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A sud del Sud

A sud del Sud di Giuseppe Smorto

C’è una Calabria sconosciuta ai più, perfino ai calabresi. Una Calabria che reagisce, che opera, si muove, lascia il segno, sfidando burocrazia e malaffare, indifferenza e richieste di “pizzo”. Una Calabria che, disperatamente, è a sud del Sud – dice Giuseppe Smorto – ma non è disperata, né tantomeno rassegnata. È un libro questo dell’ex vicedirettore di Repubblica, reggino doc e orgoglioso delle proprie radici, che non è rivolto ai calabresi, ovvero anche a loro, ma sfida il pregiudizio – persistente – di un Mezzogiorno indolente e poco propenso alla fatica: è il lavoro che non c’è il vero dramma, non ci sono lavoratori fannulloni, ci sono mancati lavoratori. È questa l’orribile verità che ricade come vergogna dei governanti passati presenti (e speriamo non futuri) la mancanza di una visione strategica che permetta di coniugare e pianificare formazione e lavoro, opportunità e ricchezza di inventiva, idee e occasioni per metterle in pratica.

Le storie «sottovoce – come le definisce l’autore – crescono fra le macerie, nel silenzio dell’entroterra senza servizi, nelle aree malcollegate, nelle Università». È un racconto avvincente e, per molti versi, straordinario di una regione che non ti aspetti di trovare, la narrazione di tante realtà che capovolgono certi assurti privi di qualsiasi fondamento e lasciano immaginare una condivisibile (e ottimistica) idea di futuro. Smorto, da “vecchio” giornalista, ha girato in lungo e in largo per una Calabria che, pur conoscendola, ha finito per scoprire sotto altri occhi: nel rigetto della rassegnazione – che non è un sentimento dei calabresi – e nell’anelito di un soffio di ottimismo. In una terra dove il pessimismo è di casa, ma non muore mai la speranza, l’idea del cambiamento possibile, la convinzione che i tempi sono quasi sempre “maturi” ma insieme “non ancora”: una sorta di ossimoro che spiega perché il futuro rubato ai giovani non è svanito, ma solo rimandato.

Smorto tradisce il suo essere calabrese, ma fa prevalere il distacco dovuto dell’osservatore che deve riferire e raccontare con terzietà e onestà intellettuale, Così i suoi viaggi in questa Calabria dove si confondono «angoli struggenti e pattumiere dei rifiuti tossici italiani» l’autore accompagna a un’esplorazione che rivela la Calabria quale potrebbe (e vorrebbe) essere. Tra le eccellenze di tre atenei che sfornano capacità e competenze che altri – astutamente saranno pronti a utilizzare – e la ricchezza di un paesaggio unico. Tra l’arcobaleno di gusti e sapori e una tavolozza di colori unica e irripetibile e lo straordinario patrimonio di una terra ancora tutta da scoprire.

Quale Calabria esce da queste pagine? Una Calabria ben diversa da quella cui hanno abituato giornali, tv, media che gli riconoscono (riconoscevano?) solo primati da cronaca nera. La reputazione di una regione va costruita anche attraverso i racconti come quello che fa Smorto: l’operosità, l’ingegno, le contraddizioni, l’accoglienza e l’emigrazione. Temi che coraggiosi giornalisti mediano con gli aspetti più controversi (e odiosi) di una terra “violentata” (parole di don Italo Calabrò) e attraversata dal malaffare e dalla ‘ndrina e ai quali, l’autore, riconosce l’essere da sempre in prima linea per contribuire al cambiamento. Serve dare la vera immagine di una terra dimenticata ma non desolata, serve richiamare (con le giuste) opportunità i giovani andati via (spesso con la morte nel cuore) e che vorrebbero vivere nella terra dei padri, dove c’è sicuramente una diversa qualità della vita, aria pulita, e una socialità che le grandi città ormai fanno solo sognare.
Sia chiaro, questo non è non è un libro “turistico” né il solito trattato sociologico sul Sud lagnoso e abbandonato, al contrario è una bella testimonianza di realtà quotidiana: il lettore rischia (fortunatamente) di sentirsi talmente coinvolto nelle venti + una storie di Smorto che sentirà l’irrefrenabile voglia di scoprire questa terra, la sua gente, il suo passato, il suo futuro. È il regalo più bello che un devoto figlio poteva fare alla terra che gli ha dato i natali , terra che dà in dote a tutti i calabresi «la nostalgia e il sospiro del ritorno». Ovvero quella inimitabile “calabresità” che finiscono tutti per individiarci. (s)

A SUD DEL SUD
di Giuseppe Smorto
Edizioni Zolfo, ISBN 9788832206340

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Per gentile concessione dell’editore Zolfo, proponiamo il capitolo XX del libro  A sud del Sud di Giuseppe Smorto

Non solo ‘nduja, scoprite lo zafferano dei giusti

La chef stellata Caterina Ceraudo, nel segno della sostenibilità. Lo chef resistente Filippo Cogliandro, nel segno della legalità. E un ristorante Museo in un paese che vuole vivere

Triste come un vegano a un matrimonio calabrese, dice la battuta. Ma la Calabria offre anche una dieta 100% veg, naturalmente mediterranea. Forse non tutti sanno che il fisiologo Ancel Keys condusse per dodici anni uno studio sulle abitudini alimentari di Nicotera, per arrivare a una conclusione: è questa la patria della dieta più sana. Un primato che la cittadina del vibonese contende a Pollica, dove Keys visse. Ma cerchiamo di non litigare, e parliamo di agricoltura sostenibile, cibo, vino e sapori.

Si parte da Strongoli, nel crotonese. Un posto del futuro, con le Tesla agganciate alle colonnine, i pannelli fotovoltaici costati 250.000 euro. Dietro questa scelta c’è la storia di Roberto Ceraudo: un giorno viene investito da una spruzzata di pesticida, mentre sta cercando di riparare un nebulizzatore. Finisce in rianimazione, si salva e decide che non ne farà più uso. Un’illuminazione. Quindi il bio all’azienda “Dattilo” arriva prima delle mode e degli incentivi.

In molti al paese lo chiamano “pazzo”, un esempio da non seguire. Invece la sua scelta col tempo si rivela vincente. Nasce una terra viva, vino, olio, anche un ristorante ora stellato grazie agli studi e alla sapienza della figlia Caterina, laureata in viticoltura ed enologia all’Università di Pisa. Un orto a chilometri zero, la fortuna di avere tempo, visto che il locale resta aperto sette/otto mesi l’anno, mentre l’azienda agricola non si ferma mai. “Quando siamo chiusi – dice Caterina Ceraudo – sviluppiamo altri progetti. Vogliamo scrivere una storia nuova in una regione maltrattata dai suoi stessi abitanti. Fare emergere il bello e il buono dei produttori, dei coltivatori, ritrovare la fierezza del nostro territorio”. 

Ceraudo è una ambasciatrice del buono di sicuro, ha anche preso la “Stella Verde” Michelin per i ristoranti sostenibili. Si sente calabrese in Italia e italiana all’estero: “Ogni tanto bisogna far capire da dove veniamo, del resto è facile, basta indicare la punta dello Stivale. Restiamo lontani dai grandi flussi, venire da noi significa avere una forte motivazione. Il pubblico ha bisogno di conoscere posti veri, non blasonati. Dall’aeroporto di Lamezia a qui ci sono cento e più minuti di infiniti paesaggi”. E torna il concetto del tempo, la bellezza del vivere lento, una teoria interessante sull’ora giusta per raccogliere gli ortaggi. L’importanza di non sprecare: sul sito di Repubblica c’è una sua ricetta con brodo di buccia di patata. La “Dattilo” progetta anche un impianto per la lavorazione degli scarti in cucina e raccolto, per produrre biogas. Ceraudo è molto attenta al concetto di spreco e dice che la spesa giusta si fa una volta al giorno, senza riempire il frigo di prodotti a rischio muffa.

Ma è tempo di abbattere gli schematismi anche in cucina. E’ uno stereotipo anche la ‘nduja, prodotto certamente identitario, un tempo caratteristico di Spilinga, del Monte Poro, un po’ come il lardo che era targato Colonnata. La ‘nduja – forse da andouille il salame di trippa francese – è un impasto di quattro quinti di carne (scarti, ma anche parti nobili) e uno di peperoncino (spesso dolce + piccante). Si spalma sul pane, si usa per il ragù, è raccontato come un prodotto che dà i superpoteri. Non richiede uso di conservanti.

Caterina Ceraudo dice che la Calabria offre molto di più. La sardella, una specie di caviale dei poveri, i fichi, la liquirizia. “Ma se devo scegliere un prodotto sottovalutato, la risposta è: lo zafferano. Che è molto faticoso da coltivare, ci vuole una raccolta certosina fatta da mani sapienti. Ce n’è una grande varietà in Calabria, ad altitudini differenti. E nei boschi del Pollino si trova un tartufo bianco e nero che potrebbe fare ombra a quello di Alba”.

La Calabria ha una brutta fama al Nord? “Per fortuna incontro solo persone intelligenti”. Difficile fare impresa qui? “Faticoso, non impossibile”.

Deve essere stato faticoso anche per Antonella Lombardo, che ha lasciato la professione di avvocato per il vino, ed ha vinto il premio del Gambero Rosso come viticoltrice dell’anno, con le sue etichette Charà e PiGreco. Una passione presa dal nonno, un racconto fatto di muri a secco e palmenti, e un rimpianto per le tante terre incolte. Da Bianco, terra di un vitigno pregiato come il Greco, arriva così un’altra storia simbolo. La Calabria dei vini va ormai oltre la zona del Cirò. Dalle parti di Rossano, si sviluppa una esperienza che attira l’attenzione del Quirinale. A 28 anni, Enrico Parisi viene nominato Cavaliere. Bocconiano, con una esperienza di studio a Rio de Janeiro, sceglie di tornare nell’azienda di famiglia che produce olio e vino. Crea la sezione “+ che olio coltiviamo cultura”, inaugura un orto sociale in collaborazione con la cooperativa “I figli della Luna”, con lo slogan “Crescere insieme per crescere meglio”.

A questo punto si torna dalle parti dei Bronzi, a un centinaio di metri dal Museo di Reggio Calabria. Qui lavora Filippo Cogliandro, che preferisce alla carica di ambasciatore antiracket quella di ambasciatore di colori e sapori. “In Calabria sto benissimo, è una terra straordinaria. Ma non ci vivrei bene se non avessi denunciato”. Cogliandro riceve la prima richiesta di estorsione il giorno dell’inaugurazione del suo ristorante, a Lazzaro. Parla con i fratelli e decide: “Io non sto zitto, domani vado al commissariato”. La famiglia lo appoggia. “Mio padre aveva già vissuto questa esperienza, io non volevo ripeterla”. Grazie a Cogliandro nasce un gruppo di sostegno, le iniziative anti-pizzo. Grazie a lui, Reggio non può far finta di non vedere.

“Io sono un animale sociale, vivo per stare con la gente”.

Cogliandro apre l’Accademia. Ha due figli, chiede in affidamento due ragazzi del Gambia arrivati chissà come, poi li avvia al lavoro. Si chiamano Abdou Dibbasey e Salihu Barrow, oggi sono assunti e stanno in prima linea in cucina. Un giorno gli chiedono: vogliamo ridare a te quello che hai fatto per noi. E si inventano una iniziativa mensile per i poveri della città, nel più bello dei luoghi, il Salone dei lampadari. 

“Le prime tre volte arrivano timidi, vengono con abiti dimessi, con la tuta. Poi col tempo, i primi tocchi di rossetto, la giacca, quasi il vestito della festa”. La Croce Rossa ne approfitta per fare a tutti i partecipanti lo screening sul diabete, Chef Cogliandro è contento di aprire il ristorante ai bisogni della città.

Lui ora teme che questo suo impegno sociale in prima persona oscuri il lavoro che fa in cucina. L’Accademia sta sulle Guide, è fra i migliori ristoranti della regione. Dopo un inizio quasi per caso, dopo l’addio al seminario “perché non avevo ricevuto la chiamata”. La scintilla è la caduta del Muro di Berlino: per festeggiare, un gruppo di amici prova ad aprire un ristorante dove prima c’era l’Accademia di pittura di un artista fiammingo, Jim Jansen. Poi le minacce, l’impegno con Reggio Libera Reggio, e la nuova location, fra il Corso e il mare. Cogliandro viaggia, cucina per l’Onu in Messico, per il consiglio dei ministri in trasferta a Reggio, organizza le cene della legalità a Berlino, ricrea i piatti di Salvador Dalì a Firenze e Milano

Vuole sfatare l’immagine della cucina calabrese carica e grassa. “Uso gli stessi prodotti, ma lavorati in un altro modo. La mia cucina deve essere anche il trionfo degli occhi, un taglio netto con quella di una volta”. E mostra in video la Capasanta con pesto di basilico e vellutata di Pomodorino, quindi tricolore. Ricorda il caciocavallo di Ciminà, presidio Slow Food. Raccolti di valore come l’arancio tardivo di Villa S.Giuseppe, lo zafferano, la patata bellina di Sant’Eufemia. “Non c’è solo quella silana. Con tutti questi prodotti, con una sana economia circolare, la Calabria potrebbe campare di rendita. Vorrei far conoscere la prugna di Terranova Sappio Minulio”. E poi racconta il suo nuovo progetto.

“Un campo di patate viola, le sto facendo crescere a Cardeto. Ma stanno venendo grosse come quelle normali!”.

Cardeto è l’inizio della montagna reggina, quaranta minuti per fare venti chilometri (in estate), la fortuna di avere due pianori con castagneti a filiera, grano, fagioli. Qui riceve, coltiva e suona Marcello Manti, insieme alla moglie Giovanna patron del “Tipico Calabrese”, piccolo e premiato ristorante-Museo della Civiltà contadina. Ha preso la Chiocciola di Slow Food per il suo pecorino, resiste all’isolamento e al paese che si spopola, dimezzato in vent’anni. Manti vive controcorrente: graphic designer in una grande azienda marchigiana, sceglie di tornare, inizialmente per lanciare l’e-commerce dei prodotti della tradizione che va a cercare in giro: i sottoli, i tessuti, il legno intagliato, le ceramiche. Ricorda il giorno della presentazione dei documenti in Comune.

“Vorrei aprire una attività via internet”.

“Quindi è una televendita?”

“No, è una cosa nuova, telematica”.

“Allora è con la televisione, riempia questo modulo”.

Manti è una memoria di erbe, qualità sconosciute di pere, di mele come la “melappe” che veniva messa nella stanza degli sposi la prima notte di nozze, per i suoi profumi. Quasi gli si rompe la voce ricordando i carraffuni, ciliegie a forma di cuore, durissime e introvabili. Fa collezione di strumenti, ospita gruppi che suonano la lira calabrese, la zampogna surdulina, il cordofono, giunti nella notte dei tempi con gli albanesi, con i greci, i bizantini. “L’ultimo pazzo sono io, i giovani se ne vanno, preferiscono un posto di assistente scolastico in un angolo qualunque del Nord”. 

Dice che il ristorante è arrivato dopo, perché i clienti chiedevano di mangiare oltre che comprare. Un menu stagionale, tutti prodotti a chilometri zero meno la inevitabile ‘nduja, che arriva da Spilinga. Uova, erbe, pere, mele, ortaggi, segale, patate, carne di maiale, vino forte. Un sistema trasparente con i contadini della zona, Manti paga i fagioli prima che siano piantati, crede in un consorzio di produttori. “Anche se magari si discute sul pepe negli insaccati”.

In sottofondo, la colonna sonora con i canti delle contadine che lui raccoglie. Nel ’54 arriva in paese il leggendario antropologo statunitense Alan Lomax, che aveva sentito parlare dei ballerini di Cardeto, citati anche da Alvaro. Registra le tarantelle, le ninne nanne. I più vecchi ricordano ancora u’ mericanu che dava i soldi per cantare. Il viaggio di Lomax diventa poi un film e un libro: “L’anno più felice della mia vita”.

Nel 2020 la figlia Anna, anche lei antropologa, torna a Cardeto, porta e riascolta i racconti e i canti, mangia e beve con Marcello e Giovanna, ride e piange. “Ora capisco perché papà tornava sempre senza soldi dall’Italia”. 

Ma la memoria vale di più, suona bene per il futuro.

[Courtesy Edizioni Zolfo]