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La Facitrice - Poesie di Ilda Tripodi

La facitrice. Poesie di Ilda Tripodi

di MARIO NANNI – Per entrare nel mondo della poetica di Ilda Tripodi, bisogna cominciare dal titolo del suo ultimo libro di poesie: ‘’La Facitrice’’ (Iride, 2021). Un titolo quasi ‘’vichiano’’ ( da Giambattista Vico), dove la poesia è un farsi, creazione di mondi, un divenire, un’accensione di verità. ‘Verum et factum convertuntur’, diceva il filosofo partenopeo cantore della verità che si converte e s’invera nel fatto, e del fatto che la verità disvela.

Poi entriamo per un’altra porta d’ingresso nel mondo poetico di Ilda Tripodi: sulla copertina del libro è riportata minutamente la spiegazione del termine poeta, che la nostra autrice preferisce declinare al femminile, e non per una convenzionale questione di linguaggio di genere, oggi tanto di moda. Poeta: colui che crea, che fa, che inventa, che compone; da poieo, che significa creo, produco, FACCIO ( il maiuscolo è mio, NdR).

Delineato questo orizzonte critico-estetico e anche filosofico, la domanda viene spontanea: qual è il mondo poetico di Ilda Tripodi, la sostanza della sua poesia? Anzitutto è una poesia nutrita di pensiero, una poesia che affonda le radici nella classicità, nella mitologia greca, nel mare di Ulisse, nell’anima mediterranea, come vedremo dalla citazione di alcuni passaggi. “I poeti – scrive Ilda Tripodi – accendono e spengono frammenti di senso. Sono domande insistenti a risposte incerte”. E ancora: “Sono una poeta, facitrice di parole”.

Ecco, le parole. Croce e delizia della poeta Tripodi. Delizia, perché la parola serve, per esprimersi, per comunicare. Croce, perché la parola è anche spreco, moneta che perde valore, si deforma, si usura, inganna e depista. Per questo la poeta sembra rifugiarsi a volte nell’altro capo del filo: il silenzio.

In un certo senso la poesia di “Facitrice” è anche una poesia del silenzio, del non detto, del non espresso; un grido taciuto, un grido sommesso. Una poetica che valorizza il ‘’negativo’’, cioè quello che NON viene detto.

Per interpretare ed esprimere meglio il mondo, la poeta a volte preferisce l’ombra più della luce, il silenzio più delle parole, l’assenza più della presenza. Naturalmente il polo “positivo” non è trascurato, ma è piuttosto valorizzato l’altro “polo”.

L’autrice spesso ci fa capire che si trova a suo agio a stare nella caverna di Platone, dove la realtà, i rumori del mondo, l’urto delle fatiche della vita, i venti della storia con la maiuscola e con la minuscola fanno giungere un’eco ovattata e sfumata, i contorni di un’ombra. Su tutto spesso paesaggio poetico vola spesso l’ala dell’ineffabile, come nella poesia Thalia: “Tu mi incalzi/ con una carezza/ e io dimentico/ la parola che volevo dire”.

Ci sono poi dei versi eloquenti a questo riguardo: “la parola ha sbandito i segni/ e il desiderio di interpretare il silenzio”. Come se ne esce? Ci pensa la poeta a rimediare, nella poesia Antigone, in cui peraltro c’è un riflesso di dolore cosmico e di colpa universale: ’’La notte ogni notte/ si trova addosso tutti i peccati/ anche quelli non commessi/ per i quali è lieve persino morire”. “E io chiamo Antigone l’attimo in cui alla notte/ viene in mente di diventare giorno”. Antigone dunque come inno alla vita, come spinta alla lotta, come ala verso l’amore. Per tornare a lottare, a vivere, a gridare “il diritto all’essere”, “a indebolire la forza ( il potere? NdR) con una manciata di polvere”.

Perché, alla fine “L’universo resta l’unico nostro avere per tutta la vita”.

In questo orizzonte di lotta e di difficoltà, la salvezza, la luce, da dove possono venire? “Occorrono cieli molto bui/ e mani incatenate/ per capire da dove giunge la luce”.

Colpisce nella fattura del verso che contraddistingue la “Facitrice”, la misura, la sobrietà, l’asciuttezza stilistica; una misura che ricorda certe strofe della poesia greca. Alcuni esempi: “un dolcissimo cipiglio d’autunno”; “il mio candore si fa spuma”; “parola mediterranea”; “la figura immensa della vita”.

E non manca qua e là in alcuni versi sentenziosi, di solito conclusivi del brano poetico, un vago tono oracolare. Colpiscono poi alcuni incipit brucianti: “Non sono prigioniero in quest’altrove”. “Qui il momento non penetra perché io sono il grembo del tempo”.

E poi in “Sei morto Nessuno?”, è evocata l’alternativa: Itaca o il mare? Che è la parabola dell’avventura umana di un Ulisse perenne. E a proposito del mare di Ulisse, leggete questo incantato incipit di un’altra poesia: “Com’è glauco ‘sto mare che gorgoglia/ dove Scilla riempie la sua brocca”.

Verso la metà del libro fa la parte del leone l’amore, che ha un arco ampio di sguardi. “Non chiediamo alla terra che grano/ ma l’amore cerca tutto e desidera lo sguardo di ciascuno”.

E a proposito di sguardi, da sottolineare lo spazio che la poeta dà agli occhi: “Ti amo con gli occhi”, “occhi colonizzano occhi’” Come in una delle più belle quartine del libro: “Ti amo con gli occhi/ perché è negli occhi/ che si contorce il tempo/ nella fetta di migrare”. O anche: “da quel giorno i miei occhi sono diventati due feritoie. /rimanendo al riparo/ ancora ti spio”. Ancora: questi occhi “che già fanno voglia alla luce”.

Sugli occhi si sono cimentati poeti come il Leopardi, degli “occhi ridenti e fuggitivi’’ di “A Silvia”; o scrittori come Tomasi di Lampedusa che cita “gli occhi alteri e sconfitti” di Concetta, trascurata e poi abbandonata da Tancredi per sposare Angelica ( “Il Gattopardo”).

Dell’amore fa parte la dialettica tra i sessi, come in questa trasfigurazione poetica ispirata al gioco della morra cinese fatto da bambini: “Gli uomini sono forbici / che cercano la carta/gli uomini sono forbici/ che trovano il sasso/ . Si spuntano/. La verità o non esiste/ o non si fa vedere”. Come nella tradizione migliore della lirica pura, nella poesia di Ilda Tripodi campeggiano i temi dell’amore, del senso della vita, e la natura, declinata nelle sue varie situazioni coloristiche e paesaggistiche delle stagioni che si avvicendano, e che sono spesso stagioni anche della vita umana.

Lirica pura, dicevamo, dove la vita esterna, quotidiana sembra non fare arrivare il suo rumore, la sua angoscia, il suo dramma. Ma è solo un’apparenza, perché la storia quotidiana della propria terra e del proprio tempo non è assente per nulla. Certo, è filtrata, sfumata, però la forma poetica non è meno eloquente di un proclama. Anzi! Come quando la poeta parla del Sud, con illuminazioni poetiche che spiegano più di un trattato sulla questione meridionale. Vedete come lo definisce, in numerose variazioni: “Il Sud non è/ una direzione/ ma un momento di Sole/ una bizzarria/ di mondo preso e non compreso/Un amante che per godere/ torna quando gli pare”. O anche: il Sud è “un trapianto di memoria, uno status quo”.

Sono parole poetiche che grondano dolore storico, come anche nel verso “delle campane che erano ventri pesanti/ su fianchi dolenti/ anche quando suonavano a festa”. O in questo verso di denuncia: “L’uomo che estingue l’uomo con la forza dell’uomo”.

Dall’altro capo del filo troviamo la poeta con questo verso- proclama: “L’eccedenza d’amore è la mia fede”. In filigrana si avverte un’eco amara, bilanciata dall’orgoglio laborioso della “Calabria della ginestra”. O una scossa che viene dalla poesia “Il treno ha fischiato”, che evoca il titolo di una novella di Pirandello, che è una riscoperta della vita, che si credeva di non vivere più. La poeta commenta: “Mi piacerebbe sentir dire/ che il treno fischiettato è arrivato a destinazione”.

Pur nella trasfigurazione poetica, si avverte il grido di protesta dell’autrice. Il giudizio sul proprio tempo è impietoso: “Questo tempo poco mi piace/ manca di tatto e di vaghezza”. “Ditemi dove posso incontrarvi/ se non esistono più luoghi/ se vi ritrovate in spazi/ che non esistono”.

Le illusioni? “Sono andate tutte perdute/ in quei sogni che ci invitavano/ a rimanere al Sud/ per un altro fico soltanto”. Questa terra dove “le strade entrano dentro le case/ e le femmine gravide/ sciamano senza pungere/ per poi perdere le ali”. Ecco, non so se sia del tutto appropriato definire il mondo poetico ideale di Ilda Tripodi come un mondo segnato dalla gentilezza. Ma nei suoi versi, spesso non facili e impegnativi, perché inducono a farne una lettura più in profondità per scoprire il senso che vi è racchiuso, c’è un universo di valori e di sentimenti.

C’è sicuramente il tatto e la vaghezza che lei vede mancare nel mondo reale. E c’è un senso della storia, la consapevolezza che “la verità è una fatica/ come quando sali scendi le scale’’; che il ‘’luogo della verità / è l’amore che non può essere violato”.

In “Facitrice” c’è l’animo profondo e forte di una poeta, che resta, nonostante le disillusioni del tempo storico, “gravida di cuore” , e che in almeno due poesie ci avverte che di ogni stato bisogna poi vedere anche “lo strato”, quello che c’è sotto. Dove forse si nasconde la verità.

In “Facitrice”, infine, c’è una donna che ci offre il suo sguardo fascinatore sul suo mondo , su un mondo “creato”, come solo la poesia sa fare. (mn)

LA FACITRICE
ILDA TRIPODI
Iride/Rubbettino Editore – ISBN 9788864920863