SPOPOLAMENTO E INVERNO DEMOGRAFICO
LA CALABRIA STA PERDENDO LA SUA GENTE

di FRANCESCO AIELLO – Nel periodo compreso tra il 2010 e il 2020, il tasso annuo di crescita composto della popolazione italiana è stato pari a -0,59%. Questo significa che, nei 7.908 comuni analizzati, la popolazione residente è diminuita complessivamente del 5,9%, passando da 60,58 milioni nel 2010 a 59,23 milioni di abitanti nel 2020. Lo spopolamento ha continuato a manifestarsi anche negli anni successivi: al 1° gennaio 2024, la popolazione italiana si è ulteriormente ridotta a 58,99 milioni di residenti.

L’analisi delle statistiche comunali permette di esaminare le dinamiche demografiche per specifici gruppi di comuni, aggregando i dati per localizzazione, dimensione e zona altimetrica. Questo approccio consente di verificare regolarità empiriche sullo spopolamento, offrendo una descrizione più chiara di come il fenomeno possa essere più pronunciato in determinate categorie di comuni o aree geografiche. Per esempio, se da un lato osserviamo che nel periodo 2010-2020 lo spopolamento è diffuso in tutta Italia, le variazioni dei residenti sono diverse a seconda dell’area geografica considerata. Il Sud e le Isole risultano le aree più colpite, con un calo medio annuo dello 0,88%, seguite dal Centro (-0,67%) e dal Nord (-0,42%). Nei dieci anni considerati, la popolazione residente nei comuni del Sud è diminuita complessivamente dell”8,8%, quella del Centro del 6.7% e quella del Nord del 4,2%.

Differenze molto marcate si osservano anche quando i comuni si raggruppano in due categorie, a seconda se ricadono o meno in un’area interna. In media, si ottiene che i comuni di aree interne registrano una riduzione demografica più elevata dei residenti (-0,85% all’anno) rispetto allo spopolamento delle aree urbane (-0,24% all’anno). Analoghe differenze dei valori medi nazionali si ottengono aggregando i comuni per zona altimetrica. In tale ambito, le zone montane registrano una contrazione della popolazione dello 0,83% annuo, mentre nelle zone collinari il calo è dello 0,63%. Per i comuni localizzati in pianura lo spopolamento esiste sì, ma è più contenuto, con una riduzione demografica dello 0,26% annuo. Un ultimo elemento che è utile considerare è la dimensione dei comuni. I comuni più piccoli sono quelli che soffrono maggiormente il fenomeno, registrando un tasso di spopolamento dell’1,35% annuo nel caso dei 998 nano comuni italiani (13% del totale), ossia quelli con una popolazione inferiore nel 2020 a 500 abitanti. In questi comuni, la popolazione è complessivamente diminuita del 13,5%. Man mano che cresce la dimensione dei comuni, il tasso di decrescita si attenua; i comuni con oltre 10.000 abitanti, infatti, presentano tassi di diminuzione molto più contenuti.

Questi dati mostrano chiaramente che il declino demografico è, in media, più accentuato nelle aree interne, montane e nei piccoli comuni, rispetto a quelli urbani, pianeggianti e di maggiori dimensioni. Tuttavia, nonostante questa analisi evidenzi importanti tendenze generali, non permette di distinguere le dinamiche demografiche tra diverse tipologie di comuni, come quelle delle aree interne del Sud rispetto al Centro-Nord. Classificazioni più granulari dei comuni consentirebbero di ottenere informazioni utile per verificare, per esempio, se i piccoli comuni delle aree interne del Sud si spopolano più rapidamente rispetto ai piccoli comuni del Centro-Nord. Oppure se le aree interne del Nord presentano andamenti diversi da quelle del Sud al variare della popolazione comunale. La figura 2 riporta alcuni risultati che aiutano a comprendere meglio la “geografia” dello spopolamento dei comuni italiani.  La figura mostra il tasso annuo di crescita composto della popolazione nei comuni italiani tra il 2010 e il 2020, suddiviso per area geografica (Centro, Nord, Sud-Isole), dimensione (classi di popolazione residente) e classificazione Snai (Poli e Comuni Cintura rispetto alle Aree Interne).

Emerge, chiaramente, che sia la collocazione geografica sia la dimensione dei comuni influenzano il fenomeno dello spopolamento. Tuttavia, l’effetto dimensione sembra prevalere. Infatti, in tutti i contesti geografici e territoriali, i comuni più piccoli subiscono le perdite demografiche più consistenti, con tassi di declino che superano l’1% annuo. È un fenomeno che è più accentuato nel Mezzogiorno d’Italia rispetto al resto del paese. Al contrario, i comuni più grandi (oltre 10.000 abitanti) registrano tassi di spopolamento molto più contenuti e, in alcuni casi, stabili, qualsiasi sia l’aggregazione territoriale che si considera. Le Aree Interne mostrano una maggiore vulnerabilità, con i piccoli comuni che soffrono le perdite più significative, mentre i poli urbani e i comuni cintura tendono a subire un calo più moderato (Figura 2). Tuttavia, anche all’interno delle Aree Interne, la dimensione del comune resta un fattore determinante: i piccoli centri sono i più colpiti, mentre i comuni più grandi riescono a mitigare gli effetti dello spopolamento.

L’analisi esplorativa dei dati sulla popolazione comunale evidenzia come la dimensione dei comuni sia un elemento cruciale per rappresentare meglio la distribuzione dello spopolamento. I maggiori tassi di riduzione della popolazione si registrano, infatti, nei comuni più piccoli, indipendentemente dalla loro posizione geografica, mentre quelli di maggiori dimensioni mostrano una maggiore resilienza. Una prima implicazione di questa analisi è la necessità di ripensare la tradizionale suddivisione tra aree interne e non interne come criterio per spiegare la distribuzione dello spopolamento in Italia.

L’approccio dicotomico “aree interne-aree non interne” potrebbe non essere del tutto adeguato per comprendere la complessità del fenomeno. Piuttosto, sembra che la dimensione del comune svolga un ruolo importante nel determinare la vulnerabilità allo spopolamento. Di conseguenza, la seconda implicazione è che l’attenzione dovrebbe essere rivolta ai vincoli e ai costi gestionali ed organizzativi che emergono nell’offerta di servizi pubblici nei piccoli comuni. Questi vincoli di inefficienza derivano proprio dalla loro ridotta dimensione e possono essere affrontati attraverso una riforma della governance territoriale, ridefinendo gli assetti istituzionali dei piccoli comuni. Indipendentemente se ricadono in aree interne. (fa)

[Francesco Aiello è professore ordinario di Politica Economica all’Unical]

(Courtesy OpenCalabria)

QUANTO PESERÀ L’INVERNO DEMOGRAFICO
SULLE FUTURE GENERAZIONI DI CALABRESI

di PIETRO MASSIMO BUSETTA“Il nostro inverno demografico”, che è una definizione che fa un po’ paura, è cominciato da molto. E  sa tanto  di un letargo lungo, che non prelude però ad una primavera, ma invece ad un processo inesorabile di involuzione verso l’estinzione. 

 In realtà,  gli Italiani che vivono nel nostro Paese rappresentano soltanto meno dell’1 × 1000 della popolazione complessiva mondiale. La nostra estinzione potrebbe essere irrilevante e certamente, in ogni caso,  laddove si producono dei vuoti immediatamente essi vengono riempiti. Ma che è un popolo, voglia continuare ad avere una sua identità, ad avere una politica demografica tale da non estinguersi, con tutte le sue tradizioni e la sua storia,  è non solo legittimo ma certamente opportuno. 

Per questo è stata salutata con molto entusiasmo l’incontro sulla natalità che si è svolto a Roma. E Papa Bergoglio e  la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni bene hanno fatto ad essere stati ospiti della giornata conclusiva degli Stati Generali della Natalità. Insieme sul palco dell’Auditorium della Conciliazione hanno parlato di famiglia. 

Anche se non dobbiamo dimenticare che tutto quello che si farà da oggi in poi avrà effetto soltanto, per esempio sul mercato del lavoro, fra diciotto- vent’anni. E che il prossimo futuro demografico, quello più vicino a noi, è stato già scritto.  

La mancanza di figli stimola psicologi e sociologi a cercare le motivazioni profonde di un processo che riguarda in generale tutte le popolazioni che, laddove raggiungono livelli economici più avanzati e tenore di vita più confortevoli,  sono portati a diminuire il numero di figli, o a non averne  addirittura. 

D’altra parte qualcuno dice che oggi avere figli è un privilegio di chi se lo può permettere, considerato che una filiazione consapevole prevede un impegno, non solo economico, estremamente rilevante. Ma se l’Italia nel suo complesso piange il Sud è in un affanno più grande. 

L’inverno demografico che colpisce l’Italia, e non ci si deve stupire che sia diventato il Paese a più basso indice di natalità in Europa, riguarda oggi soprattutto il Sud. E i dati sono a dir poco allarmanti. Il  decremento è di -6,3 per mille residenti a fronte di -2,6 per mille al Centro e di -0,9 del Nord. Evidentemente su questi dati vi è l’influenza dell’emigrazione economica verso le realtà settentrionali. 

Le Regioni meridionali sono tutte nelle prime posizioni della classifica della perdita  della popolazione. Mettendo a confronto i dati relativi ai nuovi nati e ai deceduti la Basilicata  nel 2022 ha un tasso di natalità per mille abitanti di 6 e di mortalità di 13, il Molise 5,8 nati e 14,7 deceduti, Sardegna 4,90 contro 13 e Calabria 7,30 su 12,4 decessi. Arretra anche la Puglia con 6,7 nati su 11,4 morti, la Campania  con 7,9 nuovi nati e 10,9 decessi e la Sicilia con 7,6 nuovi nati e 12,3 decessi. 

È chiaro che su tale processo  incide molto la mancanza di servizi sociali. Il numero limitato di asili nido, che spesso non consentono alle donne di lavorare, i pochi sostegni alle madri, che in altri paesi come la Francia sono molto consistenti. Ma anche la mancanza di lavoro che fa sì che al massimo in una famiglia ci sia un componente che ha una occupazione. 

La maggior parte di coloro che fanno parte della non forza lavoro sono proprio donne, magari istruite, alle quali non viene dato alcuna opportunità di un lavoro che sia consono al loro livello sociale ed alla loro formazione. Tale evidenza fa riflettere ancor di più sulle conseguenze di uno sviluppo anomalo del nostro Paese, che registra un processo migratorio importante da una parte all’altra,  che certo non aiuta ne incoraggia coloro che vogliono formarsi una famiglia. E che spesso si trovano a dover emigrare in realtà nelle quali, oltre alla carenza di welfare pubblico, viene a mancare anche la rete di protezione sociale rappresentato dalla famiglia.

Che certamente, parlo dei nonni, degli zii, se presente, costituisce un aiuto non indifferente soprattutto nei primi anni di vita dei bambini. Nel 2022 la diminuzione del numero medio di figli per donna riguarda sia il Nord 1,26,  sia il Centro pari a 1,16, che il Mezzogiorno che  si attesta anch’esso a 1,26. 

Purtroppo abbiamo distrutto quella tradizione di famiglia patriarcale, esistente ancora in passato nelle comunità meridionali, per cui in molti di noi vi è il ricordo di una nonna che aveva avuto anche otto-dieci figli. Per il Sud si prospetta una società che non riesce a mantenersi, per la mancanza di equilibrio tra nuove e vecchie generazioni, per cui diventa difficile il sostegno anche pensionistico di una popolazione con una vita media, per fortuna, sempre più lunga, ma proprio per questo con esigenze sempre più rilevanti di una sanità adeguata.

Peraltro la situazione è aggravata anche dal fatto che coloro che sono andati via per mancanza di lavoro, spesso, ritornano, dopo il pensionamento, nella loro terra di origine. Aggravando l’esigenza di sanità, già non adeguata per coloro che sono stati sempre residenti. 

Riflettere sulle condizioni già presenti, ma che si aggraveranno ulteriormente nei prossimi anni, non è un esercizio di puro studio ma deve avere conseguenze operative immediate che riguardino l’esigenza di una crescita consistente in tutte le parti del Paese, ed in particolare in quelle che hanno più possibilità di crescita.

Cosa assolutamente scontata tanto che lo stesso Luigi Einaudi già in un articolo  del 23 giugno del 1900 sul Corriere della Sera affermava riferendosi al Sud: «quando su un campo si sono già impiegati rilevanti capitali, torna più conveniente applicare i nuovi capitali non su di esso ma su nuovi campi trascurati prima perché ritenuti troppo sterili». 

Al di là di fattori sociali, di un sentire diffuso, l’aspetto economico di sopravvivenza, di servizi alla persona di diritti di cittadinanza diffusi ed adeguati diventano un elemento fondante di qualunque politica attiva per le famiglie. Compreso quel reddito di cittadinanza, ormai quasi cancellato, che darebbe ai cosiddetti occupabili maggiori certezze di poter affrontare periodi di difficoltà avendo un ombrello protettivo per superare momenti difficili.

Ma tutto questo prevede che vi sia una produzione di reddito adeguata alle tante esigenze di una società evoluta. L’Italia non può più accontentarsi di crescere allo zero  virgola qualcosa ma deve puntare a tassi di incremento consistenti. Per questo è necessario ripensare in grande, e in questa visione anche il Ponte sullo Stretto di Messina diventa oltre che lo strumento per il recupero dei traffici mediterranei anche il simbolo di una volontà di giocare negli scacchieri  internazionali un ruolo che ormai da anni abbiamo perso. (pmb)

[Courtesy Il Quotidiano del Sud – L’Altravoce dell’Italia]

IL LUNGO INVERNO DEMOGRAFICO D’ITALIA
IN CALABRIA SI RIVELA ANCORA PIÙ RIGIDO

di GIUSEPPE DE BARTOLO – Il Papa, il giorno dell’Epifania, durante l’Angelus, presentando la “lettera agli sposi”, è ritornato, con grande preoccupazione, sulla denatalità, sull’inverno demografico che colpisce molti paesi e soprattutto l’Italia. “Sembra che tante coppie- ha detto Papa Francesco- preferiscano rimanere senza figli o con un figlio soltanto”. Ed ancora: “Facciamo tutto il possibile per riprendere una coscienza, per vincere questo inverno demografico che va contro le nostre famiglie, contro la nostra patria, anche contro il nostro futuro”. Mattarella nel suo discorso di fine anno ha anch’egli sottolineto l’urgenza di “invertire i dati allarmanti sulla natalità”. Queste preoccupazioni si basano, com’è noto, su dati ormai ben consolidati: i rapporti che con regolarità l’Istat pubblica sulla natalità mettono in evidenza ogni volta un nuovo record negativo e non fa eccezione il Report pubblicato il 14 dicembre scorso che certifica il calo delle nascite anche nel 2021, calo che la pandemia ha ulteriormente accentuato. Nel 2020 i nati sono stati 404.892, 15 mila in meno rispetto al 2019 e, secondo i primi dati, ancorché provvisori, nei primi nove mesi del 2021 le minori nascite sono già 12mila e 500, quasi il doppio di quanto osservato nello stesso periodo del 2020. Il numero dei figli per donna nel 2020 è sceso a 1,24 rispetto al valore di 1,44 del periodo 2008-2010, periodo in cui si è registrato il massimo relativo della fecondità. Se poi si considera la fecondità delle donne residenti l’indice precipita addirittura a 1,17 figli, uno degli indici di fecondità più bassi al mondo! Se si pensa che per avere a la semplice sostituzione delle madri con le figlie è necessario un livello di fecondità di 2,1 figli, si comprende come sia “severo” nel nostro Paese l’inverno demografico richiamato da Papa Francesco e menzionato da Mattarella nel suo discorso. Ricordiamo che dal 2008 le nascite sono diminuite di ben 172mila unità nella quasi totalità dovute al calo delle nascite da coppie con entrambi i genitori italiani. È vero che dall’anno duemila questo trend è stato temperato dall’immigrazione straniera, ma va sottolineato che anche l’apporto positivo dell’immigrazione sta perdendo di efficacia man mano che invecchia il profilo per età di questa popolazione.

La bassa fecondità, che ha segnato gli ultimi quarant’anni, insieme con l’aumento della sopravvivenza – ricordiamo che la vita media alla nascita rispetto a mezzo secolo fa è aumentata di ben 10 anni – ci consegnano un Paese con un elevato invecchiamento demografico, tratto che condizionerà fortemente il prossimo futuro. Infatti, entro il 2050 si prevede che gli ultrasessantacinquenni potrebbero rappresentare ben il 35% della popolazione complessiva e ciò renderà ancora più necessario e urgente adattare le politiche di protezione sociale ad una quota di popolazione anziana sempre più numerosa.

In questo quadro la Calabria si troverebbe in un “inverno demografico” ancora più rigido. Infatti, nel 2050, secondo lo scenario mediano costruito dall’Istat, la nostra Regione potrebbe perdere 367mila residenti, pari al 19,4% della sua popolazione odierna, quasi il doppio di quell’11% in meno che l’Italia intera avrebbe nello stesso periodo. Inoltre, l’indice di vecchiaia, ovvero il rapporto tra anziani e giovanissimi aumenterebbe da 169% di oggi al 336% del 2050. Ricordiamo che oggi vaste zone della nostra Regione soffrono di un forte spopolamento e sono segnate da un invecchiamento molto severo che è destinato ad aumentare nel tempo, mettendo in grande difficoltà il debole tessuto economico-sociale già provato dalla pandemia in corso. Per esempio, in provincia di Cosenza il primo gennaio 2021 nel Comune di Alessandra del Carretto a fronte di un giovanissimo ci sono ben 12,5 ultrasessantacinquenni, a Carpanzano il rapporto è di 1 a 11, a Castroregio di 1 a 9; in provincia di Reggio Calabria, a Roccaforte del Greco il rapporto è di 1 a 11; in provincia di Crotone, a Carfizzi è di 1 a 8,7 e a San Nicola dell’Alto di 1 a 6.

Questo declino, come è stato sottolineato anche in altre occasioni, potrà essere contrastato solo se la questione demografica sarà assunta a vera e propria emergenza nazionale, costruendo una vera politica sociale e economica che aiuti la popolazione anziana ad avere un ruolo attivo nella società, che sostenga la famiglia e la procreazione e che non consideri l’immigrazione come un problema ma come una risorsa da valorizzare attraverso l’accoglienza e l’integrazione. (gdb)

[Giuseppe De Bartolo è professore di Demografia all’Università della Calabria]