SVIMEZ: MEZZOGIORNO NON È UN DESERTO
INDUSTRIALE MA CRESCE MENO DEL NORD

di ANTONIETTA MARIA STRATI – Nel 2025 il Mezzogiorno tornerà a crescere meno del Centro-Nord. È quanto emerso dal Rapporto Svimez, in cui denuncia «i rischi di un ritorno alla “normalità” di una crescita più stentata al Sud rispetto al resto del Paese», con il Meridione che rimane sullo +0,7% contro il Centro-Nord che registrerà una crescita di +1,0%. Una tendenza che si confermerebbe anche nel 2026: (+0,8% contro 1,1%).

Dati in controtendenza a quelli positivi riscontrati dall’Associazione: Il Sud, infatti, per il secondo anno consecutivo, cresce più della media del Centro-Nord: +0,9% contro +0,7%. Si riduce tuttavia sensibilmente lo scarto di crescita favorevole al Sud rispetto al 2023, quando il Pil del Sud era cresciuto quasi un punto percentuale sopra la media del Centro-Nord. La crescita più sostenuta del Mezzogiorno è dovuta a una più robusta dinamica degli investimenti in costruzioni (+4,9% contro il 2,7% del resto del Paese) trainati dalla spesa in opere pubbliche del Pnrr. I consumi delle famiglie tornano, invece, in negativo nel 2024 (-0,1% contro +0,3% nel Centro-Nord), frenati dalla crescita dimezzata del reddito disponibile delle famiglie rispetto all’anno scorso (+2,3% nel 2024 contro il +4,5% del 2023) e da una dinamica dei prezzi in rallentamento, ma lievemente più sostenuta rispetto al resto del Paese.

A politiche invariate, il 2025 rappresenta un anno di passaggio verso differenziali territoriali di crescita guidati da fattori strutturali sfavorevoli al Sud, a causa del rientro dalle politiche di stimolo agli investimenti privati e di sostegno ai redditi delle famiglie, solo parzialmente compensati dall’impatto positivo degli investimenti del Pnrr.

Nel triennio 2024-2026, al Sud gli investimenti del Pnrr valgono 1,8 punti percentuali di Pil meridionale (1,6 punti nelle regioni del Centro-Nord). In media, circa tre quarti della crescita del Pil del Mezzogiorno nel triennio è legata alla capacità di attuazione degli investimenti del Piano, a fronte di circa il 50% nel resto del Paese.

A fronte della ripresa occupazionale, il colpo inferto dall’inflazione al potere d’acquisto dei redditi da lavoro resta la criticità più rilevante, soprattutto nel Mezzogiorno. Tra il quarto trimestre 2019 e la prima metà del 2024, i salari reali si sono ridotti del -5,7% al Sud e del -4,5% nel Centro-Nord (-1,4% nell’eurozona). Un vero e proprio crollo al Sud causato da una più sostenuta dinamica dei prezzi e dai ritardi nei rinnovi contrattuali, in un mercato del lavoro che ha raggiunto livelli patologici di flessibilità.

A metà 2024, l’occupazione in Italia ha superato i livelli del 2019 di circa 750mila unità (+3,2%), un’espansione che è andata dunque ben al di là del semplice recupero degli effetti della crisi. Nello stesso periodo, il numero di occupati è cresciuto di 330mila unità (+5,4%) nel Mezzogiorno.

La ripresa dell’ultimo triennio ha riportato nel Mezzogiorno l’occupazione sui livelli, mai recuperati f ino a tutto il 2019, di metà 2008. Al Sud, sono tre milioni i lavoratori sottoutilizzati o inutilizzati. Il labour slack Svimez, l’indice del “non lavoro”, è calato, tra il 2019 e il 2023 dal 39,3 al 33% nel Mezzogiorno.

Allo stesso tempo, il “non lavoro” al Sud resta su valori più che doppi che nel resto del Paese. Le tre regioni meridionali con i tassi di “non lavoro” più elevati sono Sicilia (38%), Campania e Calabria (entrambe 36,8%). Dei tre milioni di lavoratori meridionali sottoutilizzati o inutilizzati, quasi un milione rientra tra i disoccupati secondo la definizione ufficiale, 1,6 milioni sono forze di lavoro potenziali e 400mila sono occupati in part-time involontario. Nel Centro-Nord, l’area del non lavoro si attesta intorno a 2,8 milioni.

Nel Mezzogiorno la precarietà è diventata un fenomeno tutt’altro che marginale in comparazione ad altre economie europee. Nelle regioni meridionali più di un lavoratore su cinque è assunto con contratti a termine: 21,5%, contro una media europea del 13,5%. La minore diffusione di posizioni permanenti è spiegata soprattutto dalla presenza di una struttura produttiva che più si presta a ricorrere al lavoro flessibile, per la più marcata specializzazione nel terziario tradizionale e la più contenuta dimensione media delle imprese.

Quasi i tre quarti degli occupati meridionali a tempo parziale sono in part-time involontario (72,9%), a fronte del 46,2% nel Centro-Nord e meno del 20% nell’Ue. Nel Mezzogiorno si concentra il 60% dei 2,3 milioni di lavoratori poveri italiani (circa 1,4 milioni). L’andamento positivo dell’occupazione non ha impedito l’aumento delle famiglie con persona di riferimento occupata in povertà assoluta nel Mezzogiorno: 9,5% nel 2023 dall’8,5% del 2021. L’aumento è stato addirittura di 3 punti percentuali per le famiglie con persona di riferimento occupata con qualifica di operaio o assimilato: dal 13,8 del 2021 al 16,8%.

Al 2050, il Paese perderà 4,5 milioni di abitanti e l’82% della perdita interesserà le regioni meridionali: -3,6 milioni. Non solo spopolamento, ma un progressivo degiovanimento che colpirà soprattutto il Mezzogiorno, che perderà 813mila under 15, quasi un terzo di quelli attuali (-32,1%), mentre gli anziani con più di 65 anni aumenteranno di 1,3 milioni (+29%). Un trend demografico avverso che avrà un forte impatto sul numero degli iscritti nelle scuole italiane. Al 2035, la riduzione di studenti è stimata al -21,3% nel Mezzogiorno, addirittura al -26% nelle regioni del Centro (-18% nelle regioni settentrionali).

Per la scuola primaria, il rischio chiusura è concreto in 3mila comuni con meno di 125 bambini, numero sufficiente per una sola “piccola scuola”: il 38% del totale dei comuni (quota che sale al 46% nel Mezzogiorno), localizzati soprattutto nelle aree interne. Il contrasto al gelo demografico necessita di politiche di lungo periodo orientate al rafforzamento del welfare familiare, degli strumenti di conciliazione dei tempi di vita-lavoro, dell’offerta dei servizi per l’infanzia, dei sostegni effettivi ai redditi e alla genitorialità, superando la frammentarietà degli interventi. L’emergenza è l’emigrazione, non l’immigrazione.

«Dal 2012 al 2022 – ha rilevato la Svimez – 138mila giovani laureati (25-34 anni) hanno lasciato l’Italia. Tra gli altri fattori, incidono sulla scelta le basse retribuzioni: dal 2013 le retribuzioni reali lorde per dipendente sono calate di 4 punti percentuali (-8 nel Mezzogiorno), contro una crescita di 6 punti in Germania».

«Negli ultimi 10 anni – si legge nel Rapporto – i giovani laureati che hanno lasciato il Mezzogiorno per il Centro-Nord sono quasi 200mila. Le migrazioni intellettuali da Sud a Nord sono alimentate anche dalla mobilità studentesca: due studenti meridionali su dieci (20mila all’anno) si iscrivono a una triennale al Centro-Nord, quasi quattro su dieci (18mila all’anno) a una magistrale in un ateneo settentrionale. Per alcune regioni meridionali il tasso di uscita degli studenti magistrali è nettamente superiore: in Basilicata l’83% lascia la regione, il 74% in Molise, più del 50% in Abruzzo, Calabria e Puglia. Tra il 2010 e il 2023, il sensibile aumento del numero di laureati meridionali si è realizzato esclusivamente grazie ai titoli conseguiti presso atenei del Centro-Nord (+40mila), mentre è addirittura diminuito il numero di laureati presso gli atenei meridionali».

Il quadro internazionale è segnato da nuove crescenti incertezze: i conflitti in corso, i nuovi rischi di shock inflazionistici, le tensioni commerciali globali, i rischi di una nuova ondata protezionistica. Ma la riconfigurazione delle global supply chain fornisce nuove opportunità di sviluppo al Mezzogiorno, che possono essere intercettate valorizzando il contributo del Sud alle transizioni, a partire dalle sue specializzazioni mature. Il Mezzogiorno non è un deserto industriale. Per contributo a valore aggiunto e occupazione, in termini di internazionalizzazione, competenze e tecnologia, il peso del Sud è rilevante in diverse filiere nazionali: Agroindustria, Navale e Cantieristica, Aerospazio, Edilizia e Automotive.

«È il momento di mettere in campo una politica industriale più ambiziosa, declinata attraverso strumenti utili ad attivare processi di trasformazione strutturale e creare occasioni di lavoro qualificato. Non si tratta solo di assicurare risorse adeguate al Mezzogiorno, ma di adottare un’impostazione orientata all’identificazione e al supporto delle priorità produttive e delle specializzazioni strategiche», viene detto nel Rapporto, sottolineando come «il  superamento dell’impostazione orizzontale delle politiche industriali degli ultimi decenni impone una riflessione sotto il profilo degli strumenti, andando al di là degli incentivi senza vincoli di destinazione settoriale».

La distribuzione territoriale degli incentivi dei Piani Transizione 4.0 e 5.0 dipende dalle capacità ex ante delle imprese (struttura, organizzazione, dimensione) di intercettarli, consolidando il tessuto industriale esistente nelle aree forti, ma pregiudicando l’attivazione di un vero processo di cambiamento strutturale nelle regioni deboli.

Per la Svimez, poi, «la filiera dell’Automotive è il settore sul quale si giocherà la sfida europea nel cambiamento strutturale del sistema produttivo e il futuro industriale del Mezzogiorno».

L’industria automobilistica italiana è collocata, infatti, prevalentemente nel Mezzogiorno. Nei primi 9 mesi del 2024, gli stabilimenti del Mezzogiorno hanno fornito quasi il 90% degli autoveicoli prodotti in Italia, ma hanno perso più di 100mila unità sul 2023 (-25%). Lo stabilimento di Melfi ha visto da solo una perdita di quasi 90mila unità (-62%), ma anche gli altri stabilimenti – in crescita nella prima parte dell’anno – sono entrati in territorio negativo, con cali che hanno interessato sia gli autoveicoli (Pomigliano, -6%) che i veicoli commerciali (Atessa, -10%). Ad aggravare il quadro, è stato sospeso l’investimento da oltre 2 miliardi per la realizzazione della gigafactory di batterie a Termoli, che indica una generalizzata vulnerabilità europea nella transizione all’elettrico. La filiera estesa nel Mezzogiorno dell’Automotive vale quasi 13 miliardi in termini di valore aggiunto, di cui più di quattro quinti in Campania (29%), Puglia (20%), Sicilia (22%) e Abruzzo (13%). Gli occupati riconducibili alla filiera Automotive sono circa 300mila, più della metà in Campania (30%) e Puglia (21%), seguite da Sicilia (21%) e Abruzzo (11%).

Il rilancio dell’industria automobilistica in Europa e la difesa dell’occupazione e dell’indotto richiede un cambio di paradigma che passa da un piano industriale europeo, finalizzato al rafforzamento della filiera elettrica e alla riduzione del gap tecnologico accumulato rispetto ai competitor, mettendo al centro gli stabilimenti del Mezzogiorno.

Per quanto riguarda la Zes, la Svimez ha rilevato come «il Piano strategico non risulta ancora formalmente approvato».

Serve, infatti, «un’accelerazione delle procedure attuative e di risorse – si legge nel Rapporto – certe nel tempo per le agevolazioni alle imprese (il credito d’imposta Zes è finanziato per il solo 2025), ma soprattutto di una continuità di impegno politico. L’incertezza sulle prospettive delle deleghe governative per il Mezzogiorno e il rischio di uno spacchettamento delle deleghe su Affari europei, Sud e Pnrr rischiano di pregiudicare il completamento delle riforme avviate».

Per dare continuità a investimenti e servizi è importante che i fondi europei e nazionali per la coesione 2021-2027 operino in complementarità con le azioni del Pnrr. Questo significa introdurre nel dibattito di politica economica la possibilità di utilizzare i fondi per la coesione anche per finanziare servizi di rilevante utilità sociale. Il Rapporto Svimez evidenzia i limiti, oramai strutturali, dell’attuale modello, la cui programmazione si fonda su obiettivi tematici generici e non adattabili alle diverse priorità e fabbisogni dei territori, secondo un criterio imperniato sulla rendicontazione della spesa e non legato al raggiungimento di precisi obiettivi di crescita o di riduzione dei divari.

Al contrario, l’applicazione di un metodo Pnrr adattato alle politiche di coesione, che subordini l’erogazione delle risorse al raggiungimento di precisi obiettivi, piuttosto che alla semplice rendicontazione delle spese, potrebbe rappresentare una proposta di riforma concretamente percorribile e in grado di condurre a un sostanziale miglioramento dell’efficacia di queste politiche. L’Accordo di partenariato dovrebbe contenere precisi target quantitativi, fissati a livello quantomeno regionale, accompagnati da milestone che presentino una connotazione anche territoriale, soprattutto in tema di riforme della regolazione dei servizi pubblici locali, di prestazione dei servizi essenziali (in primis istruzione e salute), e di rispetto delle direttive europee.

«Le analisi Svimez – si legge – confermano il ruolo determinante di stimolo del Pnrr alla crescita dell’area, ma evidenziano anche la necessità di accompagnare il ciclo di investimenti in infrastrutture economiche e sociali con un rilancio delle politiche industriali volte al rafforzamento del tessuto produttivo locale. La maggior parte dei progetti risultano in corso (105 su 140 miliardi di euro), e le diverse aree del Paese sembrano sostanzialmente allineate nel percorso attuativo. Bene i comuni, che gestiscono progetti Pnrr per circa 30 miliardi».

«Un terzo delle risorse – continua il Rapporto – risulta ancora da avviare, ma la maggior parte dei progetti ha avvio previsto nell’autunno/inverno 2024, vale a dire che la partita si sta giocando proprio in questi mesi. Al Sud spetta uno sforzo attuativo sicuramente maggiore; i comuni rispondono bene specialmente sulla realizzazione di investimenti connessi alle infrastrutture sociali con un importo avviato pro capite maggiore rispetto al dato del Centro-Nord. A rilento invece le infrastrutture più complesse, come quelle di trasporto, che vedono una percentuale di cantieri aperti inferiore al 20% e leggermente più elevata, per i progetti superiori ai 5 milioni di euro, al Sud (27% contro una media nazionale del 26%)».

L’Associazione, infine, ha evidenziato come «l’eliminazione della Decontribuzione Sud dal 31 dicembre 2024 comporta impatti significativi su crescita e occupazione. Nel 2023, ha riguardato mediamente più di 2 milioni di lavoratori per una spesa di oltre 3,6 miliardi e lo stanziamento cancellato per effetto dell’abolizione dell’agevolazione è pari a 5,9 miliardi per il solo 2025. Secondo stime Svimez, l’abrogazione comporterà una riduzione di due decimi di punto della crescita del Pil del Mezzogiorno e di tre decimi dell’occupazione, con circa 25 mila posti di lavoro a rischio».

Nonostante la Legge di Bilancio preveda, a compensazione, il finanziamento di un nuovo Fondo per interventi al Sud, con una dotazione di 2,4 miliardi nel 2025 e ulteriori 4,4 nel successivo biennio, per la Svimez si tratta di fondi «che, il finanziamento di un nuovo Fondo per interventi al Sud, con una dotazione di 2,4 miliardi nel 2025 e ulteriori 4,4 nel successivo biennio».

In Italia, il 54% degli alunni della scuola primaria frequenta un edificio scolastico che dispone di una mensa. Questo dato si ferma al 30% per il Mezzogiorno (240mila su circa 800mila bambini) e sale al 67% per il Centro-Nord (980mila sui circa 1,4 milioni). La percentuale di alunni che frequentano un edificio scolastico dotato di palestra è del 54% in Italia, ma nel Mezzogiorno si ferma al 46% (370mila su 800mila circa) rispetto al 60% (850mila su 1,4 milioni) del Centro-Nord. Le carenze nell’offerta dei servizi incidono sull’accesso al tempo pieno nelle scuole primarie del Sud e condizionano significativamente i processi di apprendimento degli studenti meridionali lungo l’intero ciclo scolastico, spiegando buona parte dei divari Nord/Sud nei livelli delle competenze maturate.

La dispersione scolastica è più alta al Sud. Dei 583.644 alunni iscritti al I anno di scuola secondaria di I grado a settembre 2012, 96.177 (il 16,5%) hanno abbandonato il sistema scolastico senza conseguire un titolo di studio nei sette successivi anni. L’abbandono scolastico è particolarmente diffuso al Sud (17,4%) e nelle Isole (20,6%), mentre nel Centro-Nord si attesta al di sotto del dato nazionale (14,6% per il Centro e 15,6% per Nord-Est e Nord-Ovest). L’istruzione è un bene pubblico essenziale, la cui qualità e diffusione capillare tra territori sono condizioni imprescindibili per uno sviluppo inclusivo. Dare priorità all’investimento in istruzione significa restituire alla scuola il suo ruolo di primo presidio di contrasto alle disuguaglianze, garantendo a tutti gli studenti, indipendentemente dal contesto familiare e sociale, pari condizioni di accesso a un diritto di cittadinanza fondamentale.

Nel biennio 2022-2023, 7 donne italiane su 10 di 50-69 anni hanno avuto accesso agli screening mammografici a cadenza biennale, 5 su 10 nell’ambito di un programma organizzato. Questa media nazionale nasconde profondi differenziali territoriali. La prima regione per copertura è il Friuli-Venezia Giulia: 9 donne su 10, quasi 7 nell’ambito di un programma organizzato. L’ultima è la Calabria: solo 2 donne su 10, appena 1 su 10 nell’ambito di un programma organizzato.

Nel 2022, la mobilità passiva ha interessato 629mila pazienti, il 44% dei quali residente in una regione del Sud. Nello stesso anno, i Ssr meridionali hanno attirato 98mila pazienti, solo il 15% della mobilità attiva totale. Complessivamente, i malati oncologici residenti nel Mezzogiorno che ricevono cure presso un Ssr di una regione del Centro-Nord sono 12.401, circa il 20% dei pazienti oncologici meridionali da un minimo del 15% della Campania a un massimo del 41% della Calabria. Al Sud non mancano le esperienze positive, come il modello innovativo della Rete Oncologica Campana, sulle quali bisognerebbe investire per rafforzare l’offerta di percorsi di cura territorialmente omogenei e ridurre le diseguaglianze di accesso alle cure.

Escludendo dai criteri di allocazione i fattori socioeconomici che impattano sui fabbisogni di cura e assistenza, il riparto regionale delle risorse per la sanità penalizza i cittadini delle regioni del Mezzogiorno. La presa in conto di questi fattori (povertà, istruzione, deprivazione sociale) renderebbe la distribuzione del finanziamento nazionale tra Ssr più coerente con le finalità di equità orizzontale del Ssn. (ams)

 

SENZA LAVORO E SERVIZI LA CALABRIA SI
SPOPOLA: FERMARE L’ESODO DEI GIOVANI

di VITTORIO DANIELE – Nonostante il tasso di natalità tra i più bassi in Europa, tra il 2001 e il 2022, la popolazione italiana è aumentata di circa due milioni. La crescita demografica ha, però, riguardato solo il Nord del paese. La popolazione del Mezzogiorno è, di contro, diminuita di 698.000 abitanti. Queste differenti dinamiche demografiche sono spiegate soprattutto dall’emigrazione. Pur registrando una significativa emigrazione di giovani verso l’estero, le regioni settentrionali hanno attratto gran parte dei flussi migratori in ingresso nel nostro paese e, soprattutto, quelli interni, provenienti dal Sud.

Tra il 2002 e il 2021 hanno lasciato il Mezzogiorno oltre 2,5 milioni di persone, in prevalenza verso il Centro-Nord (81%). Al netto dei rientri, il Mezzogiorno ha perso 1,1 milioni di residenti, di questi 808.000 con meno di 35 anni, di cui 263.000 laureati.

Più di altre regioni, la Calabria soffre di queste dinamiche. Nel periodo 2001- 2022, la popolazione calabrese è diminuita di quasi 165.000 residenti. Per avere un termine di paragone è come se la regione avesse perso, all’incirca, gli abitanti delle città di Catanzaro e di Lamezia Terme sommati. Nell’ultimo ventennio, il saldo migratorio della Calabria verso le altre regioni è stato mediamente del -5,2 per mille abitanti. Un valore nettamente maggiore di quello del Mezzogiorno (-2,7 per mille), che la modesta immigrazione da altri paesi – soprattutto della sponda sud del Mediterraneo – non può compensare. A partire sono, ovviamente, i giovani. La Calabria, insieme con la Basilicata, è la regione con più elevato tasso migratorio.

È quasi superfluo ricordarlo: il fattore di spinta di questa dinamica migratoria è la carenza di opportunità di lavoro qualificato. La domanda di lavoro da parte delle imprese è insufficiente; spesso i lavori disponibili sono precari, stagionali e sottopagati. Come risultato, molti giovani, soprattutto quelli più qualificati, giustamente, fuggono.

La marginalità delle aree interne

Le aree interne sono quelle che più soffrono delle dinamiche demografiche avverse, perché più acuti si presentano i problemi economici e sociali che caratterizzano la regione, cui si sommano le carenze nei servizi pubblici.

La Calabria è una penisola montuosa. Secondo le classificazioni statistiche, ben il 22% della popolazione vive in aree di montagna, una percentuale nettamente maggiore di quella media italiana (12%). Il 66% della popolazione è, poi, residente in aree collinari, mentre solo il 15% dei calabresi vive in aree di pianura, a fronte del 49% dell’Italia.

Tra il 2001 e il 2022, i comuni della montagna calabrese hanno perso quasi 58.000 abitanti. Si tratta di un calo del 12,3%. Nello stesso periodo, la popolazione nelle aree collinari calabresi è diminuita del 7,7%. Sono percentuali nettamente maggiori di quelle, pur elevate, che caratterizzano il Mezzogiorno. Le aree interne della Calabria si spopolano. Con lo spopolamento, vengono meno attività economiche e vengono soppressi servizi pubblici e privati (come asili, scuole, uffici postali, sportelli bancari) per mancanza di utenti e per ragioni di convenienza economica.

Quali politiche?

La Strategia per le Aree Interne (Snai), avviata a livello nazionale nell’ambito della programmazione 2014-2020, ha l’obiettivo di intervenire sui comuni “interni” con difficoltà di accesso ai servizi essenziali e, pertanto, a forte rischio di spopolamento. La Sna della Calabria cui si affianca una Strategia regionale, dovrebbe intervenire attraverso azioni sui servizi (mobilità, sanità, istruzione) e per lo sviluppo locale in sette aree: Reventino-Savuto; Grecanica; Sila-Presila crotonese e cosentina; Versante ionico Serre; Alto Jonio Cosentino; Versante Tirrenico Aspromonte; Alto Tirreno-Pollino. Si affianca una Strategia regionale che dovrebbe intervenire nelle altre porzioni del territorio regionale, ovvero in altri 266 comuni, inclusi, paradossalmente, quelli che ricadono in aree costiere.

Le risorse complessive destinate ai programmi ammontano a 136.696.000 euro. I soggetti attuatori (Comuni, Gal, Asp… e in alcuni casi direttamente la Regione) hanno l’onere di realizzare gli interventi. La Regione svolge comunque un compito di coordinamento.

Al momento, l’attuazione dei programmi delle Strategie per le aree interne scontano notevoli ritardi. Dal portale Open Coesione della Presidenza del Consiglio, per la Snai Calabria risulta, alla data attuale, un costo pubblico monitorato di appena 4,1 milioni, per 7 progetti monitorati, con zero progetti conclusi, il 13% dei progetti in corso e l’87% dei progetti non avviati. Per confronto, nello stesso portale, per la Basilicata risultano 88,1 milioni di costo pubblico monitorato, il 27% dei progetti conclusi, il 62% dei progetti in corso e il 9% non avviati. Non è dato sapere se tali informazioni siano aggiornate.

Servizi pubblici e prospettive occupazionali

Le strategie citate – se compiutamente attuate – potrebbero avere utili ricadute per i comuni interessati. Come altri interventi finanziati da fondi europei o nazionali non sono, però, in grado di contrastare la dinamica strutturale che investe le aree interne e il resto del territorio calabrese (e meridionale). Dinamiche che, come accennato, sono alimentate dalle forze della demografia e dell’economia e che, all’origine, hanno come causa l’ineguale distribuzione dello sviluppo economico nel territorio nazionale e, dunque, delle opportunità di lavoro che si offrono alle giovani generazioni.

Per contrastare lo spopolamento delle aree interne è certamente necessario assicurare – o potenziare ove carenti – i servizi essenziali: sanità, mobilità, istruzione. I vincoli di bilancio – e i continui tagli alla spesa pubblica – rendono estremamente difficile, però, che, nei prossimi anni, in aree in corso di spopolamento si possano potenziare i servizi pubblici, anche se ciò dovrebbe essere un obiettivo politico da perseguire, fosse anche solo per evitare disuguaglianze e sperequazioni tra cittadini e territori. È, poi, necessario e fattibile rendere più efficienti i servizi esistenti e accelerare i tempi di realizzazione delle opere pubbliche. Non sono pochi i casi, infatti, in cui le risorse disponibili rimangono parzialmente inutilizzate o vengono spese in progetti di dubbia utilità.

Assicurare i servizi essenziali è indispensabile, ma non sufficiente. Può apparire banale sottolinearlo, ma il contrasto allo spopolamento, alla desertificazione demografica ed economica consiste principalmente – direi fondamentalmente – nella creazione di opportunità di lavoro. Il finanziamento di attività imprenditoriali avviate da giovani nell’agricoltura, nell’agroindustria, nell’artigianato, nel turismo può aiutare. Come pure la realizzazione di un piano straordinario di forestazione, in linea con gli obiettivi europei e nazionali per lo sviluppo sostenibile e che compensi il disboscamento che riguarda parte del territorio regionale; come pure misure di riqualificazione e messa in sicurezza del territorio.

Sarebbe assurdo – e, se fosse possibile, sarebbe anche ingiusto – pensare di far rimanere i giovani in territori in cui mancano prospettive occupazionali. (vd)

[Courtesy OpenCalabria]

BENVENUTI AL NORD: LAVORO, IL GOVERNO
PREMIA E INCENTIVA CHI SE NE VA DAL SUD

di SANTO STRATI – Benvenuti al Nord! L’ultima genialata del Governo Meloni, all’interno della Finanziaria, è un fringe benefit (un’incentivazione, diciamo meglio) per i nuovi assunti nel 2025 che trasferiranno, per lavorare, la propria residenza “oltre il raggio di 100 km da quella di origine”.

Detto in soldoni, è un premio a chi emigra (riguarda tutti, senza limiti di età, se il reddito non supera i 35mila euro), ovvero un invito bello netto a lasciare il Sud. Ma come? Si sono spesi fiumi d’inchiostro per scrivere e parlare di “fuga di cervelli” e questo Governo anziché incrementare le opportunità di occupazione nel Mezzogiorno, contribuisce (da 100 “incredibile” bonus (da 1000 a 5000 euro) servirà a convincere anche i più riluttanti a fare le valigie e andare al Nord (dove sennò?).

Questo Governo – nonostante le belle parole, le promesse e le migliori intenzioni – non ama il Sud, non ama il Mezzogiorno, pur continuando a essere tutto il Sud un serbatoio formidabile di voti.

Non ama il Mezzogiorno perché con la politica di tagli alle risorse è evidente che va a colpire le regioni più svantaggiate e più esposte alla crisi economica che mangia il valore di acquisto dei salari scarsi e inadeguati che caratterizzano l’occupazione meridionale.

Tutta la finanziaria – lacrime e sangue, checché ne dica il buon Giorgetti – non fa che esasperare il divario esistente tra le opportunità di crescita (sempre di meno) per tutto il Mezzogiorno e la “ripresina” al Nord. E la postilla ingegnata per iincentivare a fare le valigie non è che l’ultima beffa ai nostri giovani laureati che continuano a emigrare, portandosi spesso, a seguire, i familiari, unica chance per sopravvivere e pensare di poter costruire una famiglia: chi terrebbe i bambini? I genitori o i nonni che vengono dal Sud, ovvio. Già i costi degli affitti sono improponibili, figurarsi poi se si deve pagare una baby sitter…

Ai nostri giovani – l’ho scritto, ahimè, molte volte – abbiamo rubato il futuro e la nuova classe politica e dirigente (stendiamo qui un velo pietoso) sta concludendo l’opera.

Negli ultimi vent’anni sono andati via dal Sud oltre un milione di residenti (1.100.000 per l’esattezza, ci dice la Svimez). Ed è facile immaginare l’età di chi è andato via (uno su due – secondo la Svimez è laureato). Il motivo della fuga dei cervelli è fin troppo evidente: le famiglie calabresi – tanto per puntualizzare meglio il problema – spendono per la formazione e l’istruzione universitaria dei propri ragazzi in Atenei nella Regione che ormai si avviano a sfiorare molto frequentemente l’eccellenza.

I dati ci dicono che in Calabria ci sono magnifiche Università che preparano adeguatamente i nostri laureati, ma poi vengono a mancare le opportunità di occupazione, di formazione e crescita professionale. Così, i furbastri industriali del Nord (ma anche del resto del mondo) si prendono “a gratis” i laureati che faranno la fortuna delle proprie aziende.

Non a caso, parlando nelle scuole calabresi, con i ragazzi delle ultime classi, a proposito dell’evidente sconforto sul futuro, ho toccato con mano una incontrovertibile logica: “vado a studiare fuori, così prim’ancora della laurea trovo opportunità di lavoro. Perché dovrei studiare in Calabria se poi me ne devo andare a Milano, a Torino, o in qualsiasi altro posto dove valorizzano i giovani e curano il loro perfezionamento nella formazione?”.

Non fa una piega, ma – evidentemente – in Regione dove pure si stanno attuando nuove politiche sul lavoro, non si pensa di creare opportunità di impiego favorendo aziende che creano occupazione. E i bandi che già sono attivi, sono il trionfo della burocrazia più ottusa, visto che non tengono in minima considerazione la qualità dell’idea da realizzare  (il cosiddetto autoimpiego) nè guardano alle prospettive della crescita futura. Tanto per restare in tema, ci sono centinaia di progetti di giovani aspiranti imprenditori (quasi tutti con laurea e tanto entusiasmo) che vengono bocciati perché mancano le cosiddette “garanzie” finanziarie. Quelle che dovrebbero coprire questo vuoto non piacciono alle banche e il giro – dopo mesi di esasperante attesa – finisce in un nulla di fatto.

Andrebbero valutati prima di tutti gli effetti occupazionali di un’idea di impresa (nel caso dei progetti) oppure prevedere premialità importanti per le aziende che assumono.

Il segretario generale della Cisl, Luigi Sbarra, calabrese di Pazzano, aveva lanciato qualche tempo fa un principio basilare per il rilancio dell’economia del Sud: la decontribuzione per le aziende, ovvero l’abbattimento degli oneri sociali per chi favorisce e crea occupazione. La manovra di Governo addirittura conferma il taglio della decontribuzione al Sud (già in vigore dallo scorso giugno).

Per quale ragione un’azienda dovrebbe incrementare l’occupazione (e magari attuare percorsi formativi di specializzazione) se non viene motivata adeguatamente?

C’è evidentemente un corto circuito tra paese legale e paese reale: i nostri governanti vivono probabilmente un’altra dimensione e – pur capendo che non ci sono i soldi (che si potrebbero recuperare da una seria lotta all’evasione) – non si rendono conto di quanto sia diventato arduo affrontare la giornata per qualsiasi famiglia del ceto medio. Ecco, la finanziaria – che non piace a nessuno, non soltanto ai calabresi – ha cancellato il ceto medio, distribuendo elemosine a professionisti (17 euro di aumento ai medici, 7 agli infermieri) e mortificando ulteriormente i poveri (nel senso vero della parola) titolari di pensioni sociali minime: un bell’aumento di 10 centesimi (ripeto 10 centesimi) al giorno  e torna l’allegria…

Ci sarà lotta, sicuro, in Parlamento ma è l’impianto generale della manovra che non funziona. Da un lato il nuovo presidente di Confindustria Emanuele Orsini, la scorsa settimana a Cosenza, rilancia sul ruolo del Mezzogiorno per il traino dell’economia, dall’altra il Governo si inventa gli incentivi all’emigrazione dei cervelli (ormai gli operai e la manodopera non emigrano più).

Eppure ci sarebbe una strada praticabile per ridare il sorriso ai ragazzi calabresi (ma anche a tutti quelli che vivono al Sud) incentivando le aziende del Nord (escluse ovviamente quelle manifatturiere che hanno bisogno della presenza fisica del lavoratore) ad attuare programmi di south smartworking: i giovani lavorerebbero da casa (e non è vero che il lavoro da remoto è poco produttivo, tutt’altro), continuando a vivere in famiglia e mantenendo gli affetti, avrebbero un’occupazione stabile e posizioni che possono crescere.

Qualcuno ha detto che al Sud i giovani stanno al mare e in remoto lavorano poco: un’eresia che puzza di razzismo. Lo stesso che ancora incontrano – per fortuna sempre di meno – i nostri ragazzi che tentano la fortuna al Nord, sfidando pregiudizi e preconcetti e mostrando, in breve tempo, talento e capacità che farebbero la fortuna della nostra Calabria. (s)

CONTRO L’EMIGRAZIONE GIOVANILE SI DEVE
PUNTARE A COLMARE IL DIVARIO NORD-SUD

di PIETRO MASSIMO BUSETTAVale 134 miliardi il capitale umano uscito con i giovani italiani emigrati: dalla Lombardia 23 miliardi, dalla Sicilia 15 e dal Veneto 12, e la quota dei laureati che vanno via diventa sempre più consistente. Così in una nota, firmata Lorenzo Di Lenna, ricercatore junior e Luca Paolazzi, direttore scientifico della Fondazione Nord Est, viene calcolato il costo del deflusso di giovani dal nostro Paese.

Nei tredici anni 2011-23 il valore del capitale umano che se ne è andato dall’Italia, e riguardante i giovani 18-34 emigrati, è pari a 133,9 miliardi, con la Lombardia a primeggiare per perdita (22,8 miliardi), seguita dalla Sicilia (14,5), dal Veneto (12,5) e dalla Campania (11,7). 

In realtà il dato assoluto in questo caso non ha alcun senso. Se invece esso viene rapportato alla popolazione residente in ciascuna regione ci si accorge facilmente che la classifica è diversa e vede il valore dei giovani meridionali che abbandonano quello più elevato. E questo calcolo riguarda soltanto il movimento rispetto ai trasferimenti in altre nazioni d’Europa e del mondo. Non tiene conto invece dei trasferimenti all’interno del nostro stesso Paese. Possiamo aggiungere allora che ogni anno le regioni del Sud “regalano” a quelle del Nord una cifra vicina ai 20 miliardi di euro, considerato che ogni ragazzo che viene formato fino alla scuola media superiore ha un costo che viene calcolato in circa 200.000 € e che ogni anno si trasferiscono dal Mezzogiorno verso il Nord del Paese 100.000 giovani, la maggior parte dei quali sono laureati e che quindi hanno un costo maggiore dei 200.000 € che sono stati riportati prima. 

Lanciare un grido d’allarme per evidenziare che il nostro non è un Paese attrattivo è corretto. Spesso le remunerazioni sono molto basse, vedasi cosa accade con i medici, che trovano convenienti le condizioni complessive offerte altrove. I diritti a cui si può accedere sono più ampi all’estero, si pensi al welfare di cui godono le giovani mamme o spesso ad una sanità che da noi non è all’altezza delle aspettative, soprattutto nel Mezzogiorno.

Insomma non solo un lavoro meglio retribuito, ma anche un welfare più consistente sono le motivazioni alla base della scelta di chi preferisce abbandonare l’Italia e trova conveniente spostarsi. Ma una distinzione tra coloro che abbandonano il Mezzogiorno e quelli che abbandonano il Centro Nord va fatta.

Infatti non si tratta dello stesso tipo di trasferimento. Nel Nord si assiste ad un processo, che peraltro può essere anche virtuoso, perché consente ai giovani italiani di acquisire skill che magari in Italia avrebbero più difficoltà a conseguire. 

Si chiama mobilità ed è un processo in genere bidirezionale, da un paese all’altro, ed arricchisce entrambi i territori. Il giovane inglese viene a lavorare in Italia e il suo collega italiano va a Londra. Nel loro percorso di vita ci potrà essere un ritorno nelle loro aree di origine, perché non sarà difficile per l’ingegnere che si è specializzato in un’azienda londinese trovare la possibilità di essere accolto in una altrettanto bell’azienda brianzola, nella quale potrà continuare il lavoro che svolgeva nella prima. 

Caratteristiche diverse ha l’abbandono dei territori meridionali: in tal caso si parla di emigrazione, che è quel fenomeno che riguarda i paesi poveri, che li depaupera delle migliori energie, che non hanno alcuna possibilità di trovare collocazione nel sistema imprenditoriale esistente. 

In quel caso si tratta di una perdita netta perché senza ritorno: essendovi un sistema manifatturiero imprenditoriale molto carente, le professionalità che vanno via difficilmente potranno trovare collocazione in un eventuale loro, desiderato, ritorno, che avverrà probabilmente soltanto nella fase della pensione.

Per cui il danno sarà doppio: la prima volta lo si avrà quando si perde il costo della formazione sostenuto dalla Comunità di appartenenza, la seconda volta al loro ritorno nelle terre di origine, perché queste dovranno farsi carico di fornire le prestazioni sanitarie, che, come è noto, sono molto più frequenti quando si raggiunge una certa età. 

Peraltro il Nord del Paese, in ogni caso si rifà di eventuali perdite di capitale umano formato attraendo i giovani meridionali, spesso con operazioni di comunicazione scientifiche e programmate. Il Sud invece ha performance simili a quelle dei Paesi in via di sviluppo, come Tunisia, Marocco, Libia.

La differenza è che dal Nord Africa o dall’Africa Centrale arrivano con i barconi, dal Sud basta un volo low cost, ma il depauperamento è uguale.    

Certo consentire un tipo di abbandono come quello di cui si è parlato senza che lo Stato di appartenenza possa rifarsi perlomeno in parte dei costi sostenuti per “l’allevamento“ di tali giovani è un percorso che va rivisto. Anche se in una libera Europa, dove merci e persone possono muoversi liberamente, pensare a rimborsi dovuti allo Stato da chi lascia la propria nazione è assolutamente inimmaginabile, come lo è però la cannibalizzazione che viene fatta nei confronti di alcuni paesi, tipo per esempio la Croazia. 

I meccanismi seri che possono alla base evitare tali processi che impoveriscono alcune aree riguardano soltanto lo sviluppo di esse, le eliminazioni dei divari, che poi è quello su cui l’Europa sta cercando di lavorare più alacremente. Ma è anche il percorso più difficile. (pmb)

[Courtesy Il Quotidiano del Sud – L’altravoce dell’Italia]

LAVORO, VALORE A QUALITÀ E COMPETENZE
PER IMPEDIRE L’EMIGRAZIONE DEI GIOVANI

di FRANCESCO RAOSecondo uno studio condotto a livello nazionale, il valore del tempo e della vita sta superando quello per il lavoro.  I giovani, muniti di elevate competenze, hanno ben compreso che la loro professionalità può essere espressa in modo circostanziato anche attraverso il lavoro da remoto. Inoltre, l’esperienza acquisita nel breve periodo può generare alti redditi e quindi rimanere chiusi in ufficio per intere giornate per ricevere uno stipendio elevato è un fatto passato. La priorità, per moltissimi giovani, appare indirizzata verso un maggiore controllo del tempo e una migliore qualità della vita. Da queste considerazioni è emerso in un recente studio che nel 70% dei colloqui, sono i giovani a dire “le farò sapere” e non più i datori di lavoro. 

Il paradigma è cambiato: prima viene la soddisfazione del vivere, poi il lavoro dal quale trarre la giusta remunerazione per affrontare la quotidianità e la realizzazione personale e familiare. Molti datori di lavoro iniziano a comprendere tale evidenza a loro spese. Ma la tipologia di risposta, attuata da molti per affrontare questo tipo di criticità, non punta alle competenze e quindi alla qualità, ma è tesa a risolvere la criticità abbassando il livello di competenze e, al contempo, illudendosi di poter competere con i più moderni e avanzati sistemi di produzione, si ricorre a collaborazioni non qualificate e quindi inadatte a processi di lavoro complessi nei quali, il primo requisito per mantenere le tendenze di produzione e consumo è la competenza.

Nel seguire la regola del momento, oltre alla crescente diffusione dell’intelligenza artificiale, la penuria di competenze, tanto nel settore pubblico quanto nel privato, si finisce per proporzionare il risultato finale ponendo in rapporto alla retribuzione e non alla qualità senza considerare che oggi, la qualità la si acquista sulla rete tramite internet. Questa dinamica, naturalmente registrata dagli osservatori già da tanto tempo e puntualmente non accolta dai decisori politici, ha contribuito a generare sia l’acuirsi dell’attuale crisi demografica sia la forte propensione alla mobilità del posto di lavoro, fatto inedito per quanti in passato, ottenuto il posto di lavoro lo abbandonavano soltanto per quiescenza oppure per crisi specifica del settore produttivo. I giovani, attualmente, hanno molte più competenze rispetto ai loro coetanei del secolo scorso e le dinamiche produttive, nel loro complesso, sono sempre più ostaggio non solo dai parametri dettati da un mercato del consumo, fortemente dinamico, ma anche da una tassazione asfissiante.

Tutto ciò non consente ai nostri sistemi produttivi di reggere il rapporto domanda-offerta, sempre più condizionato dall’insieme delle scelte praticate da un mercato fluente, veloce e simmetrico al desiderio cangiante del consumatore, divenuto ormai parte attiva e quindi individuabile come consumAttore, ossia colui che scegliendo nella quotidianità uno o più prodotti, veicolandone le immagini e diffondendo attraverso i social emozioni e stili di vita ad esso riconducibili, riesce a determinare direttamente la visibilità, la pervasività e la diffusione delle mode e quindi dei consumi, divenute ormai non più fasi stagionali, ma circostanze temporanee, attraverso le quali si può stare soltanto dentro o fuori dal circuito e quanti cercano l’alternativa fuori da tali ambiti divengono gli esclusi della situazione. Credo sia evidente la linearità con la quale si stia materializzando la privazione della libertà di scelta.

Quasi tutto è riconducibile alle logiche dettate dal consumismo. Quanti tentando di evitare il sistema prevalente sarà escluso in quanto oggi inizia a venir meno l’identità delle persone in quanto prevale la logica dei numeri.  In questo scenario, contrariamente al passato, le aree demograficamente meno popolate divengono una centrifuga che spinge fuori le giovani generazioni, vittime della disoccupazione e dei consumi ma al contempo in possesso di una cultura medio-alta non esprimibile nel territorio di appartenenza. Oggi non si parte perché manca il pane sulla tavola oppure perché si è tanti in famiglia e il raccolto non basta per soddisfare le esigenze di tutto il nucleo familiare. Si parte per mettere in pratica le proprie competenze in quei luoghi dinamici, veloci e famelici di competenze e voglia di guadagnare in proporzione alla capacità di essere innovatori. Questa è una tra le narrazioni poco affrontate dai decisori politici. L’acuirsi di questa dinamica, forse nei prossimi dieci anni, diverrà uno tra i motivi mediante la quale si determinerà una ulteriore decrescita per il nostro Meridione, sempre più lontano dalla capacità di immaginare il futuro e sempre meno popolato da persone impegnate ad anticiparne le soluzioni, per contenere il divario Nord-Sud e azionare segnali di ripresa.  

Naturalmente, alla crescita della disoccupazione, le località più esposte a tali fenomeni scelgono di far fronte alle necessità delle popolazioni ricorrendo al minor prezzo di beni e servizi, i primi provenienti da mercati esteri nei quali il basso costo della manodopera e l’alta capacità produttiva rende possibili forniture senza limiti, i secondi, ricorrendo a personale con minori competenze e quindi pronte ad accontentarsi di poco. Nell’insieme, inconsapevolmente, si alimentano ulteriori opportunità di malessere e voglia di emigrare. In questo ultimo passaggio, si cristallizza con puntualità quanto previsto da Pier Paolo Pasolini nel secolo scorso attraverso la lungimirante previsione delle nuove instabilità sociali dettate non più dalla sopraffazione, come avvenne nel corso del Ventennio, ma dalla privazione, fenomeno per il quale, parimenti alla dipendenza da sostanze stupefacenti, l’essere umano vive l’astinenza con forte senso di malessere e per potersi liberare da ciò, in assenza di altri rimedi, non sono escluse le devianze e soprattutto non sono esclusi i casi di suicidio e il ritorno alle divisioni sociali, circostanze per le quali verrà generato il miglior territorio utile all’affermazione dell’anomia, già oggetto di studio da parte di uno dei padri della sociologia e oggi poco considerato quale utile lettura in chiave epistemologica di una realtà propensa alla degenerazione.

Ancora una volta, sarà possibile individuare le risposte alla criticità future attraverso la lettura della storia e considerando l’attuale periodizzazione come naturale evoluzione del tempo preso in esame riconducendolo nell’alveo di una società liquida, incessantemente stimolata dal consumismo e dalla crescente mancanza di quel senso della misura donatoci dall’antica civiltà greca, dalla quale noi Calabresi custodiamo ampie risorse individuabili come virtù. (fr)

[Francesco Rao è docente a contratto cattedra di sociologia generale Università “Tor Vergata” – Roma]

RILANCIARE I SITI INDUSTRIALI DISMESSI
LA CHIAVE DI SVOLTA PER L’ARCO JONICO

di DOMENICO MAZZA – Ciclicamente la Questione Meridionale torna alla ribalta. Oggi, poi, in piena stagione Pnrr, il tema acquisisce anche rinnovata valenza. Abbiamo un termine perentorio: fine ’26. Poco meno di due anni e mezzo per cercare di riequilibrare il Paese; rettificare le sperequazioni tra nord e sud e consentire a chi rimasto indietro di procedere alla stessa velocità di chi invece viaggia spedito.

Non basteranno piogge di finanziamenti, il più delle volte parcellizzati e dilapidati in mille rivoli, a consentire al Mezzogiorno di equipararsi al resto del Paese. Non sarà tanto la quantità di spesa investita al Sud Italia a fare la differenza, ma la capacità che questo spicchio di territorio avrà di attrarre finanziamenti invoglianti le imprese, italiane ed europee, ad investire in una terra, per certi versi, larva di sé stessa.

Commettere l’errore di pensare il Recovery Plan come una spesa risarcitoria ai torti subiti negli anni non renderà il Sud un posto migliore. Piuttosto, sarebbe opportuno approcciarsi attivamente all’idea di sovvenzioni finanziare atte a facilitare interventi pubblico-privati. Le richiamate sovvenzioni, invero, potrebbero riverberare benessere e stabilire un deterrente reale all’esodo incontrollabile che, altrimenti, nel giro di 30 anni, porterà il Mezzogiorno all’abbandono totale. Bisognerà studiare, quindi, condizioni che rendano conveniente, per i capitali privati, l’investimento nelle aree del sud, senza pensare ad incentivi distorsivi.

L’Arco Jonico ha un’opportunità unica: rilanciare i siti industriali dismessi. La loro rigenerazione e il rilancio funzionale rispetto la primaria fonte di sostentamento del territorio rappresentata dall’agricoltura, potrebbe essere la chiave di svolta per una rinnovata prospettiva del territorio. Sarà necessario svecchiare il processo di produzione agricola e modernizzarlo in ottica di produttività e filiera aziendale. Non basta raccogliere il prodotto al fine di inviarlo su altre piazze perché questo venga lavorato.

Andranno creati processi industriali puliti per riverberare lavoro, al fine di aumentarne significativamente l’offerta. Bisognerà avere il coraggio di fare qualcosa mai fatta prima per riscrivere la storia di un terriorio dalle innate potenzialità, ma spesso dimenticato. Solo così si potrà cambiare il paradigma che vuole uno dei territori più promettenti del Mezzogiorno avviato a processi di periferizzazione, causa decenni di politiche centraliste. I sistemi per invertire la tendenza ci sono, ma vanno saputi pianificare. Non saranno le piccole operazioni di restiling conservativo a declinare in maniera differente le sorti economiche di un territorio.

Sull’adriatica Pugliese, nella stesura del dedicato Cis (Contratto istituzionale di sviluppo), non hanno pensato a progetti di piccolo cabotaggio. Paesi, Città, Enti di secondo livello, Regione, hanno lavorato in sinergia mettendo a terra un progetto che riverserà circa 600 milioni tra gli ambienti rivieraschi delle Province di Lecce e Brindisi.

Si abbia il coraggio di mettere attorno ad un tavolo i Presidenti delle 5 Province che si affacciano sulla baia jonica. Si allarghi ai Sindaci dei Comuni demograficamente più rappresentativi, ai Presidenti delle regioni Puglia, Calabria e Basilicata e si lanci l’idea di un progetto unitario e coerente per tutto l’Arco Jonico calabro-appulo-lucano.

Porti, distretti agroalimentari, siti industriali (attivi e dismessi) possono realmente rappresentare il ragionevole tasso di interesse per creare un deterrente all’emorragia demografica in atto.

Solo ragionando per aree ad intessere comune, dando vita a reali processi di coesione territoriale, si potranno creare i presupposti per attrarre investimenti.

Contrariamente, il destino della Sibaritide, del Crotonese, così come di tutti gli altri ambienti che si affacciano sulla baia jonica, sarà quello di restare piccole aree dalle innate potenzialità, ma incapaci di offrire un futuro ai propri figli. (dm)

IL PAESE CRESCE MA IL SUD S’IMPOVERISCE:
IN 20 ANNI PERSI QUASI 1 MLN DI RESIDENTI

di PIETRO MASSIMO BUSETTA –  Quasi un milione  in meno nel Sud, dal 2004 al 2024, in un Paese che complessivamente cresce nello stesso periodo  di poco più di un milione di residenti. Crescono infatti tutte le ripartizioni tranne Sud e Isole. 

 Le regioni più esteticamente dinamiche la Lombardia, ( +847.000), il Lazio (+534.000), il Veneto (+229.000), l’Emilia-Romagna (+375.000); quelle più penalizzate la Sicilia (-183.000), la Puglia (-144.000), la Campania(-141.000). 

Dicevo esteticamente dinamiche perché il loro tasso di crescita è sempre molto basso e l’aumento della loro popolazione deriva da una forma di cannibalismo nei confronti del sud del Paese, che nasconde il problema importante di una realtà  in declino. 

Le motivazioni che stanno alla base della decrescita delle due parti non sono totalmente differenti. In realtà vi è una base comune ed è la mancanza di politiche attive per la famiglia, che rendono la procreazione non un interesse collettivo ma esclusivamente un bisogno del singolo, che poco interessa alla società. 

Politiche attive totalmente dimenticate e che ci rendono differenti dagli altri grandi paesi europei. Francia, Gran Bretagna e Italia che  fino a qualche anno fa avevano la stessa popolazione. Oggi le altre due cugine si avviano verso i 70 milioni, anche per una maggiore presenza di extracomunitari, mentre noi ci discostiamo sempre più dai 60 milioni raggiunti nel 2010( 60.626. 000). 

Capire che la famiglia non è solo un bene dei singoli ma anche un bene collettivo è un passaggio che solo recentemente ha  cominciato ad essere un pensiero condiviso. Fino a soli pochi anni fa sembrava che lo Stato dovesse essere indifferente alle nascite  e quindi non dovesse assistere e proteggere le coppie nella fase procreativa.  

Con lo sviluppo economico, come accade in tutti i paesi del mondo, si pensi che addirittura in Cina hanno legiferato per imporre alle famiglie un solo figlio quando erano poveri, sono cominciate a diminuire le nascite. Per cui tutti i paesi occidentali, industrializzati, hanno cominciato con politiche di protezione delle famiglie e di assistenza alle giovani coppie per incoraggiarle a procreare. 

Tra tali provvedimenti vanno ovviamente compresi quelli relativi alla disponibilità di posti pubblici  negli asili nido, che  aiutano le famiglie a crescere i figli con costi più contenuti, e che al Sud sono stati sempre molto carenti. 

Per fortuna con il Pnrr, modificato recentemente,  adesso gli asili nido non dovrebbero andare più al bando, come era stato previsto nella prima fase, ma come é corretto le nuove strutture vengono assegnate alla realtà che ne sono più carenti, cioè inferiore al livello essenziale di prestazione fissato dal 2022 a 33 posti ogni 100 bambini di età 3-36 mesi. Finalmente un provvedimento che recupera 735 milioni di euro e li mette a disposizione di 401 Comuni, con l’obiettivo di realizzare oltre 30mila nuovi posti.

Al Sud ai tassi di fecondità, che andavano diminuendo, e che portavano a una diminuzione delle nascite si é  aggiunto l’effetto dei tassi di emigrazione,  che sono progressivamente aumentati. 

Ogni anno ci dice la Svimez che 100.000 mila ragazzi formati, con un costo complessivo per le realtà di riferimento di oltre 20 miliardi, vanno via dal Mezzogiorno, con un “regalo” a carico delle realtà regionali meridionali, che si ritrovano a dover affrontare i costi che vanno dalla procreazione fino al momento in cui i ragazzi diventano produttivi, per poi regalare il frutto di tanti sforzi alle regioni settentrionali e spesso anche a molti altri paesi comunitari, che offrono condizioni complessive di diritti di cittadinanza più interessanti. 

D’altra parte pensare di trattenere i giovani nelle loro realtà di provenienza quando non trovano lavoro, non hanno un diritto alla mobilità, né ad una sanità adeguata ,diventa impossibile. 

Non si vive di solo sole, mare e aria pulita. Complessivamente il Paese, pur avendo discreti incrementi nelle regioni settentrionali, perde peso all’interno dell’Unione Europea sia in termini demografici che di conseguente Pil prodotto. 

Ma è un ragionamento che parte dal Nord, che poi è la  classe dirigente che indirizza il nostro Paese, che non riesce a capire e che pensa di salvarsi guardando al proprio giardino di casa, esaltando una loro supposta etnia di Veneti o di Lombardi o di Emiliani Romagnoli, con la ricerca di un’autonomia differenziata che pensano potrà salvarli, non capendo che in realtà il processo sul quale siamo incamminati fa affondare tutti. 

La risposta vera al declino demografico del nostro Paese va data su due piani: il primo è quello di politiche attive per la famiglia che rendano la procreazione una gioia così come dovrebbe essere e non un impegno economico che la impoverisce.

Il secondo piano è quello relativo ad un migliore equilibrio economico che aiuti i giovani meridionali a rimanere nelle loro realtà, dove peraltro hanno una rete familiare di aiuti, costituita anche dai nonni.

L’occasione del Pnrr, che è stata data al nostro Paese fondamentalmente per diminuire i divari, malgrado una vulgata interessata che tenta con azioni conseguenti di distorcere gli obiettivi per riportare le risorse alla, una volta chiamata, locomotiva del Paese, costituita dall’apparato Tosco, Emiliano Romagnolo, Lombardo, Veneto, va, con azioni simili a quella recente sugli asili nido, che supera le difficoltà dell’amministrazione periferiche meridionali.

Oltre che a fare in modo di potenziare le tre gambe su cui dovrebbe basarsi lo sviluppo del Mezzogiorno costituite dalla logistica, dal manifatturiero e dal turismo, in modo da offrire a molti più giovani la possibilità di un progetto di vita, eliminando la tentazione sempre presente di essere estrattivi rispetto ad un territorio che, grazie anche agli ascari abbondanti presenti, non riesce a difendersi adeguatamente. 

Guardare al positivo che nasce non ci deve far dimenticare che i problemi strutturali sono talmente rilevanti e riguardano un territorio così ampio che il rischio della sindrome delle eccellenze, che vanno adeguatamente raccontate e valorizzate, può diventare estremamente pericolosa. (pmb)

[Courtesy Il Quotidiano del Sud – L’Altravoce dell’Italia]

 

L’OPINIONE / Maria Elena Senese: La Calabria ha bisogno di un piano contro emigrazione giovanile

di MARIA ELENA SENESE – La Calabria è una regione ricca di risorse umane e potenziale economico, tuttavia, l’emigrazione giovanile verso il Nord Italia e l’estero rischia di compromettere il futuro della nostra terra. Giovani le cui speranze vengono tradite dal Governo che, all’interno delle leggi di bilancio, non si cura di definire con esattezza le voci di spesa rivolte specificatamente ai giovani.

Persiste, infatti, il problema della esatta quantificazione della spesa pubblica destinata ai giovani e questo nonostante la presenza di un Dicastero dedicato alle politiche giovanili e nonostante l’introduzione nel bilancio dello Stato, come riscontrabile nell’ultimo report editato dall’Osservatorio nazionale della gioventù, della nuova voce “Incentivazione e sostegno alla gioventù”.

Di fronte a questa realtà preoccupante, come Uil proponiamo alla Regione Calabria la realizzazione di un piano d’azione mirato per contrastare l’emigrazione giovanile e offrire nuove occasioni di lavoro alle giovani generazioni.

Tenendo nella debita considerazione il fatto che, in questi anni, i fondi del Piano nazionale di ripresa e resilienza e la messa a terra della dotazione finanziaria messa a disposizione dall’Europa e dal Governo dovranno servire per riscrivere il presente e disegnare il futuro della Calabria.

Tra le principali proposte trova spazio lo sviluppo di un percorso di formazione duale: associando l’istruzione scolastica con l’apprendistato pratico presso le imprese.

Ma anche la promozione dell’imprenditorialità giovanile, attraverso incentivi fiscali, agevolazioni burocratiche e accesso facilitato al credito. Incentivare la creazione di start-up innovative e sostenibili, supportando i giovani imprenditori con programmi di tutoraggio e formazione manageriale.

La Uil Calabria, poi, ritiene indispensabile il potenziamento delle infrastrutture regioni. L’obiettivo da raggiungere dovrà essere quello di investire nel potenziamento delle infrastrutture di trasporto e connettività digitale, migliorando l’accessibilità della Calabria e facilitando gli scambi commerciali e il turismo. Questo favorirà la creazione di nuove attività economiche e l’attrazione di investimenti Sarà importante favorire la collaborazione tra il settore pubblico e privato per identificare opportunità di investimento e sviluppo economico, promuovendo partenariati tra imprese, istituzioni educative e enti di ricerca per favorire l’innovazione e la creazione di nuove imprese.

Infine, promuovere l’integrazione sociale e lavorativa dei migranti presenti sul territorio calabrese, offrendo percorsi di formazione linguistica, professionale e culturale che favoriscano la loro inclusione nella società e nel mercato del lavoro locale.

Implementare queste misure richiederà un impegno congiunto e coordinato da parte del governo regionale, delle istituzioni locali, delle associazioni di categoria e della società civile. È essenziale adottare politiche lungimiranti e sostenibili che possano garantire un futuro prospero e inclusivo per la Calabria e per le sue giovani generazioni

Per questo, la Uil Calabria invita il governo regionale, le istituzioni locali, le associazioni di categoria e la società civile a collaborare attivamente per implementare queste proposte e adottare politiche lungimiranti e sostenibili che possano garantire un futuro prospero e inclusivo per la Calabria e per le sue giovani generazioni. (mes)

[Maria Elena Senese è segretaria generale di Uil Calabria]

DENATALITÀ, LA CALABRIA SEMPRE PRIMA
MENO NASCITE E CRESCE L’EMIGRAZIONE

di FRANCESCO AIELLO – I dati pubblicati dall’ISTAT sugli Indicatori Demografici del 2023 forniscono nuovi ed interessanti elementi di valutazione sulla dinamica della popolazione italiana che nel corso del 2023 ha abbattuto la soglia psicologica dei 59 milioni di residenti. Infatti, l’ISTAT stima che all’1 gennaio 2024 la popolazione si attesta a 58.990.000 residenti, registrando una diminuzione di 7.000 persone rispetto all’anno precedente. Questo dato conferma il persistente trend negativo iniziato nel 2014, con un tasso di decrescita annuale pari a -2.8 per mille.  Il report dell’ISTAT offre numerosi spunti di riflessione, il primo dei quali è rappresentato dalla dinamica delle iscrizioni nette dall’estero, che in Italia nel 2023 sono state pari a +274.000 individui, rappresentando un elemento di contenimento della riduzione complessiva della popolazione. Il saldo migratorio dall’estero è in crescita (+166.000 stranieri nel 2022) e continua a svolgere un ruolo cruciale nel mitigare la perdita di popolazione residente: nel 2023, con un tasso di mortalità dell’11.2 per mille superiore al tasso di natalità del 6.4 per mille, si è avuto un tasso di crescita naturale pari a -4.8 per mille che, per l’appunto, è stato quasi interamente compensato dal saldo migratorio dall’estero (+6.4 per mille).

I dati per regione. Nel 2023, l’Italia ha assistito a variazioni demografiche differenziate tra le sue regioni, riflettendo una complessa rete di fattori economici e sociali che alimenta tale differenziazione. Mentre alcune regioni, come la Lombardia (4.4 per mille) e l’Emilia-Romagna (4 per mille), hanno registrato una crescita della popolazione, tutte le regioni del Mezzogiorno d’Italia hanno sperimento una riduzione dei residenti, con tassi anche rilevanti: -2.1 per mille in Abruzzo, -3.5 per mille in Campania, -4-1 per mille in Sicilia, -4-2 per mille in Molise, -4.5 pe mille in Puglia, -4.6 per mille in Calabria, -5.3 per mille in Sardegna e -7.4 per mille in Basilicata.

Queste disparità sulla dinamica della popolazione dipendono da differenze riguardo alle migrazioni e alle dinamiche naturali.

La figura in basso riporta i valori della crescita naturale della popolazione, il tasso di crescita della migrazione interna e delle iscrizioni nette di stranieri. Ciò che emerge con chiarezza è che la crescita naturale è ovunque negativa, a segnalare il fatto che il tasso di natalità è stato sempre inferiore al tasso di mortalità. Nel Centro-Nord, questa riduzione “naturale” della popolazione regionale è compensata dai tassi migratori interni ed esteri positivi, mentre, nelle regioni meridionali, si è avuto un incremento delle iscrizioni nette di straniere, ma contestualmente i tassi di migrazione interna sono stati significativamente negativi.

I dati della Calabria. Nel 2023 le nascite in Calabria hanno registrato una diminuzione dell’1.5%, contribuendo al declino della popolazione regionale che si è attestata a 1.838.000 individui (-4.6 per mille abitanti rispetto al 2022). Questo risultato negativo è stato influenzato dai valori del tasso migratorio totale e del tasso di crescita naturale della popolazione.

l’aumento delle iscrizioni nette dall’estero, con un tasso migratorio estero pari a +5.31 per mille, non è stato possibile ottenere un saldo migratorio totale positivo (risultando negativo a -0.1 per mille), a causa del persistente tasso migratorio interno. Quest’ultimo, relativo ai cambi di residenza dalla Calabria verso altre regioni e viceversa, si è attestato nel 2023 a -5.39 per mille. Per quanto riguarda la dinamica naturale della popolazione calabrese, nel 2023 si è registrato un  tasso di crescita naturale negativo di -5,31 per mille, risultante da un tasso di natalità del 7,2 per mille e un tasso di mortalità del -11,7 per mille (Figura 2) .

Emerge con forza la conferma della tendenza di lungo periodo che, purtroppo, vede la Calabria perdere residenti, con il rischio concreto di diventare sempre più piccola, impoverita e dipendente dall’assistenza pubblica. D’altra parte i recenti dati pubblicati dalla SVIMEZ avvalorano questa previsione, evidenziando il deterioramento della nostra regione nella Classifica europea del PIL pro capite, il quale è principalmente legato alla nostra incapacità di implementare politiche di sviluppo capaci di valorizzare settori in cui abbiamo margini di competitività, anche sui mercati internazionali. Le responsabilità sono diffuse, ma un ruolo significativo è svolto dall’atteggiamento culturale dei Calabresi, i quali sembrano vivere in un’eterna attesa di azioni risolutive da parte di attori esterni. (fai)

(Courtesy OpenCalabria)

Francesco Aiello è Professore Ordinario di Politica Economica presso il Dipartimento di Economia, Statistica e Finanza “Giovanni Anania” dell’Università della Calabria. Attualmente insegna “Politica Economica” al corso di Laurea in Economia ed “Economia Internazionale” al corso di Laurea Magistrale in Economia e Commercio. La sua attività di ricerca è centrata sui temi della Ricerca e dell’Innovazione, twin transition, dei divari di sviluppo in Italia e in Europa, sull’analisi micro-econometrica dell’efficienza e della produttività e sulla valutazione dell’impatto delle politiche pubbliche. È autore di numerosi saggi scientifici pubblicati su riviste nazionali e internazionali. Accanto all’attività prettamente accademica, si interessa di economia locale e di attività di divulgazione economica. Nell’estate del 2015 ha fondato OpenCalabria.com, uno spazio dedicato ai temi di “Economia e Politica dello Sviluppo” della Calabria.

L’EMIGRAZIONE, IL TRISTE FENOMENO CHE
ARRICCHISCE IL NORD AI DANNI DEL SUD

di PIETRO MASSIMO BUSETTA – «Attualmente  la stragrande maggioranza degli interventi viene effettuata con tecniche chirurgiche d’avanguardia e mininvasive, grazie alla laparoscopia con visione tridimensionale ed alla chirurgia robotica. Queste  competenze hanno permesso di trattare moltissime patologie in maniera ottimale e secondo i più alti standard terapeutici nazionali ed internazionali». Lo afferma Alfredo Ercoli, professore ordinario di Ginecologia ed Ostetricia e direttore della Scuola di Specializzazione in Ginecologia ed Ostetricia e direttore dell’Uoc di Ginecologia ed Ostetricia del Policlinico ‘G. Martino’. Di Padova? Eh no. Non ci crederete ma parliamo di Messina. 

Contraddicendo tutti coloro, molti di questi meridionali, che se hanno un problema di salute pensano che il miglior modo di risolverlo sia quello di comprare un volo low cost per il Nord. 

In realtà tutti sanno che le eccellenze sanitarie  in termini individuali sono certamente presenti in tutto il Paese. Ma mentre al Nord il sistema sanitario ha una organizzazione complessiva, che garantisce il malato in tutti i momenti della sua degenza spesso, invece,  nelle strutture meridionali a fianco alle eccellenze professionali vi è una realtà complessiva che non è all’altezza delle individualità, anche eccellenti, che vi operano. Tale situazione  di mobilità comporta un costo per la regione che subisce il trasferimento ed un vantaggio per chi invece accoglie i pazienti. 

Infatti le amministrazioni, che fanno parte del sistema sanitario nazionale, rifondono a quelle che accolgono i costi sostenuti per prestare le cure richieste. Anzi le strutture di accoglienza si sono organizzate in maniera tale che non vi siano liste di attesa per chi arriva da fuori, che invece permangono per i residenti, in modo da incoraggiare i pazienti alla emigrazione sanitaria. 

Un sistema messo a punto non solo per quanto attiene alla sanità ma anche per la formazione, che le Università del Nord offrono agli studenti del Sud. Recentemente il politecnico di Torino si preoccupava della bassa natalità del Sud, perché tale fenomeno avrebbe comportato una minore richiesta di iscrizione da parte degli studenti meridionali. 

Anche in questo caso il prezzo che viene pagato dal sistema economico meridionale è estremamente alto. Perché non riguarda solamente il costo dell’iscrizione presso le università, ma anche il costo del soggiorno che aiuta i sistemi economici di Pisa, di Bergamo o di Brescia, con una richiesta di affitto da parte dei pendolari, per tutti gli anni della frequenza.

Non solo ma a chiusura del periodo formativo, quando gli emigranti troveranno quel lavoro per il quale hanno deciso la frequenza nelle università settentrionali, i genitori compreranno magari una casa, vendendo quella posseduta, diminuendo enormemente il valore del patrimonio immobiliare del Sud, come sta avvenendo, e aumentando quello del Nord. 

Insomma il conto complessivo è di quelli che sembra incredibile. Il primo importo è quello relativo al costo della formazione dei 100.000 che ogni anno si trasferiscono per lavorare al Nord.

La maggior parte di essi ha una formazione universitaria. In media possiamo dire, considerato che vi sono anche delle professionalità senza titolo di studio,  che la formazione è quella media  superiore. 

Il costo complessivo per far nascere, crescere e formare  un giovane in modo che possa cominciare a lavorare è di circa 200.000 €, che moltiplicati per i 100.000 che ogni anno se ne vanno fa una somma vicina ai 20 miliardi di euro, che le regioni meridionali regalano a quelle del Nord, in prevalenza. In realtà vi sono anche le migrazioni internazionali che andrebbero sottratte a questa cifra. 

In questi anni è cresciuta anche la migrazione sanitaria dalle regioni del Sud a quelle del Nord con 4,25 miliardi di euro che si spostano verso il Nord. 

A Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto il 93,3% del saldo attivo. Il 76,9% del saldo passivo grava sul Centro-Sud. Delle prestazioni ospedaliere e ambulatoriali erogate in mobilità oltre 1 euro su 2 va nelle casse del privato.

Il Miur ha annunciato che nell’anno accademico 2022-23 ci sono state 331 mila immatricolazioni (147 mila maschi, 184 mila femmine). È una cifra costante negli ultimi anni. Il 25 per cento di studenti meridionali fuori sede si traduce in oltre 82 mila partenze. Applicando il criterio di spesa prudenziale dei 30 mila euro l’anno per ogni studente, il prodotto della moltiplicazione è di 2,47 miliardi di euro in fondi privati trasferiti dal Sud al Centro-Nord. 

Facendo la somma di tutte queste risorse andiamo verso i 30 miliardi annui che vengono trasferiti che, sommati ai 60 di spesa pro capite differente, calcolata dal dipartimento per le politiche di coesione, fanno  una somma complessiva di circa 90 miliardi annui. 

Pensate che qualcuno voglia rinunciare alla mucca grassa che si trova a mungere senza opporre resistenza? Sarà difficile.       Ovviamente l’autonomia differenziata porterà ad una aggravamento di questa situazione. Poiché avendo a disposizione meno risorse la sanità meridionale non potrà che peggiorare, mentre quella settentrionale avrà un standard sempre più di livello. 

Stessa condizione subirà la formazione universitaria, mentre l’impossibilità di trovare livelli adeguati di occupazione nel Sud alimenterà il processo migratorio dei giovani formati meridionali.

É uno schema tipico delle colonie che sarà difficile ribaltare senza interventi decisi e continuati, che non si vedono all’orizzonte. Bisogna comunque sottolineare che in parte tali  spostamenti sono dovuti a una reale differenza di assistenza o di formazione.

Ma nella maggior parte dei casi dipendono da una cattiva reputazione che le  strutture sia mediche che formative, al di là della loro reale valenza, in alcuni casi per loro colpa effettiva,  in altri per una vulgata cavalcata dagli interessi di chi vuole alimentare i trasferimenti, si sono “guadagnate”. (pmb)

[Courtesy Il Quotidiano del Sud – L’Altravoce dell’Italia]