“Quando c’era la politica” di Filippo Veltri

di PINO NANO –

Appena fresco di stampa l’ultimo libro del giornalista Filippo Veltri, Quando c’era la politica (Ferrari Editore, 112 pagine), e in cui il vecchio Caporedattore dell’’Ansa in Calabria ripercorre le fasi più complesse ma anche quelle più esaltanti del percorso politico regionale, riflettendo sulle soluzioni che in Calabria sono ancora possibili alla politica, e su quelle invece rispetto alle quali la politica non è più adeguata ad arrivare fino in fondo. Una analisi impietosa e senza rete che apre un grande dibattito.

Lo stereotipo purtroppo non cambia mai. Calabria all’anno zero, Calabria regione di fallimenti e di sconfitte, Calabria terra di diritti negati, Calabria regno del disordine amministrativo e del caos istituzionale, Calabria terra di malaffare, e ultima regione d’Europa. Ma cosa c’è di vero in tutto questo, oggi alle soglie del 2023?

In parte molto, ma molte altre cose sono per fortuna – ammette Filippo Veltri – sono cambiate negli anni. Per il grande cronista calabrese non tutto in Calabria va oggi letto in chiave negativa: «Certo che ci sono politici e momenti della politica diversi, positivi, corretti, sani. Ma è il quadro d’assieme – scrive con grande efficacia Filippo Veltri nel suo nuovo libro- che deve essere visto, corretto, analizzato. Nel cielo ci sono la luna e le stelle».

Diretto, completo, immediato, analitico, ricco di dettagli, di riferimenti temporali, di nomi di sigle e di progetti che hanno profondamente segnato la storia calabrese, Filippo Veltri riscopre in questo saggio la sua vera anima di cronista politico navigato e soprattutto appassionato, cronista severo ma anche vecchio militante politico, intellettuale e poeta insieme, un mix di emozioni e di analisi che trasforma il suo saggio in un racconto coinvolgente sul regionalismo e sul futuro di questa regione del Sud così lontana ancora da tutto.

«Il mio ultimo libro, scritto nel 2021, insieme al mio amico Franco Ambrogio – premette Filippo Veltri –, è dedicato al fallimento del regionalismo dopo oltre cinquant’anni dall’istituzione delle Regioni in Italia. Dopo un arco di tempo così ampio si può infatti ben fare un bilancio sul regionalismo italiano. Poche luci e molte ombre, emerse con nettezza nella fase dell’emergenza Covid ma che erano già venute allo scoperto nel corso degli ultimi anni».

Da vecchio militante comunista, “puri e duri”, si diceva così un tempo, perché Filippo tale era, il libro di Veltri riflette, con un serrato confronto a più voci, quello che molta parte della sinistra italiana (e non solo, in verità) sta ora mettendo a fuoco: «Non si è raggiunto – riconosce – l’obiettivo di avvicinare l’Istituzione ai cittadini e le regioni si sono via via trasformate in macchine elefantiache che hanno moltiplicato i problemi anziché aiutare a risolverli».

Come dargli torto? Da qui di sviluppa poi il ragionamento tutto “veltriano” della politica calabrese: «Ecco – scrive il grande cronista – la nascita della regione in Calabria, segnata dalla rivolta di Reggio Calabria, è un momento della storia regionale che ha finito per segnare comportamenti e valutazioni, con la duplicazione delle sedi, la contrapposizione municipalistica tra città e il moltiplicarsi di una burocrazia molte volte inefficace e causa dei problemi. Forse, bisognerebbe tornare a riflettere sulla nostra storia più recente senza omissioni o municipalismi di ritorno, giustificazioni che hanno fatto il loro tempo dopo un cinquantennio e passa».

112 pagine da leggere in un fiato, una scrittura veloce, dal taglio moderno, utile soprattutto ai più giovani che non hanno neanche idea di cosa sia stato il passato dei loro padri in Calabria, ma che conoscono invece bene l’attualità del momento politico e che Filippo Veltri giudica da osservatore distaccato come dannoso al futuro del Paese: «Perché populismo e qualunquismo – scrive – nascono alla fine da questo, e serve a poco la lamentazione se non c’è vera ed effettiva partecipazione dal basso. Se la cittadinanza non diviene attiva. Parolina magica ma unica strada».

Rieccola la sua vera anima, il grande cronista torna per un momento alla sua vecchia mania e insana passione politica, per ricordare ai suoi lettori quale dovrebbe essere il ruolo della politica e semmai la riscoperta dei partiti politici: «I partiti stanno ovunque perdendo la funzione che Benedetto Croce indicava, cioè operare per mandare nei Parlamenti «un buon numero di persone intelligenti, capaci, di buona volontà». I partiti in Italia hanno già perso questa funzione di tramite indicata da Croce perché le loro basi si sono limitate sempre di più».

E qui ha perfettamente ragione l’autore del saggio: «La politica, come disse tanto tempo fa un mirabile (lui sì) politico della prima Repubblica, Rino Formica, è sangue, sudore e merda. Lo era ai tempi di Formica, il quale non faceva minimamente cenni di autocritica o di lagnosi mea culpa, o peggio ancora di cenere sui capi per lavacri quanto mai fuori posto, ma stava al gioco e cercava di cambiarlo per quanto poteva e sapeva. O nemmeno ci provava a cambiarlo e si limitava a fotografare l’esistente, confermando alla fine i tre sostantivi che aveva messo assieme».

In un gioco di parole, Veltri riscopre la malinconia del passato: «La verità – scrive – è che la politica e la lotta politica erano allora solamente intellegibili, almeno un poco di più rispetto ad oggi, perché c’erano le sedi dove tutto avveniva. C’erano i partiti, innanzitutto, le sezioni, i circoli, le assemblee. C’erano le parrocchie e i sindacati, che per la verità ci sono anche ora ma un po’ più sbiaditi, più tenui, più regolari».

C’erano, insomma, i luoghi dove un potere di parvenza decisionale poteva essere esercitato. Attenzione, avverte però lo scrittore: «parvenza ma l’apparire è stato solo il fulcro e il motore che ha mandato avanti intere generazioni a spendersi e che ora non c’è più. Né l’apparire né lo spendersi. Ma questo è un ragionare che è valido ovviamente per tutto il nostro Paese, per l’Italia intera, da sud a nord e viceversa». Come si fa a non sottoscrivere questo manifesto?

E qui si innesta mirabilmente bene la post-fazione di Vincenzo Falcone, che in Calabria è stato tutto e il contrario di tutto in politica. Prima Grand commis della politica militante, poi parte integrante della stessa, poi confessore e spin doctor di molti dei protagonisti del regionalismo calabrese, e poi ancora giudice severo e inquirente delle loro colpe e dei loro tradimenti. Da qui il suo monito feroce: «Chi è chiamato a governare la Calabria deve sapersi scrollare di dosso il pesante peso del millenario sistema feudale che ha inginocchiato e immobilizzato questa regione a tutti i livelli. Deve avere la piena consapevolezza che non serve un modello di sviluppo tradizionale per liberarla dall’immobilismo e dalla stagnazione, in quanto le cause della debolezza dell’intero sistema regionale sono da attribuire a un fattore prevalentemente culturale. Deve assumere il pensiero di lungo periodo quale pilastro portante dello sviluppo sostenibile e della crescita strutturale in quanto il veloce ritmo dei mutamenti del sistema globale impone la ricerca di immediate strategie di adattamento alle mutevoli regole del mercato mondiale”. Una lucidità fuori dal comune, che lo aveva portato a diventare nel tempo- mi piace ricordarlo- pur essendo lui un uomo di sinistra, il grande saggio a cui far riferimento per ritrovare la bussola della crisi. Personalmente lo ammiro molto».

Ma il saggio di Filippo Veltri ha anche il grande privilegio di avere una prefazione “eccellente” scritta da un genio della statistica, Domenico Talia, professore ordinario di sistemi di elaborazione delle informazioni presso l’Università della Calabria, e autore di diversi libri a carattere scientifico e divulgativo sul tema dei Big Data. Non uno storico, dunque, né tanto meno un politologo, ma un analista puro dei dati che la storia ci offre. Questo spinge lo “scienziato dei numeri” ad una analisi viscerale, fredda, incontestabile e perfettamente aderente alle cifre reali del nostro tempo: «La Calabria di oggi – commenta Domenico Talia –  mostra picchi positivi in diversi ambiti che spesso non trovano analisti attenti, seppure in una geografia fatta di alcune carenze e criticità estreme (la sanità tanto per citare l’esempio più drammatico). Gli statistici direbbero che esiste troppa varianza».

Ma questo non basta a capovolgere il bicchiere della crisi: «Purtroppo, tante punte positive non fanno un sistema». Il giudizio del professore Talia è tranchant «Manca un sistema Calabria all’altezza delle sfide attuali. Ci sono esempi da studiare che si ergono sul caos, casi che hanno saputo creare ordine dal disordine. Le università, ad esempio, in Calabria come in tutto il Sud, sono grandi laboratori che, insieme ad altri, dovrebbero avere un ruolo di progettazione del domani. Contesti dove elaborare e proporre azioni concrete per trasformare la nostra antica identità in un fattore di competitività empatica. Bisognerebbe usare ogni mezzo, dalle nuove tecnologie alla letteratura, dall’antropologia al giornalismo, per scovare quello che c’è di buono e che a prima vista non appare».

Ma allora come se ne esce? Il matematico ha una sua certezza:” Serve lavorare per sistematizzare il sistema, per condividerlo e valorizzarlo. È questo il compito che la classe politica calabrese dovrebbe assumersi e che oggi purtroppo non sa svolgere con efficacia”. Finalmente una boccata di ossigeno, perché chi crede nella democrazia e nella libertà non può non condividere questa analisi. (pn)

QUANDO C’ERA LA POLITICA
di FILIPPO VELTRI
FERRARI EDITORE 
ISBN 9791280242150 

Achille Maiorano, un saggio di Raffaele Iaria

di SERGIO DRAGONE – Leggere, scrivere e far di conto. Era la missione che si proponevano i leggendari maestri elementari a cavallo tra Ottocento e Novecento per contrastare l’analfabetismo che interessava la quasi totalità della popolazione italiana e meridionale in particolare. Eroi misconosciuti che esercitavano il loro ruolo con una passione straordinaria, spesso in condizioni di estrema difficoltà logistica e in realtà molto isolate geograficamente.

In questo contesto, si inserisce la figura di Achille Maiorano, il Maestro per antonomasia di Scala Coeli, un piccolo borgo adagiato su una rupe, non lontano dalle acque dello Jonio cosentino. Immaginate un giovane che a soli 17 anni (siamo nei primi anni del Novecento) trova la forza di diplomarsi alla Scuola Normale di Matera e che tre anni dopo, nel 1911, comincia la sua avventura-missione nelle scuole elementari del suo paese d’origine. Da cui non si muoverà per tutto il resto della sua vita, diventando il Maestro di intere generazioni, fino al 1956, anno del suo pensionamento.

L’esperienza leggendaria di Achille Maiorano, che è stato anche poeta, scrittore e giornalista, viene recuperata da Raffaele Iaria, portavoce della Fondazione Migrantes, anch’egli nativo di Scala Coeli, in un agile saggio pubblicato da Progetto 2000. Ma è soprattutto l’aspetto educativo ad attirare l’attenzione di Iaria che ricorda non solo la lunghissima missione di Maiorano nelle scuole elementari, ma anche il contributo che egli diede alla crescita professionale e alla formazione dei maestri italiani.

Maiorano fu infatti autore di vari testi scolastici, tra cui alcuni pubblicati nel 1934: “Nella scuola e per la scuola” e “Dalla scuola elementare alla scuola media. Corso completo di lezioni sulle varie materie d’esame per l’ammissione alla prima classe delle Scuole medie di primo grado: lingua italiana, aritmetica, disegno, cultura generale”. Un testo, quest’ultimo, che appartiene ai “libri scolastici scritti per un bisogno dell’anima, per vocazione di educatore che vuole giovare all’infanzia…”, come osserva nella prefazione Vittorio Gualtieri.

Raffaele Iaria, che oggi è considerato uno dei maggiori scrittori e giornalisti italiani in campo religioso, parla con orgoglio anche del Maiorano poeta, le cui liriche in vernacolo trasudano amore sconfinato per la propria terra e per le sue tradizioni. Ha scritto anche inni religiosi e perfino il testo di una canzone folk.

Un’intensa produzione letteraria che ha contribuito a fare conoscere il nome di Scala Coeli anche al di fuori dei confini regionali. E questo piccolo borgo della nostra Calabria ha voluto esprimere riconoscenza verso questo Apostolo dell’Educazione intitolandogli nel 1980 la scuola elementare.

Quella di Achille Maiorano è una storia minore, ma non per questo meno importante, del lungo cammino che la scuola calabrese ha compiuto nel difficile e drammatico periodo storico tra le due guerre.

Bene ha fatto Raffaele Iaria, autore di tanti libri di successo tradotti in molte lingue, a dedicare un po’ del suo prezioso tempo al recupero di questa bella figura di maestro e intellettuale, esempio di dedizione per la missione di educatore da indicare anche alle nuove generazioni di insegnanti che operano nella nostra Calabria.

RAFFAELE IARIA
ACHILLE MAIORANO
Editoriale Progetto 2000

di FRANCESCO KOSTNER – Con tutto il rispetto per l’ambizioso proposito di “Giuseppi” Conte, di diventare rappresentante e difensore degli italiani nelle istituzioni del Paese, il titolo e il contenuto del pamphlet Giacomo Mancini. Un avvocato del Sud, edito da Luigi Pellegrini Editore, omaggio di Paride Leporace all’ex leader socialista, in occasione del ventennale della morte (2002/2022), è un’altra Storia. Con la consonante maiuscola, non a caso. Anzi è la Storia, che il vice direttore de “il Quotidiano del Sud” riprende al momento giusto, puntuale all’appuntamento con un anniversario di rilievo nazionale. 

A differenza di Conte, però, il vissuto politico e amministrativo di Giacomo Mancini, in Italia, nel Mezzogiorno, in Calabria, e nella sua Cosenza, ha lasciato il segno. Al punto non solo di rappresentare ancora oggi un esempio di capacità, pragmatismo e efficienza da emulare, ma mettendo tutti d’accordo una volta tanto. Come è stato, a suo tempo, per i suoi avversari nelle elezioni amministrative del 1993 – ex dc, ex comunisti in modo precipuo – e del 1997 (nelle quali ottenne un consenso ancora più ampio), disorientati dall’efficienza, dal pragmatismo e dalla determinazione del vecchio Leone socialista. Caratteristiche e qualità nemmeno lontanamente scalfite anche dalla vicenda giudiziaria per concorso esterno in associazione mafiosa in cui Mancini rimase coinvolto nel 1994, accusa gravissima dalla quale venne completamente scagionato. 

Ebbene, il merito principale del pamphlet pubblicato da Leporace crediamo consista nella restituzione alla memoria collettiva, in particolare ai giovani, di alcune tappe fondamentali dell’azione politica e di governo di Giacomo Mancini, che oltre ad essere stato parlamentare ininterrottamente dal 1948 al 1992, fu anche ministro della Sanità, dei Lavori Pubblici e del Mezzogiorno. E se, per esempio, è cosa buona e giusta ricordare il suo impegno a favore dei disabili, e la sua azione finalizzata ad abbattere ogni barriera che ne impedisse l’accesso nei luoghi pubblici, anche alla luce delle vicende che hanno caratterizzato la pandemia nel nostro Paese, è inevitabile ricordare la determinata iniziativa del ministro della Sanità Mancini che decise, infischiandosene del parere contrario di molti funzionari e dirigenti, di rendere obbligatoria la somministrazione a milioni di bambini del vaccino contro la poliomelite sviluppato dal medico polacco naturalizzato americano Albert Bruce Sabin, evitando così la morte di chissà quanti piccoli italiani. Una vicenda che non si trova sui libri di storia usati nei licei e all’università, e che anche i grandi giornali continuano a ignorare, come è successo di recente sul Corriere della Sera, che in una pagina intitolata “La lezione dimenticata della polio” ha ritenuto ininfluente ricordare il principale protagonista di quel passaggio per molti aspetti nodale della storia Repubblicana, risoltosi come abbiamo detto. 

L’altra faccia del decisionismo manciniano è tutta di marca siciliana e risale all’estate del 1966, quando una gigantesca frana investì la città di Agrigento lasciando migliaia di famiglie senza casa. L’evento fu conseguenza delle dissennate politiche urbanistiche degli amministratori locali sulle quali il ministro Mancini decise di vederci chiaro. E quando la Commissione da lui insediata per accertare le cause di quanto accaduto mise nero su bianco l’assenza dell’interesse pubblico nell’azione comunale, “la quale appare dominata soltanto dalla preoccupazione di favorire – comunque ed a qualunque prezzo – le singole iniziative costruttive” e che “la gravità della situazione urbanistico-edilizia del paese ha trovato in Agrigento la sua espressione limite”, il ministro socialista decise immediatamente di agire. E a parte le iniziative giudiziarie che riguarderanno molti amministratori della città, Mancini riuscirà ad impedire ulteriori sfregi in quell’area, salvando la valle dei Templi dal rischio di inaccettabili speculazioni edilizie e ispirando l’approvazione della cosiddetta “legge ponte”. Un intervento provvidenziale definito dal giornalista Francesco Erbani “un baluardo del riformismo praticato dal centrosinistra di quegli anni, esemplare non solo nel campo dell’urbanistica, ma per altri settori della vita pubblica, in virtù dei molti elementi di programmazione e di pianificazione che intendeva introdurre nel sistema”. 

Non meno importante è la vicenda relativa alla costruzione dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria, che agganciò la nostra regione al resto del Paese e nella quale Mancini ebbe un ruolo fondamentale, sfoderando ancora una volta le sue qualità politiche e l’idiosincrasia per tutto ciò che rappresentasse un ostacolo o una limitazione alla sua azione al servizio del Paese. Direttori generali compresi, rimossi in un batter d’occhio per manifesto, intollerabile ostruzionismo, forse, chissà, in qualche modo ammantato anche di pensieri e pregiudizi antimeridionalisti.

Si potrebbe scrivere chissà quanto ancora di queste e altre vicende, ma crediamo sia giusto lasciare al lettore il gusto di scoprire direttamente il contenuto del pamphlet di Leporace, che traccia un quadro storico e biografico, snello e di agevole lettura, “del politico calabrese che meglio rappresentò le ragioni della sua terra in un’ottica meridionalista e di difesa della democrazia”. 

Un focus utilissimo, dunque, in vista di ulteriori approfondimenti, a partire da quello che il figlio dell’indimenticato leader socialista, Pietro, ha pubblicato nel 2016, sempre per i tipi di Luigi Pellegrini Editore, intitolato “…mi pare si chiamasse Mancini…”. Un riconoscimento all’importante genitore, alla centralità della politica e ai superiori interessi dei cittadini, di cui Mancini è stato lungamente interprete e sui quali oggi, in tempi di magra in questo fondamentale campo d’azione, è utile soffermarsi. Allontanando così il rischio, ahinoi molto concreto, che anche la Storia migliore, alla quale certamente Mancini ha offerto un contributo, possa essere in qualche modo trascurata se non finanche dimenticata.  (fk)

GIACOMO MANCINI, UN AVVOCATO DEL SUD
di Paride Leporace
Luigi Pellegrini Editore, ISBN 9791220500968

Terra Santissima, romanzo di Giusy Staropoli Calafati

di ENZO CICONTE – La Calabria, vista da fuori, ha l’immagine di una terra di mare. Tutto è mare, dall’azzurro al verde azzurro al cristallino, a quello dai mille colori che s’inseguono cavalcando piccole onde ed è trasparente al punto da far vedere il fondale da altezze elevate – chi non ricorda la terrazza sul mare di Tropea? – con albe dai raggi dorati sulla costa jonica e tramonti incantati, spettacolari sulla costa tirrenica. In ogni caso tutto mare.

E invece la Calabria è altro, molto altro. La Calabria la si comprende fino in fondo se si conoscono le sue montagne. Che sono tante: il Pollino, la Sila grande, la Sila piccola, il Reventino, le Serre vibonesi, l’Aspromonte che si protende nella punta più estrema dello stivale quasi a voler acciuffare la Sicilia, senza mai riuscirci, per fortuna! Ogni montagna con le sue caratteristiche, i suoi profumi e i colori, la lucentezza delle piante e degli alberi che hanno molte varietà, e gli animali che vivono all’aria aperta e che fanno parte del paesaggio in un’immensa distesa delle tante variazioni di verde; una più bella delle altre queste montagne. Quale sia la più bella nessun calabrese lo sa davvero, perché è legato alla montagna della sua infanzia; io amo le serre perché sin da piccolo i miei genitori mi portarono lì e ci ritorno ancora anno dopo anno. Arrivai per la prima volta a Serra San Bruno che avevo pochi mesi. Ci andai a “cambiamento d’aria” come si diceva una volta e come consigliò il medico di famiglia preoccupato per la gracilità del mio corpicino.

Tutte le montagne hanno le loro leggende, a cominciare da quelle dei famosi briganti, immortalati nella loro giovinezza, aitanti e belli, fascinosi e misteriosi che facevano innamorare tutte le donne, ma proprio tutte, dei tanti paesi; queste sognavano di essere rapite da uno di loro o, almeno, di incontrarlo una volta, anche solo una volta, tra i boschi al riparo da occhi indiscreti e pettegoli.

Di montagna hanno parlato in tanti, calabresi e non calabresi. Corrado Alvaro, che era di San Luca, ha parlato del suo Aspromonte. “Non è bella la vita dei pastori in Aspromonte d’inverno, quando i torbidi torrenti corrono al mare” scriveva nel suo famoso incipit in Gente in Aspromonte pubblicato da Le Monnier nel 1930. E di Aspromonte parlò Umberto Zanotti Bianco nel suo Tra la perduta gente pubblicato da Mondadori nel 1959. Ancora l’Aspromonte, anzi: Africo!, è il cuore di un libro famosissimo di Corrado Stajano il cui titolo era proprio Africo, pubblicato da Einaudi nel 1979.

Non solo quelli appena ricordati, ma tanti altri hanno scritto sull’Aspromonte (l’elenco sarebbe davvero lungo) e con una caratteristica inconfondibile: sono tutti uomini. Adesso, a parlarci di questa immensa, straordinaria, misteriosa, affascinante montagna c’è Giusy Staropoli Calafati con il suo romanzo Terra santissima, edito da Laruffa nel 2021.

È un libro complesso, a più strati, scritto bene, che si legge d’un fiato. È un libro d’amore. D’un amore speciale, particolare: che non è solo quello tra un uomo e una donna. C’è anche questo amore, naturalmente, che tiene incatenati i due cuori e quelli dei lettori tesi a seguire gli alti e i bassi di un rapporto che è complicato dal carattere dei due giovani, dalla loro storia che è diversa, lei una giornalista che arriva da Milano pur essendo calabrese e lui un figlio di quella montagna, dai diversi progetti di vita dei protagonisti, progetti che vanno in frantumi dopo una gravidanza complicata  che non si conclude con la felicità dei genitori, ma con un lutto devastante e un dolore immenso, inenarrabile, talmente potente da spezzare i cuori e le viscere dei due giovani amanti, da sconvolgere le menti e da condizionare il futuro di entrambi.

Sono pagine di straordinaria empatia ed emotività. E come si può descrivere un amore così intenso, a tratti delicato, se non immergendosi nella lettura delle pagine del libro? Se non seguendo passo dopo passo i sentimenti, gli incontri con le donne, gli uomini, i ragazzi, le emozioni, i sogni, i pensieri di lui e di lei, e i genitori di lei che giocano un ruolo importante?

Ma c’è un amore ancora più profondo ed intenso di quello tra lui e lei. È l’amore di Giusy Staropoli per la Calabria, per la sua terra, per questo Aspromonte che affascina e attrae nonostante la vita aspra, dura, difficile, complicata, a tratti insopportabile, piena di segreti, di misteri, di favole, una vita a tratti splendente a tratti tenebrosa, feroce e delicata, amara e dolce.

 Un amore forte, quello della protagonista del romanzo, assoluto, che non ammette tradimenti nonostante la presenza prima ovattata, in sottofondo, impalpabile, poi sempre più visibile e inquieta dei malandrini e delle loro regole barbare, antiche e moderne insieme, di una ‘ndrangheta di montagna che ha avuto la destrezza di adattarsi ai mutamenti e diventare sempre più forte e pericolosa al punto da commettere una strage a Duisburg nel cuore dell’Europa. E quel fatto di sangue ha un risvolto importante e imprevedibile in tutta la storia dei due protagonisti principali.

La giornalista Simona Gatto scopre la Santa, questa recente mutazione della ‘ndrangheta più misteriosa, pericolosa, oscura, accattivante ed avvolgente che mette paura e soggezione, che induce all’omertà ed è una forza potente perché si appoggia ed è appoggiata dai potenti, da poteri occulti intrecciati a logge massoniche deviate. E le parole contro la ‘ndrangheta sono inequivocabili, ed anche questo è un tratto positivo del libro.

E poi c’è il vero amore: San Luca, il santuario di Polsi avvolto nella leggenda e nel fascino della Madonna della montagna venerato da tempo immemorabile e richiamo irresistibile per tutti i fedeli della provincia di Reggio Calabria. E da questo comune incastonato nel cuore profondo dell’Aspromonte, lo scrigno dov’è nato Corrado Alvaro, arriva un faro di speranza. Una luce che illumina il percorso della giovane giornalista che arriva dalla lontana Milano per un’inchiesta e decide di rimanere per sempre su quella montagna. Una scelta controcorrente. (eci)

[Enzo Ciconte, storico, scrittore e docente universitario]

TERRA SANTISSIMA
di Giusy Staropoli Calafati
Laruffa Editore, ISBN 9788872219805

Visioni turistiche (nuova edizione) di Debora Calomino

“Viaggiare è come sognare” diceva Edgar Allan Poe, e in questo momento la voglia di esplorare nuove mete è più forte che mai. Quali saranno i trend del prossimo futuro? Dove andremo per rigenerarci dopo questo lungo inverno? Visioni Turistiche (Edizioni Contanima), sottotitolo Marketing, Cultura e Tendenze, nella sua nuova edizione con altro editore, dona la possibilità di approcciarsi al mondo del turismo, scoprendo nuove forme di viaggio e diversi modi di intendere le vacanze. Il saggio scritto dalla giornalista Debora Calomino racconta i viaggi nel tempo a bordo dei treni d’epoca che hanno contribuito a fare la storia dell’Italia del Novecento (come il Trenino della Sila del 1929 che permette di attraversare il cuore verde della Calabria) e il dark tourism alla scoperta di luoghi misteriosi per gli amanti del brivido (tra questi il Dracula Park in Romania dedicato al Conte Dracula).

Si sofferma sul cineturismo che si identifica con il desiderio degli spettatori di andare a visitare di persona i luoghi rappresentati dal cinema e della televisione, con esempi pratici di destinazioni divenute mete emozionali grazie a pellicole girate proprio sì, basti pensare alla Sicilia del Commissario Montalbano e ai borghi medievali come Gubbio e Spoleto nella fiction Don Matteo con Terence Hill. Nel saggio c’è spazio anche per i social, divenuti oggi compagni di viaggio irrinunciabili, infatti le immagini sono fonte di ispirazione e invogliano le persone a intraprendere viaggi e scoprire posti nuovi,  i blogger di viaggio piacciono e ispirano fiducia poiché raccontano in modo semplice le destinazioni, vanno alla ricerca di posti insoliti per farli conoscere ai loro followers. Un esempio è dato dal turismo floreale, sempre più in voga grazie ai social network. Tante curiosità per i viaggiatori, ma anche per gli operatori turistici, come ad esempio le dritte per accogliere turisti di fede musulmana (il cosiddetto turismo Halal). Inoltre si parla di De.Co. (le Denominazioni Comunali) considerate un importante strumento di marketing territoriale. Non mancano riflessioni sul ruolo della popolazione residente e del suo benessere, nella creazione di una destinazione turistica di successo, infatti per rendere un territorio bello e appetibile, la prima cosa da fare è migliorare la qualità della vita di chi lo vive. Tanti spunti per sognare e progettare le prossime vacanze, in un libro che con semplicità parla del turismo come fenomeno che fa parte della vita di ognuno di noi. La prefazione di Visioni Turistiche è stata curata da Sonia Ferrari, docente di marketing turistico e territoriale presso l’Università della Calabria, la post-fazione da Filippo Grasso docente di analisi di mercato presso l’Università degli Studi di Messina.

Visioni Turistiche – Marketing, cultura e tendenze
di Debora Calomino
Edizioni Contanima – ISBN 978-8868630225

di FILIPPO VELTRI – Sol chi non lascia eredità d’affetti poca gioia ha dell’urna (Ugo Foscolo).  Il racconto del passato è molto più interessante di quello sul futuro: più vivo e più pieno di storie (Georgi Gospodinov). Basterebbero solo queste due citazioni messe in testa al libro per dire tutto del meraviglioso viaggio che Francesco, detto Ciccio, Riccio ci regala con un libro che è in distribuzione in questi giorni, Lo rifarei- Vita di partito da Via Barberia a Botteghe Oscure (Edizioni Strisciarossa).

Un libro che parla dell’amore per la politica (con la p maiuscola ma anche minuscola, fate voi) che già aveva fatto innamorare tutti gli amici di Riccio su Facebook, in un lungo racconto di fatti emozioni sussulti narrazioni più o meno epiche su quello che è stato il Partito Comunista Italiano. Nato a Locri il 9 marzo 1949, Ciccio ha conseguito la maturità al Liceo classico della cittadina calabrese “Ivo Oliveti”. Laureato in Medicina e chirurgia all’Università di Bologna, ha svolto prevalentemente vita di partito, da militante, funzionario, dirigente del Pci. A Bologna all’inizio degli anni Settanta è stato prima responsabile scuola, per poi dirigere il settore stampa e propaganda e ricoprire il ruolo di Capo ufficio stampa come membro della segreteria di federazione. Nel 1987 si è trasferito a Roma, in Direzione come responsabile delle Feste nazionali de l’Unità, incarico ricoperto fino al 1994. Dal 1995 al ‘99 ha svolto le funzioni di Tesoriere nazionale eletto dal Congresso. Nel periodo 1999-2001 è stato Responsabile nazionale del Mezzogiorno. Ha fatto parte della Direzione e della Segreteria nazionale del Pds e Ds. Negli stessi anni è stato più volte nel Consiglio di Amministrazione di Arca, società editrice de l’Unità, e in seguito ne è diventato Presidente, gestendo l’ingresso di soci privati nel capitale sociale. Ha lasciato la politica nel 2001 lavorando in una società di pubbliche relazioni e comunicazione. Non ha aderito al Pd che comunque considera il partito di riferimento.

Ora arriva questa serie di racconti, un viaggio nella vita del Partito, del Pci, con il dichiarato intento di rendere omaggio alle donne ed agli uomini, alle compagne e ai compagni con i quali l’autore ha trascorso (da militante-funzionario-dirigente) un importante trentennio. Dalle Belle Speranze degli anni Settanta, ricchi di successi elettorali nel segno del Segretario più amato, Enrico Berlinguer, fino al lento e progressivo declino che inizia proprio dopo la sua dolorosa scomparsa. Un lungo tragitto narrato con passione ed ironia, seguendo il semplice filo della memoria. Un omaggio a quelle figure sconosciute al grande pubblico e spesso genericamente indicate come “apparato”, anche con un certo disprezzo. In realtà si trattava di una comunità che ha dedicato la propria vita agli ideali della solidarietà, della difesa dei più deboli, del progresso sociale. Donne e uomini che non avevano nulla di quel grigiore con il quale venivano descritti. Anzi, attraverso la caratterizzazione di ciascuno si disegna il quadro di un popolo che sapeva coniugare la massima serietà dell’impegno politico con lo spensierato divertimento. Certo, c’è nostalgia di quel tempo e di quel popolo. La storia ha assegnato a quella vicenda un esito ben noto. Ciò non può impedire che ciascuno di quelli che l’hanno vissuta avverta un sentimento di nostalgia e di rimpianto. Nella consapevolezza che i sentimenti possono sempre reinverarsi se non si nega il loro valore profondo. Gianni Cuperlo, che ha curato la prefazione, coglie brillantemente gli aspetti principali del racconto. Bruno Magno, storico grafico del Pci, li sintetizza con maestria nella copertina.

Ma chi è Ciccio Riccio da Locri (dove ora tra l’altro Ciccio è tornato e vive)? Lasciamo la parola al triestino Cuperlo. ‘’Di buona, quasi nobile stirpe, sceglie la via dell’emigrazione universitaria e decide per Bologna. Facoltà di Medicina. Non gli ho mai chiesto se l’indirizzo fosse legato all’intuizione sul destino di una sinistra da accomodare sul lettino e psicanalizzare, ma al tempo credo nessuno poteva ipotizzare simile sorte. Quindi da Locri il nostro sbarca in Emilia, nel cuore del comunismo padano, lì dove la “Ditta” (ma vaglielo a spiegare ai profani un concetto simile) non era la burocrazia di partito o, peggio, una cieca osservanza di regole e comportamenti. Con quella formula s’intendeva la funzione al contempo politica, istituzionale. Ciccio arriva sotto le due torri e scopre una città che sa accogliere in genere, se poi trasferisci sotto quei portici una passione politica maturata prima e altrove ti sa accogliere anche di più. L’approdo alla se-zio-ne di pertinenza è un gioco da ragazzi. Si ricompongono affinità da corregionali e il “Partito” in anni complicati, faticosi, di entusiasmo, diventa via via una famiglia allargata. La federazione stava ancora dove aveva da stare, in un palazzo meraviglioso in via Barberia e Ciccio ve lo descrive col puntiglio del geometra. Tutto quell’ambaradan che Ciccio vi descriverà (viaggi, notti, febbri di attesa per una percentuale al seggio, amicizie, conflitti, paure, sdegni, successi, gioie, abbandoni…) te lo ripagava la coscienza che a farlo erano persone come te che come te credevano avesse un senso farlo. E quel senso ti riempiva l’animo, mica è poco credetemi. E la seconda cosa? Ma la seconda cosa a modo suo dalla prima discendeva, dipendeva, in qualche misura la figliava, ed era la scoperta di una umanità che solamente in quel contenitore di passioni riversava la propria grandezza. I “comunisti”, i militanti comunisti, gli operai comunisti, le donne comuniste, i giovani che rinnovavano quel sentirsi parte di un mondo pieno di contraddizioni eppure incredibilmente vitale, tutto quello ti restituiva un valore e finiva col nobilitare anche i gesti più elementari, quotidiani’’.

Compaiono personaggi magnifici. ‘’Solo un popolo fatto così – scrive ancora Cuperlo – poteva contare su un uomo come Neri (Francesco). Chi era? Ma soprattutto che cosa era? Ciccio ve lo descriverà persino nella postura. Era un compagno, beh certo. Un emiliano, non ci piove. Un mostro a far di conto sugli incassi delle Feste de l’Unità, anche. tra le pagine, gli episodi, la cronaca, troverete tanti e tanti nomi, alcuni torneranno più volte, come logico e come giusto. Mi sento in dovere di una sola correzione nell’aneddotica di Ciccio, ma ci tengo, so io se ci tengo! Dunque, è vero che andarono un giorno a colazione in Piazza Campitelli (dietro Botteghe Oscure) il segretario D’Alema, e con lui Ettore Scola e Vittorio Gassman. Ciccio ricorda l’episodio, ma la battuta di Gassman fu diversa. Quando gli presentarono il Tesoriere che aveva in cura le nostre disgrazie finanziarie, quel gigante di spirito gli tese la mano dicendo quasi a scusarsi, “Io solo un risottino eh! Non ho preso neanche il secondo!”.

Quando il genio si affaccia sulla terra. Se avete amato quella storia, quel partito, quella gente, quella politica, la biografia di un vero, grande, funzionario del Partito Comunista Italiano non potrà che riempirvi il cuore come lo ha riempito a me. Come lo ha riempito a tanti. Fosse anche solamente questo, e solo questo non è, basterebbe a ringraziare l’amico, il compagno, l’uomo. La persona preziosa che qui dentro raccontando una lunga parabola collettiva, altro non ha fatto che dipingere uno splendido ritratto di sé. Parola di Gianni Cuperlo. E – se permettete – parola anche mia! Grazie Ciccio.

Lo rifarei- Vita di partito da Via Barberia a Botteghe Oscure
di Francesco Riccio
Edizioni Strisciarossa – ISBN 9791221002775

Il sangue della veggente di Lisa Bilotti

di FRANCO BARTUCCI – Il mondo evolve, le nuove tecnologie avanzano e, in questo contesto, la lettura appare sempre più come un passatempo antiquato e fuori moda. Le statistiche sono chiare: dati Istat aggiornati evidenziano che quello degli amanti dei libri è un trend in calo. Al Sud, poi, la quota di lettori scende addirittura al 27,9% .

In questo panorama tuttavia c’è ancora chi vuole scommettere sulla cultura e sui libri, nella convinzione che un buon libro abbia ancora molto da dare. Questa volta si tratta di un team tutto al femminile: l’editrice Emanuela A. Imineo, direttrice della Dark Abyss Edizioni, casa editrice piccola ma grintosa, e l’autrice, Lisa Bilotti, giovane scrittrice di Cosenza, mettono insieme le forze con l’obiettivo di far riscoprire il piacere della lettura.

La Bilotti è nata nel 1989 nella Città dei Bruzi. Laureata in Giurisprudenza all’Università della Calabria, oggi svolge la professione di avvocato, oltre che un’ attività di consulenza per una società di geomatica ed è socia di una start-up innovativa attiva nel settore della nutraceutica.

Il suo mondo però è molto più esteso di così: appassionata di libri fin da piccola, ha scoperto ben presto che basta armarsi di carta e penna per aprire nuove porte su universi non ancora svelati. Nel 2014 è iniziata la stesura del suo romanzo d’esordio che, tra alterne vicende, l’ha impegnata per qualche anno. Nel 2021 ha firmato un contratto con la Dark Abyss Edizioni, che ha portato all’uscita nel gennaio 2022 de”Il Sangue della Veggente”.

Lisa Bilotti travalica la Storia e dona la Preistoria, affascinante e misteriosa; crea un universo dove i suoi personaggi si distinguono e diventano protagonisti. “Il Sangue della Veggente” è un romanzo ad ambientazione preistorica, interpretata in chiave fantasy. Sullo sfondo di un inverno senza fine e di una natura crudele, i destini di uomini e Dei primordiali si intrecciano in modo indissolubile.

Il libro racconta le vicende del Popolo e della sua difficile vita tra scarse risorse, animali feroci e creature ancora più pericolose. Ma ci pensano gli Dei a guidarlo: i Rathi e i Nyasthi parlano attraverso una Veggente, tracciano i cammini degli uomini e scelgono un Re o una Regina per condurli. Mord, nato albino e in quanto tale “marchiato” dagli Dei, è destinato a diventare Guida del Popolo. Ma un segreto a lungo taciuto e una guerra alle porte cambiano il mondo che è abituato a conoscere.

L’autrice ci trasporta attraverso le ere nel momento in cui il sangue si mischia ai sogni, e il buio alla luce. Il Popolo, i Guerrieri, i Veggenti, le Guide camminano su una terra ostile, che va domata, compresa, una terra che nutre l’uomo e il Dio. E tutti sono sull’orlo dell’abisso, lottano per sopravvivere, affrontano il pericolo e l’ignoto.

Il libro di Lisa Bilotti si contraddistingue per la cura dei dettagli che l’autrice ha voluto imprimere approfondendo e studiando le popolazioni più antiche, agli albori della civiltà, da cui ha tratto ispirazione. Lo stile è elegante, cattura e imprigiona il lettore nell’inchiostro, costruendo un fantasy di guerra e sangue dove la presenza degli Dei si tocca con mano. Il libro però non si propone solo di intrattenere, ma anche di far riflettere. Lisa Bilotti prende le mosse dalla trama dei personaggi e dei loro Dei per trattare temi escono dalla preistoria, per appartenere a qualsiasi epoca.

L’autrice tocca i temi della ricerca di una propria identità in un mondo che è in costante evoluzione. I messaggi divini sono un’occasione per parlare di libertà e autodeterminazione. La guerra diventa la metafora di quella lotta creativa che porta l’uomo a rifuggire l’immobilismo della morte. Ed ecco che, alla fine, in mezzo alle creature fantastiche e agli dei primordiali, è proprio l’uomo a risaltare: imperfetto nei suoi limiti, eppure capace di grandi imprese.  (fb)              

IL SANGUE DELLA VEGGENTE
di LISA BILOTTI
Edizioni Dark Abyss ISBN 9791280782014

Come eravamo di Bruno Tucci

di PINO NANO – Bruno Tucci, chi non lo conosce? Classe 1935, nato in Calabria in un paesino della sibaritide che si chiama Amendolara, giornalista professionista dal 1959, laurea in giurisprudenza alla Sapienza di Roma, incomincia la sua carriera giornalistica assunto al Messaggero come praticante nel 1957. Poi dal 1978 finisce al Corriere della Sera, come inviato speciale in Italia e all’estero, e chiude come vicecaporedattore. Ma ha un record tutto suo legato ai suoi impegni istituzionali, tantissimi, al servizio della grande famiglia dei giornalisti romani.E’ stato infatti presidente dell’Ordine dei Giornalisti del Lazio per ben 18 anni consecutivi, ma è stato anche a lungo influente consigliere di amministrazione dell’Inpgi, l’Istituto di Previdenza dei Giornalisti Italiani. Vi chiederete, “Ma che fine ha fatto?”. Dire che è ancora oggi, alla sua età, quella grande miniera di informazioni, e soprattutto quella nave-scuola che ogni giornalista moderno e bravo dovrebbe conoscere, è dire davvero molto poco. Lucido, geniale, spavaldo, irriverente, a tratti anche arrogante e prepotente, padrone di sé sempre e comunque, intuitivo, soprattutto libero come un cavallo allo stato brado, e come tale ingestibile e incontrollabile, e questo da sempre, Bruno Tucci è ancora tutto questo ed altro ancora. “Inviato” sui campi più minati e insidiosi della storia della Repubblica, Bruno era un numero uno in senso assoluto. Ne fanno fede le sue cronache, i suoi reportage, le sue inchieste, sempre un passo davanti agli altri. Aveva una marcia in più degli altri, e questo faceva di lui un icona del giornalismo on the road.

«Quando qualcuno mi chiede: di dove sei, da dove vieni? rispondo con determinazione per evitare equivoci: sono calabrese con tutti i pregi e i difetti che ciascuno di noi ha. Certo, vivo a Roma da più di 80 anni e qui che ho fatto le scuole dalla prima elementare alla licenza liceale; e’ qui che mi sono laureato in giurisprudenza all’università La Sapienza, ma il mio cuore e’ sempre lì’, in quel paese dell’Alto Jonio dove trascorro puntualmente tutte le mie vacanze. Il mare è il più bello del mondo (per me), la gente e’ ospitale e gentile come tutte le nostre genti. Si chiama Amendolara ed è tra Sibari e Metaponto. Lo ripeto sempre ai miei amici. Quando lavorando al Corriere della Sera i miei colleghi mi chiamavano terrone, io gli rispondevo in tutta tranquillità: vedi, il mio paese e’ tra le più vecchie scuole del mondo. Da noi quando spacchiamo un albero viene fuori un cervello. Li zittivo e non sapevano più che dire. La Calabria è nel mio DNA, i miei genitori erano entrambi della provincia di Cosenza, mio papà del capoluogo, mia mamma di Rocca Imperiale. Ed allora, non sono prove scritte della mia calabresita’? Sono orgoglioso di esserlo e quando partivo per la nostra terra a fare un servizio per il mio giornale, mi sentivo rinascere e provavo quel senso di gratitudine difficile a spiegarsi».

Ricordo un dettaglio della mia vita personale legata a lui che forse lui avrà anche dimenticato: ma quando la sera del 23 novembre 1980 a Balvano crollò la volta della Chiesa di S. Maria Assunta dove morirono settantasette persone, di cui sessantacinque bambini, parliamo del terremoto in Irpinia, quella notte in una tenda della protezione civile trovai lui intento a scrivere il suo pezzo, e lo vidi piangere. Non avrei mai immaginato che il Bruno Tucci che leggevo da anni sulle pagine del Corriere della Sera con la grinta letteraria che solo lui sapeva usare avesse anche un’anima. Quella notte a Balvano capii che non bisogna mai giudicare gli uomini dalle apparenze.

Oggi Bruno torna il romanziere che è sempre stato, e ci regala una chicca straordinaria, che è il racconto appassionato della vita di un giornalista cresciuto tra la gente, vissuto per strada e soprattutto follemente innamorato del suo mestiere. Si intitola, appunto, Come Eravamo questo suo ultimo libro in cui lo storico inviato speciale del Corriere della Sera, a ottantasette compiuti, ha deciso di raccontarsi e di raccontare la trasformazione che il nostro mestiere ha avuto nel tempo.

Antesignano della pandemia da Covid 19, 50 anni fa Bruno viene mandato a Napoli per raccontare quella che sembrava essere l’epidemia del secolo.

Subito dopo l’omicidio di Milena Sutter, Napoli venne sconvolta dal colera. Era il 1973. Quando mi telefonò il capo redattore, ero in clinica a tener compagnia a mia mamma che aveva subito un intervento. Partii con una 24 ore e dentro il minimo indispensabile. Non era arrivato ancora nessun collega dal Nord o dal Sud. Come al solito presi una stanza al Vesuvio e andai a fare un giro per rendermi conto di quel che succedeva e cosi lo descrissi ai lettori de Il Messaggero: I morti sono sette, la paura aumenta. Napoli trema. Le autorità sanitarie soffiano sul fuoco dell’ottimismo. Dicono: la situazione è sotto controllo, bisogna non lasciarsi prendere dalla psicosi del colera. Ma il terrore di contagiarsi, di essere sopraffatti dal male c’è, è inutile nasconderlo. Napoli è sotto un incubo, sente la parola “colera”, ascolta gli appelli alla radio, alla televisione ed è percorsa da un fremito.

Cosa è rimasto dell’epopea dei grandi inviati speciali che una volta giravano il mondo senza cellulari e con un semplice taccuino per appunti? In che modo è cambiato il mondo della comunicazione dominata da internet? E soprattutto, chi c’èra nelle redazioni degli anni 70/80 e 90 dei grandi giornali italiani? Chi comandava? Chi guidava la macchina del giornale? Quanti amori e quanti odi profondi all’interno di ogni redazione giornalistica? Troverete tutto questo nel suo saggio, edito da Edizioni All Around, e fortemente voluto dalla Fondazione per il Giornalismo Paolo Murialdi. Un’intuizione davvero felice, che apre una finestra su tutto un mondo a molti ancora sconosciuto, e che porta la firma del segretario Generale della Fondazione Murialdi, storico del giornalismo italiano, Giancarlo Tartaglia, direttore della collana “Giornalisti nella storia”.

– Tucci for ever, dunque. Carlo Verdelli, attuale direttore di Oggi, che di questo saggio firma la prefazione e che a quanto pare lo conosce meglio di tutti noi, lo chiama molto confidenzialemente “Don Tucci”.

“Don Tucci”, il calabrese di Roma poi diventato monsignor Tucci e alla fine, dopo 65 anni di onoratissimo servizio, pure vescovo o cardinale, appartiene alla fortunata schiera di quelli che hanno potuto seguire la strada per la quale erano nati. E in questo suo amarcord, malinconico ma non troppo, riannoda i fili di una storia che ha un passato di poco remoto ma del tutto dimenticato, un presente tumultuoso e un futuro forse brillantissimo (speriamo!) ma con poca memoria. Seguendo il suo racconto, se ne recupererà un po’, che male non fa, anzi”.

– Ma il suo libro non è solo il racconto della sua vita personale. È anche uno spaccato antropologico e sociologico di quegli anni e di quel modo di fare informazione. Ricordate la Rivolta dei Boia chi molla a Reggio Calabria? Quando in piazza scese tutto il popolo reggino e diede vita ad una delle rivoluzioni sociali più preoccupanti della storia della Repubblica Italiana? Bene, fu proprio quella rivolta che cambiò la vita professionale di Bruno Tucci.

«La svolta della mia carriera avvenne durante l’estate del 1970 mentre stavo tranquillamente riposando al mare, in Calabria, la terra dei miei genitori. In un pomeriggio caldissimo suonò il telefono (i cellulari non esistevano) e dall’altro capo del filo il redattore capo – era allora Matteo De Monte – mi informò: “Guarda che a Reggio c’è una sommossa di gente che sbraita contro una decisione del governo. Tanto sei a un passo, vedi che cosa succede e poi torna tranquillamente al mare”».

Bruno corre a Reggio Calabria e si sistema insieme a tutti gli altri giornalisti che stavano intanto arrivando da Roma, all’Hotel Excelsior, dove per la prima volta si msiura con i giornalisti in quel momento più famosi e ammirati d’Italia.

«Il fatto è che l’hotel Excelsior dove abitavamo divenne una vera e propria redazione di un giornale. Grandi firme come Giampaolo Pansa, Alfonso Madeo, Marco Nozza, Francobaldo Chiocci, Egidio Sterpa, Luciano Lombardi, insomma l’élite del giornalismo italiano… Non furono giorni facili, la sommossa durò a lungo e qualche volta rischiammo pure di essere malmenati… Sembrava che non dovesse finire mai. Ancora a ottobre del ’72, sempre scrivendo da Reggio, fotografai in questi termini la situazione:Dopo venticinque mesi, la città della “lunga rivolta” sta di nuovo vivendo giorni di estrema tensione».

 Una volta chiusa la Rivolta di Reggio Bruno Tucci torna al giornale, e finisce in redazione a fare il cuciniere: Doveva di fatto organizzare la vita di una trentina di altri suoi colleghi alle prese con la cronaca locale, quella regionale e quella nazionale. Ma Reggio gli aveva instillato nella mente il sospetto concreto che a lui quel lavoro piacesse, ma non stando seduto ad una scrivania.

«Con Reggio Calabria avevo portato più volte la firma in prima pagina, non potevo fermarmi. Leggevo e rileggevo i reportage dei grandi inviati dell’epoca: Cavallari, Montanelli, la Fallaci, Corradi, Levi, Tito, maestri che non hanno avuto eredi. Insomma, giornalisti di quella fatta non ce ne sono più. Si è perso lo stampino».

Ma come si faceva una volta a diventare un inviato speciale di un grande giornale? Nessuno ci crederebbe ma Bruno Tucci racconta nel suo saggio un inedito su cui oggi varrebbe la pena di riflettere.

«Il traguardo non era facile anche e soprattutto perché come direttore generale era stato assunto al Messaggero un giovane rigidissimo che aveva un unico pensiero: mai deroghe o favoritismi. Luigi Guastamacchia – questo il suo nome – sosteneva che un redattore per diventare inviato doveva aver scritto nell’arco di un anno articoli pari alla metà più uno dei giorni che vanno dal 1 gennaio al 31 dicembre. Per essere più chiari 186 pezzi, un numero davvero incredibile. Non so da quale fonte avesse imparato tale regola perché nel nostro contratto di lavoro non c’era scritto nulla di tutto questo. Però, lui era il numero uno dell’amministrazione (se si esclude l’amministratore delegato Ferdinando Perrone) ed era colui che dettava legge».

Rieccolo il grande Tucci, che non conosce indugi e mediazioni quando c’è da formulare un giudizio professionale.

«La tecnologia ha polverizzato lo stile e il garbo di una volta. Vorrei citare un episodio di cui fui protagonista. Prima di essere assunto nel 1978 al Corriere avevo avuto un abboccamento con Piero Ottone, uno dei miti di quell’epoca. Mi rivolse poche parole. Volle sapere il curriculum,gli studi che avevo fatto, gli argomenti di cui mi ero occupato. Quattro minuti, non più. «Bene, disse, forse lei entrerà al Corriere come inviato, la gioielleria del nostro giornale. Nel qual caso, le raccomando principalmente la scrittura. Deve essere semplice, comprensiva, ma efficace. Soggetto, predicato e complemento. Se vorrà mettere un aggettivo la prego di telefonarmi».

Altri tempi, altro stile, altra classe, ma anche altri modi di intedere il mestiere e lo stesso rapporto interpersonale tra colleghi che facevano lo stesso lavorando alla fine sotto lo stesso tetto. E quando Bruno si convince che è il momento di un bilancio complessivo, anche qui non usa nessuna perifrasi di genere.

«Non è facile raccontare le esperienze e gli episodi accaduti in 65 anni e più di giornalismo trascorsi in due grandi testate: Il Messaggero e il Corriere della Sera. Emozioni, servizi sbagliati, qualche soddisfazione che potremmo definire successo strigliate dei direttori, bocciatura di un articolo sbagliato,la paura di mettersi alla macchina da scrivere e veder che il foglio infilato nella magica Olivetti 22 rimane bianco. È una vita bellissima quella che ho vissuto nonostante le vicissitudin e la stanchezza che, in alcuni momenti, diventa depressione. Il nostro è un lavoro che ti prende e ti coinvolge e non c’è ostacolo che ti possa impedire di andare avanti. O l’hai dentro questa fiamma oppure è meglio cambiare strada e prendere altre direzioni».

Ma cosa spinge un vecchio cronista del passato,famoso come lui, che le ha viste tutte e che in questo mestiere è stato protagonista assoluto di mille corse a ostacoli, a spogliarsi del suo tradizionale riserbo e atteggiamento sempre molto èlitario, a tratti anche borghese, qualche voltas insopportabile e irritante, per rimettersi in discussione e tentare un confronto impietoso e diretto con le nuove generazioni?

«Il mio proposito – spiega Bruno Tucci nel suo libro – è quello di dimostrare (spero) come, attraverso i fatti di una lunga carriera, sia cambiata la nostra professione. I cellulari, la tecnologia, internet: quindi la possibilità di informarsi nello spazio di pochi minuti. In meglio? In peggio? Non lo so. Ecco perché ritengo giusto che si faccia un paragone del “come eravamo e come siamo”».

Ma chi l’avrebbe mai immaginato che un giorno l’irreprensibile e superbo Bruno Tucci, re dei grandi inviati di tutta Italia, avrebbe confessato di essere riuscito ad entrare a Il Tempo di Renato Angiolillo grazie alla più classica delle  raccomandazioni politiche?

«Mi ero laureato da poco in giurisprudenza e volevo tentare di entrare in un giornale. Non era facile ma fui aiutato da un importante amico di mio padre (morto purtroppo qualche anno prima). Il benefattore si chiamava Giuseppe Bottai, sì proprio lui, l’ex ministro dell’Educazione nazionale durante il fascismo. Parlò e chiese al mitico Renato Angiolillo di far provare un giovane che aveva un forte desiderio di diventare giornalista. Allora, Il Tempo era un grande giornale della Capitale (lo è ancora adesso, sia pure se la difficoltà del momento non è favorevole alle testate di carta) con firme di primo piano. Ricordo Alberto Giovannini, Flora Antonioni, Alberto Consiglio, Ettore Della Giovanna e un capo redattore giovane, Egidio Sterpa, con cui divenni grande amico una trentina di anni dopo. La scuola per eccellenza è la cronaca e lì fui mandato a imparare. Colleghi bravissimi come Rinaldo Frignani, Bruno Zincone, Bruno Palma, Ezio Bartoloni che tentarono in tutti i modi di aiutarmi, ma non ebbi fortuna».

Deve averla amato molto Bruno Tucci la sua redazione di cronaca al Messaggero.

«Quella redazione rappresentava l’argenteria del giornale. Rammento alcuni nomi: Giancarlo Del Re (che continuò il faticoso lavoro di Ceroni con le “Avventure in città”); Ruggero Guarini che mostrava cultura ogni volta che dialogava con i colleghi; Giuseppe Columba, detto Nenè, dalla prosa semplice ma efficace; Andrea Barbato che non ho bisogno di dire chi fosse; Alberto Bevilacqua che Zappulli stimava moltissimo per la capacità di scrittura (un po’ meno per scovare notizie) Vittorio Roidi, divenuto poi presidente della Federazione della Stampa; Virgilio Crocco, il collega che aveva sposato la famosissima Mina dopo averla ascoltata in un concerto e averle mandato cinquanta rose; Nanda Calandri, l’unica esponente femminile del giornale circondata (in senso buono) da oltre centoventi redattori».

Ma ci sarebbe da scrivere molto altro ancora. Vi sonsiglio di leggerlo il suo libro, lo consiglio soprattutto ai giornalisti più giovani perché sono certo ne trarranno molto giovamento.

Dopo la Prefazione di Carlo Verdelli, i titoli in cui Bruno Tucci ha sintetizzato la sua meravigliosa avvenura professionale sono: Come eravamo, L’argenteria di un giornale, Nessun favoritismo e la svolta della mia carriera, “Malacugini”,Il “Cuciniere”, Un sogno: l’inviato e la fine degli inviati, I Piemontesi ,La solidarietà, La nube tossica di Seveso mi avvicina al Corriere, Di nuovo al confino, Il processo alla Br,I giorni del colera, Un difficile ritorno, La svolta, Un sogno: il Corriere,La P2, Gli inviati al terremoto, Un milione di copie, “Maradoneti”, I voti di Cavallari, Aria diversa con Stille, Ecco l’Ordine, Quale professione, Notizie e inganni, giacca e cravatta, La pubblicità e l’agonia del cartaceo, Ogni notizia ha il suo odoroe, Il cane da guardia, Un esame per tutti, Un aiuto ai giovani, Una generazione di maestri, Radio Radicale, I furbetti dell’editoria, I doppiogiochisti, La pandemia e l’informazione.

Infine, l’indice dei nomi che in un saggio di questo genere diventa fondamentale e grande corollario.Un libro che vale la pena di leggere. (pn)

COME ERAVAMO
di Bruno Tucci
All Around – ISBN 9791259990204

 

Quinta dimensione di Corrado Calabrò (Nuova edizione)

di GIUSY STAROPOLI CALAFATI – Di Corrado Calabrò lessi la prima volta “T’amo di due amori”. Un libro dalla copertina rossa come il sangue bollente quando s’ama, che consente a chi incontra la sua poesia, di innamorarsi dell’amore ripetutamente. Con coinvolgimento, desiderio e trepidazione. I versi contenuti in quelle pagine sono brividi che attraversavano la schiena, come accade a due che, al di là della luce del sole, sanno riconoscersi, o come succede in pieno giorno a chi si incontra dopo essersi amato di notte. Lo ascoltai di persona una sera a Tropea. Era d’estate, e nell’aria s’apriva ovunque il profumo del gelsomino, il fiore che posato tra i capelli delle donne calabresi, le trasforma ora in fate, ora in maghe d’amore. Corrado Calabrò non è il poeta dell’inchiostro di china sulla carta, ma l’artefice della poesia scritta col sangue sulla carne. Egli tatua memorie, emozioni, sentimenti vicendevoli e contrari. Si deposita sottocute la sua voce. Insistente, non lascia mai più il corpo e neppure lo spirito. Egli accompagna, con i versi, gli stessi uomini che i treni accompagnano nei viaggi. E chi si pone all’ascolto, partecipa alla sua ricerca, e placa i turbamenti del poeta stesso. È lui, Calabrò, il nuovo cantore della divin poesia. Il padre dei versi dell’amore, il testimone dell’amore in versi. Egli traduce, con parole sudate, le stagioni della vita. E la sua poesia diventa la versione perfetta  delle massime emozioni umane, dei versi delle lingue perse e anche di quelle incomprensibilmente esaurite.

Incontrare un poeta che riproduce la vita nelle sue più intime tenerezze, e insieme all’irascibilità che provoca il dolore, non è facile che accada. Anzi, è forse impensabile che succeda. È un viaggio mai scontato, di mete infinite, lontane, spesso irraggiungibili, o anche impossibili da tracciare. La dimensione di Calabrò, invece, è diversa. Non è prima e neanche seconda. Né terza e neppure quarta. È quinta. Quinta dimensione, quella in cui gravitano i versi integrali di una poesia estrema e matura. Quella scritta da Corrado Calabrò.

Quinta dimensione, è un tempo lunghissimo. Un arco temporale preciso. Dal 1958 al 2018. Una vita, un’immensità di corsi e ricorsi, titoli e versi, luci ed ombre, cieli e mari, vita e morte. Un approfondimento delle tappe della vita del poeta e dei viaggi dell’uomo che lo accompagna.

Un tracciato di ciò che siamo e non siamo, un viaggio che tanto lascia alle spalle e tanto ancora ha davanti a sé. Durante l’alba di notte o il giorno che sbianca.

Un volo che stanca le ali e il sorriso di un gatto. Il sorriso e l’estuario. Il sasso sul cuscino e l’insulto.

Corrado Calabrò sperimenta spazi vuoti riempiendoli di versi. Costruendo in essi, certezze e approdi.

La sua poesia nasce laddove nasce la sua vita. E comincia a muoversi intorno al mondo partendo dalla riva del mare. Lo stesso posto da dove parte il poeta. Il punto preciso da dove comincia la sua predicazione

Reggio Calabria e Roma, il mondo tutto, sono l’input di una narrazione sconfinata nei versi, nei quali Calabrò soffre, si sacrifica, non dorme e scrive per giorni, senza sosta. Per dovere e per necessità. Con il suo stesso sangue in una dimensione quinta che in molti non riescono a percepire, in tanti non sanno come raggiungere, ma tutti possono provare.

Quinta dimensione, edito da Mondadori, è un trattato di vita. Che non si prefigge un solo obiettivo, ma ne raggruppa un’immensità. Tanti quante le stelle presenti nel cielo della dimensione cantata.

Corrado Calabrò nasce a Reggio Calabria. “Prima Attesa” è il suo primo volume di poesie, scritto tra i diciotto e i vent’anni. A seguire molte altre raccolte, fino a Quinta Dimensione, Oscar Mondadori 2018, che è la sua più completa opera poetica. Tra i più grandi poeti della letteratura contemporanea, Calabrò offre con i suoi versi non un’altra visione della vita, ma una posizione diversa da cui osservarla innamorandosene. Intellettuale di valore, uomo di spicco e poeta delle profondità del cuore, “ha cantato non il suo mare, ma piuttosto l’idea di un mare eterno e insondabile”. Così Carlo Bo scrive di lui nel 1992. E a noi oggi non resta che confermare tutto. (gsc)

QUINTA DIMENSIONE
di Corrado Calabrò
Mondadori – ISBN 9788827218099

Nosside 2021 a cura di Pasquale Amato e Mariela Johnson Salfrán

Puntuale, dopo la premiazione, arriva l’Antologia 2021 del Premio Nosside, giunto alla sua XXXVI edizione. Il libro raccoglie la lirica del vincitore assoluto e quelle menzionate dalla Giuria internazionale (oltre 50) selezionate tra le svariate centinaia inviate al concorso.

Il Nosside è ormai diventato un’istituzione culturale tra le più prestigiose non solo della Calabria, ma dell’intero Mediterraneo e il suo orizzonte infinito, aperto a tutte le lingue del mondo (e soprattutto agli idiomi a rischio di estinzione) registra un meritato consenso a livello internazionale.Il Premio, ideato nel 1983 dal prof. Pasquale Amato, docente universitario e apprezzato storico reggino, era nato con l’obiettivo (raggiunto) di aprire alla poesia di tutto il mondo per abbattere barriere culturali e avvicinare i popoli. La formula è apprezzata in ogni parte del pianeta: si tratta di un messaggio lanciato dallo Stretto omerico di Scilla e Cariddi che attraverso il Mediterraneo ha coinvolto più di 100 Paesi e raccolto liriche in ben 140 lingue e idiomi della Terra.

NOSSIDE 2021
a cura di P. Amato e M. Johnson Salfrán
Edizioni Media&Books
ISBN 9788889991800