di GIUSEPPE DE BARTOLO – In Demografia, più che in ogni altra disciplina sociale, le fonti hanno influenzato fortemente le metodologie, le quali si sono viepiù affinate con il miglioramento dello stato delle informazioni. Mentre per il periodo precedente al XVII secolo le notizie riguardanti la popolazione sono molto lacunose e consentono solo valutazioni indirette dei fenomeni demografici, dal XVII secolo una fonte importante è quella dei registri parrocchiali, in cui fin dal Medioevo i parroci annotavano, ma spesso con carattere sporadico e discontinuo, i battesimi, le cresime, i matrimoni e le sepolture dei loro parrocchiani. Ricordiamo che i decreti concernenti l’obbligo della compilazione da parte dei parroci dei registri dei battesimi e dei matrimoni furono emanati soltanto durante il Concilio di Trento (1545-1563), mentre per i registri dei defunti la normativa fu dettata nel 1614 per volontà di papa Paolo V.
Ai volumi citati bisogna aggiungerne un ulteriore, lo Status Animarum della parrocchia. La Chiesa in questo modo aveva costruito un apparato documentale, con funzione anche di controllo dei fedeli che, in ogni caso, per il periodo precedente la nascita della statistica moderna, permette di conoscere il movimento naturale (nascite, morti e matrimoni) e una stima dell’ammontare della popolazione delle singole circoscrizioni ecclesiastiche.
Lo Stato delle Anime, più in particolare, era un elenco delle persone che abitavano nel territorio della parrocchia, elenco che il parroco era tenuto a compilare ogni anno in occasione della benedizione pasquale delle case, con l’intento anche di accertare se i parrocchiani avessero adempiuto all’obbligo del precetto pasquale. A differenza degli altri registri parrocchiali, la compilazione del Registro delle Anime non seguiva uno schema prestabilito e, quando era compilato da un curato attento, conteneva l’indicazione delle singole famiglie, il proprietario dell’abitazione, il nome e il cognome del capofamiglia e via via le informazioni di tutti i componenti del nucleo familiare, con l’indicazione della relazione con il capo famiglia ed altri caratteri che potevano essere ricavati anche indirettamente: per esempio figlia stava a indicare che era nubile, moglie che era sposata, vedova o relicta lo stato di vedovanza. Il parroco annotava con C e con CR rispettivamente coloro che si comunicavano e quelli che erano cresimati. Dalla fine del ‘700 nello Stato delle Anime cominciano ad apparire la professione del capofamiglia e le proprietà, dati essenziali per la determinazione della decima (decima parte della ricchezza) da versare alla parrocchia. Alla fine del registro il parroco annotava il totale della anime: uomini, donne, comunicati, cresimati.
Il precetto di confessarsi e comunicarsi a Pasqua fu introdotto nel Concilio Lateranense da Papa Innocenzo III nel 1215. Nei quindici giorni della Pasqua, ovvero dalla domenica delle Palme a quella in Albis (dominica in albis deponendis o depositis) – così detta perché in quel giorno i fedeli battezzati nella veglia pasquale deponevano l’abito bianco indossato al momento del battesimo – il parroco amministrava la comunione ai fedeli senza interruzione e, mentre poneva in bocca l’ostia, il sacrestano gli consegnava un biglietto, detto biglietto pasquale.
Le cronache riferiscono che, per evitare frodi, dato che sovente le bizzoche andavano a comunicarsi in più parrocchie vendendo poi i biglietti ai fedeli inadempienti che così potevano evitare i castighi, il parroco consegnava biglietti colorati alle donne e biglietti bianchi agli uomini. Dopo la domenica in Albis, il parroco faceva di nuovo il giro dei parrocchiani con in mano l’elenco dello Stato delle Anime per ritirare il biglietto pasquale al fine di riscontrare chi avesse soddisfatto al precetto. A Roma tutti coloro che non avevano ottemperato a tale obbligo, il 27 d’agosto trovavano il loro nome su un cartello affisso su di una colonna all’esterno della Chiesa di S. Bartolomeo all’isola Tiberina.
I trasgressori, chiamati da Gioacchino Belli gli “scommunicati de Pasqua”, oltre a commettere un peccato mortale, incorrevano nella pena dell’Interdetto, cioè la proibizione di entrare in Chiesa e, in caso di morte, la privazione della sepoltura cristiana. Coloro i quali non rispettavano questi obblighi religiosi rischiavano anche pene corporali e persino il carcere, così che molti romani osservavano il precetto più che per reale convincimento per evitare le conseguenze repressive. (gdb)