzazione dei Livelli Essenziali delle Prestazioni.

Una azione che deve essere caratterizzata da iniziative non solo infrastrutturali ma anche in interventi capillari sulla miriade di servizi offerti: da quelli sul trasporto pubblico locale a quelli relativi alla offerta dei servizi sanitari e scolastici, ecc.

Ed allora, non avendo trovato risorse in conto capitale nel Disegno di Legge di Stabilità 2025 ho cercato quante risorse fossero state previste per l’attuazione dei Lep e non ho trovato alcuna risorsa e questa dimenticanza mi ha davvero preoccupato.

Addirittura ho pensato che il Governo speri, il prossimo 12 novembre, in una bocciatura, da parte della Consulta, della Legge n.86 del 26 giugno 2024 relativa all’attuazione dell’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario ai sensi dell’articolo 116, terzo comma della Costituzione. Sì è l’unico modo per evitare che una norma aggravi ulteriormente le sorti del Sud soprattutto perché, non disponendo il Governo di risorse, provocherebbe solo un rischioso conflitto non solo tra le Regioni del Sud e quelle del resto del Paese ma, addirittura, tra le stesse Regioni del Mezzogiorno. Mi spiace ma questo è uno dei primi passi falsi dell’attuale Governo. (ei)