Nessuno, quando venne messa la prima pietra del Porto di Gioia, avrebbe potuto immaginare uno sviluppo così forte e, diciamolo, anche inaspettato. Ma il Porto sta esprimendo solo il 20% del suo potenziale: la Calabria deve adottarlo e farlo diventare il volano della crescita del territorio per l’attrazione di investimenti (c’è un retroporto vastissimo e inutilizzato). E – quando si farà – per il Ponte Gioia può rappresentare una sede logistica eccezionale dove stoccare (e perché no? lavorare) i “pezzi” che andranno allestiti e montati. Non ci vuole un genio, ma solo buonsenso, quello di cui la Calabria ha davvero tanto bisogno. Presidente Occhiuto non sottovaluti questa ulteriore opportunità per Gioia Tauro. Il futuro è lì, tra quelle banchine e il retroporto. (s)
di MICHELE ALBANESE – Ricorrono oggi (ieri ndr), 25 aprile, i 50 anni dalla posa della prima pietra per la costruzione del porto di Gioia Tauro. Fu GiulioAndreotti, all’epoca Ministro alla Cassa per il Mezzogiorno, presente anche Giacomo Mancini, ad inaugurare il cantiere che costruirà il porto.
In occasione della visita, un po’ oscura e misteriosa tanto che pochi giorni prima nessuno tra i dirigenti provinciali della Dc sapeva della presenza del Ministro e della cerimonia che molti anni dopo farà parlare di se anche per l’imbarazzante presenza, al rinfresco, di esponenti del clan mafioso dei Piromalli, Andreotti diede prova del suo proverbiale senso dell’ironia commentando la sfiducia delle popolazioni locali nei confronti delle promesse del governo.
«I calabresi hanno ragione di diffidare», disse, «perché spesso alla prima pietra non segue la seconda».
La cava dei Mancuso e il ruolo dei Piromalli
Ma in quella circostanza non andò così. Alla prima ne seguirono altre e poi altre ancora, molte delle quali provenienti da una cava tra Nicotera e Limbadi che abilitò i Mancuso di Limbadi alla conquista del vibonese. Si scrisse che i Piromalli di Gioia Tauro per mettere le mani sulle quelle pietre diedero dei soldi a don Ciccio Mancuso per comprare e poi sfruttare quel pezzo di montagna di granito fatta saltare con la dinamite. Un’operazione che fece con volare i Mancuso ai tavoli che contavano della ‘ndrangheta calabrese. Il completamento del porto avvenne ben 13 anni dopo con un costo stimato di quasi mille miliardi di vecchie lire. Una cifra mostre per allora. Quel 25 aprile il palco era stato allestito dal comune di Gioia Tauro in C.da Vota proprio davanti alla distesa di agrumeti già espropriati e davanti al piccolo paese di Eranova che nonostante la tenace resistenza degli abitanti verrà spazzato via dalle ruspe. Si dava quindi il via a quella che veniva ritenuta essere l’avvio dell’industrializzazione calabrese. Il porto costituiva l’asset principale per la realizzazione del Quinto Centro Siderurgico partorito dopo i moti di Reggio Calabria del 1970.
Le resistenze dell’Iri e di Confindustria sul Quinto Centro Siderurgico
Allora c’era da combattere, per avere ragione delle ultime resistenze sulla strada della realizzazione dell’impianto siderurgico, provenivano dall’Iri, dalla Confindustria e da alcuni settori delle forze politiche di Governo e di opposizione. Il porto fu finito, ma del siderurgia che avrebbe all’impiego di 7500 posti di lavoro non si vide nemmeno l’ombra. Il Cipe aveva deliberato per la costruzione del porto 178 miliardi di lire che, presto, a suon di perizie e varianti, si moltiplicarono. Nonostante tutto, tra le potreste della gente di braccianti e operai già allora dubbiosi che la siderurgia effettivamente si realizzasse, che issarono cartelli “Non basta la prima pietra, il quinto centro non ce lo darà nessuno”.
«Tutte le preoccupazioni e le perplessità della popolazione della zona e, allo stesso tempo, la piena consapevolezza che quanto finora sia è ottenuto è frutto delle lunghe lotte popolari (anche contro le provocazioni fasciste che qui spalleggiano gli agrari) – scrisse nella sua cronaca sull’Unità Franco Martelli allora – sono state espresse a nome della Cgil, della Cisl e della Uil dal compagno Alvaro il quale ha, anche, chiaramente indicato l’esigenza che la lotta prosegua per battere tutte le resistenze e avviare veramente la costruzione del Quinto Centro Siderurgico. Né – ha aggiunto ancora Alvaro – il conto coi lavoratori calabresi da parte del Governo può chiudersi qui, dal momento che anche altri impegni assunti sono ancora in gran parte da realizzare».
Una passerella per tutti
Durante la cerimonia presero la parola i dirigenti locali del Pci, del Ps, della Dc e della Psdi e il presidente della Regione Ferrara e il sindaco di Gioia Tauro Gentile. Come sospettavano gli operai, il Quinto Centro Siderurgico sparì ben presto e le sole opere realizzate furono il porto, la Diga sul Metramo e la Superstrada Jonio-Tirreno. Perché? Primo perché, allora, la siderurgia era già in crisi per cui realizzare un altro impianto siderurgico era praticamente inutile e, secondo, perché quelle opere civili servirono ad altro e cioè a far dare alle famiglie di ‘ndrangheta il salto di qualità, trasformando la loro dimensione agro pastorale in vere e proprie imprese criminali: nacque in quel modo la “‘ndrangheta imprenditrice”, che cominciò a mettere le mani sui cantieri con le guardianie e successivamente, grazie ai subappalti, a divenire unici fornitori di servizi ai mega Consorzi edili che stavano per realizzare il porto imponendosi con le forniture di cemento, movimento terra, ferro e altro. I boss divennero “imprenditori”, comprarono camion e ruspe e misero le mani sulla montagna di miliardi destinati alla costruzione del Porto, della Diga e della strada tra i due versanti della Provincia reggina.
Il progetto del Porto
Il progetto per la costruzione del porto prevedeva la realizzazione di “un canale della larghezza di galleggiamento variabile da 250 a 350 metri e della lunghezza di 3200 metri, che doveva avere regine dal bacino d’ingresso proteso a mare e protetto a due moli foranei convergenti. I quali formeranno un’imboccatura della larghezza di 300 metri al galleggiamento e di 220 metri a quota meno quindici metri. Il molo Nord, lungo 950 metri, raggiungerà con l’unghia della scarpata esterna il fondale di meno 50 metri, mentre quello Sud si spingerà fino a 440 metri dalla battigia raggiungendo un fondale di 35 metri. L’avamporto avrò un cerchio di diametro di 800 metri per l’evoluzione del naviglio all’attracco, mentre il banchinamento è previsto per oltre cinque chilometri, di cui tre saranno adibiti alle necessità del Centro siderurgico. Per le sue caratteristiche, il costruendo porto consentirà l’attracco di navi fino a 80mila tonnellate.
Tutte le infrastrutture al servizio dell’agglomerato di Gioia Tauro interessano una superficie di oltre 500 ettari; il consorzio industriale ha, fino a oggi, acquistato la disponibilità dell’area interessata alla realizzazione della prima fase dei lavori del porto, la cui ultimazione è prevista entro 40 mesi.
Per l’esecuzione dell’opera si calcola che saranno impegnate oltre duecentomila giornate lavorative. Si prevede che, entro il 1978, il complesso delle opere portuali e delle altre infrastrutture generali (con un ulteriore investimento globale di oltre 200 miliardi di lire) sarà completamente ultimato. Di tempo per finirlo ci sono voluti non 40 mesi, ma quasi 160 e quella somma totale di 200 miliardi in totale non bastò manco a realizzare meno di un quarto delle opere previste. La “grande piscina”, come veniva troppo affettuosamente chiamata in zona, nella quale brulicavano le cozze e le ostriche, restò tale per alcuni anni, prima che qualcuno pensò di utilizzarlo come terminal carbonifero, osteggiato per anni dalla popolazione. Poi arrivò il transhipment! Ma questa è un’altra storia. (ma)
[Courtesy Il Quotidiano del Sud]