IL PUNTO / Adriano Giannola: «Il Mezzogiorno è ancora vivo»

di ADRIANO GIANNOLANel corso del 2024 si è andata affermando un’immagine del Sud relativamente nuova e fortunatamente positiva, che ha fatto scalpore e stimolato qualche piccata reazione: una crescita del Mezzogiorno che supera il CentroNord e che macina record di occupati. Questo Sud si presta a comodo simbolo del successo della strategia governativa che lo rilancia quale ZES Unica. Si tratta di primati veri e apparenti allo stesso tempo: la contabilità scientifica, infatti, avverte che aumentano gli occupati ma diminuiscono le ore lavorate e si ingrossa la schiera dei lavoratori poveri. Ciò spiega la voragine della produttività stagnante dalla quale non si riesce ad uscire e che spiega il grigiore della stagnazione generale, più evidente al Nord, conclamata al Centro e che è invece persistente normalità al Sud. La Svimez i primati li documenta e lo battezza come lanno della crescita differenziata, un titolo che ironicamente fa il verso alla retorica leghista dell’Autonomia Differenziata della legge Calderoli, fatta a pezzi dallaccurata, chirurgica, dissezione della Corte Costituzionale.

I primati del Sud hanno una spiegazione molto semplice che prende il nome da una delle 7 opere della Misericordia dipinta a Napoli da Caravaggio: dar da mangiare agli affamati. La verità è che il Mezzogiorno è vivo, è sopravvissuto alla dieta alla quale alludeva nel 2018 l’ex ministro per la Coesione del governo Conte 2, in audizione alla commissione parlamentare di inchiesta sulla spesa storica: quando documentava che al Sud da molti anni mancano allappello circa 60 miliardi l’anno di risorse pubbliche, soprattutto in conto capitale.

C’è voluta la pandemia e il provvidenziale intervento straordinario Ue del Pnrr con le condizionalità, peraltro larvatamente rispettate, per far vedere che il Mezzogiorno è ancora vivo e chiede solo una dieta intelligente collegata ad una ancor più intelligente strategia: quella che consentirebbe di mettere a terra levidentissima opportunità per essere quel secondo motore indispensabile a rimettere in corsa il Paese. Dunque, dire che il Mezzogiorno è un problema in via di soluzione è un pio desiderio. Perché lemigrazione giovanile prosegue massiccia. Oltre 100 miliardi di risparmi del Sud emigrano ogni anno per essere impiegati dalle banche del Nord. Illudersi che la Zes unica possa fare miracoli, con o senza decontribuzione, e con risorse abbondanti per il credito di imposta, è un diversivo pericoloso: se assolverà al compito di mettere ordine e gerarchia nell’uso dei fondi per la coesione, realizzando una fisiologica programmazione Stato-Regione, il suo ruolo sarà utilissimo. E lo sarà ancor di più se consentirà ai porti meridionali di fare da detonatore alla reazione a catena dello sviluppo, che può innestare la combinazione logistica a valore, vie del mare, new manufacturing e zone doganali intercluse: una miscela che il Pnrr, quasi fuori tempo massimo, può ancora, davvero tardivamente, innescare. Se il 2024 è pieno di dubbi primati del Mezzogiorno, conseguiti soprattutto per demerito dellaconcorrenza, una perniciosa persistenza è invece l’assenza di un progetto semplice e chiaro che conferisca al Sud quella funzione che può svolgere per riconnettere il Paese sulla rotta del nostro ruolo Mediterraneo, non previsto dal Piano Mattei. (ag)

[Adriano Giannola è presidente della Svimez]

LEGA, IL PROGETTO DELLA MACROREGIONE
È UNA SERIA MINACCIA PER IL MERIDIONE

di PIETRO MASSIMO BUSETTAIl retro pensiero era “tanto poi di fronte ai Lep si fermerà tutto”. Ma con leggerezza avevano sottovalutato il tema e soprattutto la determinazione e la forza di impatto di Roberto Calderoli. Mi riferisco a Fratelli D’Italia, a Forza Italia e anche a Noi Moderati di Lupi. D’altra parte la conoscenza della legge era stata sempre molto approssimativa.

In realtà qualcuno lo aveva cominciato a dire in tempi non sospetti che il vero obiettivo erano le materie dove non erano previsti i Lep. Ma è rimasto un profeta inascoltato. Parlo di Adriano Giannola che da tempo sostiene che il vero disegno della Lega Nord, ma in realtà anche di un’aggregazione più ampia, anche di ricercatori e studiosi del Nord, appartenenti anche ad altri partiti, era quello di arrivare ad una macro regione del Nord, che in qualche modo sostituisse, peraltro con il vantaggio di continuare ad avere una colonia interna, che è il Mezzogiorno, il progetto iniziale che vedeva nella secessione il raggiungimento dell’obiettivo bossiano. 

Adesso che il disegno comincia ad essere chiaro, anche a chi riteneva che si chiudesse  la partita dando il contentino alla Lega, in modo da tenere unita e coesa la maggioranza, le preoccupazioni cominciano a nascere. Perché il contentino si sta rivelando estremamente pericoloso  per la coesione nazionale e, si teme, molto costoso per il consenso nei territori meridionali.

Sopratutto per i tre partiti della maggioranza che continuano ad avere lì una base elettorale importante. Inizialmente le voci contrarie del Centrodestra sono state molto isolate. Si pensi che solo tre deputati vicini a Roberto Occhiuto si sono rifiutati di votare a favore del ddl Calderoli. Cannizzaro,  Mangialavori e Arruzzolo.

E il Presidente della regione Calabria si trovava solo, anche all’interno del Partito, sulla posizione critica rispetto all’Autonomia che, dichiarava, sarebbe potuta  andare avanti solo quando i Lep sarebbero stati individuati e finanziati. 

Cosa estremamente difficile considerato che il costo dell’equità territoriale nei diritti di cittadinanza di base, come sanità, scuola infrastrutturazione è molto elevato.

Poi in un secondo momento fece  propria la posizione di Occhiuto anche il Segretario del Partito Antonio Tajani, che insediò un comitato per monitorare l’andamento di tale legge e non perdere di vista le problematiche che essa faceva sorgere.      

Ma approvata la legge, che in molti consideravano fosse solo una bandierina da sventolare per accontentare i leghisti più duri e puri, ci si rese conto invece che Zaia, Fontana, Cirio, insomma tutto il Nord di destra, facevano sul serio. Ed erano pronti a intavolare le trattative per alcuni temi che sembravano irrilevanti, ma che si sta vedendo che sono estremamente importanti. 

E allora vengono fuori i distinguo: Tajani che afferma che il commercio estero non può essere parcellizzato e gestito da 20 regioni. Ieri Musumeci che in una intervista, poi in parte sconfessata, evidenziava che la protezione civile ha esigenze di interventi che solo il Governo Centrale può consentirsi in termini di risorse ma anche organizzativi. 

Si potrebbe dire che i nodi vengono al pettine e che lo stupore di chi non capiva come mai Partiti come Fratelli D’Italia e Forza Italia, con un consenso  raccolto a livello nazionale e con una mission che valorizzava l’idea di Paese unito,  potessero accettare una legge che invece andava in una  direzione che molti hanno chiamata Spacca Italia,  era dovuto alla convinzione che in realtà si stesse facendo il gioco delle parti. 

 Da un lato la Lega aveva il suo contentino e la sua bandierina da sventolare sui campi di Pontida, a due passi da Bergamo, dall’altro rimaneva tutto invariato e quindi nessuno avrebbe disturbato il manovratore. 

Ora che gli inviti a stare calmi e ad aspettare vengono rinviati al mittente, in particolare dal gruppo Veneto con Zaia in testa, con una determinazione inaspettata, solo da alcuni, e con la motivazione che c’è una legge che va applicata, ci si trova davanti a difficoltà non previste e si invocano tavoli diversi da quelli previsti dalla legge, per fare in modo che i passaggi successivi non diventino quasi automatici. 

Ma l’affermazione di Salvini che dice: «indietro non si torna» evidenzia la volontà precisa di non interrompere il processo. Quindi intanto si va avanti con le materie dove non sono previsti i Lep. E per le altre si trova un sistema per cui il livello di tali servizi “essenziali” sia tale da essere compatibile  con la legge che prevede che avvenga tutto a costo zero per il bilancio dello Stato. 

L’obiettivo è quello che si dia valenza e importanza a un concetto assolutamente anticostituzionale, che è quello del residuo fiscale, unico modo per mantenere quella spesa storica che ha consentito finora l’esistenza di cittadini di serie A e di serie B, con spesa pro capite per ciascuno di loro, nella sanità, nella formazione, nella infrastrutturazione, diversa, e alcune volte dimezzata, rispetto alle Regioni più favorite.

È evidente che per avere gli stessi livelli di prestazione, meglio sarebbe livelli uniformi, che sono alla base di uno Stato unitario, nel quale l’equità territoriale è la base da cui partire, come quella della progressività del prelievo fiscale, che prescinde dal territorio in cui si nasce e e si lavora, sono necessarie risorse che questo Paese non ha e che non riuscirà ad avere se i tassi di crescita continuano ad essere di zero virgola qualcosa e si vorrà tenere il 40% del territorio ed il 33% della popolazione in una posizione ancillare rispetto alla cosiddetta locomotiva, che a stento trascina se stessa. 

D’altra parte impegnarsi per far crescere veramente quella che alcuni con molta enfasi chiamano la seconda locomotiva, ma che in realtà rimane soltanto una un’area a sviluppo ritardato, dove lavora soltanto una persona su quattro, caratterizzata dai processi migratori tipici delle realtà sottosviluppate, è estremamente impegnativo. 

Perché bisogna infrastruttura bene il territorio, lottare la criminalità organizzata per evitare che sia di impedimento all’insediamento di nuove aziende, dare vantaggi fiscali assolutamente consistenti tali da far scegliere alla impresa che arriva dall’esterno, come Microsoft,  invece che Milano magari Cosenza, e  un cuneo fiscale da azzerare, che pesa  sul bilancio dello Stato in modo rilevante. 

Per far questo bisogna sottrarre risorse alle esigenze di un Nord industrializzato che, correttamente, vuole competere con la Baviera, con il Giappone, con la Cina, che oggi non ha più bisogno dell’alta velocità, già esistente, ma di un treno supersonico con tecnologia Hyperloop, del tubo che faccia spostare  a 1200 km orari. 

 E allora la via di fuga è quella di fissare i Lep  a un livello talmente basso da consentire l’attuazione del progetto, magari inventandosi un diverso costo  della vita tra Sud e Nord. Dimenticando che esso non passa attraverso una differenza tra  territori, quanto molto più probabilmente tra aree metropolitane e interne, aree agricole e turistiche. E non tenendo presente che alcune carenze di servizi di alcune aree anche se non entrano nel costo  della vita Istat appesantiscono i bilanci familiari in modo notevole. (pmb)

[Courtesy Il Quotidiano del Sud – L’Altravoce dell’Italia]

SVIMEZ: “IUS SCHOLAE” ATTO NECESSARIO
DI UGUAGLIANZA SOCIALE E INCLUSIONE

Lo Ius scholae di cui si sta parlando in quetsi giorni rappresenta, senza ombra di dubbio, uno strumento di coesione sociale e valorizzazione dell’integrazione di minori provenienti da Paesi extracomunitari (o molto spesso nati in Italia).

A questo proposito è di particolare rilievo lo studio realizzato dalla Svimez (l’Associazione per lo sviluppo del Mezzogiorno) che mette in evidenza il diritto alla cittadinanza dei bambini che studiano in Italia. C’è da sottolineare che nel Mezzogiorno la percentuale è abbastanza contenuta (in Calabria appena il 5,5 % contro il 23% della Lombardia), ma il problema riguarda tutto il Paese e il suo futuro.

Lo Ius Scholae – pensato per conferire la cittadinanza ai minori stranieri, nati in Italia o arrivati prima dei 12 anni, che hanno frequentato regolarmente almeno cinque anni di studio in Italia – rappresenta un atto necessario di uguaglianza sociale nei confronti di bambini e ragazzi ai quali non è riconosciuto lo status giuridico di cittadini italiani pur condividendone cultura, educazione e appartenenza.

La riforma – emerge dalla Ricerca Svimez –  è anche un’opportunità concreta per costruire una società più inclusiva e coesa, che investe sull’accoglienza per il futuro del Paese. Legare l’acquisizione dei diritti di cittadinanza al completamento di un ciclo di studi potrebbe incentivare la permanenza in Italia dei giovani con background migratorio e delle loro famiglie, contribuendo a ringiovanire la popolazione, contenere la riduzione delle iscrizioni nelle scuole e la conseguente chiusura dei presidi scolastici.

I NUMERI. Considerando il solo ciclo della primaria, sulla base dell’attuale testo dello Ius Scholae, rientrerebbero a pieno titolo tra gli aventi diritto alla cittadinanza italiana i bambini stranieri di età compresa tra i 6 e i 10 anni che completano con successo l’intero percorso di studi nel Paese, iscrivendosi quindi al primo anno della secondaria di primo grado. Ma quanti sono i minori stranieri che studiano nelle scuole italiane della primaria? Gli ultimi dati del Ministero dell’Istruzione e del Merito (MIM) indicano un totale di 315.906, pari al 14% degli iscritti (i dati si riferiscono alla primaria statale e non includono la Valle d’Aosta e le Province Autonome di Trento e Bolzano). Di questi, 4 su 5 provengono da un paese extracomunitario.

LA GEOGRAFIA. La distribuzione di bambini stranieri nella fascia di età 6-10 anni non è uniforme sul territorio nazionale mostrando una maggiore concentrazione nelle aree del Nord Italia, più attrattive in termini di opportunità occupazionali e retributive per i genitori ma anche di accessibilità e qualità dei diritti essenziali per le famiglie. L’incidenza di stranieri sugli alunni della scuola primaria varia dal massimo del 23,2% dell’Emilia-Romagna al minimo del 3,2% della Sardegna. Tra le prime due regioni per numero assoluto di alunni della primaria, Lombardia (oltre 392mila) e Campania (228mila), la differenza è di circa 17 punti percentuali: 22% contro il 4,5%.

Le differenze si ampliano considerando le 14 città metropolitane, dove lo stacco tra Nord e Sud è ancora più evidente. Milano registra una percentuale del 24,5%, oltre 6 volte maggiore della città metropolitana di Napoli che si attesta a poco più del 3,6%. In generale, nessuna città metropolitana del Mezzogiorno supera la soglia del 6%, con valori compresi tra 3% (Palermo) e 5,7% (Reggio Calabria).

A livello comunale, il gradiente territoriale nell’incidenza di stranieri che frequentano la scuola primaria conferma la sostanziale spaccatura Nord/Sud, ma fa anche emergere profonde differenze nell’attrazione di popolazione immigrata all’interno delle diverse aree. Anche al Nord, la presenza di bambini stranieri si concentra, infatti, nelle città metropolitane e nelle aree a maggiore densità produttiva mentre tende a ridursi significativamente nei comuni delle aree interne (soprattutto in Piemonte e Liguria). Nelle regioni meridionali, caratterizzate mediamente da una bassa presenza di bambini stranieri, fanno eccezione alcuni comuni dell’entroterra calabrese e della provincia siciliana di Ragusa. In generale, i comuni delle regioni del Nord mostrano una presenza di bambini stranieri mediamente compresa tra il 10 e il 20%, mentre nei comuni del Centro e del Sud la percentuale non supera il 9%, risultando inferiore al 5% nelle maggior parte dei casi.

I COMUNI CON MENO DI 125 BAMBINI.

Nella Fig. 4 è riportata l’incidenza di bambini stranieri sugli alunni della primaria nei comuni con una sola “piccola scuola” (comuni con meno di  125 alunni) , dove l’unico presidio scolastico attivo rischia nei prossimi anni di chiudere per un numero insufficiente di iscritti. Si tratta di circa 3 mila comuni italiani, il 38% del totale (con quote che oscillano tra il 27% del Nord-Est e il 46% del Mezzogiorno), localizzati nella maggior parte dei casi nelle aree interne delle diverse regioni.

Complessivamente, i bambini stranieri che frequentano l’unica piccola scuola del proprio comune sono circa 20.000, il 10,6% degli alunni (6-10 anni) residenti. Le differenze territoriali si confermano anche in questa tipologia di comuni: tutte le regioni del Centro-Nord presentano una quota di alunni stranieri superiore al 10% (unica eccezione il Friuli-Venezia Giulia). Nel Mezzogiorno, il dato cala in media a 5 bambini stranieri su 100 alunni, in Sardegna a 2,5.

Sulla base di queste evidenze emerge il ruolo rilevante della partecipazione dei bambini stranieri alla scuola primaria anche nei comuni a maggior rischio di “degiovanimento”. L’attrazione di famiglie straniere già oggi rappresenta per molte aree del Paese una leva di contrasto al calo delle iscrizioni e al conseguente rischio di chiusura dei presidi scolastici. L’adozione dello Ius Scholae potrebbe rafforzare tale tendenza.

L’incentivo alla frequenza regolare e quindi alla permanenza dei bambini stranieri interesserebbe, ad oggi, una platea di beneficiari sensibilmente più ampia nei comuni del Centro-Nord, in particolare nei casi di Emilia-Romagna e Toscana, dove l’incidenza di stranieri si avvicina al 20%.

In altre parole, lo Ius Scholae potrebbe contribuire a scongiurare la chiusura di molte piccole scuole, assicurando continuità a un presidio culturale primario che, oltre a sviluppare le opportunità formative di bambini e giovani, consente di arginare i processi di spopolamento e invecchiamento. L’istruzione rappresenta un servizio essenziale la cui qualità e capillarità sono condizioni imprescindibili per uno sviluppo socialmente e territorialmente inclusivo, specialmente per le aree più deboli e remote. La granularità territoriale dell’offerta scolastica contribuisce a neutralizzare la condizione di svantaggio delle «periferie», salvaguardando le comunità che le abitano.

LE PROSPETTIVE DEMOGRAFICHE.

Garantire i diritti di cittadinanza ai bambini stranieri, oltre a costituire un fondamentale strumento di inclusione, permette di migliorare le prospettive demografiche dei prossimi anni. Le previsioni demografiche dell’ISTAT delineano un quadro in complessivo peggioramento per l’intera struttura demografica del Paese, con una riduzione importante della platea di giovani e un contestuale ampliamento delle fasce più anziane. Questi cambiamenti, senza correttivi immediati e scelte politiche ambiziose, produrranno effetti dirompenti sui sistemi sociali e sanitari di tutti i territori, anche all’interno di orizzonti temporali relativamente stretti.

Stando alle proiezioni al 2035, la popolazione di bambini di età compresa tra 5 e i 9 anni – fascia d’età che sostanzialmente corrisponde a quella dei bambini che frequentano la primaria – dovrebbe diminuire del 18,6%, passando dagli attuali 2,5 a poco più di 2 milioni. Le variazioni saranno più marcate nel Centro e nel Mezzogiorno, con la Sardegna che potrebbe subire perdite del 34%, seguita da Lazio e Abruzzo con valori rispettivamente del 24,8% e 24,4%. A registrare le variazioni più contenute dovrebbero essere Liguria (-9,7%) e Trentino Alto Adige (-11%), mentre in tutte le altre regioni settentrionali le perdite potrebbero superare il 13%.

IL QUADRO D’INSIEME. Sulla base delle statistiche illustrate, è possibile stimare il numero di bambini stranieri iscritti alla primaria che, con l’approvazione della riforma, avrebbero diritto alla cittadinanza italiana. Nel 2023 erano 60.000 gli alunni stranieri iscritti all’ultimo anno della primaria. Una stima prudenziale dei potenziali beneficiari dello Ius Scholae include: tutti i bambini stranieri nati in Italia (42.000), che verosimilmente hanno completato nel Paese l’intero percorso di studio; circa un terzo di quelli nati all’estero (6.000), ipotizzando che gli altri abbiano iniziato il percorso scolastico fuori dai confini nazionali, senza maturare il requisito richiesto dalla riforma.

Questa la ripartizione regionale dei 48.000 beneficiari così identificati: oltre 1 su 4 risiede in Lombardia, il 12,8% in Emilia-Romagna, l’11,6% in Veneto e solo il 12,5% in tutto il Sud, area del Paese in cui è presente il 35,3% degli alunni della primaria.

Dallo Ius Scholae possono quindi derivare rilevanti effetti positivi di giustizia e coesione sociale, tenuta del sistema scolastico, e, più in generale, sulle prospettive demografiche del prossimo futuro. L’efficacia della riforma dipende dalla volontà di inserire lo strumento in un più ampio programma di rafforzamento del welfare territoriale e sostegni effettivi ai redditi e alla genitorialità.

Da un lato, è necessario perseguire gli obiettivi di coesione territoriale che consentono di offrire pari opportunità lavorative e retributive, rendendo nella stessa misura attrattive tutte le aree del Paese e scongiurando il rischio di un ulteriore ampliamento dei divari sociali e economici, dei quali le differenze territoriali documentate nella distribuzione dei bambini stranieri sono solamente una delle tante manifestazioni.

In questo quadro, occorre ribaltare la percezione comune di un pericolo immigrazione, inserendo a pieno titolo le politiche di inclusione come parte integrante di un progetto che, attraverso il miglioramento dei servizi pubblici e l’accompagnamento alla localizzazione di attività produttive, riduca l’emigrazione dei giovani e favorisca l’attrazione di nuove famiglie. È proprio la presenza di questi nuclei che consente di contrastare le dinamiche demografiche avverse e di spezzare il circolo vizioso tra spopolamento e rarefazione dei servizi pubblici essenziali.

Per il direttore generale della Svimez, Luca Bianchi: «Lo Ius Scholae – pensato per conferire la cittadinanza ai minori stranieri, nati in Italia o arrivati prima dei 12 anni, che hanno frequentato regolarmente almeno cinque anni di studio in Italia – rappresenta un atto necessario di uguaglianza sociale nei confronti di bambini e ragazzi ai quali non è riconosciuto lo status giuridico di cittadini italiani pur condividendone cultura, educazione e appartenenza.

«La riforma è anche un’opportunità concreta per costruire una società più inclusiva e coesa, che investe sull’accoglienza per il futuro del Paese. Legare l’acquisizione dei diritti di cittadinanza al completamento di un ciclo di studi potrebbe incentivare la permanenza in Italia dei giovani con background migratorio e delle loro famiglie, contribuendo a ringiovanire la popolazione, contenere la riduzione delle iscrizioni nelle scuole e la conseguente chiusura dei presidii scolastici”, conclude. (rrm)

LA “QUESTIONE ITALIANA” È L’EMIGRAZIONE
DEI GIOVANI DEL SUD, NON L’IMMIGRAZIONE

La “Questione italiana” è l’emigrazione, non l’immigrazione. È l’allarme lanciato dalla Svimez, nel corso del convegno FestambienteSud promosso da Legambiente e svoltosi in Puglia, evidenziando come «l’incremento delle diseguaglianze di genere, generazionali e territoriali è la principale causa del gelo demografico italiano».

Negli ultimi anni, infatti, il tasso di natalità sempre più basso e un’aspettativa di vita sempre più lunga hanno portato l’Italia tra i paesi più anziani in Europa e nel Mondo; ma le dinamiche naturali hanno avuto impatti territoriali differenziati, colpendo in maniera più rapida e severa il Sud. Anche la componente migratoria interna e internazionale ha contribuito ad ampliare gli squilibri demografici Sud-Nord.

Nelle regioni settentrionali si concentrano prevalentemente le comunità immigrate, contribuendo a ringiovanire una popolazione strutturalmente anziana. Il Mezzogiorno continua a soffrire di un deflusso netto di giovani (1 su 3 laureato) verso il resto del Paese e verso l’estero.

La Lombardia, ad esempio, registra una variazione netta positiva, intercettando i flussi migratori interni e esteri. Al contrario, la Puglia continua a perdere popolazione che si sposta nelle altre regioni (specialmente al Nord) e all’estero. Stando alle proiezioni Istat, al 2042 la Puglia perderà oltre 418mila cittadini (- 11%). 1/3 nei comuni delle aree interne (-100mila) in cui oggi risiede il 22% della popolazione. Le riduzioni maggiori si osservano nelle giovani fasce d’età, con la popolazione che si contrarrà di oltre il 30%, con picchi del 35% nelle aree interne. Si perde forza lavoro, si va verso una maggiore senilizzazione della società, si smantella progressivamente il sistema di servizi all’infanzia (se presente), si svuota la scuola.

Di fronte a questo quadro desolante, per la Svimez, una ripresa della dinamica demografica è conseguibile attraverso un riequilibrio delle condizioni di accesso ai diritti di cittadinanza, investendo in infrastrutture sociali per migliorare qualità dei servizi pubblici nei territori a maggior fabbisogno, a partire dalla scuola e dalla sanità, per migliorare il saldo naturale; attraverso un freno alla fuga delle competenze e creando domanda di lavoro qualificato; attraverso politiche in grado di attrarre migranti con misure di inclusione (servizi, borse di studio, accompagnamento e formazione al lavoro).

Per Luca Bianchi, direttore della Svimez, «l’autonomia differenziata determinerà un’ulteriore divaricazione dell’offerta di servizi e di conseguenza un incremento delle emigrazioni (sanitarie, universitarie, lavorative), rafforzando il trend di spopolamento dei territori marginali».

Un’ulteriore approfondimento sui divari territoriali e le difficoltà di accesso al credito l’ha fornito il presidente della Svimez, Adriano Giannola, intervenendo alla 15esima edizione della Conferenza Nazionale di Statistica: «la difficoltà di accesso al credito ostacola – non poco! – la convergenza territoriale. Oggi il dualismo è tornato prepotentemente dopo gli anni della convergenza (1951-anni ’80) e il tema creditizio merita grande attenzione».

«Nel 1972 Saraceno, fondatore con Morandi e Menichella della Svimez – ha ricordato Giannola – espresse una valutazione di grande attualità: “…quando iniziai la non facile ma interessante esperienza della Cassa dissi che tre erano gli indicatori che dovevamo monitorare attentamente perché erano quelli che sulla base degli investimenti che andavamo a realizzare avrebbero dovuto subire un sostanziale cambiamento; mi riferisco al reddito pro-capite, al tasso di disoccupazione e al costo del denaro. Dopo venti anni ci sono flebili segnali positivi sui primi due indicatori mentre sul terzo, purtroppo, non è accaduto nulla. E questo, devo essere sincero, è davvero preoccupante perchè rappresenta il riferimento determinante per un processo di crescita. Sono sicuro che…, il mondo bancario annullerà queste forme discriminanti nei confronti delle iniziative nel Mezzogiorno”».

«Alla luce delle evidenze successive al 1990 – ha aggiunto il presidente Svimez – un illustre analista commenta “…lo Stato… in tutti questi anni non ha mai dichiarato che quel rischio differenziale denunciato… possa essere assorbito ad opera sua”: è lampante in effetti che il drastico razionamento della spesa pubblica in conto capitale al Sud, il consolidamento bancario degli anni 1990, il passaggio della vigilanza da strutturale a prudenziale, sono fattori che non hanno attenuato il differenziale che condiziona il merito creditizio di famiglie e imprese del Sud».

«Lo Stato e la Banca Centrale – ha proseguito – hanno affrontato il problema con una terapia distillata da una diagnosi secondo la quale per incidere sul divario è prioritario puntare a recuperi di efficienza promossi a loro volta dall’ apertura del mercato “locale” al vento della concorrenza. Su queste basi l’ obiettivo dichiarato di eliminare oltre il 60% del dualismo creditizio ha legittimato il rapidissimo consolidamento che ha scientemente e inopinatamente spazzato via il sistema bancario meridionale. Che la terapia non fosse idonea, efficace e men che meno risolutiva lo dice la cronaca trentennale che, ormai è storia, conferma per mutuatari ed imprese del Sud che poco o nulla è cambiato: il dualismo consolidato, domina ora come allora».

«Cancellati con chirurgica rapidità i grandi banchi (gli Icdp) del Sud, aggiudicati a quelli del Nord alla cui gestione si affida il neonato mercato unico dei capitali, scompare la dimensione del fine tuning interbancario strategico per gestire il dualismo creditizio mentre la raccolta del Sud razionalmente impiegata sul mercato duale premia ovviamente, e più di prima, imprese e operatori del Centro Nord (100 mld/anno nel 2022) condizionando Pmi e clientela nel Mezzogiorno – ha detto ancora –. Né, in questo panorama, le grandi banche nazionali del mercato unico dei capitali vincono la sfida dell’ efficienza che invece perdono in assoluto e nel confronto specifico con quel che resta del sistema creditizio del Sud: le Bcc e il fragile retaggio delle Banche Popolari. Costringere la gestione operativa di un sistema ostinatamente duale nel mercato unico del credito, viola basilari regole grammaticali del dualismo perché atrofizza l’ azione tradizionalmente svolta sull’ interbancario dalla sapiente, più indipendente ed esperta gestione della Banca Centrale. Questa, abdicando al suo ruolo, senza cogliere l’ obiettivo consolida la patologia».

«L’ansia di prestazione suggerisce terapie frutto di cedimenti all’accademica nella lettura di un fenomeno ben noto proprio alla Banca Centrale che, La Banca Centrale non più sovrana a scala nazionale e al governo dell’Euro, potrebbe svolgere un ruolo di eccezionale rilevanza sul monitoraggio e gestione del dualismo – unico per intensità e storia nell’Unione proprio e su un terreno di sua stretta competenza –. È paradossale – ha concluso – che il più completo e prestigioso laboratorio di ricerca e analisi nazionale, patrimonio della Banca Centrale non contribuisca attivamente come avviene in altri contesti in modo sistematico ed operativamente incidente». (rcz)

IN CALABRIA TIMIDI SEGNALI DI RIPRESA
MA SERVE FARE DI PIÙ PER L’AGRICOLTURA

di ANTONIETTA MARIA STRATI – Sono solo timidi segnali, ma la Calabria, lentamente, si sta riprendendo. È quanto ha rilevato la Svimez nel rapporto Le regioni italiane nel 2023, evidenziando come la crescita del Pil della Calabria sia abbastanza sostenuta e omogenea (+1,2%) grazie soprattutto all’incremento di valore aggiunto delle costruzioni (+7,4%) ha sostenuto la crescita regionale insieme al terziario (+1,7%), nonostante il netto calo del settore industriale (-4,8%).

Importante, poi, i numeri per quanto riguarda le presenze turistiche: +11,7% in totale, di cui 25,9 sono stranieri e 9,0 italiani. La presenza di stranieri, in particolare, sono tipicamente associati livelli di spesa significativamente più elevati. Male, invece, per il valore aggiunto in agricoltura, che ha registrato un -0,5%; e -4,8% per il settore terziario. Preoccupa, in particolare, il dato dell’agricoltura, considerando l’impegno della Regione e del suo assessore, Gianluca Gallo, ad aiutare le aziende agricole a crescere e ad ammodernarsi. Ma non solo: La Calabria è la seconda regione d’Italia per incidenza del numero di aziende agricole guidate da giovani. Questo fa capire «l’interesse dei giovani per l’agricoltura», ma evidentemente nella nostra regione bisogna fare di più.

Positivo, invece, il valore aggiunto per quanto riguarda le costruzioni e i servizi, che sono a +1,7%. Nel complesso, nell’intero periodo 2019-2023, i servizi nel Mezzogiorno hanno visto un incremento di valore aggiunto inferiore alla media nazionale (+3,6 contro il +4%). La Puglia è la regione meridionale che ha registrato nel periodo la crescita più sostenuta del terziario (+5,4%).

Il calo del valore aggiunto industriale meridionale del 2023 (-0,5%), si somma alle dinamiche poco soddisfacenti del biennio 2021-22, determinando un dato cumulato del -2,4% nel periodo 2019-2023. I fattori climatici avversi che hanno caratterizzato gran parte dell’anno hanno penalizzato l’agricoltura. Il valore aggiunto del comparto è diminuito in tutte le macroaree del Paese nel 2023, con l’eccezione del Nord-Ovest (+6,4% dopo la forte flessione del 2022): -6,1% al Centro, -5,1% nel Nord-Est, -3,2% nel Mezzogiorno.

Nel 2023, i consumi delle famiglie, la componente quantitativamente più importante della domanda, sono aumentati del +1,1% nel Mezzogiorno, appena due decimi di punto percentuale in meno che nel resto del Paese (+1,3%). In generale, la spesa delle famiglie presenta un’elevata variabilità territoriale, al Sud in particolare, dove più elevata è la dipendenza della congiuntura dalla domanda interna. Specularmente, nelle regioni meridionali gli andamenti della domanda estera incidono meno sulla dinamica del Pil. In Calabria la spesa per consumi finali delle famiglie è +0,6%, gli investimenti fissi lordi sono stati +8,7% e, infine, positivo anche il dato delle esportazioni di merci al netto di prodotti energetici, che è +22,5% rispetto al 2022 e +102% rispetto al 2019.

Gli investimenti sono stati la componente più vivace della domanda interna nel 2023, crescendo del 5,5% nel Mezzogiorno e un punto percentuale in meno nel Centro-Nord. Ancora più favorevole al Mezzogiorno si è mostrata la dinamica degli investimenti nell’intero periodo 2019-2023: +29,6%, contro il +25,2% delle regioni centro-settentrionali. Soprattutto, è stata più sostenuta al Sud la crescita degli investimenti in costruzioni, una variabile rivelatasi cruciale nel determinare l’andamento favorevole della congiuntura post-Covid. Ciò soprattutto nel biennio 2021-22, per effetto del superbonus, che ha mostrato una notevole capacità di attivare produzione e valore aggiunto nel resto del sistema economico.

Nel 2023, gli investimenti in costruzioni complessivi, pubblici e privati, sono aumentati in termini reali del 4,0% nel Mezzogiorno e del 2,8% nel Centro-Nord. Guardando all’intero periodo 2019-2023, la crescita è stata del +40,7% nel Mezzogiorno, oltre 5 punti in più della media del Centro-Nord.

Ma come sta andando il 2024? Per la Svimez «l’economia italiana sta registrando andamenti che sono sostanzialmente in continuità con le tendenze dei trimestri precedenti, sia in termini di entità della crescita che dal punto di vista delle caratteristiche del ciclo, sia riguardo all’evoluzione delle componenti della domanda che alle performance dei settori produttivi. Nel primo trimestre, la crescita del Pil è stata dello 0,3% rispetto all’ultimo trimestre dello scorso anno; in termini tendenziali è stata invece pari allo 0,7%».

«Negli ultimi mesi – si legge – è proseguita la fase di ripresa del clima di fiducia dei consumatori. In particolare, risultano in ripresa le attese sulla situazione economica delle famiglie, in fase di stabilizzazione le aspettative sui prezzi e resta solida la percezione del mercato del lavoro, anche sulla base degli andamenti positivi dell’occupazione registrati nei primi mesi dell’anno», anche se «i dati sul clima di fiducia nel Mezzogiorno sono sembrati disallineati «negli ultimi trimestri da quelli delle altre macroaree: a fronte di una dinamica dell’occupazione che è rimasta vivace anche al Sud».

Segnali misti per l’inizio del 2024 provengono, invece, dalle indagini qualitative riguardanti il clima di fiducia delle imprese. Rispetto a quanto osservato nel corso del 2023, la f iducia delle imprese industriali risulta in leggero miglioramento, insieme alle attese sugli ordini e sulla produzione. Per il momento si tratta di miglioramenti modesti, che segnalano più che altro una fase di stabilizzazione della produzione. Anche i dati sulle esportazioni hanno evidenziato una relativa stabilità dei livelli recenti, con un andamento leggermente più positivo nelle regioni del Mezzogiorno. I dati di inizio anno confermano inoltre la crescita della domanda di lavoro, anche nei settori industriali, e parallelamente le inchieste congiunturali mostrano che le attese sull’occupazione non si sono deteriorate. La fase ciclica sfavorevole non sembra avere modificato i piani dell’industria italiana, i cui fabbisogni professionali sono anche legati all’esigenza di un rafforzamento del capitale umano che va al di là delle necessità di breve, legate alle oscillazioni dell’attività economica.

Per quanto riguarda il settore delle costruzioni, invece, «le indagini congiunturali presso le imprese mostrano una confidence in peggioramento nei primi mesi dell’anno. Tuttavia, i dati sull’occupazione sino al primo trimestre hanno confermato un andamento ancora crescente», mentre per i servizi è stato rilevato che la confidence «del comparto si mantiene a inizio anno ancora su livelli positivi».

La Svimez, poi, ha rilevato come nel 2023, si conferma l’andamento positivo dell’occupazione del biennio post-Covid su scala nazionale, con una crescita del +2,1% e di come «l’aumento dell’occupazione è risultato più accentuato, per il terzo anno consecutivo, nel Mezzogiorno (+3,1%), seguito da Nord-Est (+2,0%), Nord-Ovest (+1,6%) e Centro (+1,5%).

In Calabria, si registrano -15,5% di occupati in agricoltura, -2,0% per gli occupati nell’industria in senso stretto, -1,6% nelle costruzioni, mentre nei servizi il dato è positivo: +5,8%. Nel complesso, tuttavia, la percentuale di occupati per settore è +1,9%.

è risultato più accentuato, per il terzo anno consecutivo, nel Mezzogiorno (+3,1%), seguito da Nord-Est (+2,0%), Nord-Ovest (+1,6%) e Centro (+1,5%). ). L’aumento del tempo pieno è più marcato nel Mezzogiorno (+189mila), seguito da Nord-Ovest (+113mila), Centro (+83mila) e Nord-Est (+61mila). La crescita del part-time è interamente ascrivibile alla componente volontaria, per una migliore conciliazione dei tempi di vita e di lavoro: gli occupati con part-time involontario sono invece in calo in tutte le macroaree (-23mila nel Mezzogiorno).

In Calabria i dipendenti con tempo determinato sono -3,4%, mentre è positivo per quelli a tempo indeterminato: +3,8%. Di questi, +3,2% è a tempo pieno,  mentre scende il part-time: -4,1%. Importante flessione per il part-time involontario: è -4,5%. Facendo una suddivisione per genere, in Calabria è cresciuta solo l’occupazione maschile +2,0% gli uomini e solo +1,8% le donne.

Si può dire, dunque, che l’aumento dell’occupazione del 2023è stato omogeneo dei tempi di vita e di lavoro: gli occupati con part-time involontario sono invece in calo in tutte le macroaree (-23mila nel Mezzogiorno). A livello regionale, al Nord, la componente femminile prevale in Liguria, Lombardia, Trentino e Veneto, mentre nelle regioni del Centro, meno le Marche, prevale la crescita dell’occupazione maschile. Nel Mezzogiorno, solo in Campania e in Calabria cresce maggiormente l’occupazione maschile (+1,7% le donne, +3,1% gli uomini in Campania).

La scomposizione del recupero occupazione nel post-Covid per carattere dell’occupazione evidenzia lo sbilanciamento favorevole al tempo indeterminato. I dipendenti permanenti crescono decisamente rispetto ai livelli del 2019, con aumenti di 173mila unità nel Nord-Est (pari al +5,1%), 212mila nel Nord-Ovest (+4,5%), 140mila al Centro (+4,4%), 218mila nel Mezzogiorno (+6,1%). A livello territoriale, i dipendenti a termine si riducono in tutte le regioni del Nord, ad eccezione della Liguria (+7,9%), mentre crescono dovunque al Centro e nel Mezzogiorno, meno che in Calabria (-5,8%) e, soprattutto, Sardegna (-19,7%). Il tempo indeterminato cresce in tutte le regioni, ad eccezione del Molise (-1,4%), con particolare rilievo in Puglia (+9%), Umbria (+7,7%) e Liguria (+8,9%).

Il triennio post pandemia si è dunque caratterizzato per una significativa ripresa dell’occupazione, che si è accompagnata con la positiva evoluzione di alcuni aspetti qualitativi, quali gli incrementi che hanno interessato le fasce di lavoratori con contratto a tempo indeterminato e a tempo pieno. Il triennio post pandemia si è dunque caratterizzato per una significativa ripresa dell’occupazione, che si è accompagnata con la positiva evoluzione di alcuni aspetti qualitativi, quali gli incrementi che hanno interessato le fasce di lavoratori con contratto a tempo indeterminato e a tempo pieno. Tuttavia, accanto agli indicatori tradizionali, va segnalato quello di due misure “allargate” di mancata partecipazione al mercato del lavoro: il tasso di mancata partecipazione e lo slack Svimez, entrambi in calo soprattutto nel Mezzogiorno, dove d’altra parte partivano, e restano, su valori strutturalmente più elevati rispetto al resto del Paese e della media europea.

Il tasso di mancata partecipazione è una misura di sottoutilizzo del lavoro che prende in considerazione, oltre ai disoccupati, anche gli “scoraggiati” (persone disposte a lavorare che non svolgono attività di ricerca attiva) e i “sottoccupati” (gli occupati che sarebbero risposti a lavorare più ore). Tra il 2019 e il 2023, il tasso di mancata partecipazione si è ridotto dal 34,1 al 28% nel Mezzogiorno. Così la distanza dall’analogo indicatore nazionale si è ridotta da 16 a 14 punti percentuali. Il labour slack della SVIMEZ è calcolato, per dar conto delle peculiarità del mercato del lavoro italiano, aggiungendo agli “scoraggiati” e ai “sottoccupati”, il 50% dei lavoratori in part-time involontario. Questo indice, che può essere definito un tasso del “non lavoro”, tra il 2019 e il 2023 è calato nel Mezzogiorno dal 39,3 al 33%. Al di là di questa favorevole tendenza, però, il “non lavoro” nel Mezzogiorno resta su valori più che doppi che nel resto del Paese: nel 2023 lo slack è pari al 12% nella media del Centro-Nord. Le tre regioni meridionali con i tassi di “non lavoro” più elevati sono Sicilia (38%), Campania e Calabria (entrambe 36,8%). (rrm)

IL SUD NON È UN’AREA DA ABBANDONARE
MA OPPORTUNITÀ DI CRESCITA E SVILUPPO

di VINCENZO CASTELLANOHo avuto modo di apprezzare il recente rapporto Svimez 2023 che mette in luce un quadro interessante e promettente per il nostro Sud, indicando che quest’area non solo può crescere, ma in alcuni casi può farlo a ritmi superiori rispetto al Centro-Nord. Tra il 2019 e il 2023, la Puglia, pensate, si è affermata come la regione più dinamica del Paese, dimostrando che il Sud ha le potenzialità per attrarre investimenti e trattenere i giovani sul territorio.

Questo sviluppo rappresenta un segnale chiaro: il Sud non è una regione da abbandonare, ma un’opportunità di crescita e sviluppo.

Le politiche nazionali devono cogliere questo segnale e agire di conseguenza. Il governo deve promuovere il Sud come un’area di opportunità, incentivando gli investimenti e migliorando le infrastrutture. In questo contesto, il Pnrr gioca un ruolo cruciale. Tali risorse se utilizzate correttamente, possono evitare la recessione e stimolare la crescita economica del Mezzogiorno, portando benefici tangibili a lungo termine.

Tuttavia, la politica nazionale da sola non basta. Lo ripeto sempre, è indispensabile il coinvolgimento attivo delle comunità locali. Le amministrazioni locali devono collaborare strettamente con il mondo della ricerca, le università e il settore privato per creare un ecosistema favorevole all’innovazione e allo sviluppo. Questo implica non solo la valorizzazione dei talenti locali, ma anche la promozione dell’imprenditoria giovanile. Ritorno al caso della Puglia che ci dimostra come investimenti mirati possano portare a risultati significativi, un modello che altre regioni del Sud potrebbero seguire per migliorare le proprie condizioni socio-economiche.

L’industria meridionale, in particolare, deve essere al centro di questa strategia. Le transizioni digitali ed ecologiche rappresentano opportunità uniche per rilanciare il settore industriale del Sud. Le imprese devono essere supportate nell’adozione di tecnologie avanzate e pratiche sostenibili, attraverso incentivi e facilitazioni mirate. La cooperazione tra pubblico e privato è essenziale per creare un ambiente favorevole all’innovazione, che possa attrarre investimenti e creare posti di lavoro di qualità.

Nonostante questi segnali positivi, il rapporto Svimez evidenzia anche sfide significative, come il calo demografico e l’emigrazione giovanile. Tra il 2002 e il 2021, badate bene, oltre 2,5 milioni di persone hanno lasciato il Mezzogiorno, aggravando il problema della depopolazione. Per affrontare queste sfide, sono necessarie politiche mirate a migliorare la qualità della vita, aumentando i salari e riducendo la precarietà lavorativa.

Particolare attenzione deve essere posta sull’occupazione femminile, che rappresenta un elemento chiave per contrastare il declino demografico e stimolare la crescita economica. Investire nei servizi per l’infanzia e favorire un miglior equilibrio tra vita lavorativa e familiare può incentivare la partecipazione delle donne al mercato del lavoro.

Dunque, per trasformare il Sud in un motore di sviluppo, è necessario un approccio integrato che coinvolga tutti gli attori della società. La politica nazionale deve fornire le risorse e le condizioni necessarie, mentre le comunità locali devono attivarsi per valorizzare le proprie potenzialità. Solo attraverso una collaborazione stretta e continua tra pubblico e privato, istituzioni e cittadini, si potrà costruire un futuro prospero per il Mezzogiorno, rendendolo un’area di opportunità e crescita sostenibile. Il Sud ha dimostrato di poter essere dinamico e innovativo; ora spetta a tutti noi supportarlo nel suo percorso di sviluppo, trasformandolo in un modello di successo per l’intera nazione. (vc)

[Vincenzo Castellano è dottore commercialista]

Trame 13, Francesca Nava: In Calabria non si ricorre più alla sanità pubblica

Concorsi deserti, emigrazione sanitaria, privatizzazione: è questo il quadro sconcertante sulla sanità pubblica sempre più simile a una società per azioni anche in Calabria, che è stato portato sul palco di Trame 13, attraverso un dibattito a più voci per fare il punto sul sistema sanitario calabrese.

«La Calabria è commissariata da quattordici anni, il debito è inquantificabile, non è più un territorio attrattivo. I medici non vogliono più lavorare in Calabria. I cittadini sono rassegnati, non ricorrono più alla sanità pubblica. Non c’è più consapevolezza dei propri diritti». È quanto ha detto la giornalista Francesca Nava sul palco di Trame 13, facendo il punto sulla sanità in Calabria.

Nava, assieme ad Antonella BottiniMarianna De Marzi, a marzo hanno curato l’inchiesta andata in onda a marzo su Rai 3 nel programma Presadiretta, dal titolo Sanità spa. E, di questa inchiesta, fa parte la storia di Salvatore Naccari, a cui era stata diagnosticata una sinusite cronica in una struttura sanitaria di Vibo, senza alcun controllo approfondito, anche per una mancanza di macchinari, rivelatasi, poi, un carcinoma nasofaringeo mai notato precedentemente dopo una visita a Legnano.

«Dal 2010 c’è stato un progressivo disinvestimento sulla sanità pubblica, che ha fatto crescere l’investimento sulla sanità privata dal 12 al 25%.  La Calabria non ha diritto ai diritti essenziali. Rimborsa le regioni del nord con ulteriori risorse per chi va via», ha denunciato Luca Bianchi, direttore della Svimez.

«L’emigrazione sanitaria toglie ai territori – ha ribadito –. Se perdiamo il faro della sanità, rinunciamo alla Costituzione. L’autonomia differenziata rinuncia al sogno di erogare a tutti i cittadini. L’autonomia differenziata. Non è previsto finanziamento per i livelli essenziali di assistenza. Stiamo discutendo. L’autonomia è una tassa per tutti, una tassa doppia per i cittadini del Sud».

Come si deduce dal report promosso da Svimez,  “Un Paese, due cure. I divari Nord-Sud nel diritto alla salute” nel 2022, dei 629 mila migranti sanitari (volume di ricoveri), il 44% era residente in una regione del Mezzogiorno. E secondo le valutazioni dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS), nel biennio 2021-2022, in Italia circa il 70% delle donne di 50-69 anni si è sottoposta ai controlli: circa due su tre lo ha fatto aderendo ai programmi di screening gratuiti. La copertura complessiva è dell’80% al Nord, del 76% al Centro, ma scende ad appena il 58% nel Mezzogiorno.

Al dibattito, moderato dalla giornalista di LA7 Patty Torchia, ha partecipato anche la vicepresidente della commissione sanità Amalia Cecilia Bruni che sulla “fuga” dal Sud per ricevere assistenza in strutture sanitarie del Nord, soprattutto per le patologie più gravi, ha detto: «il Gemelli è fatto per 1/3 di personale calabrese. Va fuori però chi può, tutti gli altri rinunciano alle cure». Bruni si è scagliata duramente contro l’autonomia differenziata definendola “un’insulsaggine inaccettabile di questo Governo». (rcz)

NEL 2023 CRESCE IL PIL DELLA CALABRIA:
È +1,2% GRAZIE ANCHE ALLE COSTRUZIONI

di ANTONOIETTA MARIA STRATI – Il Pil della Calabria è cresciuto dello 1,2% nel 2023. È quanto ha rilevato la Svimez nel suo Rapporto Comunica, evidenziando come nella nostra regione «l’incremento di valore aggiunto delle costruzioni (+7,4%) ha sostenuto la crescita regionale insieme al terziario (+1,7%), nonostante il calo del settore industriale (-4,8%)».

Un’ottima notizia, in linea con il recente rapporto di Bankitalia sull’economia della Calabria, che aveva già rilevato una crescita della Calabria, anche se non in linea col resto del Paese. Ma in questo caso, il dato più sorprendente è che il Pil del Mezzogiorno è cresciuto oltre la media nazionale, registrando un +1,3% contro +1% del Nord-Ovest, +0.9% del Nord-Est e +0,4% del Centro. Il Sud non cresceva più del resto del Paese dal 2015 (+1,4% contro il +0,6% del Centro-Nord).

Altrettanto favorevole al Sud si è mostrata la dinamica occupazionale. Gli occupati nel Mezzogiorno sono aumentati del +2,6% su base annua, più che nelle altre macro-aree e a fronte di una media nazionale del +1,8%.

La crescita più accentuata del Pil meridionale è stata sostenuta soprattutto dalle costruzioni (+4,5%, quasi un punto percentuale in più della media del Centro-Nord), a fronte di una più contenuta contrazione del comparto industriale (-0,5%) e di una crescita dei servizi dell’1,8%.

La dinamica del PIL è stata debole nelle regioni del Centro (+0,4%), meno della metà della media nazionale. A determinare questo risultato hanno contribuito un calo del valore aggiunto industriale più che doppio rispetto alla media nazionale (-2,6%; -1,1% il dato Italia) e una crescita dei servizi che si è fermata al +1,1% (+1,6% la media nazionale), che hanno sterilizzato la buona dinamica delle costruzioni (+6,2%).

Nel Nord-Ovest la crescita del Pil, pari all’1%, è stata condizionata dal calo del valore aggiunto industriale (-1,4%) e dalla crescita molto più contenuta della media nazionale delle costruzioni (+2,5%). Nel Nord-Est, è stata soprattutto la dinamica piatta del valore aggiunto industriale a contenere la crescita del Pil al +0,9%.

I fattori climatici avversi che hanno caratterizzato gran parte dell’anno hanno penalizzato l’agricoltura. Il valore aggiunto del comparto è diminuito in tutte le ripartizioni del Paese, con l’eccezione del Nord-Ovest (+6,4% dopo la forte flessione del 2022): -6,1% nel Centro, -5,1% nel Nord-Est, -3,2% nel Mezzogiorno.

Il risultato delle due macroaree è anche dovuto al diverso contributo della domanda estera. Al Centro-Nord, lo stallo dell’export (-0,1% sul 2022) ha privato le economie locali di un tradizionale traino nelle fasi di ripesa ciclica. Al Sud, viceversa, l’incremento delle esportazioni di merci, al netto della componente energetica, si è portato al +14,2% (+16,7% i beni strumentali; +26,1% i beni non durevoli).

La congiuntura del 2023 si colloca nella fase di ripresa post-Covid iniziata nel 2021 che ha visto il Mezzogiorno partecipare attivamente alla crescita nazionale, collocandosi stabilmente al di sopra della crescita media dell’Ue (+0,4 nel 2023). Il dato di crescita cumulata del PIL 2019-2023 del +3,7% nel Mezzogiorno ha superato l’analogo dato del Nord-Ovest (+3,4%) e, soprattutto, quello delle regioni centrali (+1,7%). Ha contributo a scongiurare l’apertura del divario di crescita Nord-Sud osservato in precedenti fasi di ripresa ciclica l’inedita intonazione di segno marcatamente espansivo della politica di bilancio.

Sulla crescita del Pil del Mezzogiorno ha inciso in maniera rilevante l’avanzamento degli investimenti pubblici cresciuti, nel 2023, del 16,8% al Sud, contro il +7,2% del Centro-Nord. Nel complesso delle regioni meridionali gli investimenti in opere pubbliche sono cresciuti da 8,7 a 13 miliardi tra il 2022 e il 2023 (+50,1% contro il +37,6% nel Centro-Nord). Una dinamica sulla quale dovrebbe aver inciso significativamente il progressivo avanzamento degli investimenti del Pnrr e l’accelerazione della spesa dei fondi europei della coesione in fase di chiusura del ciclo di programmazione 2014-2020.

Intervenendo in un contesto nel quale le costruzioni contribuiscono in maniera significativamente più rilevante alla formazione del valore aggiunto, gli investimenti in opere pubbliche hanno generato effetti espansivi più intensi al Sud. La Svimez ha stimato, in particolare, un contributo della maggiore spesa in investimenti pubbliche (Pnrr e altri investimenti) alla crescita del Pil del Mezzogiorno del 2023 pari a circa mezzo punto percentuale (il 40% circa della crescita complessiva).
Viceversa, la spesa pubblica per incentivi alle imprese è cresciuta del 16% al Sud, dieci punti percentuali in meno rispetto al Centro-Nord (+26,4%).

Un differenziale che riflette la minore capacità del tessuto produttivo meridionale, caratterizzato da minore presenza di imprese di maggiore dimensione, di assorbire le misure “a domanda” di incentivo di ammodernamento tecnologico e digitale finanziate dal Pnrr.

Anche il terziario ha contribuito in maniera significativa alla crescita del Pil meridionale: +1,8% di incremento del valore aggiunto. Sul dato del Sud hanno inciso due fattori. In primo luogo, la crescita relativamente più sostenuta di alcune attività strettamente connesse all’espansione del ciclo economico quali trasporto e comunicazioni. Inoltre, nel 2023 la crescita delle presenze turistiche è risultata di circa un punto percentuale più accentuata nell’area centro-settentrionale (+8,5% nel Sud, + 9,7% nel Centro-Nord), ma nel Mezzogiorno si è mostrata più accentuata la crescita degli arrivi dell’estero, ai quali sono associati livelli di spesa turistica significativamente più elevati.

I dati delle regioni

Nelle regioni del Centro-Nord, si segnala la crescita diPiemonte (+1,2%) e Veneto (+1,6%). In Piemonte la crescita è stata trainata dall’andamento relativamente favorevole dell’industria in senso stretto (+1,7%) e dei servizi (+1,3%); buona in Veneto la crescita delle costruzioni (+4,7%) e dei servizi (+2,3%), trainati dal buon andamento del turismo (la regione ospita quasi il 16% delle presente turistiche nazionali).

Il dato della Lombardia (+0,9%) è stato influenzato dal calo registrato nel comparto industriale (-2,5%), uno dei più forti tra le regioni centro-settentrionali, sul quale ha inciso il dato deludente dell’export (+1,2%), una componente della domanda che in altre fasi di ripresa aveva sostenuto l’economia regionale. Anche un’altra “export-economy” del Paese, l’Emilia-Romagna, ha subìto la frenata del commercio estero e più in generale il rallentamento dell’economia tedesca, in stagnazione nel 2023; il Pil della regione è cresciuto nel 2023 del +0,6% per effetto della dinamica piatta dell’industria che ha scontato in negativo la forte integrazione con la manifattura tedesca. Da segnalare anche, in Emilia-Romagna, il  calo di oltre il 10% del valore aggiunto agricolo.

Tre regioni italiane registrano nel 2023 un dato negativo di andamento del Pil: Toscana (-0,4%), Marche e Friuli-Venezia Giulia (-0,2%). In Toscana è stato forte il calo dell’industria (-3,2%) e stagnante la dinamica delle costruzioni, in controtendenza rispetto al resto del Paese; nelle altre due regioni va segnalato l’andamento negativo dell’attività industriale (-1,5% nelle Marche e -1,9% in Friuli) non compensato dalla crescita del terziario. Da segnalare anche il calo a doppia cifra dell’export nelle Marche (-12,3%) e in Friuli-Venezia Giulia (-13,6%).

Positiva la dinamica del Pil in tutte le regioni meridionali, anche se in presenza di marcati differenziali di crescita. Emerge in particolare la variazione positiva del Pil siciliano (+2,2%). Hanno influito dinamiche ancor più favorevoli che nel resto del Mezzogiorno delle opere pubbliche (+60,4%) e più in generale degli investimenti pubblici (+26%); anche l’industria è cresciuta significativamente (+3,4%), arrestando una tendenza di medio periodo alla deindustrializzazione.

Piuttosto omogenea e sostenuta è stata la crescita del Pil in Abruzzo, Molise (+1,4%), Campania (1,3%) e Calabria (1,2%), con alcune differenze di carattere settoriale. In Abruzzo la crescita ha riguardato anche il settore industriale (+2%) che invece ha registrato una riduzione in Campania (-0,7%). Va segnalato, però, che la Campania risulta la regione italiana con la maggiore crescita delle esportazioni nel 2023 (+29%). In Calabria l’incremento di valore aggiunto delle costruzioni (+7,4%) ha sostenuto la crescita regionale insieme al terziario (+1,7%), nonostante il calo del settore industriale (-4,8%).

Più bassa la crescita in Basilicata (+0,9%) e Puglia (+0,7%). La Basilicata ha risentito di un calo dell’industria (-2,7%) più intenso di quello osservato per la media delle regioni del Mezzogiorno, compensato dalla buona performance del settore delle costruzioni (+8,4%, la crescita più intensa tra le regioni meridionali). La congiuntura dell’economia pugliese è stata segnata dalla forte caduta del valore aggiunto agricolo (-8,7%), che ha sottratto oltre tre decimi di punto percentuale alla crescita del Pil nel 2023, e dalla flessione del valore aggiunto industriale (-1,2%). Va tuttavia segnalato che la regione Puglia nel complesso del periodo 2019-2023 con una crescita del 6,1% è risultata la regione italiana più dinamica.

La crescita della Sardegna (+1,0%), infine, è stata stimolata dal settore delle costruzioni e soprattutto, data la sua diffusione e il maggior contenuto di valore aggiunto rispetto ad altre realtà meridionali, dai servizi (+1,9%). Molto negativo è risultato il dato dell’industria: -6,2% nel 2023. (ams)

DECRETO COESIONE, LA SVIMEZ PERPLESSA
SUI LIVELLI DI PREVISIONE DELLA SPESA

di ANTONIETTA MARIA STRATI – Ci sono forti criticità, secondo la Svimez, nel decreto Coesione. Il presidente Adriano Giannola e il direttore Luca Bianchi, nel corso dell’audizione in Commissione Bilancio al Senato sul decreto, hanno sottolineato diverse incongruenze che andrebbero sanate: se da una parte con la nuova governance il decreto riesce a rendere effettivi gli obiettivi legati alla politica di coesione, dall’altra non soddisfa a livelli di previsione di spesa.

Nello specifico, per l’Associazione «livelli inadeguati di spesa ordinaria in conto capitale nel Mezzogiorno hanno reso sostitutiva (e solo parzialmente) la spesa della politica di coesione europea e nazionale, indebolendone le finalità di riequilibrio territoriale», in quanto «fissa al 40% la quota delle risorse ordinarie in conto capitale che le Amministrazioni centrali dello Stato sono tenute a destinare agli interventi da realizzare nelle regioni del Mezzogiorno. Si tratta di una maggiorazione rispetto a quanto introdotto dal decreto-legge n. 243 del 2016, convertito nella legge n. 18/2017, che prevedeva la cosiddetta «clausola del 34%».

Il Dl, infatti, contiene disposizioni dirette a dare attuazione alla riforma 1.9.1 del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (Pnrr) – come modificato con decisione del Consiglio dell’Ue dell’8 dicembre 2023 – che mira all’accelerazione e al recupero di efficienza della politica di coesione.

Con tali finalità, nel quadro dell’Accordo di partenariato e per tutti i programmi europei in corso, si prevede di rafforzare il coordinamento tra Amministrazioni e di promuovere la complementarietà e le sinergie dei progetti attuati con i fondi europei per la coesione con gli investimenti finanziati dal Pnrr e dalla coesione nazionale (Accordi per la coesione), tenendo anche conto del Piano strategico della Zes Unica per il Mezzogiorno, quest’ultimo da adottare entro il prossimo 31 luglio.

Tuttavia, per la Svimez, «l’effettiva attuazione della riforma dipenderà inoltre dall’incisività delle misure di rafforzamento della capacità amministrativa degli enti decentrali previste dello stesso “Decreto Coesione”. Le accresciute responsabilità dei presidi tecnici centrali, inoltre, dovranno accompagnarsi a una nuova e maggiore capacità di verifica e controllo da parte delle strutture di recente interessate da un processo di profonda riorganizzazione ancora in fase di completamento».

E, attualmente, il Decreto che «fa riferimento esplicito alle «amministrazioni centrali dello Stato», restringendo l’ambito di applicazione della clausola rispetto alla Legge di Bilancio per il 2019, che lo aveva esteso anche ai contratti di programma tra il Ministero delle Infrastrutture e dei trasporti e Anas SpA e a quelli tra il Ministero delle Infrastrutture e dei trasporti e Rete Ferroviaria Italiana SpA. Ciò rappresenta una rilevante criticità, dal momento che la quota del 40% si applica a un ammontare di risorse inferiore».

In questo modo per l’Associazione, «si smarrirebbe l’impostazione opportunamente accolta nella norma della Legge di bilancio per il 2019: è l’intensità dell’azione dell’operatore pubblico nella sua interezza e nella complessità dei suoi soggetti e delle sue funzioni che determina effetti sul territorio, sia in termini di erogazione di spesa pubblica che di dotazione di servizi per il cittadino. Sarebbe, perciò, opportuno integrare il dispositivo per estendere l’ambito di applicazione alle imprese a controllo pubblico e introdurre adeguati strumenti di monitoraggio».

Nella nuova governance, infatti, per rendere effettivi tali ambiziosi obiettivi, viene rafforzato il ruolo dell’Autorità politica per la coesione. Quest’ultima – attualmente, il Ministro per gli Affari europei, il Sud, le politiche di coesione e per il Pnrr – presiede la Cabina di Regia con funzioni di: coordinamento tra programmi nazionali e regionali della coesione europea; promozione della complementarietà tra interventi del Pnrr e della coesione europea e nazionale; verifica delle attività di monitoraggio sull’implementazione dei programmi, delle quali è responsabile il Dipartimento per le politiche di coesione.

L’ambito di applicazione delle nuove disposizioni del “Decreto Coesione” – ha rilebvato la Svimez – riguarda le azioni dei programmi nazionali e regionali attuativi del ciclo di programmazione 2021-2027 ricadenti nei seguenti settori strategici: risorse idriche; infrastrutture per il rischio idrogeologico e la protezione dell’ambiente; rifiuti; trasporti e mobilità sostenibile; energia; sostegno allo sviluppo e all’attrattività delle imprese, anche per le transizioni digitale e verde.

L’Autorità politica viene investita di rafforzati poteri di indirizzo e controllo, presidiando al coordinamento con le Amministrazioni (Ministeri, le regioni e le province autonome) responsabili dei programmi, che è previsto si realizzi attraverso la condivisione di un elenco di interventi prioritari per ciascuno dei suddetti settori strategici, da selezionare in base a stringenti criteri, anche tenendo conto delle previsioni del Piano strategico della Zes Unica.

In coerenza con la dichiarazione di principio di adottare un «approccio orientato al risultato», per tutti gli interventi prioritari concordati, le Amministrazioni sono tenute a seguire cronoprogrammi procedurali e finanziari modificabili solo nel caso di impossibilità di rispettarne le tempistiche a causa di circostanze oggettive.

«I cronoprogrammi – ha ricordato l’Associazione – devono prevedere il conseguimento di obiettivi iniziali, intermedi e finali, individuati in relazione alle principali fasi di realizzazione degli investimenti: completamento delle procedure di selezione delle operazioni e di individuazione dei beneficiari;  assunzione di obbligazioni giuridicamente vincolanti; completamento dell’intervento. La verifica del rispetto dei tempi previsti per l’attuazione degli interventi e del conseguimento dei relativi risultati, viene svolta dal Dipartimento per le politiche di coesione e per il Sud, al quale le Amministrazioni trasmettono relazioni semestrali sulla realizzazione degli interventi prioritari».

La riforma introduce poi un meccanismo di premialità per le Amministrazioni regionali adempienti rispetto a tempistiche e conseguimento degli obiettivi. La premialità, in particolare, consiste nell’utilizzo delle (eventuali) economie delle risorse del Fondo Sviluppo e Coesione (Fsc) – maturate in relazione agli interventi conclusi nell’ambito degli Accordi per la coesione – per coprire integralmente la parte di cofinanziamento regionale dei programmi europei Fesr e Fse Plus. Ciò si traduce nella possibilità di coprire con risorse FSC l’intera quota del cofinanziamento nazionale posto a carico delle regioni (30% del totale), in misura doppia rispetto all’attuale valore massimo di 15 punti percentuali.

Il «Decreto Coesione» richiama, inoltre, la possibilità del ricorso ai poteri sostitutivi nei casi di inerzia, inadempimento o mancato rispetto delle scadenze dei cronoprogrammi da parte delle Amministrazioni responsabili, per scongiurare rischi di disimpegno automatico dei fondi erogati dall’Unione Europea.

Infine, vengono introdotte nuove disposizioni in materia di utilizzazione delle risorse 2021-2027 del Fsc. Si prevede, in particolare, la possibilità di assegnare con delibera del Cipess le risorse del Fondo, quale anticipazione, anche alle Regioni con le quali non sia stato ancora sottoscritto l’Accordo per la coesione (Campania, Sicilia, Sardegna e Puglia).

Nello stesso Decreto si dà corso a tale possibilità nella previsione contenuta all’art. 14, dove si prevede che a copertura degli interventi previsti per il Risanamento del sito industriale di Bagnoli-Coroglio, concorrano le risorse finanziarie indicate in via programmatica per la Regione Campania dalla delibera del Cipess n. 25 del 2023 (1,2 miliardi di euro per il periodo 2024-2029).

Per la Svimez, dunque, «nel complesso l’azione governativa risponde alle esigenze di coordinamento maturate successivamente all’avvio del Pnrr, rese ancor più cogenti alla luce delle criticità attuative e delle successive revisioni del Piano. Trasversalmente alle innovazioni di governance, emerge il disegno di rafforzamento dell’Autorità politica della coesione, nei ruoli di indirizzo della programmazione, selezione degli interventi prioritari e monitoraggio dell’attuazione dei programmi nazionali e regionali».

«La scelta di accrescere i poteri centrali – viene evidenziato ancora – è coerente con l’obiettivo dichiarato di rafforzare il livello di efficacia e di impatto degli interventi della coesione europea in raccordo con le altre programmazioni con finalità di riequilibrio territoriale. Questa impostazione risponde alle intenzioni della riforma di adottare un approccio orientato al risultato. In tal modo, il governo pare voler recepire già nella programmazione in corso a livello nazionale, le indicazioni emerse nel dibattito sul futuro della coesione nel post-2027: uniformare la coesione europea «tradizionale» al modello performance based del Pnrr».

«La riformata governance multi-livello nazionale che ne deriva segna un positivo ritorno di assunzione di responsabilità del governo nazionale sugli interventi orientati alla coesione territoriale», scrivono nella loro relazione Giannola e Bianchi, sottolineando come «le Amministrazioni responsabili, nel momento in cui presentano l’elenco degli interventi prioritari, vengono poste di fronte a una duplice e impegnativa sfida attuativa: rispettare le tempistiche europee di certificazione della spesa e quelle nazionali di raggiungimento dei risultati fissati dai cronoprogrammi».

Nonostante questo, «va rimarcato – si legge nel testo – che il verificarsi delle condizioni necessarie per dar corso all’attivazione dei meccanismi premiali non è privo di incertezze. L’accesso alla premialità, infatti, richiede alle Amministrazioni di essere adempienti sia sui cronoprogrammi degli interventi finanziati dalle europee, sia su quelli inclusi negli Accordi per la Coesione. L’applicazione di tale previsione richiederà dunque una tempestiva verifica degli stati di avanzamento e completamento degli interventi FSC, storicamente caratterizzati da procedure complesse e tardive. A ciò si aggiunge l’ulteriore di criticità dei ritardi già maturati dalle quattro Regioni del Mezzogiorno con le quali non è stato ancora sottoscritto l’Accordo per la Coesione».

«Si è detto, poi – continua la nota della Svimez – che la premialità introdotta dalla riforma si basa sulla possibilità per le Amministrazioni regionali di avvalersi delle risorse FSsc  a copertura del cofinanziamento regionale di spese di investimento dei programmi regionali cofinanziati dai fondi europei Fesr e Fse Plus, liberando le relative risorse nei bilanci locali. Andrà però verificato se le Amministrazioni valuteranno l’incentivo finanziario commisurato allo sforzo amministrativo aggiuntivo richiesto per accedervi».

«Un’ultima considerazione – si legge – merita un aspetto che interessa tutte le programmazioni degli investimenti con finalità, diretta o indiretta, di riequilibrio territoriale nella dotazione di infrastrutture e nei livelli dei servizi offerti a cittadini e imprese. La nuova governance ha restituito al presidio politico centrale una maggiore responsabilità di indirizzo e monitoraggio dei programmi nazionali e regionali. Per rendere monitorabile l’efficacia del nuovo modello e valutabile l’avanzamento finanziario del complesso delle programmazioni, andrebbero fissati obiettivi di spesa di breve e medio termine. Nel caso dei fondi europei, ad esempio, per valutare in itinere quanto il nuovo modello sia in grado di conseguire l’obiettivo dell’accelerazione, gli obiettivi andrebbero fissati rispetto ai dati di attuazione del ciclo di programmazione 2014-2020. Analogamente, si potrebbe procedere nel caso dell’Fsc».

Il Decreto, inoltre, interviene anche sulla materia di perequazione infrastrutturale, sia per gli interventi finanziati con le risorse aggiuntive destinate a colmare il gap infrastrutturale delle regioni in ritardo di sviluppo, sia per quelli coperti da risorse ordinarie senza vincoli ex ante di destinazione territoriale.

il Decreto rinomina in «Fondo perequativo infrastrutturale per il Mezzogiorno» il «Fondo perequativo infrastrutturale» istituito dall’art. 22 della legge delega n. 42 del 2009. Le regioni del Mezzogiorno saranno dunque esclusive beneficiarie degli interventi che si prevede di finanziare nei seguenti ambiti: infrastrutture stradali, autostradali, ferroviarie, portuali, aeroportuali, idriche, nonché a strutture sanitarie, assistenziali e scolastiche, coerenti con le priorità indicate nel Piano strategico della Zes unica. Per la Svimez «si tratta, però, di una ridenominazione di un Fondo esistente interessato di recente da un rilevante definanziamento».

Per dirla in parole povere, «il Decreto introduce una riforma del Fondo che, da un lato introduce una destinazione esclusiva per le regioni del Mezzogiorno, dall’altra però non interviene sull’esiguità delle risorse disponibili».

Per la Svimez, infine, un «tema ancora più decisivo» rimane, infatti, quello dell’effettiva capacità di monitoraggio ex ante, di verifica ex post e, infine, delle sanzioni per le Amministrazioni che non raggiungono la quota. In questi anni, in assenza di criteri di cogenza, la clausola non ha mai trovato concreta attuazione da parte delle Amministrazioni e, nel tempo, si è anche ridotta la disponibilità di basi informative in grado di offrire tempestivamente un quadro sull’allocazione territoriale della spesa ordinaria in conto capitale. A tal proposito, il «Decreto Coesione» non introduce meccanismi di monitoraggio degli stanziamenti e delle risorse per investimenti effettivamente spese nei territori dalle Amministrazioni, né meccanismi di compensazione degli scostamenti dalla quota fissata.

A tal proposito, è utile il riferimento a quanto a suo tempo previsto per il finanziamento aggiuntivo dei cosiddetti «progetti speciali» della Cassa per il Mezzogiorno. (ams)

 

ISTRUZIONE, QUEL SETTORE CHE RISOLLEVA
IL SUD E RIDUCE I DIVARI TERRITORIALI

di ANTONIETTA MARIA STRATI – La riduzione dei divari territoriali e lo sviluppo socio economico del Mezzogiorno passa attraverso l’investimento nell’istruzione. È quanto ha ribadito la Svimez, attraverso l’ultimo numero di Informazioni Asili nido e infrastrutture scolastiche: il Pnrr non colmerà i divari territoriali,  dedicato al tema dei servizi per la prima infanzia e dell’istruzione.

Si tratta, infatti, settori interessati da profondi divari territoriali nella dotazione di infrastrutture adeguate, nella quantità e qualità dei servizi offerti a bambini e alunni, negli esiti dei processi di apprendimento e formazione. Per l’Associazione, infatti, la qualità e l’adeguata dotazione di infrastrutture scolastiche e per la prima infanzia sono elementi centrali per la crescita del Sud, in particolare per la partecipazione femminile al mercato del lavoro e all’accumulazione di capitale umano.

«Al Nord, il tasso di occupazione femminile tra i 25 e i 49 anni scende dall’85% per le donne senza figli al 66 per le madri con figli di età inferiore ai 6 anni (-22%). Nel Sud cala in maniera ancora più accentuata: dal 58% ad appena il 38 per le donne con figli in età prescolare», si legge nel documento, in cui viene evidenziato come «anche per la carenza di servizi per l’infanzia, nelle regioni meridionali la maternità riduce il tasso di occupazione delle giovani donne di oltre un terzo. La disponibilità di asili nido e del tempo pieno scolastico incide positivamente sulla partecipazione femminile al mercato del lavoro».

«Stime recenti della Banca d’Italia – si legge – confermano che nelle province italiane il tasso di attività delle madri di bambini con meno di tre anni tende a crescere con la disponibilità di servizi di assistenza alla prima infanzia a parità di caratteristiche individuali delle madri (età, titolo di studio, nazionalità). La qualità delle infrastrutture scolastiche favorisce l’accumulazione di capitale umano determinando il successo dei processi di apprendimento sin dalle prime fasi dei percorsi di studio. A tale riguardo, numerosi studi evidenziano come la frequenza dell’asilo nido promuova lo sviluppo delle abilità cognitive e non cognitive dei bambini, soprattutto nei contesti di fragilità familiare».

«A parità di condizioni di contesto, punteggi medi più deludenti nei test Invalsi – viene rilevato – sono tipicamente associati a maggiori carenze infrastrutturali delle scuole, in particolare a causa della mancanza di impianti sportivi e della vetustà degli edifici. Le differenze nella dotazione e qualità delle infrastrutture scolastiche contribuiscono a spiegare parte del divario di competenze degli studenti tra Mezzogiorno e Centro-Nord. Ad esempio, l’offerta del tempo pieno, che ha effetti positivi sull’acquisizione di nuove conoscenze, può essere attivata prevalentemente in scuole con spazi per il servizio mensa. La disponibilità del tempo pieno e la presenza di scuole dotate di mensa sono legate da una correlazione positiva e statisticamente significativa».

Inoltre, viene evidenziato come la disponibilità «sin dalla prima infanzia, di infrastrutture scolastiche adeguate favorisce i processi di integrazione sociale e accumulazione delle conoscenze degli studenti, contribuendo alla prevenzione e al contenimento delle situazioni di marginalizzazione e disagio che inducono all’abbandono prematuro del percorso scolastico. Nelle regioni italiane, la minore diffusione del tempo pieno tende ad essere associata a tassi più elevati di dispersione scolastica».

Il Mezzogiorno, infatti, soffre «di un grave ritardo nell’offerta di servizi per la prima infanzia». Basti vedere come in Calabria ci sono 9 posti nido autorizzati (tra pubblici e privati) per 100 bambini tra gli 0-2 anni nel 2020. Situazione ancora più drammatica in Campania, dove ce ne sono solo 6,5, in Sicilia 8,2 e in Molise 9,3, inserendole tra le regioni meridionali più distanti dall’obiettivo dei Lep per i posti autorizzati da raggiungere entro il 2027, che3 sono il 33% della popolazione di età compresa tra i 3 e i 36 mesi.

I divari regionali più marcati si osservano per la disponibilità di mense scolastiche, la cui assenza limita la possibilità di offrire il tempo pieno. Meno del 25% degli alunni meridionali della scuola primaria frequenta scuole dotate di mensa (contro circa il 60% nel Centro-Nord); meno del 32% dei bambini nel caso delle scuole dell’infanzia (contro circa il 59% nel Centro-Nord). Le situazioni più deficitarie interessano Sicilia e Campania, con percentuali inferiori al 15%. In Calabria, nella scuola dell’infanzia solo il 28% frequenta una scuola dotata di mensa, il 23,7% nella Scuola Primaria, il 19,4% nella Scuola Secondaria di I grado, e il 3,1% nella Scuola Secondaria di II grado. Per quanto riguarda istituti dotati di palestre, il dato più basso si registra nella scuola dell’infanzia, con l’8,1%.

Per quanto riguarda la sicurezza, la percentuale di alunni che frequentano scuole dotate di entrambe le certificazioni di agibilità e prevenzione incendi, nella nostra regione i dati sono preoccupanti: nella Scuola dell’infanzia è solo ‘8,4%, nella Scuola Primaria il 12,6%, nella Scuola Secondaria di primo grado il 10,7% e nella Scuola Secondaria di secondo grado il 20,3%.

Dai dati di spesa pubblica di fonte Conti Pubblici Territoriali risulta che il progressivo disinvestimento dalla scuola ha interessato soprattutto le regioni meridionali: tra il 2008 e il 2020, la spesa per investimenti nella scuola si è ridotta di oltre il 20% al Sud contro il 18% del Centro-Nord. Nel 2020, a Sud risultano investimenti pubblici per studente pari a 185 euro, contro i 300 del Centro- Nord. Un differenziale di spesa che tende ad amplificare ancora di più i divari.

Le risorse del Pnrr, per la Svimez, rappresentano, dunque, un’occasione unica per colmare i gap territoriali nella filiera dell’istruzione. Le risorse disponibili sono pari a 11,28 miliardi di euro, di cui 10,73 risultano assegnati agli enti territoriali. Il “Piano per asili nido e scuole dell’infanzia e servizi di educazione e cura per la prima infanzia” e il “Piano di messa in sicurezza e riqualificazione delle scuole” concentrano circa l’80% delle risorse stanziate; agli interventi per mense e palestre sono destinati circa 600 milioni e alla costruzione di nuove scuole 1,2 miliardi circa.

Per la realizzazione di nuove scuole e la messa in sicurezza degli edifici scolastici, si è confermata sostanzialmente la “quota Sud” rispetto a quella prevista dai criteri ex ante fissati dai decreti ministeriali di riparto. Con riferimento agli asili nido, si è determinata una riduzione di 3 punti (52%). Le “quote Sud” delle linee di investimento per mense e palestre sono risultate ridimensionate rispetto alle previsioni dei decreti di riparto delle risorse del Mim (41 contro 57,9% per le mense e 43 contro 54,3% per le palestre) per motivazioni diverse per le due linee di intervento.

Sebbene la “quota Sud” sia stata rispettata, «gli enti territoriali delle tre regioni meridionali più popolose – Sicilia, Campania e Puglia – hanno avuto accesso a risorse pro capite per infrastrutture scolastiche inferiori alla media italiana, nonostante le marcate carenze nelle dotazioni infrastrutturali che le contraddistinguono», ha ricordato l’Associazione.

«La distribuzione provinciale delle risorse assegnate ai Comuni – si legge – segnala significative differenze intra-regionali, soprattutto nelle regioni più grandi: in quasi tutte quelle meridionali, la provincia con il maggior fabbisogno di investimenti non coincide con quella che ha ricevuto le maggiori risorse pro capite. Questa situazione caratterizza, in particolare, Napoli e Palermo che si trovano tra le ultime quindici province nella graduatoria per risorse pro capite assegnate pur avendo, ad esempio nel caso delle mense, una percentuale bassissima di alunni che possono usufruirne (rispettivamente 5,7 e 4,7)».

«Lo studio propone, inoltre – viene spiegato – un’analisi di correlazione a livello provinciale tra indicatori di fabbisogno e risorse allocate per verificare se, e in che misura, l’allocazione degli stanziamenti ha rispettato la finalità di riequilibrio territoriale del Pnrr. I risultati mostrano che l’ammontare di risorse assegnate non sono legate ai fabbisogni effettivi dei territori. Solo nel caso del Piano asili nido le risorse assegnate aumentano con il fabbisogno, in linea con le finalità perequative».

La Svimez  ha evidenziato che « 1)la mancata mappatura iniziale dei fabbisogni si è riflessa in un’allocazione delle risorse che ha penalizzato alcune realtà meridionali; 2) Per le risorse assegnate attraverso procedure a bando risultano differenze tra province, non correlate al fabbisogno infrastrutturale».

La Svimez, dunque propone «di superare l’approccio dell’allocazione delle risorse mediante bandi competitivi che penalizzano le realtà con minore capacità amministrativa, attraverso una identificazione ex ante degli interventi sulla base dei fabbisogni reali; 2) un’azione di riprogrammazione delle risorse per la coesione che consenta di completare, dopo il 2026, il percorso di riduzione e superamento dei divari territoriali nelle infrastrutture scolastiche: con le risorse europee del Fesr (regionale e nazionale) e con il Fondo per lo sviluppo e la coesione (Fsc) 2021-2027». (ams)